41 bis, quella circolare ha solo uniformato il carcere duro di Maria Brucale* Il Dubbio, 1 novembre 2017 L’obiettivo raggiunto è stato quello di creare una parità di trattamento negli istituti di pena. il provvedimento non contiene alcuna apertura verso i diritti e le garanzie dei reclusi in 41 bis. non dischiude spiragli, non fa concessioni. Il regime del 41 bis, nato come emergenziale in esito alle note stragi del 1992 per impedire ai boss di veicolare ai sodali in libertà i loro impulsi criminali, dopo 27 anni dall’emergenza ha visto mutata e mortificata la sua originaria essenza giustificatrice. A seguito di due riforme normative e di numerosi rimbrotti da parte della Corte Europea - che ricorda all’Italia il carattere emergenziale della misura afflittiva e la necessità che la stessa non si protragga a carico di un soggetto per tempi illimitati in assenza di specifiche, motivate, ed attuali situazioni di pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblici - nonché delle inascoltate raccomandazioni del Cpt europeo, il 41 bis è entrato in modo permanente nell’ordinamento penitenziario e, diversamente dalla sua iniziale ispirazione ideativa, è esteso a ben più ampie categorie di detenuti. Basta la mera partecipazione a un sodalizio, contestata con un’ordinanza di custodia cautelare, perché un soggetto, ancora solo indagato, venga colpito dalla speciale misura. Le restrizioni, le preclusioni del regime, appaiono spesso del tutto sconnesse da effettive esigenze di sicurezza e palesano una logica di mera afflizione, espressione plastica di una ragion di Stato pallido simulacro dello Stato di Diritto. Nel gennaio 2017, nella relazione sull’amministrazione della giustizia dell’anno 2016, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si soffermava proprio, se pur molto brevemente, sul 41 bis e dava notizia di una apposita circolare, già elaborata e trasmessa al Capo di gabinetto per la condivisione, che “si prefigge di raggiungere una piena funzionalità del regime nel corretto bilanciamento degli interessi connessi alla sicurezza penitenziaria ed alla dignità del detenuto, titolare di diritti soggettivi che non devono venire meno per effetto della sottoposizione al regime speciale, con l’esclusione di ogni disposizione che possa essere interpretata come inutilmente afflittiva”. Nella relazione del ministro Orlando si legge, dunque, a chiare lettere che adesso non è così, cioè in questo momento la norma dell’ordinamento penitenziario, l’art. 41bis, è interpretata e applicata ponendo ai detenuti in tale regime limitazioni meramente afflittive. Che si tratti di uno strumento con caratteristiche di investigazione e di tensione all’ottenimento della collaborazione con la giustizia da parte del detenuto, all’accusa o all’autoaccusa, si trova scritto tra le righe della medesima relazione che offre numeri e dati significanti: nel corso delle impugnazioni rivolte al Tribunale di Sorveglianza di Roma (nel 2009 è stato istituito un tribunale speciale unico, quello di Roma, che si occupa dei decreti ministeriali), i decreti annullati sono stati sei, mentre quelli revocati a seguito di intrapresa attività di collaborazione con la giustizia sono stati undici. Il dato è assai rilevante perché rappresenta nella pratica come il 41 bis con le vessazioni che lo caratterizzano, la compressione dei diritti soggettivi, la sostanziale eliminazione di quella soglia di individualità che è vita, che è attività, che è reattività, è servito a portare queste persone ad una collaborazione con la giustizia, una collaborazione che è, dunque, estorta e molto spesso non è affatto un segnale di ravvedimento. La circolare sul regime di cui all’art. 41 bis O. P. è stata, infine, pubblicata soltanto il 2 ottobre. E, tuttavia, non sembra affatto quella di cui aveva parlato il Ministro Orlando. Il documento di 52 pagine, infatti, descrive ed enuclea capillarmente le regole della speciale carcerazione attraverso una specificazione meticolosa di ciò che è consentito e di ciò che non lo è. L’obiettivo raggiunto è quello di creare una uniformità di trattamento tra tutti gli istituti di pena ed escludere che le singole amministrazioni possano operare discrezionalmente su ciò che va concesso o negato. Le prescrizioni di legge, infatti, tese in astratto ad impedire il collegamento dei sodali con l’esterno devono, poi, essere riempite da modalità applicative che possono risultare non uniformi. Nessuna riforma della materia, dunque. E, del resto, nessun potere di modifica normativa appartiene a uno strumento di rango subordinato quale la circolare, espressione del potere della P. A. e destinato a disciplinare aspetti regolamentari interni. Il provvedimento ministeriale non contiene alcuna apertura verso i diritti e le garanzie dei reclusi in 41 bis. Non dischiude spiragli, non fa concessioni. Reitera con un linguaggio brutale, stigma di isolamento e di repressione, uniformandole, le note prescrizioni e vessazioni che fanno della persona detenuta nel regime derogatorio un sepolto vivo. Purtroppo a parlare della circolare troviamo spesso chi non ha mai saputo come funzionassero le cose ed è pronto a gridare allo scandalo perché questi ristretti particolarmente pericolosi possono anche guardare la tv, perché non sono stati fucilati e perché c’è perfino chi li vorrebbe ancora uomini. Nessuna riflessione è espressione lucida di un’analisi che muove dalla conoscenza del preesistente e, dunque, capace di valutare un eventuale cambiamento. Così si accendono i riflettori della paura sulla estensione a tutte le sezioni di 41 bis della possibilità di consentire ai detenuti genitori di minori di dodici anni di trascorrere con loro, oltre la barriera di vetro che separa il ristretto dai suoi familiari, non più solo 10 minuti dell’ora al mese di colloquio consentita, ma l’ora intera. Una concessione, questa, già operante in diversi istituti in virtù di decisioni della magistratura di sorveglianza che aveva ravvisato la assurda illogicità del comprimere in dieci minuti il tempo da concedere allo scambio fisico di effusioni tra il detenuto e il figlio minore. Ma logica e regime derogatorio non vanno di pari passo. La circolare rappresenta in modo plastico l’essenza di un impeto di punizione ed annichilimento che in nessuna misura guarda a criteri di attenzione alla sicurezza. Così è scritto che il detenuto potrà essere autorizzato a tenere in cella matite colorate; che potrà portare negli spazi di socialità un pacchetto di fazzoletti, una penna, una matita, un foglio, una bottiglietta d’acqua; che non potrà acquistare libri, giornali, riviste se non per il tramite dell’amministrazione penitenziaria; che non potrà cucinare e potrà acquistare cibo al sopravvitto corrispondente al “fabbisogno personale”; che potrà appendere al muro della cella soltanto una foto di un familiare, delle dimensioni consentite; che il minore verrà “posizionato” per il colloquio nello spazio del detenuto/internato e poi “riconsegnato” sotto stretto controllo da parte della polizia penitenziaria; che per chiedere la copia della propria cartella clinica, il detenuto dovrà attendere permessi e autorizzazioni, così per ottenere la visita di un medico di fiducia; che quando isolato godrà della socialità “da solo” e se appare ragionevole che abbia perso la testa per la prolungata esclusione, al punto da far temere per la sicurezza propria o del personale penitenziario, potrà essergli tolta parte del mobilio dalla cella; che verrà “movimentato” per accedere all’aria e alla socialità e nel corso di tale “movimentazione”, il blindo delle altre celle resterà chiuso e ancora tutta una serie di minute, puntualissime prescrizioni su ogni aspetto del non vivere di persone che hanno solo due ore al giorno per attività diverse dalla cella da spendere in spazi angusti e spogli, mai davvero all’aperto, senza visione di prospettiva, senza cielo. *Componente della Commissione di riforma dell’ordinamento penitenziario e del direttivo di Nessuno Tocchi Caino Sovraffollamento sempre più grave, urgente la riforma dell’ordinamento penitenziario di Stefano Anastasìa* Ristretti Orizzonti, 1 novembre 2017 Urge come il pane la riforma dell’ordinamento penitenziario che ieri il Ministro Orlando ha mandato per il parere al Garante nazionale delle persone provare della libertà. A livello nazionale, siamo ormai a 58.000 detenuti, 80.00 in più della capienza regolamentare, con un tasso di sovraffollamento del 115%. Il Lazio è ormai oltre il 120% e in alcuni istituti (Regina Coeli, Cassino e Latina) è stato superato anche il livello di guardia fissato dall’Amministrazione penitenziaria nella capienza cosiddetta “tollerabile”. Servono scelte coraggiose e urgenti di decarcerizzazione e a sostegno di misure penali esterne. *Garante dei detenuti del Lazio Giustizia lenta? Una lettera senza risposta di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 1 novembre 2017 Tanti si chiedono, come hanno fatto Pietro e Andrea Ichino, perché il dicastero di via Arenula la tiri in lungo da due anni senza decidere se accettare o meno il regalo di un’agenda digitale messa a punto da una équipe di studiosi “capace di aiutare i magistrati nella programmazione del lavoro”. “Già da tempo ho inviato alla tua Carità una lunga lettera in risposta a quella che tu mi ricordi di avermi fatto recapitare… Non so se tale lettera abbia avuto ancora la sorte di arrivare nelle tue mani…” Ogni volta che Agostino scriveva a Girolamo restava in ansia per mesi, stagioni, anni… Qui no. La lettera aperta di Pietro e Andrea Ichino al ministro della Giustizia Andrea Orlando, pubblicata sul Corriere due settimane fa, è arrivata sicuramente a destinazione. Eppure, risposte zero. Non ha avuto un minuto il ministro, non uno i tre sottosegretari né il capo di gabinetto, il direttore generale… zero. Per carità, come dice il proverbio, domandare è lecito, rispondere è cortesia. È da immaginare, però, che non solo il senatore e giurista e il fratello economista siano interessati alla risposta ma anche tanti italiani che, davanti ai tempi biblici della giustizia civile si fanno la stessa domanda: perché il dicastero di via Arenula la tira in lungo da due anni senza decidere se accettare o meno (e in questo caso, ovvio, dovrebbe spiegare perché no) il regalo di un’agenda digitale messa a punto da una équipe di studiosi “capace di aiutare i magistrati nella programmazione del lavoro” e quindi in grado di dare una svolta alle nostre elefantiache procedure con un guadagno per l’intera società? Come spiegava la lettera, “pochi sanno che all’inizio di ogni giudizio civile la legge obbligherebbe il giudice a fissare e comunicare alle parti l’intero Calendario del processo, con data e durata di ciascuna udienza, fino alla discussione finale”. Un miraggio. Tanto più che i magistrati usano ancora, in larga parte, le agende di carta. Sulle quali annotano via via il programma, forse, con penna e calamaio. Perché dunque non usare la “A-Lex”, l’agenda elettronica “intelligente e personalizzabile”, già pronta e pagata grazie alla Fondazione Giuseppe Pera e altri sponsor, “che consente al giudice di fissare l’intero calendario di ciascun processo fin dall’inizio”. Unica condizione per il dono: che sia messa a disposizione dei magistrati interessati. Oggi una decina su 9000. Pochissimi. Uno di loro, Maurizio Paganelli, entusiasta, ha detto al Carlino: “Non costa nulla, accorcia i tempi, soddisfa utenti e avvocati…”. Era stracolmo di arretrati: li ha dimezzati. E allora? Se il ministero ha delle ragioni, per rifiutare il dono, perché non dirle? Certi silenzi, si sa, alimentano cattivi pensieri. La proposta del Csm: “Una legge per togliere i figli ai clan” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 1 novembre 2017 L’appello del Consiglio Superiore della Magistratura a Parlamento e Guardasigilli: via la patria potestà ai mafiosi se li educano al crimine. “Riprendiamoci i nostri ragazzi”. Il plenum del Consiglio superiore della magistratura ha approvato all’unanimità, con il “sì convinto” del vicepresidente Giovanni Legnini, la risoluzione che chiede al Parlamento e al ministero della Giustizia di sostenere