Carceri, la riforma dispersa: boom di suicidi nelle celle lager di Francesco Lo Dico Il Mattino, 19 novembre 2017 Carceri sovraffollate e boom di suicidi mentre, attesa da anni, c’è la riforma dell’ordinamento penitenziario approvata dal Parlamento il 23 giugno scorso che affida al governo un’ampia delega. Le ultime bozze dei decreti attuativi sono state trasmesse al Garante dei detenuti solo l’altro ieri. E i tempi, visto che si è a fine legislatura, sono davvero risicati. Il numero 47 si è tolto la vita in una cella di Santa Maria Capua Vetere il mese scorso. Ma Gaetano Della Monica, che numero non si sentiva, ha infilato la testa in una busta e l’ha annodata al tubo del gas del fornellino. Da uomo libero si era guadagnato il nomignolo di re dei falsi matrimoni, ma in carcere ha sposato la morte. Proprio come altri 46 prima di lui da gennaio a oggi stipati in cella, uno sull’altro, come topi su una nave che affonda. Sullo sfondo, attesa da anni, c’è la riforma dell’ordinamento penitenziario approvata dal Parlamento il 23 giugno scorso che affida al governo un’ampia delega. Il ministro Orlando l’ha fortemente voluta e di questo gli va dato atto, ma dopo cinque mesi le bozze dei decreti attuativi non sono ancora sul tavolo del Consiglio dei ministri. Su pressione delle radicali Bernardini e Cianfanelli, in sciopero della fame negli ultimi trenta giorni insieme a 10mila detenuti, si era parlato di fine estate, ma niente. Le ultime bozze dei decreti attuativi sono state trasmesse al Garante dei detenuti proprio l’altro ieri, nelle stesse ore in cui le prime sono state spedite dal Guardasigilli a Palazzo Chigi. Orlando assicura che la partita sarà chiusa entro il 31 dicembre. Ma una volta approvati dal Consiglio dei ministri, i decreti dovranno passare in uno snervante ping pong alle commissioni giustizia del Senato e della Camera, che a loro volta dovranno esprimere un parere sui provvedimenti, che di nuovo, come in un gioco dell’oca, dovranno tornare tra le mani del governo per l’eventuale approvazione definitiva. E i tempi, visto che si è a fine legislatura, sono davvero risicati. La barca è ancora in alto mare, insomma, e rischia di finire inghiottita dai marosi di fine legislatura. Un flop epocale. Nata dal lavoro di una commissione di esperti che toccano con mano ogni giorno il dramma carcerario, e presieduta dal penalista Giostra, la riforma va dopo 40 anni di buio (l’ultimo riordino è del 1975) nella direzione giusta. Semplifica il ricorso alle misure alternative, elimina automatismi e preclusioni che impediscono a molti l’accesso ai benefici penitenziari, incentiva la giustizia riparativa, e incrementa il lavoro fuori e all’interno dei penitenziari. Prevede modifiche per migliorare l’assistenza sanitaria spesso deficitaria, specie in campo psichiatrico, e nuove misure di sicurezza. Importanti misure sono previste anche per agevolare l’integrazione dei detenuti stranieri, delle donne (le madri in particolare), e politiche, in equilibrio tra una sorveglianza più stretta e maggiore libertà di culto, destinare a tenere sotto controllo il proselitismo e la radicalizzazione dei reclusi di fede islamica. La riforma valorizza poi il volontariato e riconosce il diritto all’affettività. In sintesi restituisce ai detenuti quei diritti negati, che la Costituzione assegna ai detenuti, e spesso hanno reso pura utopia la funzione rieducativa della pena. Per le nostre carceri sovraffollate, sulle quali di recente è calata anche la scure dell’Onu, un’occasione da non fallire: mentre la politica celebrale sue opprimenti liturgie, nelle cappelle delle carceri continuano a suonare le campane a morto. Dal 1990 a oggi più di 1.400 suicidi, di cui 47 solo quest’anno. Più altri ventimila sventati, di cui 1.006 solo nel 2016: i numeri dicono che dietro le sbarre si sfiorano i dieci harakiri ogni diecimila detenuti. I comuni cittadini che in Italia si tolgono la vita sono uno ogni 5mila: in carcere la frequenza risulta circa 20 volte superiore. E ci sono poi i casi di autolesionismo: 8.540 casi nel 2016 e 1.262 soltanto nei primi due mesi del 2017. Tutta colpa della disperazione? Non proprio. Dopo due anni in controtendenza, il rapporto Antigone ha segnalato che la popolazione detenuta è passata dalle 54.912 presenze del 31 ottobre del 2016 alle 57.994 presenze del 31 ottobre 2017, con una crescita di 3.082 detenuti in un anno. Nel semestre compreso tra l’aprile l’ottobre del 2016, la crescita era stata invece di 1.187 detenuti. Se il trend attuale dovesse consolidarsi, alla fine del 2020 si sfonderebbe dunque la soglia record di 67mila detenuti: numeri senza precedenti. A oggi siamo a un tasso di sovraffollamento del 120%, che ci è costato la censura dell’Onu, ma a Como (192%) Latina (196,1%) e Larino (195,3%) si toccano picchi ben più ampi che collocano Puglia (145%) e Lombardia (135%) ai primi posti tra le realtà carcerarie più sovrappopolate. Non va molto meglio in Campania, dove sono detenuti 7278 adulti a fronte di 6136 posti, il che significa che più di migliaio di persone “sono una vicino all’altra e dormono su materassi adagiati a terra”, spiega il nuovo garante dei detenuti, Samuele Ciambriello. Troppi carcerati, pochi poliziotti penitenziari: ce ne sono 4100 ma ne mancano 400. “Molti dei problemi che abbiamo in Campania - mette a verbale Ciambriello - sono legati proprio a sovraffollamento e mancanza di personale”. Problemi come quelli riesplosi di recente a Poggioreale, dove mancano all’appello 200 agenti: ai primi di ottobre un suicidio, nei giorni scorsi un’aspra contesa sorta da motivi di sovraffollamento che ha spinto un detenuto a denunciare alcuni agenti che lo avrebbero picchiato. In un carcere che ospita oggi 2100 persone ma non potrebbe accoglierne più di 1500, l’uomo sarebbe insorto di fronte all’aggiunta di un altro piano sui letti a castello che già ospitavano cinque persone in una cella già strapiena e fatiscente. Agghiacciante anche il bilancio in campo sanitario, dove i detenuti sono stati trattati fino a oggi come cittadini di un altro mondo: i Lea, ossia i Livelli essenziali di assistenza a garanzia della salute sono approdati in carcere solo quest’anno. Il risultato di tanta trascuratezza è nei numeri diffusi dal Simspe, la Società italiana di medicina e sanità penitenziaria: due carcerati su tre, sebbene mediamente giovani, sono malati. E la metà di loro non sa di avere una patologia. Anche in questo caso, dalla Campania non arrivano buone notizie. I detenuti - dice il garante regionale Ciambriello - aspettano dai sei ai dieci mesi per ottenere una visita cardiologica e fino a due anni per un intervento chirurgico, e gran parte di questi ritardi dipendono dalla difficoltà di garantire il personale necessario per l’accompagnamento in ospedale e dalla disponibilità degli specialisti ospedalieri”. Tra celle minuscole, scarsa igiene, e poca assistenza, nelle carceri sono rinchiusi 5mila detenuti positivi all’Hiv, 6500 portatori di epatite B e tra i 25 mila e i 35 mila sono positivi all’epatite C. E la situazione degli ammalati psichiatrici, spesso esplode in tutta la sua gravità in casi come quello di Valerio Guerrieri, 22enne con problemi psichiatrici che si è suicidato nello scorso febbraio a Regina Coeli. Aspettava da tempo di essere ricoverato in una Rems - le nuove strutture che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari che a oggi hanno accumulato liste d’attesa da 300 persone - ma nessuno è riuscito a trovargli un posto. Ma la patologia più grave e diffusa di tutte è quella che affligge 20.493 detenuti in attesa in giudizio. Un terzo del popolo carcerario. Uomini e donne nel limbo, innocenti fino a prova contraria, che pagano con il carcere i ritardi di un sistema penale inadeguato che impiega fino a vent’anni per una sentenza definitiva. Ma forse, questo, è un male incurabile. Riforma carceraria. Migliore: “la sfida è il via libera entro l’anno” di Francesco Lo Dico Il Mattino, 19 novembre 2017 Il Sottosegretario Gennaro Migliore assicura che i decreti attuativi sono in fase di stesura avanzata. “Ho grande rispetto e amicizia nei confronti di Rita Bernardini che ha fatto lo sciopero della fame per incalzare il governo, ma sento di poterla rassicurare. Come ha ribadito il ministro Orlando i decreti sono pronti. Una parte di questi è già passata al vaglio del Garante nazionale e un’altra parte è quasi alle stampe in Commissione, che ha lavorato in modo indefesso su un corpus legislativo molto complesso. La riforma dell’ordinamento penitenziario verrà approvata nei tempi previsti. La porteremo a casa entro fine anno, al di là di ogni polemica”. Stralciare il provvedimento dalla riforma penale, come chiesto da Bernardini a suo tempo, non avrebbe consentito di guadagnare tempo, dato lo stato di massima urgenza in cui versano le nostre carceri? “Le leggi si fanno sulla base del consenso reale che si misura in Parlamento. Molti, a partire da forze populiste come Lega e M5S, nutrono la convinzione che chi finisce in carcere dev’essere messo dentro e che vada buttata la chiave. È già successo con la messa alla prova, che hanno sprezzantemente chiamato “misura svuota-carceri”. Una riforma come questa, che promuove misure innovative volte a individualizzare il trattamento, era troppo importante perché potesse finire preda di agguati. Se l’avessimo scorporata, sarebbe finita su un binario morto”. Intanto però il sovraffollamento è tornato a crescere, e l’Onu ha censurato l’Italia: siamo in media al 120 per cento. “Non più di tre giorni fa ero a Ginevra davanti al Comitato delle Nazioni unite contro la tortura dove il problema è stato affrontato. Abbiamo ricordato alla commissione che in seguito alla sentenza Torreggiani, il governo Renzi prima e quello Gentiloni poi, si sono mossi con impegno. Oggi ci sono 45mila persone sottoposte a misure alternative al carcere, ma prima che arrivassimo noi erano 26mila. L’area del controllo penale è stata estesa e il meccanismo sanzionatorio funziona meglio. In secondo luogo, abbiamo fatto presente che per quanto riguarda i metri quadri disponibili per ciascun detenuto, abbiamo gli standard più elevati d’Europa. Nel resto dei Paesi europei, i posti disponibili si calcolano con la formula dei 4 metri quadri pro capite. Se si parla di sovraffollamento, è solo perché vogliamo mantenere parametri di agibilità superiori”. Medie e standard a parte, il problema tuttavia esiste. E si presenta talvolta in realtà sovraffollate come Poggioreale, dove giorni fa un detenuto ha denunciato di essere stato picchiato dalle guardie, dopo aver protestato per l’aggiunta di un piano sui letti a castello che già ospitavano 5 persone. “Non abbiamo finora lesinato il nostro impegno, conosciamo le realtà più problematiche e cerchiamo ogni giorno di ovviare alle difficoltà che emergono. Abbiamo avviato la ristrutturazione di numerosi padiglioni, ad esempio. Prima del nostro governo cerano 45mila posti per 67mila detenuti, oggi siamo a 51mila posti per 57mila persone. Nonostante un’eredità pesantissima, abbiamo fatto molti progressi”. In carcere proseguono i suicidi, l’assistenza sanitaria resta deficitaria, i posti disponibili limitati. La riforma riuscirà a cambiare le cose? “Gli interventi previsti dalla riforma saranno molto utili perché permettono di costruire percorsi alternativi al carcere. Stiamo inoltre rafforzando i protocolli relativi alle Rems a tutela dei malati psichiatrici e avviato una forte azione di monitoraggio sul rischio suicidi, lanciata dalla direttiva del ministro Orlando. Anche una sola vita perduta è una sconfitta per lo Stato. Nelle carceri si gioca una cruciale sfida di civiltà”. Nessuno tocchi Caino: “41bis regime inumano, va abolito” Il Fatto Quotidiano, 19 novembre 2017 Nessuno tocchi Caino, la lega internazionale per l’abolizione della pena di morte, si schiera contro l’applicazione del carcere duro. “Il coro di voci che inneggiano alla morte di Riina, avvenuta in regime di 41bis, non sovrastano l’autorevolezza degli organismi internazionali, dal Comitato Onu per i diritti umani al Comitato europeo per la prevenzione della tortura, che continuano a chiedere all’Italia modifiche normative affinché il legittimo interesse sociale a combattere la criminalità organizzata sia bilanciato con il rispetto dei diritti umani, con l’umanità di un trattamento che preveda il contatto umano anche per chi finisce in questo regime” si legge in una nota. “Uno Stato che resta sordo, cieco e muto rispetto a quelli che sono i suoi stessi impegni nei confronti della Comunità internazionale e agli appelli degli organismi internazionali - argomenta l’associazione umanitaria - rischia di perdere la forza necessaria a contrastare il fenomeno della criminalità organizzata, perché le emergenze si affrontano con un’estensione dello Stato di diritto e non con la sua abdicazione, come diceva Leonardo Sciascia”. Il ministro Orlando: “il regime 41bis è fondamentale” La Stampa, 19 novembre 2017 Il carcere duro “resta uno strumento fondamentale per impedire che ci sia una forma di collegamento tra i boss e la criminalità esterna”. Dopo la morte di Totò Riina, rimasto fino all’ultimo al 41 bis, lo ribadisce il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che torna a fugare i dubbi di chi teme uno smantellamento di questo regime carcerario per effetto delle nuove norme dettate “Il regime 41 bis è fondamentale” con una recente circolare del dipartimento che amministra il sistema penitenziario. “Il carcere duro è stato disciplinato secondo le indicazioni del consiglio d’Europa che ci chiedeva un’omogeneizzazione del 41 bis per tutti gli istituti”, spiega il Guardasigilli. Intanto il Sindacato di polizia penitenziaria lancia l’allarme: “La successione di Riina scatenerà una guerra anche nelle carceri”; per questo va intensificata la vigilanza “nei 13 istituti penitenziari dove sono in cella 740 detenuti per reati di criminalità organizzata e terrorismo in regime di carcere duro”. Quei figli di Riina ostaggi del sangue di Dacia Maraini Corriere della Sera, 19 novembre 2017 Peppino Impastato si dichiarò fedele solo alla propria coscienza. Poi c’è l’atteggiamento di chi sceglie di venerare il padre anche se ha torturato e ucciso. Difficile essere figli di un criminale. Soprattutto di un criminale che, come per gli abitanti del mondo sotterraneo e capovolto raccontato da Lewis Carroll, tagliare la testa diventa un vanto e infilzare i nemici con lo spiedo una bravura da eroe. Nel mondo della mafia Totò Riina era un prode e i suoi figli ne sono fieri. Nessuno spiega loro che si tratta di un mondo capovolto e fatto