ciò che giudici minorili coraggiosi, in zone degradate del Mezzogiorno, hanno già iniziato a fare. Ovvero togliere la potestà genitoriale ai mafiosi che coinvolgono i figli nelle loro attività criminali. Tanti i “bambini” che, come ha fatto notare il consigliere togato, Antonello Ardituro, “vengono utilizzati nelle piazze dello spaccio o nelle cosiddette “case dei Puffi” a Scampia”. Troppi i minori educati ai crimini e a volte addirittura all’omicidio. Un fenomeno difficile da contrastare perché soprattutto culturale e sociale. Che dovrebbe essere affrontato in sinergia da istituzioni ed enti locali con politiche e investimenti, che non ci sono. Ma che non può essere, per questo, scaricato sui magistrati di frontiera. Lo ha sottolineato ieri il vicepresidente Legnini, plaudendo alla risoluzione della VI commissione: “Il Csm - ha fatto notare il vicepresidente - si mostra capace di intervenire su temi sensibili e sottoporre al legislatore interrogativi e proposte in modo che non siano fatti pesare solo sulle spalle dei giudici questi temi complessi”. “La scelta che si fa - rimarca Legnini - è netta: la tutela dell’interesse del minore. E, come in altri casi, si parte dall’esperienza difficile e sofferta di alcuni uffici giudiziari valorosi”. “Un lavoro svolto in silenzio e mettendo a rischio la propria incolumità”, evidenzia il presidente della VI Ercole Aprile. Nella risoluzione il Csm invita a considerare “famiglia maltrattante”, psicologicamente, quella che spinge i bambini fuori della prospettiva di valori positivi in cui il minore ha il diritto di crescere. Da lì il sostegno a possibili provvedimenti di decadenza della potestà genitoriale, fino alla dichiarazione di adottabilità dei figli dei boss, che “pur costituendo l’extrema ratio”, possono divenire “indispensabili per salvaguardare il superiore interesse del minore a uno sviluppo psico-fisico rispettoso dei valori della convivenza civile”. Soddisfatto Ernesto Carbone (Pd) che dal 2013 ha proposto alla Camera un ddl che va in questa direzione. D’accordo il capo della Dna, Franco Roberti. E il primo presidente della Cassazione, Giovanni Canzio ammette: “È un problema difficile. Dobbiamo tentarle tutte”. Come tutelare i figli dei mafiosi: ci deve pensare il Csm? di Valter Vecellio L’Opinione, 1 novembre 2017 Sicuramente i consiglieri Ercole Aprile e Antonello Ardituro sono animati dalle migliori intenzioni e non ci si vuole gingillare più di tanto con l’aforisma una volta attribuito a Carlo Marx, un’altra a Max Stirner (per non dire di Ovidio e Dante) e cioè che le strade infernali sono, appunto, lastricate da buoni propositi. È però buona regola innanzitutto osservarle, le regole. Il Csm, di cui certamente con merito fanno parte Aprile e Ardituro, ha dei compiti fissati dall’articolo 105 della Costituzione: “Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”. Ce n’è quanto basta, e infatti si ha ragione di ritenere che i componenti del Csm abbiano un’agenda fitta di impegni e lavoro. Tra questi impegni rientra anche “la tutela dei minori nell’ambito del contrasto alla criminalità organizzata”? Chissà. Ci può anche stare, alla fine, se raccomandano, come riassume “Il Dubbio”, di potenziare “gli strumenti a disposizione dei giudici minorili, con una azione sinergica da parte dei servizi minorili dei servizi sociali e una collaborazione, quando necessario, con gli uffici giudiziari ordinari”. Più prosaicamente, da profani, e senza fare ricorso a linguaggi tecnici da “sacerdoti”, si vorrebbe suggerire al ministro dell’Interno una più fattiva collaborazione con quello dell’Istruzione; e nel senso che se ne ricava da attenta lettura di uno dei più famosi racconti di Leonardo Sciascia, “Il giorno della civetta”. Merita particolare attenzione una riflessione la pagina dove si descrive il duello verbale tra il capitano Bellodi e il capo-mafia don Mariano Arena. Divagano sul genere umano, il presente e il futuro, la chiesa cattolica, il potere e, prima di arrivare alla famosa e suggestiva elencazione dei generi dell’umanità, si ragiona sulle ingenti somme di denaro, depositate in tre diverse banche, che sono nella disponibilità del mafioso: e il suo non far nulla, in apparenza; la denuncia dei redditi ridicola; il reale reddito, elevato: al punto che la figlia studia e vive in un costoso collegio svizzero; e a suo nome risultano cospicui versamenti in denaro. “Lasci stare mia figlia”, ruggisce Arena, e in un sussulto di difesa e auto-conservazione dice: “Mia figlia è come me”. Non è dato sapere come sia la figlia di Arena nel racconto, ma nel concreto sì; molte figlie e figli di mafiosi sono come i loro padri e le loro “famiglie”, ma per fortuna molti altri no. Come dice Bellodi ci sono spiragli che autorizzano cauto ottimismo, che vale la pena di allargare: “Immagino lei se la ritroverà davanti molto cambiata: ingentilita, pietosa verso tutto ciò che lei disprezza, rispettosa verso tutto ciò che lei non rispetta”. La cultura, insomma, come autentica arma di riscatto; il “sapere”, il diritto a conoscere. In fondo tutti i totalitarismi, di tutte le epoche, hanno sempre avuto in sospetto - fondato sospetto - tutti coloro che sanno, conoscono. E per tornare alla mafia, al crimine organizzato: “Un corteo di meno, la lettura in più di un libro”, consigliava Leonardo Sciascia; affiancato da Gesualdo Bufalino: “Contro la mafia? Molti più maestri e scuole di quante ce ne siano”. Affermazioni recepite, nella passata legislatura, dai deputati del Partito Radicale sotto forma di iniziative parlamentari. Lasciate miseramente cadere. Una finale annotazione, amarissima: che delitto, che scempio, apprendere che giorni fa, migliaia di libri dell’editore napoletano Tullio Pironti, per responsabilità dell’amministrazione comunale di Napoli, li si è lasciati marcire in un deposito e poi mandati al macero. Consenziente l’editore, potevano essere utilmente distribuiti nelle scuole, nelle carceri, per strada perfino. Invece no. Un patrimonio di cultura distrutto. E dire che il sindaco Luigi De Magistris è stato un magistrato: e avrebbe dovuto mostrare una sensibilità che a quanto pare non ha avuto. E qui viene in mente il dialogo tra il vecchio professore e un suo vecchio alunno diventato magistrato, in una magistrale pagina, sempre di Sciascia, di “Una storia semplice”. Dialogo sull’italiano, il ragionare, la carriera, la giustizia: radicale e implacabilmente beffarda. Ma a questo punto conviene fermarsi. Il lettore faccia da sé, e da sé ne sprema il giusto succo. Intercettazioni senza la carta. Trascrizione solo per parti rilevanti, da citare con sunti di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 1 novembre 2017 Pronto per il Consiglio dei ministri il decreto che attua la legge delega 103/2017. Intercettazioni con poche o senza trascrizioni. Solo quelle rilevanti, da citare solo con riassunti. Sono gli stratagemmi per cercare di bilanciare privacy e indagini penali. A idearli è lo schema del decreto legislativo, intitolato al ministro della giustizia Andrea Orlando, esaminato ieri al preconsiglio dei ministri e in settimana sul tavolo dell’esecutivo. Il provvedimento attua le legge delega 103/2017, che ha incaricato il governo di mettere mani alla tanto discussa materia delle intercettazioni, contemporaneamente strumento penetrante di indagine, ma anche possibile veicolo di notizie sul conto delle persone e, quindi, causa di violazione della privacy. Senza dimenticare che, per converso, la tutela della privacy rischia di essere strumentalizzata per impedire che vengano scoperte malefatte. Ma vediamo come il testo finora noto dello schema di decreto legislativo soppesa i vari interessi. Le norme fanno appello al concetto di irrilevanza. Ciò che è irrilevante non merita di essere conservato in un documento e questo perché il documento può passare di mano in mano e il contenuto può essere diffuso senza ragioni connesse al processo e senza ragione, cioè del tutto indebitamente rispetto al prevalente interesse individuale alla riservatezza. Le norme cercano di dare qualche coordinata per scoprire ciò che è irrilevante: bisogna guardare oggetto e soggetti coinvolti (ad esempio persone diverse dagli indagati); bisogna anche guardare la natura delle informazioni di cui di parla e cioè se si tratta di dati sensibili. L’altro pezzo della disciplina è rappresentato dalla sintesi. Anche ciò che rileva deve essere sintetizzato e non si deve riportare una scena integrale, ma solo la sua sintesi. Il pm, solo se necessario, scrive nelle sue richieste di misure cautelari (ad esempio la custodia in carcere) solo brani essenziali e lo steso fa il giudice per motivare i sui provvedimenti. L’obiettivo è restringere la conoscibilità delle conversazioni intercettate, chiudendole sottochiave, limitando la possibilità di estrarre copia dei verbali, limitando la possibilità di riproduzione in ulteriori altri atti. Il decreto legislativo istituisce una procedura per decidere quali intercettazioni possano entrare nel fascicolo delle indagini, previa discussione con gli avvocati. Il giudice dirà quali sono le intercettazioni rilevanti e quelle, invece, da stralciare e da inserire in un fascicolo riservato del pm. Delle registrazioni non acquisite possono andare incontro anche ad un’altra sorte: la distruzione su richiesta degli interessati. Lo schema di decreto legislativo contiene, poi, due altre pezzi importanti. Il primo è la disciplina espressa delle intercettazioni con captatore informativo su un dispositivo elettronico portatile, sottoposto al vaglio preventivo del giudice, che deve spiegare perché è proprio necessario. L’ultimo istituto che va citato è quello che riguarda la punizione di chi diffonde riprese e registrazioni compiute all’insaputa della persona ripresa o registrata. Attenzione, dunque, a postare un video su un profilo social. Il futuro nuovo articolo 617-septies sanziona, con la reclusione fi no a quattro anni, chiunque, al fi ne di recare danno all’altrui reputazione o immagine, diffonde con qualsiasi mezzo riprese audio o video, compiute fraudolentemente, di incontri privati o registrazioni, pur esse fraudolente, di conversazioni, anche telefoniche o telematiche, svolte in sua presenza o con la sua partecipazione. Non c’è punizione, però, se la diffusione delle riprese o delle registrazioni deriva in via diretta e immediata dalla loro utilizzazione in un procedimento amministrativo o giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca. Per la punibilità ci vuole comunque la querela della persona offesa. Da notare che la diffusione è punita solo se l’autore del fatto vuole fare un danno all’immagine e alla reputazione. Un’altra finalità esclude il reato. Quindi se diffondo il video, ma per migliorare l’immagine altrui, non c’è sanzione penale. Si consideri che, però, uno potrebbe non avere piacere a che escano video o registrazioni, neanche elogiativi. In questo caso rimangono solo tutele civilistiche. Sulla caccia a Igor il russo, polizia contro carabinieri: “non ci dicevano niente” di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 1 novembre 2017 La questura di Ferrara punta l’indice sullo scarso coordinamento tra le forze dell’ordine: “Apprendevamo le notizie dai giornali”. Nei giorni immediatamente successivi all’omicidio del barista di Budrio, Davide Fabbri, non ci fu comunicazione tra i carabinieri e la polizia. I militari del comando provinciale di Ferrara durante le riunioni del Comitato per l’ordine e la sicurezza non condivisero le informazioni con le altre forze dell’ordine. Il caso affiora da un atto depositato al gip di Ferrara contro l’archiviazione dell’esposto dei figli Di Valerio Verri (la seconda vittima del killer di Budrio), secondo i quali loro padre non doveva essere mandato allo sbaraglio nelle valli dove si nascondeva l’assassino. Un’opposizione che porta la firma dell’avvocato Fabio Anselmo e che, sette mesi dopo i fatti, spiegherebbe come più di una cosa non funzionò nei giorni immediatamente successivi alla rapina finita con l’omicidio del barista. Tra i due delitti vi fu scarsa comunicazione tra le forze di polizia. Al punto che la stessa Questura, persino