di orrendi trucchi della coscienza. Di fronte a un padre che fa uccidere e uccide, non una ma cento volte, ci sono due modi di reagire: quella di Peppino Impastato che, con coraggio splendido, rinnega la legge del sangue e dichiara prima di tutto di essere fedele alla sua coscienza. Prima di essere figlio sapeva di essere un uomo libero che aveva il potere e il dovere di giudicare chiunque si comportasse con arbitrio e crudeltà, anche se questi erano suo padre e i suoi fratelli carnali. Poteva provare pietà per loro, forse anche conservare un piccolo angolo d’amore in fondo al cuore per un padre che lo aveva generato, ma non poteva impedirsi di giudicarlo e di condannarlo. Sappiamo purtroppo come è andato a finire il temerario Peppino che rimarrà nella memoria dell’isola come un modello di generoso e ammirevole coraggio. L’altro atteggiamento è quello di chi crede che la legge del sangue sia più importante della legge della coscienza: un padre è prima di tutto un padre, sangue del tuo sangue, e quindi va amato anche se tortura e uccide. Non è neanche paura di quel mondo capovolto in cui i potenti tagliano le teste dei dissidenti e le danno da mangiare ai cani, è semplicemente l’accettazione di un legame che prescinde da ogni legalità, da ogni etica, da ogni sensibilità di giustizia. “Mio padre è un lavoratore ingiustamente accusato”, scrive una delle figlie di Riina e “parlano contro di lui solo calunniatori malvagi e senza scrupoli”. Mondo capovolto che offende chi crede che la realtà debba stare ritta con la testa per aria, non sottoterra, mentre le gambe si agitano al vento, senza né vedere né capire. Negare la ragione, il giudizio, la legge è tipico di chi crede che il sangue valga più del pensiero, più del sentimento, più della ragione, più della umana pietà verso le vittime ingiustamente sacrificate all’esercizio del potere. Così si trovano davanti due Sicilie opposte e differenti: una arcaica e feroce che crede solo nella sopraffazione e nella superiorità del più forte. Chi non sa usare il delitto come arma di prevaricazione, è un servo e deve solo ubbidire. Chi tiene in mano il coltello e sa conficcarlo nel corpo del nemico, pensa di potere sottomettere e umiliare chi si muove disarmato. Il dominio comporta il disprezzo del dominato. Per assoggettare i cittadini, colpevoli solo di condurre una vita fuori dalle regole della mafia, i mafiosi di solito avvicinano il malcapitato e lo convincono con le minacce e il ricatto. Con i politici si comportano più prudentemente: cercano di corromperli promettendo protezione e voti, ma non dimenticano mai che si tratta di un nemico da distruggere anche se si tratta di un povero “sbirro”, o di un povero prete da mortificare e sottomettere. Il ricatto, l’estorsione, le minacce, l’omicidio, tutto è lecito per ottenere quel potere osceno che si basa sull’appropriazione dei beni comuni, sul piacere del comando, sull’accumulo di ricchezze depredate. Per fortuna la Sicilia che crede nell’onestà, nella democrazia, nella giustizia è più numerosa - soprattutto da quando la legge dell’omertà è stata fortemente messa in discussione da una nuova presa di coscienza collettiva - di quella che crede nel mondo capovolto in cui il sangue versato porta onore e reverenza, in cui la prepotenza fa chinare le teste e suscita ammirazione e solidarietà. Il mondo è pieno di siciliani di grande valore che si sono allontanati dai regni perversi dei Riina di turno. Basterebbe che la nascente consapevolezza si estendesse e diventasse pensiero comune per trovare la forza di rompere quegli antichi e radicati legami che hanno tenuto in ostaggio per troppi anni una delle più belle isole del mondo, difendendola così dai predoni, anche se questi sono padri o fratelli o madri e sorelle. Il boss, l’anatema e i nuovi delfini di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 19 novembre 2017 Uno degli ultimi desideri espressi da Totò Riina è stato recepito dai mafiosi come un ordine, ancora vigente: l’omicidio del pubblico ministero Nino Di Matteo. Per i magistrati che hanno indagato a fondo sui propositi di attentato nei suoi confronti, “il progetto di uccidere il dr. Di Matteo è certamente operativo per gli uomini di Cosa nostra”. Ne ha parlato, tre anni fa, il pentito Vincenzo Galatolo, e gli inquirenti di Caltanissetta (competenti per i procedimenti che coinvolgono i loro colleghi palermitani) hanno espresso su quelle dichiarazioni “un giudizio di sostanziale attendibilità”. In particolare, affermano, “deve ritenersi provata l’esistenza di un progetto criminoso teso all’eliminazione del dr. Di Matteo, magistrato da sempre impegnato sul fronte antimafia, da ultimo protagonista delle indagini sulla cosiddetta trattativa fra Stato e mafia ai tempi delle vicende stragiste dei primi anni Novanta”. Minacce dal carcere - È scritto nella richiesta di archiviazione dell’inchiesta per tentato omicidio a carico di otto mafiosi (tra cui lo stesso Galatolo e il latitante Matteo Messina Denaro) accolta dal giudice qualche mese fa. Il processo non ci sarà perché il progetto non ha “oggettivamente superato la soglia della fase preparatoria”; la ricostruzione del pentito risulta “in alcuni punti lacunosa”, e contiene delle “contraddizioni non facilmente superabili alla luce delle sue conoscenze”. L’esplosivo che avrebbe dovuto essere utilizzato non è stato trovato, né ci sono prove del suo acquisto. Dunque il fascicolo va in archivio, ma nel dare conto degli accertamenti svolti il pool di Caltanissetta al completo - il procuratore Amedeo Bertone, gli aggiunti Lia Sava e Gabriele Paci, il sostituto Sergio Luciani - ribadisce il peso del ruolo ricoperto da Totò Riina finché è rimasto in vita. E fornisce spunti utili a capire come Cosa nostra è stata governata negli ultimi anni, e come potrà riorganizzarsi dopo la morte del capo corleonese. Sulle minacce a Di Matteo, che oggi è in servizio alla Procura nazionale antimafia e si appresta a pronunciare la requisitoria finale nel processo palermitano sulla trattativa, i pm ricordano le rivelazioni di altri pentiti che fanno risalire l’intenzione di ucciderlo al 2007. Infine ricordano, “non ultime per importanza”, le intercettazioni in carcere in cui “Riina Salvatore, commentando le udienze del processo trattativa, manifestava a più riprese l’astio nutrito nei confronti del dr. Di Matteo, in un crescendo che sfociava nella manifesta intenzione di ucciderlo facendogli fare “la fine del giudice Falcone”. Nuove regole - È stato proprio Galatolo a spiegare che quando le registrazioni divennero di pubblico dominio, “la nostra opinione fu che il Riina, il quale non poteva ignorare di essere intercettato, avesse utilizzato quella modalità per mandare messaggi all’esterno”. Nel suo racconto la “sollecitazione” era venuta, a dicembre 2012, da Matteo Messina Denaro, che tramite il messaggero fidato Girolamo Biondino (fratello di Salvatore, arrestato con Riina nel 1993) aveva chiesto di uccidere Di Matteo perché con le sue indagini “stava andando oltre”. In una lettera il latitante avrebbe “giustificato la sua assenza poiché non era in Sicilia”, e questo è un dettaglio non secondario: per un capomafia è difficile mantenere il comando lontano dall’isola, e se la situazione fosse ancora questa per gli investigatori è pressoché impensabile che