in una comunicazione dell’8 giugno (due mesi dopo i fatti) afferma di aver appreso le notizie del tempo dalla stampa e non dagli organi preposti, ossia durante le riunioni di comitato tecnico. Nell’opposizione all’archiviazione dei figli di Verri si dice che “I carabinieri di Ferrara non potevano non sapere che Norbert Feher, alias Igor Vaclavic, fosse indiziato pesantemente dell’omicidio di Davide Fabbri. E sapevano fin da subito che si nascondeva nelle campagne tra Argenta, Porto Maggiore e Molinella, dove poi uccise la sua seconda vittima Valerio Verri”. Sapevano e “omisero” di avvertire il Comitato provinciale per la sicurezza e la Questura, che informati avrebbe potuto collaborare alle indagini e sospendere l’attività dei volontari dell’antibracconaggio salvando così la vita all’ambientalista. Igor è oggi indagato per diversi episodi. Il primo risale al 30 marzo scorso, quando rapinò ad Argenta, in provincia di Ferrara, una guardia giurata a cui sottrasse la pistola. Il giorno dopo, durante una riunione di coordinamento, il comandante provinciale dell’Arma, Andrea Desideri, disse che erano “in corso le attività di indagine dirette alla ricerca del soggetto, in collaborazione con Molinella, in quanto si riteneva che si muovesse nel territorio di confine tra le provincie di Bologna e Ferrara”. In quell’occasione nessuno parlò di Igor, ma sui giornali locali, già si ipotizzava il suo coinvolgimento. Il primo aprile successivo ci fu la rapina al bar e l’omicidio di Davide Fabbri. Secondo la ricostruzione del legale fin da subito si sarebbe capito che il killer altro non era che Igor. Tanto che la magistratura chiese le intercettazioni per un telefono che si pensava fosse usato dal “russo”. Si sospettava di lui e si sapeva anche dove poteva nascondersi. E ancora, per il legale non risulterebbero vere le dichiarazioni fatte da Desideri secondo cui solo dopo l’omicidio di Verri, l’8 aprile, e grazie alla testimonianza di Marco Ravaglia (la guardia provinciale che era con Verri e che resto ferita gravemente) si seppe di Igor. A testimoniarlo ci sarebbero le attività che i carabinieri svolsero poche ore dopo il delitto di Budrio. Ad Argenta infatti, il 3 aprile venne trovato un bivacco da cui sarebbe stato facile risalire al Dna dell’assassino da confrontare con le tracce lasciate a due giorni prima a Budrio. Invece i resti vennero inviati ai Ris 15 giorni dopo. Tra l’altro i tabulati sul telefono di Igor (che ora si trovano nel fascicolo di Bologna), lo avevano dato sempre nel ferrarese. Dunque, assunto che tutti erano convinti che si trattasse di lui (i giornali ne scrivevano da giorni) non si capisce perché neppure al comitato del 7 aprile, il giorno prima dell’omicidio di Verri, fu segnalata la sua presenza in zona. Guida in stato di ebbrezza: con i lavori di pubblica utilità la patente non va sospesa di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 1 novembre 2017 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 19 ottobre 2017 n. 48330. I giudici della quarta sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza n. 48330 del 19 ottobre 2017hanno ritenuto che se il giudice sostituisce al guidatore ubriaco il carcere con i lavori di pubblica utilità non può sospendergli la patente. Il fatto - Un automobilista, condannato in relazione alla violazione dell’articolo 186, comma settimo, codice della strada, ai sensi del comma 9-bis della stessa norma, otteneva la sostituzione della sanzione detentiva e pecuniaria inflittagli, con il lavoro di pubblica utilità. Gli veniva, inoltre, comminata la sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida, immediatamente esecutiva, per un periodo di nove mesi. L’imputato proponeva ricorso per cassazione deducendo erroneità nell’applicazione della legge, con riferimento all’articolo 186, comma 9-bis, codice della strada deducendo che la norma prevede che, laddove nel corso dello svolgimento dei lavori di pubblica utilità, il condannato ponga in essere una qualche violazione, la pena sostitutiva possa essere revocata e le sanzioni amministrative accessorie possano essere ripristinate nella loro entità originaria. L’utilizzo del verbo ripristinare implica necessariamente il pregresso “venir meno” della sanzione amministrativa accessoria e tale “venir meno” non può che essere rapportato al momento della pronuncia della condanna con contestuale sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità; solo l’esito dello svolgimento di tale misura, d’altro canto, potrà essere poi determinante ai fini della quantificazione definitiva della sospensione della patente di guida (oltre che ai fini della estinzione del reato e della confisca, ove prevista). Ergo il Giudice avrebbe dovuto sospendere gli effetti della sanzione amministrativa accessoria durante il periodo di svolgimento della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità. La decisione della Corte - Gli Ermellini ritengono il ricorso fondato in quanto come emerge dalla lettura della norma, in caso di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, il giudice che procede o il giudice dell’esecuzione, a richiesta del pubblico ministero o di ufficio, con le formalità di cui all’articolo 666 del Cpp, tenuto conto dei motivi, della entità e delle circostanze della violazione, dispone la revoca della pena sostitutiva con ripristino di quella sostituita e della sanzione amministrativa della sospensione della patente e della confisca. Dunque, se il giudice accorda al trasgressore i lavori di pubblica utilità non può anche comminargli la sanzione amministrativa della sospensione della patente durante lo svolgimento della prova stessa. Se svolti diligentemente, questi lavori possono arrivare a far estinguere il reato, alla revoca della confisca e a dimezzare il periodo di sospensione della patente. Di contro, l’immediata esecutività della sola sanzione accessoria della sospensione della patente rischierebbe, in caso di positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, di rendere, verosimilmente, dati i tempi fisiologici di fissazione della nuova udienza per dichiarare estinto il reato e disporre la riduzione alla metà della sanzione amministrativa, vani gli effetti della successiva riduzione della metà della sospensione stessa. Infortuni sul lavoro: responsabile chi subentra e assume la gestione dei rischi di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 1 novembre 2017 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 31 ottobre 2017 n. 50019. Responsabile dell’infortunio patito dal lavoratore è normalmente il datore. Questa regola generale vale anche in caso di subentro da parte del figlio nella posizione del padre che diversi anni prima aveva apportato delle modifiche a un macchinario che aveva procurato una pesante menomazione fisica al prestatore. Questo il significativo principio espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 50019/2017. Posizione padre-figlio - La Corte in particolare ha precisato che a nulla potevano valere le affermazioni fatte dal figlio sulla circostanza che quando il padre aveva apportato modifiche alla macchina lui svolgesse solo mansioni contabili. Sul punto - si legge nella sentenza - la responsabilità nei reati omissivi colposi, può derivare dal semplice esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante mediante un comportamento concludente dell’agente, consistente nella presa in carico del bene protetto, avendo in particolare riguardo alla concreta organizzazione della gestione del rischio. Non solo. La Cassazione ha precisato che l’individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, ma sulle funzioni in concreto esercitate che prevalgono quindi rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale. È evidente, così, come nel caso concreto essendo il figlio subentrato nella posizione del padre e avendo egli concretamente assunto la gestione del rischio, con il subentro nella conduzione di famiglia e in ragione dei compiti assunti all’interno di essa, egli si sarebbe dovuto attivare per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, garantendo anche l’adozione delle doverose misure tecniche e organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all’attività lavorativa. La manutenzione dei mezzi di lavoro - Il ricorrente - soggetto destinatario dei richiamati obblighi di sicurezza - ha violato le specifiche prescrizioni in materia antinfortunistica, omettendo di mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature di lavoro conformi alle direttive comunitarie e di provvedere alla manutenzione dei mezzi di lavoro al fine di eliminare o almeno ridurre i rischi per l’incolumità fisica dei lavoratori. Respinto, inoltre, il ricorso anche perché se avesse saputo delle modifiche apportate al macchinario da parte del padre avrebbe dovuto fare adeguata formazione ed evitare così i rischi. Custode, colpa con dolo e prevedibilità di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 1 novembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 50024/2017. Per essere ritenuti responsabili di un incidente, non basta violare una regola cautelare imposta dal Codice della strada: occorre comunque che la violazione riguardi una norma che aveva lo scopo di impedire proprio quel tipo di sinistro. E, nel caso di un incidente mortale in curva dovuto a un sorpasso vietato con invasione della corsia opposta, non c’è alcun concorso di responsabilità da parte di chi percorreva tale corsia senza tenere rigorosamente la destra come invece prescrive l’articolo 143 del Codice. Anche perché quest’obbligo non significa che non si possa ragionevolmente “tagliare” una curva pur restando nella propria corsia. Così la Quarta sezione penale della Cassazione (sentenza 50024 depositata ieri) ha assolto un automobilista coinvolto dieci anni fa in uno scontro costato la vita a una guidatrice che, durante un sorpasso in curva, ha urtato la fiancata di quella dell’imputato, schiantandosi poi contro un altro mezzo. Era emerso che entrambi i veicoli superavano il limite di velocità. Alla vittima era stato attribuito l’80% della colpa, all’imputato il restante 20%. Questo giudizio di merito nasceva - oltre che da perizie e testimonianze che la Cassazione ha giudicato contraddittorie e che quindi non avrebbero dovuto essere determinanti nella sentenza della Corte d’appello - dal fatto che si era raggiunta una qualche prova sul fatto che la vettura urtata durante l’invasione di corsia da parte della vittima non viaggiava nelle immediate vicinanze del margine della carreggiata. In termini giuridici, si potrebbe anche ritenere che questo comportamento rientri nel principio di causalità della colpa. Cioè che abbia violato proprio una regola (l’articolo 143) che ha tra i suoi scopi proprio l’evitare collisioni nel caso in cui altri veicoli che transitano in senso opposto invadano la propria corsia. Così aveva giudicato la stessa Quarta sezione nella sentenza 2568/2010. Ma l’indirizzo giurisprudenziale della sezione non è costante: sempre nel 2010 (sentenza 32126), era stato ritenuto che l’articolo 143 avesse genericamente lo scopo di garantire “un’andatura corretta e regolare nell’ambito della propria corsia di marcia per la tutela del veicolo procedente e degli altri che la percorrono”. E i magistrati chiamati a giudicare sul caso in questione hanno ritenuto che le modalità del sinistro coincidano con quelle del caso che ha dato origine a questa interpretazione. La Cassazione rafforza questo ragionamento richiamando la sua giurisprudenza degli ultimi dieci anni (per esempio, sentenza 24898/2007), secondo la quale la causalità va esclusa quando viene dimostrato che l’incidente si sarebbe verificato anche se la violazione in questione non fosse stata commessa. Altro principio richiamato dai giudici è quello di affidamento, secondo cui nella condotta prudente imposta a un guidatore rientra sì l’obbligo di evitare incidenti quando altri si comportino in modo imprudente, ma tale imprudenza deve restare “nel limite della prevedibilità”. In vari punti della sentenza si scrive dell’impossibilità tecnica di tenersi strettamente a destra in una curva a sinistra. Dunque, non c’è obbligo di andare tanto piano da riuscire a non tagliare la curva. Sentenza “Taricco”, disapplicazione regole italiane su prescrizione reati tributari gravi Il Sole 24 Ore, 1 novembre 2017 Reati tributari - Omessa dichiarazione Iva (art. 10-ter Dlgs n. 74/2000) - Sentenza “Taricco” Cgue C-105/14 - Prescrizione - Disapplicazione - Gravità della frode - Elementi. L’ipotesi di reato di omessa dichiarazione per una singola annualità integra una condotta di frode e implica una connotazione di necessaria decettività, in ossequio ai principi espressi dalla sentenza “Taricco” Cgue 8 settembre 2015, C-105/14, frode per la quale dovrebbe procedersi a disapplicazione della disciplina della prescrizione ex articoli 160-161 c.p. Detta disapplicazione, limitata alla sola condotta e di evasione dell’Iva, non opera con riguardo ai fatti già prescritti, richiedendosi la prova del requisito della gravità della frode che, facendo riferimento alla gravità del danno o del pericolo cagionato, alla natura, alla specie, ai mezzi, all’oggetto, al tempo, al luogo, alle modalità dell’azione e all’elemento soggettivo, si connoti con ulteriori elementi, quali l’organizzazione posta in essere, la partecipazione di più soggetti al fatto, l’utilizzazione di “cartiere” o società-schermo, l’interposizione di una pluralità di soggetti, l’esistenza di un contesto associativo criminale. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 5 ottobre 2017 n. 45751. Reati tributari - Fatture per operazioni inesistenti (Dlgs n. 74/2000, articolo 2) - Singole evasioni Iva - Importi modesti - Termine di prescrizione del reato - Sentenza Taricco Cgue C-105/14 - Inapplicabilità. Non rientrano fra i reati per i quali possono trovare applicazione i principi in materia di durata massima del termine di prescrizione affermati con la sentenza Taricco le violazioni al Dlgs. n. 74/2000, articolo 2, tutte le volte che le frodi oggetto di contestazione abbiano determinato singole evasioni Iva per importi modestissimi e in mancanza di ulteriori indici di gravità, quali condotte che non denotino una spiccata capacità criminale, né una particolare organizzazione di mezzi, né la partecipazione di più soggetti o l’interposizione fittizia di più società nelle singole operazioni. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 14 luglio 2017 n. 34514. Reati tributari - Dichiarazione fraudolenta mediante fatture false - Mancanza di fraudolenza - Evasione Iva - Limite inferiore della soglia di punibilità - Termine di prescrizione - Operatività - Disapplicazione ex sentenza Cgue Taricco 8 settembre 2015 - Non opera. L’obbligo di disapplicazione della disciplina della prescrizione nell’ambito dei reati tributari ex articoli 160-161 c.p. sancito dalla cosiddetta sentenza Taricco Cgue C-105/14 non opera quando il procedimento penale riguardi frodi fiscali non connotate da gravità, sia perché non caratterizzate da fraudolenza, sia quando l’evasione d’imposta risulti di importo inferiore alla soglia di punibilità, non interrompendosi pertanto la prescrizione per il reato. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 22 giugno 2017 n. 31265. Reati tributari - Omesso versamento Iva (art. 10-ter Dlgs n. 74/2000) - Sentenza Taricco Cgue C-105/14 - Dolo generico - Prescrizione del reato. La disapplicazione delle disposizioni in materia di prescrizione del reato di cui agli artt. 160 c.p., comma 3, e 161 c.p., comma 2, proveniente dall’applicazione dei principi stabiliti dalla cosiddetta sentenza Taricco della Corte di giustizia dell’Unione europea in casi di grave frode fiscale, non si applica al delitto di omesso versamento Iva, in quanto non strutturalmente caratterizzato dall’elemento della frode (art. 325 Tfue), il reato previsto dall’art. 10-ter DLgs n. 74/2000 consistendo, al contrario, nella coscienza e volontà di non versare l’imposta dovuta. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 31 marzo 2017 n. 16458. Reati tributari - Omessa dichiarazione Iva - Causa di non punibilità - Soglia di punibilità - Gravità della frode - Sentenza Taricco Cgue C105/14. Nell’ambito dei reati tributari in cui l’ammontare dell’imposta evasa determina il raggiungimento di una soglia di punibilità, la gravità della frode, considerata elemento essenziale per la disapplicazione della normativa italiana in materia di prescrizione del reato tutte le volte che sia commessa in pregiudizio degli interessi finanziari dell’Ue - in virtù del principio espresso nella sentenza Taricco Cgue C-105/14, non assume rilievo quando l’evasione fiscale si mantenga al di sotto della soglia e sia pertanto priva del carattere di offensività. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 14 marzo 2017 n. 12160. Reati tributari - Dichiarazione fraudolenta - Termini di prescrizione - Sentenza Taricco C-105/14 - Disapplicazione - Maturazione dei termini di prescrizione - Pubblicazione della sentenza - Soglia di gravità minima. In tema di reati tributari e di dichiarazione fraudolenta (art. 2 Dlgs n. 74/2000), il principio consolidato dalla Cgue nella sentenza Taricco 8 settembre 2015 C-105/14, in base al quale le disposizioni interne in tema di prescrizione devono cedere il passo alla normativa europea tutte le volte che impedirebbero di irrogare sanzioni effettive e dissuasive in ipotesi di frodi gravi in danno agli interessi finanziari dell’Unione europea, non trova peraltro applicazione qualora la prescrizione sia maturata precedentemente alla data di pubblicazione della sentenza. In assenza di precisazioni sulla soglia di gravità minima in cui il reato dovrebbe concretizzarsi ai fini della disapplicazione della prescrizione, il solo criterio è riferito alla lesività del reato rispetto agli interessi finanziari dell’Unione europea. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 26 febbraio 2016 n. 791. Campania: il Garante Ciambriello “se detenuto incontra realtà sociali recidiva a -90%” Dire, 1 novembre 2017 “Quando un detenuto nelle carceri incontra associazioni e realtà che fanno iniziative, quando un detenuto, dopo aver scontato la sua pena, sta in una comunità di accoglienza o incontra la Pastorale carceraria di Napoli, non torna in carcere. Il 90% di loro, coinvolti in iniziative, non è recidivo”. Ad affermarlo, nel corso di un’intervista alla Dire, è Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania. “Coinvolgerli è positivo, per loro e per la società. Aiutarli è anche un risparmio economico oltre che un dovere costituzionale: per l’articolo 27 della Costituzione - ricorda Ciambriello - il carcere è un luogo di rieducazione”. Per promuovere attività alternative in carcere, il garante dei detenuti annuncia anche l’avvio di un nuovo percorso realizzato in collaborazione con l’assessore regionale all’Istruzione, Lucia Fortini. “Abbiamo avuto un incontro molto costruttivo - dice - e presto partiranno corsi di formazione e di avviamento al lavoro. Sarà un percorso strutturato sulla base delle singole competenze dei detenuti. Fare attività in carcere semplicemente per ‘intrattenerè i detenuti non basta: dobbiamo creare delle zattere tra loro e la società, tra i detenuti e il mondo del lavoro”. “La mia struttura è composta soprattutto da volontari e 2 soli dipendenti. Mi auguro che il nostro gruppo di lavoro possa arrivare a 5 dipendenti”. A lavoro da circa un mese nella struttura del Consiglio regionale, Ciambriello racconta di aver firmato due protocolli d’intesa “per il rimpatri forzati degli immigrati e sul tema della tortura” e ora la sua azione si concentrerà soprattutto per garantire ai detenuti una permanenza più dignitosa negli istituti della Campania. “Occorre favorire relazioni umani e rapporti sociali. Nei penitenziari - afferma il garante - mancano figure che si occupano di sociale, che facciano da ponte tra chi è in cella e chi fuori. Alle persone che sbagliano va tolta la libertà ma non la dignità: i colloqui durano un’ora, una volta a settimana. Così non alleviamo le loro sofferenze”. Firenze: cappellano di Sollicciano “il carcere è una discarica sociale abbandonata” gonews.it, 1 novembre 2017 “Nei giorni scorsi, insieme al consigliere Tommaso Grassi abbiamo deciso di mettere per iscritto una lista di “urgenze” del carcere di Sollicciano su cui, a nostro parere, la città di Firenze e la sua Amministrazione potrebbero e dovrebbero intervenire. Lo abbiamo volutamente intitolato “Un vero ponte per Sollicciano” per evidenziare la necessità di stabilire un ponte, percorribile con fiducia nei due sensi di marcia, per restituire dignità a chi nel carcere lavora o vi è ristretto, per risvegliare l’umanità pragmatica che ha sempre contraddistinto Firenze e i fiorentini. Da anni ci occupiamo di problemi legati al carcere e scriviamo appelli per sollecitare l’attenzione di istituzioni e cittadinanza. Ora però c’è un’occasione che la città non deve perdere: un Consiglio comunale di prossima convocazione si svolgerà all’interno del carcere di Sollicciano. Con questo documento intendiamo offrire a Giunta e Consiglio la possibilità di discutere con concretezza, affrontando i problemi veri del carcere fiorentino, allontanando il rischio di ridurre questa importante iniziativa del Consiglio a una passerella natalizia a uso e consumo dei professionisti della politica. Quando si parla di problemi carcerari, il rischio di dimenarsi a vuoto tra compassioni buoniste e ottusità securitarie è molto alto. Una città come Firenze può però ambire a far meglio, riappropriandosi di quella capacità di affrontare i problemi e tendere mani operose a chi è in difficoltà. E di difficoltà il carcere di Sollicciano ne ha talmente tante da divenire ostacoli insormontabili se la città lo espelle: da quelle di un’area educativa che deve fare un salto di qualità adeguandosi alla complessità dei percorsi di reinserimento sociale del detenuto, a quelle dell’area sanitaria, carente sotto molti aspetti. E poi ci sono i problemi legati al sovraffollamento, al caldo torrido e al freddo insopportabile, alle cucine, o le docce, che non funzionano, ai muri di cinta inagibili, ai passeggi in attesa di ristrutturazione, alle carenze di organico e alla annosa mancanza di una Direzione stabile. Questi problemi devono essere per noi la base di discussione del Consiglio comunale in carcere. Per modificare la situazione attuale, perché Sollicciano oggi è una discarica sociale abbandonata a sentimenti di vendetta sociale, o di ignavia, instillati e alimentati da chi di questi sentimenti e paure si serve per soffocare la parte migliore della polis, corrompendone il sentimento di giustizia e rendendola complice nel trasformare l’esecuzione della pena in tortura e scuola del crimine, a discapito, oltretutto, della sicurezza della città”. Pozzuoli (Na): il Garante regionale “anche 14 detenute in una cella, con un unico bagno” Dire, 1 novembre 2017 “In Campania ci sono 1.100 detenuti più del previsto, rispetto alla capienza massima di 6100 posti. Il sovraffollamento riguarda soprattutto Poggioreale e il carcere femminile di Pozzuoli dove in una stanza ci sono 8,12, perfino 14 donne. E c’è un unico bagno”. A lanciare l’allarme, in un’intervista alla Dire, è Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania. Un’emergenza, quella del sovraffollamento negli istituti della Campania, a cui si può dare una risposta “innanzitutto con la costruzione di una nuova casa circondariale in questa regione - questa la strada indicata dal garante dei detenuti -. Si pensi che in Umbria i reclusi campani sono più di quelli umbri. Andiamo anche a violare l’ordinamento penitenziario che all’articolo 42 vieta il trasferimento dei detenuti a più di 200 chilometri da casa”. Un nuovo istituto dovrebbe essere aperto in provincia di Napoli “nel nolano - sostiene Ciambriello. E speriamo che si accelerino le procedure. Poi c’è un’altra questione: ci sono carceri come quella di Sant’Angelo dei Lombardi (in provincia di Avellino, ndr) che chiede di ricevere altri 30 detenuti”. Un altro istituto femminile, invece, quello di Lauro (Avellino) accoglie “solo 5 detenute, recluse insieme ai loro figli”. Un carcere in più però non basta “il sovraffollamento è costruito sulla