ora possa prendere il posto di Riina. Come pure il fratello di suo cognato, Giuseppe Guttadauro, già boss del quartiere Brancaccio che dopo la scarcerazione per fine pena vive stabilmente a Roma. Nello stesso messaggio, il latitante suggeriva nuove regole per il funzionamento di Cosa nostra: “Le famiglie dovevano ristrutturare i mandamenti, e in particolare i nuovi capi mandamento potevano decidere autonomamente su fatti anche omicidiari, anche se il titolare era vivo ma detenuto”. “Cupola ristretta” - Sulla lettera di Messina Denaro i pm conservano qualche dubbio, mentre è stata riscontrata la riunione svoltasi nel centro di Palermo: “Una sorta di “cupola” ristretta - scrivono i pm - composta dai capi mandamenti di Resuttana, San Lorenzo e Porta Nuova”. Secondo il pentito “la Cosa nostra palermitana” (rappresentata in quell’occasione da lui, Biondino e altri due) era contraria all’attentato per via delle “inevitabili conseguenze della reazione dello Stato”; tuttavia pensarono ci fosse la “copertura” di Riina, poi confermata dalle conversazioni intercettate in prigione. Con la morte del padrino anche questa situazione è mutata, forse aprendo la strada del comando al nipote Giovanni Grizzaffi, tornato a Corleone dopo oltre vent’anni di galera. Ma sono solo ipotesi. Inquirenti e investigatori non hanno certezze sulla successione al vertice di Cosa nostra, mentre l’ordine di colpire Di Matteo “resta operativo”. Legnini (Csm): “Procure specializzate per tutelare il risparmio” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 19 novembre 2017 Mentre infiamma la polemica sulla mancata tutela dei risparmiatori nelle crisi bancarie, Giovanni Legnini, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, propone di concentrare le competenze nelle Procure distrettuali, con magistrati dedicati e pool di investigatori specializzati secondo il modello delle Direzioni Antimafia introdotte da Falcone all’inizio degli Anni 90. Il ragionamento di Legnini parte dalla recente approvazione da parte del Csm, dopo due anni di lavoro e un centinaio di audizioni, della circolare Procure sul rapporto tra capi e sostituti. “C’erano due punti di vista apparentemente inconciliabili - spiega -. Da un lato il principio gerarchico introdotto con la riforma dell’ordinamento giudiziario, dall’altro la difesa dell’autonomia di ciascun pm. L’equilibrio cristallizzato nella circolare li salvaguarda entrambi”. Qual è l’equilibrio? “Il procuratore ha la responsabilità di organizzare e guidare l’ufficio, l’autonomia dei sostituti è tutelata con molteplici strumenti di dialogo e partecipazione alle scelte. E in caso di contrasto decide il procuratore con provvedimento motivato nel rispetto delle regole fissate nella circolare”. Che cosa cambia per i cittadini? “Gli uffici giudiziari devono essere ben organizzati e garantire efficienza e trasparenza sulla base di regole chiare, contenute nella circolare e in ciascuno dei progetti organizzativi. Anche così i cittadini saranno maggiormente garantiti”. Alcuni pm hanno sollevato il rischio di autoritarismo. “Lo escludo categoricamente”. Qual è il ruolo del Csm? “Valuta i progetti organizzativi dei procuratori, esprime pareri e formula rilievi, interviene anche in via preventiva su eventuali contrasti”. Pareri vincolanti? “Il Csm in questa materia non può e non deve dare ordini. Ma non si pensi che pareri e rilievi saranno ininfluenti”. Finiranno gli scontri tra pm d’assalto e procuratori? “Regole definite e responsabilità chiare servono a evitare un esercizio distorto delle funzioni inquirenti, a prevenire i conflitti o a risolverli con le procedure previste nella circolare. Il fine ultimo è amministrare giustizia nell’interesse dei cittadini, non esercitare un potere autoreferenziale”. L’autoreferenzialità esiste? “Le Procure devono recuperare autorevolezza, i cittadini non devono avere l’impressione che il pm persegua finalità improprie o interpreti la sua funzione al di fuori delle regole anche organizzative”. L’impressione è giustificata? “Talvolta sì. Penso al rapporto con la polizia giudiziaria. La delega per specifici atti di indagine è necessaria ma la polizia giudiziaria non può e non deve sostituirsi al pm sulle scelte e sugli esiti delle attività investigative”. Capita spesso? “Anche recentemente si sono verificate patologie, evidenti anche agli occhi dei cittadini”. Pensa al caso Consip? “Non parlo di casi specifici tanto più se oggetto di indagini penali. Ma deve essere chiaro che si tratta di un tema di importanza straordinaria, che incide sui principi fondamentali del ruolo del magistrato nello stato di diritto. Un pm che delega l’esercizio delle sue prerogative alla polizia giudiziaria è un magistrato che non rispetta il principio costituzionale di indipendenza”. Che risposte spettano alla magistratura nelle crisi bancarie? “A fronte dei problemi che si sono manifestati, accertare le responsabilità individuali è doveroso come lo è garantire gli indennizzi”. E per il futuro? “Occorre ripristinare un elevato grado di fiducia dei cittadini e ciò si potrà verificare soprattutto con un quadro di regole più chiare ed efficaci. La tutela del risparmio è inderogabile e su tale obiettivo, come su altri fondamentali principi, serve il massimo della coesione istituzionale”. Nelle audizioni alla commissione parlamentare, alcuni procuratori come Greco e Pignatone hanno reclamato l’esigenza di investigatori specializzati, assenti nelle Procure più piccole. “Condivido pienamente quella posizione. In questa come per gran parte dei reati riconducibili alla categoria della criminalità economica e finanziaria, sarebbe ragionevole concentrare le competenze nelle Procure distrettuali, sul modello delle attività di contrasto alla criminalità organizzata”. In pochi mesi si voterà per Parlamento e Csm, mentre deciderete nomine giudiziarie importanti. La sovrapposizione può creare problemi? “I rischi ci sono, lo scontro elettorale è destinato ad accentuarsi sia dentro che fuori dalla magistratura. Abbiamo il dovere di preservare il ruolo di garanzia del Csm e di non indebolirne la funzione”. Teme veleni e strumentalizzazioni in campagna elettorale? “Aspiro a vivere in un Paese in cui le iniziative giudiziarie si svolgano in modo corretto anche sotto elezioni, senza corto circuiti e interferenze”. Vale anche per i magistrati che entrano in politica? “Il Csm ha approvato e presentato una proposta molto chiara: chi assume incarichi politici elettivi o di governo, alla fine del mandato non può tornare a fare il magistrato ma deve essere destinato ad altre funzioni. Si tratta comunque di materia di discussione e decisione parlamentare”. In assenza di una legge, un magistrato che si candida al Parlamento dovrebbe lasciare la toga per motivi etici? “In assenza di una regola, non me la sentirei di chiedere a un magistrato di rinunciare, dimettendosi, al proprio lavoro o di rinunciare al diritto di candidarsi. La soluzione deve essere normativa, non affidata alla volontà dei singoli”. Il problema è rimandato alla prossima legislatura? “Non è detto. Dipende dal Parlamento. Auspico che in questo scorcio finale di legislatura si possa approvare una legge che contemperi i due diritti. Non è tardi per farlo”. Il Tribunale dei diritti si è pronunciato contro l’Italia anche per Contrada