carcerazione preventiva, sulle leggi repressive, sulla connotazione troppo forte che ha la custodia cautelare. Da Poggioreale escono ogni anno 1 migliaio di persone innocentemente”. Al lavoro da circa un mese nella struttura del Consiglio regionale, Ciambriello racconta di aver firmato due protocolli d’intesa “per il rimpatri forzati degli immigrati e sul tema della tortura” e ora la sua azione si concentrerà soprattutto per garantire ai detenuti una permanenza più dignitosa negli istituti della Campania. “Occorre favorire relazioni umani e rapporti sociali. Nei penitenziari - afferma il garante - mancano figure che si occupano di sociale, che facciano da ponte tra chi è in cella e chi fuori. Alle persone che sbagliano va tolta la libertà ma non la dignità: i colloqui durano un’ora, una volta a settimana. Così non alleviamo le loro sofferenze”. “Quando un detenuto nelle carceri incontra associazioni e realtà che fanno iniziative, quando un detenuto, dopo aver scontato la sua pena, sta in una comunità di accoglienza o incontra la Pastorale carceraria di Napoli, non torna in carcere. Il 90% di loro, coinvolti in iniziative, non è recidivo”, commenta Ciambriello. “Coinvolgerli è positivo, per loro e per la società. Aiutarli è anche un risparmio economico oltre che un dovere costituzionale: per l’articolo 27 della Costituzione - ricorda Ciambriello - il carcere è un luogo di rieducazione”. Per promuovere attività alternative in carcere, il garante dei detenuti annuncia anche l’avvio di un nuovo percorso realizzato in collaborazione con l’assessore regionale alla Formazione, Chiara Marciani: “Abbiamo avuto un incontro molto costruttivo - dice - e presto partiranno corsi di formazione e di avviamento al lavoro. Sarà un percorso strutturato sulla base delle singole competenze dei detenuti. Fare attività in carcere semplicemente per “intrattenere” i detenuti non basta: dobbiamo creare delle zattere tra loro e la società, tra i detenuti e il mondo del lavoro”. Brescia: l’On. Lacquaniti in vista alle carceri “situazione migliore rispetto a due anni fa” bresciasettegiorni.it, 1 novembre 2017 A due anni di distanza dalla precedente ispezione, l’onorevole Lacquatini ha visitato per la terza volta la casa di reclusione di Verziano e, per la quarta volta, la Casa circondariale di Canton Mombello a Brescia. A detta dell’onorevole, Verziano si conferma ancora una volta come una buona struttura carceraria. Le celle sono aperte durante le ore diurne, gli spazi sono adeguate, e non manca la possibilità di fare attività ricreative e sport. Ciò permette una buona relazione fra i detenuti, e fra detenuti e personale addetto alla custodia. La Direzione si mostra sensibile a una concezione della detenzione che non sia meramente punitiva ma, secondo il dettato costituzionale, pure rieducativa. Tuttavia l’edificio, pur di recente costruzione, presenta carenze strutturali e l’urgenza di una manutenzione costante e accurata. Un’impressione particolarmente positiva è derivata dalle svariate attività svolte dai detenuti in collaborazione con Enti e Associazioni. E, in ultimo, anche dall’attività lavorativa all’interno del carcere, piccole catene di produzione allestite da imprenditori particolarmente sensibili. La situazione di Canton Mombello - Diverse le valutazioni in merito a Canton Mombello. Si confermano i miglioramenti che la riforma in merito alla depenalizzazione dei reati bagatellari e alle misure alternative alla detenzione ha apportato negli ultimi anni. La popolazione carceraria ospitata nell’istituto è quasi dimezzata rispetto a quattro anni fa. Anche qui è l’apertura delle celle nelle ore diurne è positiva. Un giudizio positivo spetta anche per la professionalità e la disponibilità della direzione e del personale addetto alla custodia. Tuttavia permangono un certo sovraffollamento delle celle e le condizioni di fatiscenza dell’edificio, che non permettono qualsiasi efficace attività rieducativa e di recupero dei detenuti. L’edificio, ad oltre un secolo dalla sua edificazione, sarà presto mandato in pensione e sostituito dalla nuova struttura che dovrebbe sorgere a Verziano. Struttura che si auspica venga realizzata il prima possibile. La direzione di Verziano ha confermato che sono in corso le procedure aggiudicative connesse all”appalto dei lavori. Infine si è tenuto il colloquio con il responsabile sanitario di entrambi gli Istituti di reclusione. Questi ha confermato che sul piano epidemiologico non si registrano più quelle malattie causate dal sovraffollamento. L’attenzione sanitaria oggi è concentrata soprattutto sulle dipendenze e sulla salute mentale. Alcuni problemi si rilevano a Canton Mombello nel rapporto fra le etnie, dove però opera la comunità islamica che presta assistenza religiosa su detenuti di fede islamica. Una nuova politica detentiva che non veda più esclusivamente nel carcere lo strumento atto allo sconto della pena richiede una collaborazione con i servizi territoriali, sociali e sanitari. Servizi che possono rivelarsi insufficienti, se non supportati e finanziati adeguatamente. Quindi è necessario stanziare risorse adeguate. Da ciò dipende anche il successo dei percorsi riabilitativi dei detenuti ed è anche fonte di risparmio economico. Infatti, costa di più mantenere in carcere un detenuto “ribelle” per un inadeguato percorso riabilitativo, che rieducare in modo adeguato il condannato sottraendolo una volta per tutte al crimine. Brescia: nuovo carcere a Verziano, pronti per l’appalto Corriere della Sera, 1 novembre 2017 La direttrice: i lavori per Verziano dovrebbero essere assegnati a breve. A giorni ci sarà l’appalto per i lavori di ampliamento del carcere di Verziano. La notizia è stata diffusa dall’onorevole Luigi Lacquaniti, deputato di “Campo Progressista”, che ieri ha fatto visita alle carceri bresciane di Verziano e Canton Mombello e parlato con la direttrice Lucrezi. A Verziano, ha ricordato Lacquaniti, la situazione “è decisamente migliore”. L’onorevole è stato anche a Canton Mombello. Lapidario il suo giudizio: “Deve essere chiuso”. “La situazione è migliorata rispetto agli anni scorsi, anche se rimane fuori limite, con 320 detenuti nel carcere di Canton Mombello anche se dovrebbero essere 200”. L’onorevole Luigi Lacquaniti deputato di “Campo Progressista” ieri ha fatto visita alle carceri bresciane, Verziano e Canton Mombello. Su Verziano “ho una notizia importante: la direttrice ci ha detto che a giorni ci sarà l’appalto per il nuovo carcere”. E a Verziano, ha ricordato Lacquaniti, la situazione “è decisamente migliore” rispetto alla vecchia struttura di Canton Mombello “anche grazie alla collaborazione di imprese che hanno favorito il lavoro esterno ed enti e associazioni che hanno prestato la loro esperienza”. A Canton Mombello la situazione è più difficile: “La vecchia struttura ha inevitabilmente dei limiti, il carcere ha più di cento anni e non può rispondere a un principio elementare, il carattere educativo della pena. L’unica cosa da fare è chiuderlo. E al più presto” ha detto l’onorevole Lacquaniti ricordando la carenza di personale preposto alla sorveglianza e a compiti amministrativi, che normalmente non dovrebbero essere appaltati a personale civile e la situazione difficile anche se “supportata dall’introduzione in carcere della videosorveglianza”. Il problema resta però la carenza di uomini e mezzi, occorre più personale ha sostenuto il deputato bresciano aggiungendo di aver incontrato il responsabile sanitario dei due istituti di pena: “Qualche anno fa i problemi erano epidemiologici, oggi una malattia come la poliomielite è diminuita, restano purtroppo tossicodipendenza e depressione e il vero problema in carcere oggi è la salute mentale”. Per Lacquaniti quella di ieri è stata la quarta visita a Canton Mombello e la terza a Verziano, le carceri bresciane le ha visitate ogni anno dal 2013 e i problemi li conosce: “Rispetto alla prima volta la situazione oggi è diversa, dopo la prima visita si è sperimentata l’apertura delle celle”. Tornerà a visitare le carceri, ma non più da deputato: “Ho deciso di non ricandidarmi” ha annunciato. Napoli: a Secondigliano apre centro d’ascolto per le famiglie dei detenuti Il Roma, 1 novembre 2017 Il nuovo centro di ascolto per le famiglie dei detenuti di Secondigliano diventa realtà. La struttura, che sorgerà accanto alla casa circondariale, sarà inaugurata sabato alle ore 11. Al taglio del nastro saranno presenti, tra gli altri, don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani, Don Enzo Cozzolino, direttore della Caritas di Napoli, Gaetano de Donato, governatore del distretto Rotary International 2100, Francesco Nania, tesoriere del distretto Rotarv International 2100, Samuele Ciambriello, garante Regione Campania dei detenuti, Orazio Vitiello, vice presidente dell’associazione “La Carità genera carità” e il cappellano del carcere di Secondigliano, don Giovanni Russo. Nella nuova struttura, realizzata grazie alla generosità del Rotary e dell’associazione “La Carità genera carità”, opereranno figure professionali specializzate nell’assistenza alle famiglie di chi vive la realtà del carcere. Il nuovo centro di ascolto offrirà assistenza materiale alle famiglie dei detenuti, risponderà alle loro domande, le accompagnerà nei percorsi di mediazione familiare, fungerà da deposito di abbigliamento e di kit per l’igiene. Padova: telefoni e droga nel carcere Due Palazzi, chiesti 14 anni di Carlo Bellotto Mattino di Padova, 1 novembre 2017 Guardia corrotta riforniva i detenuti di Padova: oltre a lui a giudizio tre “beneficiari” tra cui il boss Allia, il padre del killer di Bagnoli. Dopo qualche tempo trascorso al Due Palazzi i detenuti, o almeno parte di questi, venivano a conoscenza che c’era un agente di Polizia penitenziaria disposto ad “aiutarli” in modo illecito, si trattava di Francesco Corso. Poteva dar loro telefonini e droga, ovviamente pagando il servizio. Lo ha assicurato nella richiesta di condanna il pubblico ministero Sergio Dini che da qualche anno ha smascherato il malaffare diffuso all’interno del carcere. Per Francesco Corso, 41enne palermitano con residenza a Padova, il magistrato ha sollecitato 5 anni e 2 mesi di pena per concorso in corruzione. A giudizio con lui c’erano tre “beneficiari”, ossia tre detenuti del carcere di via Due Palazzi. Goran Jesilic (chiesti 4 anni di pena), successivamente trasferito da Padova a Vigevano, con alle spalle una condanna a 40 anni, poi ridotti a 30 dal tribunale Internazionale dell’Aja per omicidi, violazioni dei trattati di guerra, saccheggi durante il conflitto nei Balcani, noto come l’”Adolf serbo bosniaco”. Poi c’è Salvatore Allia (chiesti 4 anni di pena) in cella per un omicidio, il papà di Benedetto, arrestato per aver ucciso il 24 settembre scorso a Bagnoli Francesco Mazzei, calabrese 38enne. Per ultimo c’è il rapinatore veronese di lungo corso, Alex Mosca (chiesti un anno e 8 mesi). Su questo processo hanno pesato le accuse fatte in aula da Nicola Belmonte, ex detenuto. Che proprio pochi giorni fa ha presentato una querela, letta in aula e acquisita, ai carabinieri di Ala (Trento) dove ha ammesso di essere stato avvicinato da uno sconosciuto pochi giorni prima della deposizione che gli ha detto: “Venerdì sai cosa devi fare in aula, fai la cosa giusta”. L’inchiesta era nata da un telefonino sequestrato proprio a Jelisic: per l’accusa gli era stato fornito da Corso. Nella rubrica cartacea che l’ex criminale di guerra aveva, c’era proprio il cellulare di Corso. Non risulta che Jelisic abbia pagato la guardia per il servizio ricevuto ma per il pm Dini “è ovvio che abbia avuto un ritorno economico, altrimenti non avrebbe rischiato di compiere un atto illecito”. Proprio Belmonte ha raccontato di aver visto Corso (che cita come guardia disponibile con i detenuti che pagavano) che consegnava della marijuana ad Allia e quest’ultimo gli consegnava 500 euro per la droga e per un telefonino. Poi c’è la fidanzata di Mosca che riceve ordine dall’allora compagno di fare un bonifico bancario a Corso. Lei lo fa e successivamente dirà che sapeva che i soldi servivano a saldare una fornitura alimentare. Per la pubblica accusa il denaro serviva ad avere un trattamento di favore dietro le sbarre. L’indagine sul “carcere colabrodo” aveva già mietuto delle vittime. Nel luglio 2015 il gup Domenica Gambardella aveva inflitto 51 anni, tre mesi e 10 giorni di carcere a 13 imputati, tra loro cinque agenti di polizia penitenziaria e un avvocato. La sanzione più pesante venne inflitta all’agente Pietro Rega, 50 anni, con 10 anni e 10 mesi di reclusione oltre al pagamento di una multa di 60.340 euro. Sempre nell’ambito di un giudizio abbreviato vennero condannate le guardie Roberto Di Profio, 48 enne e Giandonato Laterza, 36enne. Patteggiarono i colleghi Angelo Telesca, 38 anni, e Luca Bellino, 41enne di Padova (4 anni, 9 mesi, 154 mila euro di multa e l’interdizione per 5 anni). Non è ancora finita. Torino: diciamo ai ragazzi che i bulli vanno in carcere per 8 anni di Antonella Boralevi La Stampa, 1 novembre 2017 Marco ha 16 anni, fa il professionale in una scuola di periferia, a Torino. Il suo calvario comincia nel 2013, ma servono due anni di torture e finire quasi morto, perché trovi il coraggio di raccontarle. Due compagni di scuola, più grandi di un anno, lo stupravano con un ombrello, lo costringevano a mangiare cacca di cane e lumache vive, a bere fino a cadere tramortito e dopo lo abbandonavano svenuto nel fango, gli dicevano che doveva dimostrare di non essere omosessuale. Quando ha saputo di dover testimoniare al processo, Marco ha avuto una crisi di nervi tremenda, è scappato di casa. La sua tortura dura anche adesso, lo seguono gli psicologi ma non ha più vita. E se fosse capitato a nostro figlio? I due bulli, che negano tutto, sono stati condannati ieri. 8 anni e mezzo in carcere, interdizione perpetua dai pubblici uffici e da lavori che riguardino minori. I giudici del Tribunale ordinario che li ha giudicati, perché sono diventati maggiorenni all’epoca delle torture, hanno detto di aver scelto una condanna “esemplare”. Gli avvocati dei due bulli hanno annunciato ricorso. Io credo, magari sbaglio, che dovremmo provare ad affrontare la violenza del bullismo rompendo il plancton di cui si nutre. Credo che i bulli si sentano invincibili e impuniti, perché da minorenni rischiano al massimo l’affidamento ai servizi sociali. Quando New York era un posto dove ti ammazzavano per strada, dove in certi quartieri non potevi andare, il sindaco Giuliani inventò la “tolleranza zero”. L’idea era di insegnare ai newyorkesi il principio di legalità, punendo con pene certe e gravi anche i reati minori. Funzionò. Il bullismo comincia con le angherie e arriva fino alle torture e allo stupro. Se passa nella testa di chi fa violenza ai compagni la paura di essere condannati, invece che ammirati e temuti, io credo che avremmo fatto il primo passo per restituire ai nostri figli la dignità e la fiducia. “La Prima Meta”, il film sulla squadra di rugby del carcere di Bologna debutta negli Usa rbcasting.com, 1 novembre 2017 “La Prima Meta” è stato selezionato, insieme a sole altre quattro opere documentarie, al prestigioso festival New Italian Cinema Events (N.I.C.E.) Usa 2017. Dopo il debutto italiano al Festival dei Popoli a Firenze, quello europeo al Festival Internazionale “Visions du réel International Film Festival” a Nyon, il film della bolognese Enza Negroni varca l’Oceano e arriva negli Stati Uniti nell’ambito della 27esima edizione del festival che da anni è impegnato a far conoscere e apprezzare il cinema italiano all’estero, contribuendo ad aumentare l’interesse per il cinema nostrano e proponendo sempre una programmazione varia e di qualità. N.I.C.E. Usa 2017 farà tappa in diverse città americane, tra cui San Francisco, dove il 10 novembre (ore 14.15) presso il Vogue Theatre in collaborazione con il Festival dei Popoli di Firenze, sarà proiettato “La Prima Meta”, film lungometraggio su Giallo Dozza, la squadra di rugby della Casa Circondariale Dozza di Bologna. Protagonista del film documentario è la squadra Giallo Dozza formata da 40 detenuti di nazionalità diverse, con pene da 4 anni all’ergastolo, senza precedenti esperienze rugbistiche. La squadra è iscritta al campionato ufficiale F.I.R. di serie C2 sotto la guida del tenace coach. Con l’arrivo di tre giovani detenuti, il film segue le vicende dei Giallo Dozza nel corso del suo primo campionato, giocato forzatamente sempre in casa. Tra allenamenti estenuanti e i ritmi lenti della quotidianità in cella, il film racconta il difficile cammino dei detenuti per raggiungere la meta non solo in campo ma anche nella vita con una ritrovata dignità sociale: un sofferto inno allo sport, alla condizione umana, in tutte le sue complesse latitudini. Al secondo lungometraggio dopo il fortunato “Jack frusciante è uscito dal gruppo” con gli allora esordienti Stefano Accorsi e Violante Placido, Enza Negroni in questi anni ha girato numerosi mediometraggi di genere documentario, passati per importanti festival e per le principali reti televisive italiane. Tra questi “Viaggio intorno a Thelonious Monk” con Stefano Benni per Feltrinelli; “Le acque dell’anima” con Bjorn Larsson e “Istanbul” con Nedim Gursel per Rai Educational; “Lo chiamavamo Vicky”, dedicato a Pier Vittorio Tondelli, presentato in concorso internazionale al Biografilm Festival; e per Rai 150 anni, due documentari storici, “Letture dal Risorgimento” e “Visioni d’Italia”. Sul set de “La Prima Meta” ha lavorato una troupe molto affiatata. Accanto alla regista, la produttrice Giovanna Canè con alle spalle una lunga carriera professionale in Italia e all’estero (tra gli ultimi lavori coordinatrice per “L’Ispettore Coliandro”, “Romanzo Criminale” e “Quo Vadis Baby”), Corrado Iuvara, montatore del cortometraggio “A casa mia” di Mario Piredda che ha vinto il David di Donatello 2017 e di “See you in Texas” di Vito Palmieri, Premio della Giuria allo Shanghai International Film Festival e Premio del Pubblico al Biografilm Festival Italia, e il direttore della fotografia Roberto Cimatti (a.i.c.) da anni ai più alti livelli della fotografia cinematografica, con registi quali Amir Naderi (“Monte”), Giorgio Diritti (“Il Vento fa il suo giro”, “L’Uomo che verrà”, “Un giorno devi andare”), Giuseppe Piccioni (“Il rosso e il blu”) e molti altri. “La Prima Meta” è prodotto da Giovanna Canè per Oltre il Ponte e Enza Negroni per Edenrock in collaborazione con Regione Emilia Romagna e realizzato con il contributo di I.B.C. Movie, Unipol Banca, Illumia; con il supporto tecnico e logistico di Associazione Giallo Dozza, Bologna Rugby 1928, Federazione Italiana Rugby, Ministero della Giustizia, Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria Emilia Romagna, Casa Circondariale Dozza di Bologna. La distribuzione internazionale è a cura di Coccinelle Film Placement, un network di professionisti della film industry che propone un nuovo modo di operare al servizio del prodotto audiovisivo. L’incubo del terrorismo nella stagione delle ombre di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 1 novembre 2017 Ciclisti falciati dal furgone guidato da un jihadista - in una giornata di sole sul lungofiume di Manhattan, alla vigilia della maratona di New York e nella serata festosa di Halloween - proprio mentre i primi arresti del procuratore che indaga. L’America precipita di nuovo nell’incubo del terrorismo - ciclisti falciati dal furgone guidato da un jihadista, otto morti e molti feriti in una giornata di sole sul lungofiume di Manhattan, alla vigilia della maratona di New York e nella serata festosa di Halloween - proprio mentre i primi arresti del procuratore che indaga sul Russiagate rendono ancora più caotico il quadro politico. Si materializza lo scenario più temuto: il Paese che scivola verso scenari da crisi istituzionale mentre aumentano le minacce interne ed esterne: terrorismo, Russia, i missili nucleari coreani. Proactive cooperator: più ancora dell’arresto dell’ex capo della campagna di Trump, Paul Manafort, sono queste parole, riferite alla collaborazione attiva che George Papadopoulos sta fornendo agli inquirenti, a far venire i brividi al presidente e ai suoi collaboratori. Torna l’ipotesi dell’impeachment? Nell’immediato la nuova emergenza ridà forza a Trump, leader di un Paese che nei momenti difficili ha sempre avuto bisogno di identificarsi nella figura protettiva del presidente. E, comunque, quella della defenestrazione di Trump resta una conclusione improbabile: è un percorso lungo e disseminato di molti ostacoli. A cominciare dalla mancanza, per ora, di prove incontestabili di una sua responsabilità diretta in episodi di “collusione col nemico”. Ma le prime mosse di Bob Mueller indicano che il procuratore fa sul serio, è molto accorto (per Manafort ha scelto imputazioni a prova di bomba, prive di connotati politici diretti) e andrà lontano: la sorpresa Papadopoulos è solo il primo tassello di un percorso che, temono alla Casa Bianca, potrebbe portare al cognato e al figlio del presidente. Che in una sciagurata riunione incontrarono emissari di Mosca con rapporti col Cremlino coi quali discussero di documenti trafugati e di come sconfiggere Hillary Clinton alle elezioni. Secondo alcuni avvocati, nella logica di Mueller che emerge dai documenti giudiziari fin qui pubblicati, basta già questo per ipotizzare una collusione. La pensano così anche due trumpiani “ingombranti” come Steve Bannon e Roger Stone che invitano il presidente a sbarazzarsi del procuratore federale, se vuole salvarsi. Succederà? Ora si aprono vari scenari, tutti complessi e pieni di rischi. Unica certezza: vedremo giorni cupi, non ci sarà un lieto fine per l’America come nel Watergate. Lo citiamo tutti, ma quello in oggi è un caso molto diverso. E più grave. Il Watergate fu una minaccia grave ma fu gestito alla fine con successo grazie a tre fattori oggi assenti: una crisi tutta interna al sistema politico Usa; un presidente che provò anche lui a bloccare le indagini, ma che alla fine, capita l’aria, rinunciò a battaglie devastanti anche per le istituzioni e si dimise prima dell’impeachment, scomparendo in silenzio; una stampa autorevole, della quale il Paese si fidava. Oggi è tutto molto diverso: dal panorama dell’informazione sconvolto dalla rivoluzione digitale e disseminato di “fake news” e campagna fuorvianti alla regia politica e comunicativa di una potenza straniera, alla figura di un presidente spregiudicato e con grandi capacità comunicative che, se messo con le spalle al muro, non uscirebbe di certo di scena silenziosamente. Darà battaglia fino al punto di licenziare Mueller o di perdonare i suoi imputati per spingerli a tenere la bocca chiusa? Qui la partita è complessa e le conseguenze imprevedibili. Il presidente può condonare i reati federali ma non quelli statali: nel caso di Manafort, imputato a tutti e due i livelli, potrebbe significare semplicemente il trasferimento da un carcere federale a un penitenziario dello Stato di New York. Trump ha anche il potere di destituire Mueller e già ha detto che lo farà se ha la sensazione di un’inchiesta che travalica i limiti prefissati. Potremmo già essere a quel punto, visto che il presidente ha definito quella del procuratore una “caccia alle streghe”, ma le reazioni del Congresso e dell’establishment sarebbero dure. Coi repubblicani che probabilmente si dividerebbero. Una chiave potrebbe essere la vendita di uranio americano alla Russia, sbandierata da Trump come prova che a tradire, favorendo Mosca, fu la Clinton. Sembra un diversivo per difendersi e galvanizzare il suo elettorato, impressionato dalla parola uranio. In realtà una transazione non importante decisa non dal segretario di Stato ma da funzionari del ministero. Un atto sottoposto, però, alla sorveglianza di una sezione dell’Fbi al tempo guidata da Mueller. Il tentativo, insomma, è quello di portare l’uranio in primo piano per mettere in discussione Mueller sostenendo, a quel punto, che dovrebbe indagare anche su sé stesso. È possibile che ciò accada. Sarebbe scontro durissimo tra Casa Bianca e Congresso. Oppure l’inchiesta può andare avanti a lungo rimanendo una spina nel fianco di Trump ma senza abbatterlo. O le incriminazioni potrebbero arrivare fino alla famiglia del