di Pierfrancesco De Robertis La Nazione, 19 novembre 2017 Contrariamente a quanto si possa pensare, la Corte Europea dei diritti dell’uomo non ha nulla a vedere con l’Unione Europea. La sua sede è a Strasburgo come il Parlamento europeo, ma solo per un caso. La Corte europea è infatti un organismo che dipende dal Consiglio d’Europa, organismo formato da 47 stati e fondato nel 1949. Una sorta di antesignano dell’Ue, ma con minori vincoli. Il presidente della Corte è dal novembre 2015 un italiano, Guido Raimondi, magistrato napoletano di 63 anni che è entrato nell’organismo di Strasburgo come rappresentante italiano (ognuno dei 47 paesi esprime un giudice) succedendo nel 2010 a Vladimiro Zagrebelsky. La corte è formata da 47 giudici eletti dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (che non è il Parlamento europeo) con mandato di nove anni, non rinnovabile. La Corte non funziona come un quarto grado di giudizio rispetto ai casi che esamina, e che hanno svolto tutto l’iter all’interno dei singoli stati. Si pronuncia infatti solo sul rispetto della Convenzione europea dei diritti fondamentali dell’uomo (firmata nel 1950) come diritto alla vita, proibizione della tortura, diritto alla libertà e alla sicurezza, a un equo processo, al rispetto della sfera privata, la libertà d’opinione o il divieto della discriminazione. Le pronunce della Corte sono vincolanti per i singoli stati, che non solo devono recepire la decisione ed eventualmente “riparare il danno” (anche in termini di risarcimento economico), ma sono tenuti a riformulare la propria legislazione tenendo conto di quelle indicazioni. L’Italia è incappata diverse volte nel maglio della Corte, molto spesso uscendone scornata. L’ultimo caso famoso è quello di Bruno Contrada, a favore del quale Strasburgo si è pronunciata due volte, nel 2014 e nel 2015. Sempre di recente, incisive sono state le pronunce sui diritti dei gay (caso Oliari, del 2015), sulla fecondazione assistita (caso Costa e Pavan del 2012) e sulla trasmissibilità del cognome paterno (caso Cusan e Fazzo del 2014). In tutte queste vicende la Corte ha ribaltato le decisioni del parlamento o del governo italiano. Ancona: Cna nelle carceri, a Montacuto 20 detenuti con attestato da elettricista di Alessandra Napolitano centropagina.it, 19 novembre 2017 Da sette anni la Confederazione dell’Artigianato porta avanti un percorso negli istituti al fine di favorire una concreta possibilità di reinserimento sociale a fine pena. Ben 20 detenuti nel carcere di Montacuto hanno frequentato il corso da elettricista e ottenuto l’attestato di partecipazione professionalizzante che potrà essere utilizzato per i crediti formativi una volta scontata la pena. Si è appena concluso l’ultimo corso di formazione professionale organizzato dalla Cna, finanziato nell’ambito di Ancona ATS11 che ha approvato per l’anno 2017 il piano di interventi in materia penitenziaria, nella convinzione che la formazione professionale e il lavoro rappresentino i pilastri del trattamento educativo all’interno delle strutture carcerarie. I corsi si sono svolti negli anni sia nella struttura di Montecuto, sia in quella di Barcaglione. “La possibilità di recupero sociale dei carcerati passa prioritariamente dal lavoro. Riuscire ad insegnare un mestiere richiesto dal mercato, come la professione artigiana di elettricista, può essere la soluzione per molte di queste persone che si sono trovate in difficoltà, hanno pagato per i loro errori e cercano un riscatto. Un’esperienza toccante, molto ricca anche sotto il profilo umano e relazionale” commenta Loredana Giacomini, presidente Cna Ancona. Aosta: il carcere di Brissogne è vecchio, 500mila euro solo per riuscire a scaldarlo La Stampa, 19 novembre 2017 Un “carcere parcheggio” utilizzato come destinazione dei detenuti in caso di sovraffollamento delle carceri di Torino, Milano, Genova, che per questo non hanno interesse a costruire un percorso di riabilitazione. Una struttura vecchia, non adatta a progetti di reinserimento, che manda in fumo ogni anno “500 mila euro soltanto di riscaldamento” sostiene Roberto Simonetti, deputato della Lega Nord. Il parlamentare ha visitato ieri il carcere di Brissogne, accompagnato dai consiglieri comunali di Aosta del Carroccio Nicoletta Spelgatti e Andrea Manfrin. “La nostra attenzione è tutta per gli interessi della polizia penitenziaria, che qui si trova in una situazione di particolare difficoltà per l’assenza di un direttore e di un comandante degli agenti - dice Simonetti. Siamo in presenza di una situazione di convivenza difficile tra chi si deve occupare di sicurezza e detenuti che cambiano spesso, ad Aosta per scontare gli ultimi mesi della pena in un clima difficile, in una realtà complicata”. Il deputato biellese chiede che “la politica locale, che qui può incidere più che altrove perché il prefetto è eletto dal popolo e non nominato, abbia la forza per chiedere più dignità per questo carcere, che possa diventare luogo di riabilitazione”. La Lega denuncia “una popolazione carceraria formata dal 70 per cento di extracomunitari”, un dato che “di certo non facilita il compito di chi deve garantire la convivenza pacifica”. Simonetti aggiunge: “Solo oggi sono arrivati altri trenta detenuti da carceri vicine. La rotazione è velocissima, con detenuti che fanno casino apposta per essere spostati in realtà che ritengono più adatte alle loro esigenze”. Un passaggio importante potrebbe essere l’assunzione di nuovi agenti di polizia penitenziaria. Manfrin denuncia: “Ci sono 50 agenti in attesa di sostenere l’esame di francese. La macchina amministrativa si è dimenticata di loro”. Avellino: scuola e carceri, “Le ali della libertà” conquista il premio Eip Italia ottopagine.it, 19 novembre 2017 Primo premio del 45esimo concorso nazionale Eip Italia all’istituto Francesco De Sanctis e al carcere di Sant’Angelo dei Lombardi. L’arcivescovo Pasquale Cascio: “Si tratta di un progetto che è una vera comunione umana. Il libro è lo specchio di un grande sforzo di apertura, di accoglienza e di ricerca dell’altro” Sul podio del 45esimo concorso nazionale Eip Italia (Ecole Instrument de Paix) - che vede il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, della Camera dei Deputati; del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca; del Ministero Affari Esteri, del Ministero dei Beni e Attività culturali e Turismo; Maison Internationale Poesie - Enfance Bruxelles; delle Direzioni scolastiche regionali Miur, della Regione Campania e della Regione Lazio - salgono l’istituto superiore scolastico Francesco De Sanctis di Sant’Angelo dei Lombardi e la Casa circondariale del comune altirpino. Premiata e applaudita nella sala delle conferenze della Biblioteca romana l’iniziativa editoriale ideata, coordinata e diretta dalla giornalista Teresa Lombardo (da anni impegnata nelle attività di volontariato specie nelle carceri della Campania) nata all’interno del progetto di scrittura creativa “Il mestiere di scrivere”. Il tutto si è potuto concretizzare grazie alla lungimiranza dell’allora dirigente scolastico prof. Giovanni Ferrante - da qualche mese in pensione - che ha creduto e crede fortemente nel bisogno di cultura della legalità. “Si tratta di vera comunione umana, in cui tutti sono protagonisti: studenti, detenuti, operatori