presidente e a quel punto saremmo alle porte della crisi istituzionale più grave. Di certo Jared Kushner e Donald Trump Jr. non stanno dormendo sonni tranquilli. La cosa più terribile della situazione attuale, per l’America, è che un eventuale impeachment, l’esito auspicato dai democratici, sarebbe un trionfo per i cospiratori russi, e per il loro modo di manipolare l’informazione sul web. Loro non hanno abbracciato Trump perché innamorati di lui, ma per gettare nel caos il Paese loro avversario storico. Lo dice chiaramente l’ex capo del servizi segreti James Clapper. Oggi è un nemico giurato di Trump ma ammette che l’impeachment farebbe “esplodere polarizzazioni e divisioni alimentando ulteriormente le teorie dei complotti”. Addio Watergate: i buoni vincono sempre solo in certi film americani. E anche Hollywood, di questi tempi, non sta troppo bene. Ius soli, lo spiraglio aperto dai cittadini di Luigi Manconi Il Manifesto, 1 novembre 2017 Cittadinanza. La riforma ora è possibile, grazie a quelle migliaia di persone che hanno digiunato e aderito alla campagna dei Radicali Italiani. Ora lo si può dire: l’obiettivo della riforma delle norme sulla cittadinanza, lo Ius soli e Ius culturae, è raggiungibile. Non ne abbiamo la certezza assoluta e, tanto meno, il successo è a portata di mano. Ma - questo è il punto - oggi è infine possibile. Di chi è il merito? Se accadrà e quando accadrà, si dovrà evitare l’indecorosa corsa ad assumersene il merito. Dunque, qui si scrive a futura memoria. E, come prova inconfutabile, ecco la più recente cronaca degli eventi. Fino al cinque ottobre e persino oltre, il provvedimento sulla cittadinanza era, per valutazione unanime (da Matteo Renzi a Maria Elena Boschi fino a tutto il centrodestra), definitivamente archiviato. O meglio: rinviato alla prossima legislatura, che poi è la stessa cosa che dichiararne il differimento a tempi migliori. Che non è detto arriveranno mai. In altre parole, lo Ius soli era destinato all’oblio dopo una sepoltura nemmeno troppo degna. Poi, qualcosa è radicalmente cambiato. Mentre la rete degli “italianisenzacittadinanza” proseguiva con rinnovata lena nella sua mobilitazione, in corso da anni, il 3 ottobre - Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione - ha costituito l’occasione per un forte rilancio dell’iniziativa. Quel giorno, un numero consistente di insegnanti (oltre 900) si sono astenuti dal cibo, e hanno spiegato ai loro alunni che quella legge riguarda innanzitutto proprio loro, docenti e studenti, perché è nelle classi del sistema scolastico nazionale che 800. 000 minori stranieri si formano come cittadini italiani accanto ai coetanei che qui sono nati. Il giorno successivo due, tre parlamentari hanno raccolto e rilanciato l’iniziativa del digiuno. Da qui tutto un movimento che ha raccolto le volontà di tanti e le aspettative di una parte significativa della nostra società, e che si può tradurre in questi numeri: migliaia di persone di tutti i mestieri e le culture che hanno aderito all’iniziativa e migliaia che proseguono nello sciopero della fame a staffetta (di recente, avvocati e magistrati di Milano e Monza e decine di consigli comunali). E così il tema della riforma della cittadinanza è tornato nuovamente al centro dell’attenzione pubblica. E questo ha indotto il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, ad affermare che è impegno suo e del governo, entro questa legislatura, far sì che “i bambini figli di stranieri e nati in Italia possano avere diritto alla cittadinanza” (14 ottobre). Numerosi i ministri che si sono dichiarati pienamente favorevoli: quello delle Infrastrutture e quello degli Interni in primo luogo, e poi via via altri. Questo consente di dire che, probabilmente negli ultimi dieci giorni di novembre, lo Ius Soli tornerà in aula al Senato, forse con un voto di fiducia. E ciò accadrà appena qualche settimana dopo la conclusione positiva della campagna “Ero Straniero. L’umanità che fa bene” per il superamento della legge Bossi-Fini. Un risultato ancora più significativo perché ottenuto in uno dei periodi culturalmente più cupi della storia recente, quando le ansie collettive di una parte della società nazionale vengono più torbidamente manipolate e tradotte in moneta elettorale da parte degli imprenditori politici della paura e dell’odio. Quest’ultima campagna merita grande attenzione: sostenuta da un solo soggetto politico organizzato, i Radicali italiani guidati da Riccardo Magi ed Emma Bonino, è riuscita a realizzare una delle più estese alleanze sociali e civiche mai tessute nel nostro paese negli anni recenti. Un numero rilevantissimo di associazioni nazionali e locali (e mi rifiuto di aggiungere l’abusato e superfluo “laiche e cattoliche”) vi hanno partecipato dando vita - in quelle che sembravano le condizioni ambientali più ostili - a una amplissima discussione pubblica sui temi dell’immigrazione e dell’asilo. E hanno introdotto la risorsa e il metodo del pensiero razionale, laddove sembrava dominare incontrastato il panico delle ansie collettive. Capisco che possano sembrare numeri ridotti. Ma quelle 85.000 firme e quei 4.000 tavoli e, ancora, le migliaia di persone che si stanno preparando a sostenere la scadenza parlamentare decisiva per l’approvazione dello Ius Soli, rappresentano un segnale importantissimo. C’è una volontà “di umanità” e - ancora più essenziale, se possibile - di razionalità e di intelligenza che sembra non volersi arrendere. Ed è molto significativo che i percorsi attraverso i quali questa volontà si adopera per manifestarsi, non sono esclusivamente né principalmente quelli rivelatisi sordi e impermeabili: quelli, cioè, delle grandi istituzioni politiche (partiti compresi). Di queste ultime non si può fare a meno - lo Ius Soli, solo il Senato può approvarlo - e, tuttavia, di esse non si accettano supinamente i veti e i tempi, le compatibilità e i vincoli. Così facendo, quasi sempre si finisce con il perdere. Stavolta, forse, si può vincere. I migranti vincono i ricorsi per l’asilo di Raphaël Zanotti La Stampa, 1 novembre 2017 In più di un caso su due i giudici ribaltano la decisione delle commissioni territoriali. Negli ultimi sei anni i richiedenti che hanno ottenuto il permesso sono stati quasi 160.000. I dati citati dai politici sono tutti da rivedere. A differenza di ciò che vuole la vulgata, la maggior parte dei richiedenti asilo lo ottiene al primo colpo. Ma soprattutto più di un migrante su due, quando presenta ricorso perché si è vista bocciare la domanda, lo vince. Lo dicono i dati del ministero dell’Interno, ottenuti da “La Stampa” attraverso un accesso civico. Tra il 2010 e il 2016 gli stranieri che hanno chiesto di poter rimanere in Italia dopo essere fuggiti dal proprio Paese sono stati 364.469. Le domande vengono esaminate in prima istanza dalle commissioni territoriali. Queste, sulla base di interviste ai richiedenti, e valutando la situazione esistente nei Paesi di provenienza, decidono se le domande sono meritevoli di essere accolte oppure no. I richiedenti possono ottenere lo status di rifugiato, quando c’è il fondato timore che in patria sarebbero perseguitati per ragioni di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un gruppo sociale o per le loro idee politiche. Oppure la protezione sussidiaria, quando non sussistono le condizioni precedenti ma il migrante dimostri il rischio di subire un grave danno se tornasse in patria. Infine la protezione umanitaria, quando sussistono seri motivi per motivi umanitari o risultanti da obblighi costituzionali dello Stato italiano. Nei primi due casi il permesso di soggiorno vale cinque anni. Nell’ultimo, di solito, due. Sempre rinnovabili. Delle oltre 360 mila domande arrivate negli ultimi sei anni, quasi il 40% è passato al primo colpo. Il 35% è stato rigettato. Il resto è ancora pendente. Eppure, guardando bene, quel 35% non è pieno. I richiedenti possono sempre presentare ricorso di fronte al tribunale. E così, in questi anni, hanno fatto 67.671 persone. I giudici ne hanno esaminati e decisi poco meno della metà, 30.754. Ma il dato più eclatante è che nel 53,17% dei casi i migranti hanno vinto. Significa, in parole povere, che nella maggior parte dei casi il giudizio delle commissioni territoriali è stato ribaltato. Non è una questione di poco conto considerando che in media, un secondo grado di giudizio in tribunale, conferma la prima decisione nel 90% dei casi. Cosa succede? Come è possibile una discrepanza del genere? Le motivazioni possono essere diverse, ma secondo le associazioni che si occupano di immigrazione e per gli avvocati che seguono questi ricorsi, il problema è che le commissioni territoriali sono molto rigide nel concedere l’asilo rispondendo alle pressioni arrivate negli ultimi anni dalla politica. A riprova di ciò, vengono citati gli stessi dati raccolti dal Viminale. Dal 1990 a oggi le percentuali dei Paesi di provenienza dei migranti non sono cambiate di molto. Eppure le commissioni territoriali sono diventate più rigide nel concedere l’asilo. Perché? Sono finite le condizioni nei Paesi di origine che inizialmente caldeggiavano la concessione della protezione internazionale? Evidentemente no. Un altro problema poteva essere la formazione delle nuove commissioni territoriali, incrementate di numero per far fronte all’emergenza sbarchi. Ma questa ipotesi è poco percorribile, le commissioni sono formate da professionisti preparati. E allora qualcosa è cambiato, ma solo in prima istanza. Quando il richiedente asilo insiste, promuovendo un ricorso, alla fine il suo diritto viene riconosciuto nella maggior parte dei casi. Tutto ciò avviene lontano dai riflettori, si perde nei mille rivoli delle centinaia di tribunali italiani. Lo sguardo d’insieme, però, restituisce una verità diversa: dal 2010 a oggi delle 272.035 domande valutate, l’asilo è stato concesso nel 43,6% dei casi, i rigetti sono stati meno di uno su tre: il 31%. Canapa terapeutica, ultimo appello di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 1 novembre 2017 Sulla sorte della legge di legalizzazione della cannabis si è detto quasi tutto. Mondata di qualunque minima velleità di riforma reale, si è trasformata in un semplice riordino di norme già esistenti sulla cannabis terapeutica. La bocciatura di due emendamenti che avrebbero depenalizzato la coltivazione domestica ad uso terapeutica, per pochi voti, è il segno di come questo Parlamento sia incapace di interpretare la società e le evidenze scientifiche. Sarebbe stata una soluzione “umanitaria”, viste le enormi difficoltà che tuttora trovano i pazienti a reperire le preparazioni a base di cannabis. Ma il dibattito alla Camera si è dimostrato ancora inquinato dalla demonizzazione della pianta e dalla negazione del fallimento proibizionista. Oltre al buon senso, esistono studi seri che hanno dimostrato come la disponibilità della cannabis terapeutica non solo faccia diminuire le prescrizioni di altri farmaci, ma abbia anche un effetto positivo sulla spesa sanitaria. I ricercatori dell’università della Georgia hanno analizzato i dati relativi alle prescrizioni del programma Medicare Usa (Part D) dal 2010 al 2013. Il risultato è che l’uso dei farmaci di cui la marijuana è una valida alternativa clinica, come gli oppioidi, è fortemente diminuito negli stati dove è stata resa legale la cannabis terapeutica. La diminuzione di spesa per lo Stato e per i pazienti è stata stimata nel 2013 in ben 165,2 milioni di dollari. Che potrebbero arrivare a mezzo miliardo di dollari di risparmio annuo se la marijuana medica fosse legale in tutti gli Stati degli Usa. Negli Stati Uniti in preda ad una vera e propria crisi da abuso di oppiodi la riflessione scientifica, prima che politica, sta portando a valutare la cannabis come medicinale alternativo e molto meno pericoloso rispetto agli antidolorifici a base oppiacea. Molte ricerche in passato hanno messo in relazione la legalizzazione dell’uso terapeutico della cannabis alla diminuzione della ospedalizzazione dei pazienti e delle morti correlate all’uso di oppiacei. Più recentemente alcuni ricercatori statunitensi hanno pubblicato sulla rivista American Journal of