scolastici, educatori della Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, la Chiesa diocesana che offre all’interno della Casa un servizio attraverso il volontariato Caritas. Il libro è lo specchio di un grande sforzo di apertura, di accoglienza e di ricerca dell’altro. Tutti siamo coinvolti - scrive l’arcivescovo della diocesi di Sant’Angelo dei Lombardi-Conza-Nusco-Bisaccia, mons. Pasquale Cascio - in questo sforzo, che parte dal cuore e dalla mente di ogni persona e raggiunge le istituzioni e le strutture. Se la chiave che apre la porta della libertà è l’ultima del mazzo, quella che apre la mente e il cuore è unica, non sta nel mazzo, ma sta nella mano della nostra personale responsabilità. La Chiesa è coinvolta senza pretese di soluzioni, ma nella ricerca sincera dell’altro con i suoi bisogni e le sue speranze. Si parte quindi dalla comunione dei bisogni e delle speranze, condividendo i dolori e i fallimenti, per partecipare alla coralità delle espressioni dei sentimenti e dei pensieri profondi. Gli studenti hanno cercato di dare luce al mondo della privazione della libertà, illuminandolo con la bellezza dei sentimenti drammatici della creaturale fragilità. 54 detenuti hanno sprigionato luce dall’interno di loro stessi, vincendo il buio della privazione della libertà. La rassegna stampa vuole dare le ali della grande letteratura a questi “uccellini giovani o feriti” che riprendono a volare. Questi pensieri di uomini liberi danno vita e speranza anche alla nostra Chiesa, ci sentiamo tutti rappresentati; con spirito di fedeltà all’uomo desideriamo che essi giungano a Papa Francesco: egli si china di fronte ad ogni uomo, per aiutare tutti a volare più in alto nella libertà dello Spirito, soffio di ogni poesia e di ogni pensiero che si lascia catturare dalle parole”. Le attività svolte nell’ambito del progetto “Il mestiere di scrivere” - sottolinea - Giovanni Ferrante - hanno prodotto, come risultato finale, una raccolta di testi poetici e narrativi scritti sia dagli allievi del De Sanctis che dagli allievi ospiti della Casa di reclusione. Si è trattato di un’esperienza particolarmente utile e stimolante per gli alunni, che hanno potuto dare sfogo alla propria creatività con risultati talvolta pregevoli ma sempre comunque emozionanti, per la sensibilità e l’afflato umano trasfuso nei testi. È nata così l’idea di realizzare una pubblicazione, che rimanesse nel tempo come testimonianza di un’attività di alto valore educativo e formativo, in quanto ha messo a stretto contatto il mondo della scuola e quello del carcere, additando l’attività creativa come strumento privilegiato di espressione del proprio mondo interiore e, per i carcerati, anche di rieducazione e di riscatto. Non a caso è stato scelto il titolo “Le ali della libertà”, volendo significare che le sbarre possono creare limitazioni al corpo, ma non possono imbrigliare lo spirito né comprimere quel fondo di umanità che sopravvive anche in chi ha commesso il più efferato dei delitti”. Alla luce di queste considerazioni ritengo doveroso esprimere la mia soddisfazione e quella dell’intera istituzione che ho avuto l’onere e il piacere di guidare negli ultimi cinque anni per il prestigioso traguardo raggiunto: un riconoscimento per la scuola e per il territorio che è diventato partecipe di un progetto lungimirante. Un ringraziamento va alla prof.ssa Anna Paola Tantucci animatrice culturale e operatrice di pace che ha individuato nella scuola il luogo privilegiato per la diffusione della cultura della legalità e della pace. Ringrazio la qualificata giuria nazionale per aver voluto, tra i tanti progetti dare risalto alla nostra iniziativa assegnando il primo premio nazionale. Un sentito ringraziamento va soprattutto alla instancabile giornalista Teresa Lombardo per le sue spiccate doti umane e professionali”. “Si tratta di un progetto - sottolinea la giornalista Teresa Lombardo - che è diventato scrigno di messaggi profondi ed educativi dove studentesse e detenuti usano lo stesso linguaggio: Legalità è Libertà”. “Il liceo classico Francesco De Sanctis - continua la giornalista Lombardo - fiore all’occhiello dell’Irpinia è ancora di più la conferma del riscatto in una terra che fu martoriata dalla violenza della natura che distrusse tutto, strappando alla vita migliaia di persone. Quelle stesse, i figli di quella terra che non si arresero e che dalle macerie cominciarono a costruire e ricostruire: e oggi da quelle macerie vi è anche l’orgoglio dell’Istituto che lavora per la formazione e l’educazione alla legalità. Un istituto che ha creduto nel valore educativo del progetto innovativo: integrazione scuola e carceri. Un modo per sapere di più sulla realtà carceraria e per evitare di commettere errori perché il carcere è carcere. Un lavoro certosino dove è lampante la voglia di libertà dei detenuti e il senso di legalità necessario per evitare devianze: perché le sbarre sono sbarre; un lavoro dove emerge chiaramente la voglia di riscatto di chi è dentro ma anche il messaggio di chi è fuori. Lo stesso messaggio delle studentesse che è chiaro: la libertà ha ali che non vanno tarpate. Righe di inchiostro dove emerge anche la voglia di stringersi la mano per camminare sul percorso della legalità, degli affetti, dell’amore, delle passioni, della gioia di vita, della quotidianità che non può e non deve essere imprigionata. Il messaggio è: informare, educare, formare per non finire dentro; dentro quelle sbarre dove manca l’aria, dove non sorge il sole, dove mancano gli affetti, dove manca la Vita”. “Ringrazio - dichiara Teresa Lombardo - l’arcivescovo Pasquale Cascio per il suo lungimirante, educativo, profondo messaggio all’insegna della valorizzazione della dignità dell’uomo e per il suo intenso ruolo pastorale, Giovanni Ferrante, le docenti Gabriella Cipriano e Lucia Mattera, le studentesse Giusi Perrotti, Silvia Villani, Silvia Sorrentino, Tania Ranaudo, Sabrina Celano, Antonietta Lucia Loschi, Maria Saggese, Pia Rossella Santoli, Federica Maria Pia Pelosi, Elisa Mazzeo: una bella e affiatata squadra dove è lampante la preparazione, la passione, l’amore per la cultura e la voglia di poter contribuire a costruire un futuro più giusto, più pacifico e più legale. Ringrazio il direttore della casa circondariale di Sant’Angelo dei Lombardi Massimiliano Forgione e i detenuti che hanno contribuito a realizzare “Le ali della libertà”. Saluzzo (Cn): “Scrivere altrove”, storie di guerre e speranze raccontate dai detenuti La Stampa, 19 novembre 2017 Storie di guerre, carestie, prigionie, viaggi disperati, forse errori giudiziari, che rischiavano di restare sconosciute. Quelle di Alfateh e Ibrahim, detenuti sudanesi, coimputati e compagni di cella al carcere “Rodolfo Morandi”. Sono valse loro il primo premio della sezione “Libertà di parole” di “Scrivere altrove”, concorso nazionale sui temi delle migrazioni, convivenza comunitaria e cittadinanza promosso da “Mai tardi - Associazione amici di Nuto” e dalla Fondazione Nuto Revelli. Testi ancora più di valore, perché sinonimo di comunità: arrivati al “Morandi”, Alfateh e Ibrahim non parlavano italiano ; sono stati i “compagni” ad aiutarli. Un percorso seguito dalla docente Rossella Scotta, iniziato con la lettura de “La frontiera” di Alessandro Leogrande e l’incontro con