Public Health uno studio che ha associato anche la legalizzazione della cannabis ad uso ricreativo alla diminuzione delle morti connesse all’uso di oppiodi. Esaminando la situazione in Colorado dal 2000 al 2015 i ricercatori hanno evidenziato come la curva di aumento tendenziale di morti si sia arrestata ed abbia cominciato a diminuire a partire dalla legalizzazione della cannabis ricreativa nel 2014. In controtendenza rispetto al dato degli Stati Uniti si è determinata infatti una riduzione di morti connesse all’uso di oppiacei del 6,5%. Va detto che proprio dal 2014 il Colorado ha anche rafforzato i controlli sulle prescrizioni di oppioidi e reso più facilmente disponibile il naloxone. La diminuzione dei decessi per farmaci oppiacei è confermata nel 2016, anche se sono aumentate le morti per eroina. Anche il Perù nei giorni scorsi ha legalizzato la cannabis terapeutica. La legge è stata promossa dal presidente conservatore Pedro Pablo Kuczynski, dopo che la polizia fece irruzione in un laboratorio improvvisato da un gruppo di madri per produrre olio di cannabis per curare i propri bambini epilettici. La legge ora al vaglio del Senato è sicuramente deludente, ma ha due pregi. Sancisce nell’ordinamento italiano il diritto dei pazienti di curarsi con la cannabis e mette sotto la tutela legislativa un sistema ora retto in larga parte su decreti ministeriali. Per questo sarebbe scellerato che il Senato non la approvasse, anche così com’è. Con l’auspicio che, finalmente, la legalizzazione della cannabis sia un tema di confronto aperto nella campagna elettorale per il prossimo Parlamento. Svizzera. Arrestato per errore muore in cella, tutta colpa dell’omonimia tio.ch, 1 novembre 2017 Non doveva trovarsi lì il 23enne originario del Gambia, richiedente l’asilo, arrestato domenica sera e trovato privo di vita nella sua cella. Era stato arrestato per errore. È di martedì scorso la notizia di un detenuto trovato morto nella sua cella presso il centro di detenzione provvisorio a Mont-sur-Lausanne. Nel comunicato la polizia parlava di un 23enne cittadino del Gambia che era stato fermato domenica sera dalle guardie di confine alla stazione di Losanna e in seguito era stato arrestato per violazione della legge sugli stranieri. Dalle verifiche è però emerso - come riporta Le Temps - che l’uomo era stato arrestato per errore. Il giovane - che è in seguito deceduto - era un richiedente l’asilo preso in carica dal centro per richiedenti l’asilo di Ecublens. Aveva lo stesso nome ed era nato lo stesso giorno di una persona omonima, che doveva essere invece rispedita in Italia. Lamin F. - così si chiamava la vittima - è stato arrestato dalle guardie di confine a seguito della segnalazione da parte delle autorità lucernesi, che erano sulle tracce del suo omonimo. Il 23enne è stato inizialmente portato in ospedale a causa di un attacco epilettico e in seguito trasferito in cella. Il giorno seguente, però, il suo corpo è stato scoperto senza vita dal personale del centro di detenzione provvisorio. In quali condizioni sia deceduto non è ancora chiaro, è in corso l’inchiesta condotta dal Ministero pubblico e dalla giustizia militare. Come spiegare la confusione da parte delle autorità? Sarebbero frequenti - come fanno notare dalla fondazione “Point d’Eau” - i casi di omonimia tra i richiedenti l’asilo provenienti dall’Africa subsahariana. La data di nascita, inoltre, è spesso fittizia. Se la persona non è in grado di fornirla, o non desidera dire la verità, le viene solitamente assegnata il 1. gennaio dalle autorità del Paese in cui viene registrata la prima volta. Le indagini dovranno ora appurare le eventuali responsabilità. Malta. Passaporti insanguinati di Sabrina Provenzani Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2017 La blogger uccisa e i legami tra il premier e la società che vendeva i passaporti maltesi. A quasi tre settimane dal suo omicidio, le indagini sulla morte di Daphne Caruana Galizia puntano in tutte le direzioni, perché dalle pagine del suo blog, negli anni, Daphne aveva seguito moltissime piste. Bersaglio costante è però sempre stato, negli ultimi anni, l’intreccio di interessi fra tre soggetti: il governo maltese del premier e leader laburista Joseph Muscat: la banca d’affari Pilatus Bank e la società di intermediazione Henley&Partners, che governa il business miliardario della concessione della cittadinanza e dei passaporti maltesi. A quasi tre settimane dal suo omicidio, le indagini sulla morte di Daphne Galizia puntano in tutte le direzioni, perché dalle pagine del suo blog, negli anni, Daphne aveva seguito moltissime piste, a volte in maniera solo frammentaria o riportando articoli di colleghi. Il bersaglio costante del lavoro della giornalista è però sempre stato, negli ultimi anni, l’intreccio di interessi fra tre soggetti: il governo maltese, guidato dal 2013 dal premier e leader laburista Joseph Muscat; la Pilatus Bank, piccola banca d’affari con filiali maltese e londinese, guidata dal giovane iraniano Ali Sadr; e la società di intermediazione internazionale Henley& Partners, rappresentata dallo svizzero Christian Hugo Kälin. Proprio sul rapporto molto amichevole fra Muscat e Kälin, in un post pubblicato su Facebook il giorno dopo l’assassinio della madre, punta il dito Matthew, il figlio di Daphne, membro del Consorzio Internazionali di Giornalisti Investigativi vincitori del Premio Pulitzer per il lavoro sui Panama Papers. Li chiama “gang of crooks” banda di criminali, e attribuisce loro la responsabilità politica e morale di quanto è accaduto. Il 31 maggio, Daphne Caruana Galizia aveva reso pubblico uno scambio di email - in cui erano inclusi anche il ministro della Giustizia e il capo di gabinetto - fra Muscat e Kälin, presidente della Henley&Partners, leader della consulenza nel campo della cittadinanza globale. “Dopo una riunione con il ministro della Giustizia, il presidente di Henley & Partners Christian Kälin, ha presentato un piano per intimidirmi con la minaccia di una causa, con giurisdizione nel Regno Unito, che mi rovinerebbe. Le lettere sarebbero inviate a me, al parlamentare di opposizione Jason Azzopardi e a tre organi di stampa, con lo scopo di dissuaderci dall’indagare ulteriormente su Henley&Partners e le sue opache e dannose attività maltesi”. Le email, va sottolineato, partono non dal server del governo ma dal sito personale del premier Joseph Muscat, registrato negli Usa. È un vero e proprio accordo, in cui il governo di Malta si affida a una società privata per silenziare la stampa del proprio Paese. Chi è Henley & Partners? Una società leader nei servizi di Residence and citizenship planning in 25 Paesi del mondo. Agisce cioè da intermedia- ne geografica, buone infrastrutture, lingua inglese, e trova un interlocutore interessato in Muscat, allora parlamentare europeo con ambizioni di leadership nazionale. I due stringono un accordo, Muscat vince le elezioni e “importa” la vendita della cittadinanza a Malta. Il rapporto con Kälin si fa talmente stretto che perfino durante il semestre di presidenza Ue il premier maltese fa da testimonial a Henley in giro per il mondo. Quanto al programma maltese, non è noto con certezza quali e quanti ne siano stati finora i beneficiari. Come sempre in questi casi, l’identità dei neo-cittadini resta riservata: un diritto alla privacy che prevale sulle necessità di sicurezza nazionale, contestato per questo invano perfino in sede di Parlamento europeo. Malgrado questi schemi offrano accesso all’Ue, le procedure di concessione della cittadinanza e relativo passaporto restano prerogative degli stati nazionali. È cruciale che i controlli sulla identità dei richiedenti e la provenienza del loro denaro siano rigorosi: il governo sostiene di sì, ma la legge maltese sulla cittadinanza consenta ampia discrezionalità al Ministero degli interni. Per Daphne lo schema non era che una porta ingresso in Europa per corrotti e criminali. Fra questi includeva il chairmandi Pilatus Bank, Seyed Ali Sadr Hasheminejad, giovane uomo d’affari di origine iraniana e passaporto di St Kitts e Nevis, ottenuto proprio grazie al programma messo in piedi da Henley. Secondo quanto ricostruito dalla giornalista, la banca d’affari era funzionale al passaggio di mazzette per alcuni membri del governo maltese; e proprio su un conto di Pilatus Bank sarebbero transitati fondi della famiglia del dittatore azero, Ilham Aliyev, diretti alla società offshore Egrant, riconducibile, secondo i Panama Papers, alla moglie del premier maltese. I Muscat hanno negato ogni coinvolgimento e avviato un’inchiesta della magistratura, ancora in corso. Ma dopo la deflagrazione dello scandalo, lo scorso aprile, Muscat ha indetto elezioni anticipate di un anno rispetto alla scadenza naturale del suo mandato, e a giugno le ha stravinte a sorpresa, cementando il potere del Labour fino al 2021. A luglio Jonathan Ferris, investigatore dell’Antiriciclaggio maltese noto per il rigore professionale, è stato estromesso da tutte le inchieste sull’operato del governo, compreso il caso Egran, e poi licenziato: “Hanno voluto mettermi a tacere”, ha dichiarato Ferris. Sviluppi che Daphne seguiva con crescente sconforto: il suo ultimo post sul suo blog Running Commentarysi conclude con parole amarissime: “Ci sono criminali ovunque. La situazione è disperata”. Turchia. Quattro giornalisti e amministratori di Cumhuriyet restano in carcere Adnkronos, 1 novembre 2017 Processo alla testata simbolo anti-Erdogan aggiornato a dicembre. Continua in Turchia la carcerazione preventiva per 4 giornalisti e amministratori di Cumhuriyet, il quotidiano di opposizione laica al presidente Recep Tayyip Erdogan, diventato uno dei simboli delle minacce alla libertà di stampa nel Paese. Lo ha deciso un tribunale di Istanbul, al termine della quarta udienza del processo nei confronti di 19 persone accusate di “terrorismo”. Il direttore, Murat Sabuncu è detenuto da 366 giorni insieme al presidente del consiglio direttivo del giornale, Akin Atalay. In custodia cautelare in carcere ci sono poi il reporter investigativo Ahmet Sik e il contabile Emre Iper. In prigione rimane anche Ahmet Kemal Aydogdu, imputato insieme ai dipendenti di Cumhuriyet e accusato di essere dietro al noto account Twitter antigovernativo ‘JeansBirì. La prossima udienza è stata fissata per il 25 e 26. dicembre. Camerun. Leader dell’opposizione condannato a 25 anni di Riccardo Noury Corriere della Sera, 1 novembre 2017 Il 30 ottobre un tribunale militare ha condannato a un quarto di secolo di carcere Aboubakar Siddiki (nella foto tratta da change.org), presidente del Movimento patriottico di salvezza nazionale, il principale partito di opposizione del Camerun. Siddiki è stato riconosciuto colpevole di azioni ostili contro la madrepatria, atti rivoluzionari e disprezzo nei confronti del presidente, nonostante nelle 26 udienze dei 22 mesi di processo la pubblica accusa non sia stata in grado di presentare alcuna prova. Con Siddiki è stato condannato anche uno dei notai più famosi del Camerun, Abdoulaye Harissou. Giudicato colpevole di omessa denuncia, ha ricevuto una pena di tre anni di carcere. Sono stati assolti dallo stesso reato i tre giornalisti Baba Wame, Felix Ebole Bola e Rodrigue Tongue. I “fatti” risalirebbero al 2014. Nell’agosto di quell’anno Siddiki e Harissou erano stati arrestati con l’accusa di aver fatto parte di un complotto per destabilizzare il paese. Erano stati trattenuti per un mese e mezzo in una struttura detentiva clandestina dei servizi segreti e sottoposti a torture. Il processo, iniziato nel gennaio 2016, si è svolto in un clima persecutorio: molti testimoni hanno rinunciato a presentarsi per timore di ritorsioni e il presidente della giuria si è rifiutato di prendere in considerazione le denunce degli avvocati difensori secondo cui i loro clienti erano stati costretti a confessare sotto tortura. Harissou, avendo trascorso in carcere un periodo di tempo maggiore rispetto a quello della condanna ricevuta, dovrebbe tornare presto in libertà. Sempre che le autorità del Camerun intendano rispettare le loro stesse leggi. Gli avvocati di Siddiki hanno annunciato ricorso.