l’autore durante “Adotta uno scrittore 2017”. Altri riconoscimenti Alcuni detenuti della sezione del liceo artistico “Soleri-Bertoni” hanno partecipato con manufatti in creta e dipinti, coordinati dalla docente Miriam Fabris. Tre “bronzi” ex aequo a Michele, Salvatore e Francesco per “L’altra Italia”: un vaso in creta per “Contenere la tempesta”, “L’albero della paura” dal quale osservare il volto imbronciato della speranza, la “Catarsi” che ogni emigrato (e detenuto) vive. Per Ibrahim premio in “Libertà di parole”, per immigrati reclusi. La cerimonia si è svolta nell’aula artistica del “Morandi”, rinnovata grazie alla Fondazione Crs, con l’acquisto di pc e un forno per la creta. “Lavorare su espressione e cultura è importante”, ha detto Fabris. “Nuto era attento agli ultimi”, ha aggiunto Luigi Schiffer, Fondazione Revelli. “Così fate sentire la vostra voce”, ha detto Alessandra Tugnoli, preside del liceo. “Ogni investimento nella scuola è sicuro - ha spiegato Gianni Rabbia, presidente Fondazione Crs. “Non è mai tardi - ha detto Bruna Chiotti, garante dei detenuti - per imparare”. Rovigo: “Liberi dentro”, uno sguardo sul carcere rovigoindiretta.it, 19 novembre 2017 Serata di dibattito e visione del docu-film prodotto da “Nessuno tocchi Caino”. Venerdì 24 novembre alle 21 presso la Scuola Primaria di Via Marconi, iniziativa promossa dal movimento culturale Libera Mente in collaborazione con l’Unità Pastorale di San Martino di Venezze guidata da don Giuliano Zattarin. Nell’occasione si terrà la proiezione del docu-film “Spes Contra Spem-Liberi dentro” di Ambrogio Crespi presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel 2016. Sarà l’occasione per colloquiare sul tema della condizione carceraria ed in particolare sul tema “I detenuti possono cambiare?”, assieme agli autori Sergio d’Elia ed Elisabetta Zamparutti di Nessuno Tocchi Caino; Marco Casellato, responsabile dell’Osservatorio carcere della Camera Penale di Rovigo; Giulia Bellinello, Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Rovigo; Livio Ferrari, direttore del Centro Francescano di Ascolto di Rovigo. Un docu-film lontano dalla gerarchia delle “cose urgenti”, lontano dalla vita quotidiana di ogni persona. Criminali, mafiosi, autori di numerosi omicidi ci accompagnano in un viaggio inimmaginabile, dentro ad anime oscure, nel buio profondo attraverso squarci di luce che come dei lampi accecano chi li guarda. L’associazione “Nessuno tocchi Caino” in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e con la Casa di Reclusione di Opera, ha prodotto questo cortometraggio, un manifesto contro la criminalità, scritto da criminali che sgretolano il mito del criminale stesso. Uomini con un ergastolo ostativo, un “fine pena mai” che oggi sono un manifesto delle istituzioni e che ringraziano senza dubbi chi li ha sottratti alle loro vite “libere” perdute. Viterbo: al Mammagialla “Lo sport entra nelle carceri” e già si chiede la replica olimpopress.it, 19 novembre 2017 Premiazioni, volti sorridenti, la promessa di replicare l’iniziativa negli anni a seguire facendo l’impossibile per evitare che “Lo sport entra nelle carceri”, iniziativa nata dalla sinergia fra il Coni Lazio e la Regione, non resti un “unicum”. A Viterbo, nella Casa circondariale “Mammagialla”, sono andate in scena le premiazioni del quadrangolare di calcio, delle gare di podismo e del torneo di scacchi disputati nelle scorse settimane. Presenti i detenuti delle sezioni D1 e D2, i rappresentanti della sezione viterbese degli arbitri e dei facchini della Macchina di Santa Rosa, si è vissuto nel contempo un pomeriggio di aggregazione e di speranza, così da trasformare l’attività sportiva in un momento a sfondo sociale e solidale. Presenti il Garante dei detenuti della Regione Lazio Stefano Anastasia, la direttrice di “Mammagialla” Teresa Mascolo, il presidente della Provincia Pietro Nocchi, il delegato allo sport del Comune di Viterbo Livio Treta e il presidente del Coni Lazio Riccardo Viola, sono state assegnate coppe e medaglie agli atleti-detenuti che hanno partecipato alle attività, con applausi per tutti ed elogi per chi ha vinto. “Ringraziamo il Coni Lazio per questa iniziativa, che speriamo di replicare anche negli anni a venire”, questo il pensiero della direttrice Mascolo, e in sintonia con le sue dichiarazioni ci sono state anche quelle del Garante Anastasia, mentre il presidente Viola ha sottolineato la voglia e il desiderio di “far praticare lo sport senza distinzione di età, sesso, razza, grandi e piccoli, uomini liberi o che vivano in una casa circondariale come questa”. Poi, rispondendo alla richiesta di poter replicare l’iniziativa, ha sottolineato la sua disponibilità e quella della sua squadra di lavoro a fare in modo che si possa rivivere l’anno prossimo, e nelle stagioni a seguire, quello che viene ormai considerato un progetto vincente. “Ringrazio - ha poi aggiunto - le persone che hanno lavorato a questo progetto, tutti, nessuno escluso, compreso Renzo Lucarini, che non è più delegato Coni in veste ufficiale, ma che si è prodigato per la riuscita della manifestazione”. All’atto conclusivo sono stati presenti gli allenatori Fidal Linda Misuraca e Umberto Battistin, il presidente dell’associazione italiana arbitri della sezione di Viterbo Luigi Gasbarri, il componente del Comitato regionale arbitri Ennio Mariani, il dirigente accompagnatore degli arbitri Pierluigi Amadeo, il maestro di scacchi Gianfranco Massetti, il presidente del sodalizio dei facchini di Santa Rosa Massimo Mecarini, il responsabile dell’area educativa del carcere viterbese Natalina Fanti. E ancora gli arbitri Andrea Rota e Andrea De Angelis. Assenti per altri impegni istituzionali il sindaco di Viterbo Leonardo Michelini, il presidente provinciale Fidal Sergio Burratti, il maestro di scacchi Massimiliano Marini e gli arbitri Giuseppe La Porta e Cakper Zielinsky. Nuoro: nuova vita in carcere, killer barese diventa pittore e poeta di Isabella Maselli Ansa, 19 novembre 2017 Sogna di aprire una bottega d’arte, dove esporre i suoi quadri e continuare a dipingere. Per il momento le sue tele sono in parte esposte nella cappella del carcere di Nuoro, in Sardegna, dove Davide Francesco Rizzo, pregiudicato barese di 36 anni, dal 2010 sta scontando una condanna per duplice omicidio. Assassino, poi latitante per amore e ora pittore e poeta. La sua è una storia di vero riscatto sociale, raccontata dalla moglie Rossana: “vedere i suoi quadri per me è una grande emozione. Quando uscirà dal carcere questa passione diventerà la nostra nuova vita. Sta pagando errori fatti quando era molto giovane ma dipingere gli ha dato la possibilità di guardare avanti e credere in un futuro migliore”. Suo figlio era appena nato quando, dopo quasi tre anni di latitanza, si costituì e trascorse alcuni mesi al regime del 41 bis, il carcere duro, finché i giudici baresi esclusero che fosse un mafioso, pur condannandolo a 17 anni per aver ucciso, nel febbraio 2004, due presunti affiliati al clan Strisciuglio di Bari, Matteo Cucumazzo e Antonio Colella, in quella che fu ribattezzata dalle cronache giudiziarie la strage di San Girolamo. Rizzo, di origini siciliane, si è trasferito in Puglia da bambino con la famiglia e a Bari si è diplomato all’istituto d’arte. Poi gli “errori”, come li definisce la moglie Rossana, che lo hanno portato in cella diverse volte, fino alla lunga detenzione per il duplice delitto. In carcere, prima a Biella, poi a Nuoro e adesso a Sassari, dove lavora allo smistamento pacchi, dedica il suo tempo libero a dipingere. Da Bari la moglie gli spedisce continuamente pennelli, tele e colori. I suoi quadri sono stati anche esposti e venduti in una mostra temporanea il cui ricavato è andato, per sua volontà, in beneficenza, destinato al reparto di neonatologia dell’ospedale di Nuoro, in Sardegna. “In carcere ha dipinto anche i muri della sala colloqui - racconta la moglie - per rendere meno freddo quell’ambiente dove i bambini incontrano i genitori detenuti”. Alla moglie, in questi lunghi anni di detenzione interrotti solo di tanto in tanto da permessi premio che può trascorrere ai domiciliari con la famiglia in una struttura ecclesiastica in Sardegna, ha dedicato anche un libro dal titolo “Semplicemente amore vero”, che le ha regalato due anni fa nel giorno di San Valentino. “Credo che Rizzo sia un bell’esempio di rivalsa e di svolta che passa attraverso il carcere e si manifesta con l’arte - dichiara il suo legale, l’avvocato Nicola Quaranta - Custodisco in studio un suo quadro, speditomi dal carcere qualche anno fa e che rappresenta un passaggio paradisiaco, forse quello che si aspetta di trovare quando avrà finito di pagare interamente il suo debito con la società”. “Fine pena: ora”. Il giudice e il mafioso detenuto si confrontano sul senso dell’ergastolo di Claudia Cannella Corriere della Sera, 19 novembre 2017 Torino, 1985. Si celebra un maxiprocesso alla mafia catanese che dura due anni. Tra gli imputati c’è Salvatore, uno dei capi a dispetto della giovane età, con alle spalle una scia di morti ammazzati e di azioni criminose. Viene condannato all’ergastolo. Presidente della Corte di Assise era Elvio Fassone. “In un momento di colloquio fuori udienza”, ricorda il magistrato, “mi disse: “se suo figlio nasceva dove sono nato io, a quest’ora forse era lui nella gabbia, e se io nascevo dove è nato suo figlio, forse a quest’ora ero un bravo avvocato”. In quella frase vidi fotografata la lotteria della vita, della quale lui aveva estratto un biglietto sbagliato; per questo, subito dopo la pronuncia della sentenza di condanna, gli scrissi una lettera, che non voleva essere consolatoria ma solo un invito alla dignità e alla speranza, anche nella sua condizione. Alla lettera allegai un libro della mia raccolta personale, perché vedesse che i libri sono davvero compagni della nostra esistenza”. Da quel gesto nasce una corrispondenza tra i due, destinata a durare ventisei anni, e un libro edito da Sellerio. Da quel libro, che non è un romanzo né un saggio, bensì una riflessione sul (non) senso dell’ergastolo in relazione al dettato costituzionale sul valore riabilitativo della pena e al percorso umano di qualsiasi condannato, ha preso vita “Fine pena: ora”, produzione del Piccolo Teatro, in cartellone al Grassi da martedì, con Sergio Leone e Paolo Pierobon protagonisti, diretti da Mauro Avogadro. A pochi giorni dalla morte di Totò Riina, una coincidenza che rende di attualità ancor più bruciante l’illuminato pensiero “neo pariniano” del giudice Fassone. A Paolo Giordano, autore di best seller come “La solitudine dei numeri primi”, il compito di trasformare quel libro in una pièce teatrale. “Una storia bellissima che fa pensare a Dostoevskij”, afferma lo scrittore. “Ho pensato di ripartire dalle lettere che, con un atto di fiducia, il giudice Fassone mi ha dato la possibilità di leggere. A teatro Salvatore e il suo giudice si parlano “fuori dal tempo”, o per meglio dire, come “dimentichi del tempo”. Si trovano entrambi nella stessa stanza, sullo stesso palcoscenico, eppure sono costantemente separati, il giudice nella propria casa e Salvatore dentro la sua cella, insieme e tuttavia da soli”. In quei ventisei anni le loro vite scorrono parallele: Salvatore affronta l’ergastolo tra la speranza di una riabilitazione e i tormenti del 41 bis, tra un percorso di emancipazione culturale (prende la licenza media inferiore e superiore) e un tentativo di suicidio; il giudice fa carriera come magistrato e come politico fino alla pensione, sempre interrogandosi sul senso della pena carceraria e del fine pena: mai. Perché, conclude, “Nessuno tocchi Caino, ma non dimentichiamoci di Abele. È necessario trovare una conciliazione fra i due poli del dolore. Giustizia non è aggiungere dolore a dolore, ma cercare di eliderlo: hai fatto del male, ora cerca di rimediare facendo del bene alla comunità”. Due gli incontri a corredo dello spettacolo al Chiostro Nina Vinchi (via Rovello 2, ore 17, ingr. libero): “Fine pena: ora. Dal Romanzo allo spettacolo” con Paolo Giordano, Mauro Avogadro e gli attori (22 novembre) e, moderato da Piero Colaprico, “Fine pena: ora” con Salvatore Scuto, Lucia Castellano e Don Gino Rigoldi (29 novembre). “Il legno storto della giustizia”. Un male corrode la democrazia, lo chiamano “lupaggine” di Liana Milella La Repubblica, 19 novembre 2017 Gherardo Colombo e Gustavo Zagrebelsky definiscono in questo modo la corruzione in “Il legno storto della giustizia”, un libro in forma di dialogo. “Eretici”. “Fuori linea”. “Sovversivi”. Da una parte il costituzionalista che preferisce essere chiamato solo “professore” sia che scriva di diritto, sia che fustighi duramente la politica, di destra e di sinistra, nelle sue dannose riforme. Dall’altra l’ex magistrato che ormai da dieci anni, dopo Mani pulite, percorre l’Italia spiegando ai ragazzi cos’è la Costituzione, convinto che da lì si debba partire per ristabilire la legalità. Gustavo Zagrebelsky e Gherardo Colombo insieme, in un botta-risposta disteso lungo un intero libro - Il legno storto della giustizia (Garzanti) - uniti da un comune punto di partenza, proprio quell’articolo della nostra Carta per cui tutti i cittadini “hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge”. Grande voglia di democrazia dunque, ma funestata da un super veleno, radicato, diffuso, una gramigna inestirpabile, la corruzione. Ve ne sono ormai tanti di libri che ne parlano, la descrivono, forniscono cifre, suggeriscono modelli, ipotizzano gli strumenti giusti per combatterla e sbarazzarsene. Ma la corruzione è lì, pronta a essere impietosamente svelata da un’indagine giudiziaria che puntualmente turba il pre e il post elezioni. Zagrebelsky e Colombo non hanno dubbi sulle ragioni della corruzione. Fotografano l’uomo “ingordo”, colui che “riesce a impadronirsi del patrimonio di un altro e l’aggiunge al suo, così fa due, ed essendo cresciuto potrà mangiarne altri due, e così fa quattro, e poi otto, e poi sedici e così via”. È il meccanismo della “lupaggine”. È la voglia di potere. Di essere visibili e visti. Quella che fa dire alla gente che ti incontra “ti ho visto in televisione”, come se quell’attimo di visibilità e notorietà potesse La libertà rovesciata diventa schiavitù rappresentare una svolta, l’uscita dall’anonimato, già di per sé l’affermazione di un potere. Dall’ingordigia alla corruzione il passo è breve. Chiede Colombo: “L’ingordigia non è solo un male in sé, ma è anche una distorsione dell’anima?”. Replica Zagrebelsky: “Non solo distorsione dell’anima, ma rovesciamento della libertà in servitù. Non c’è bisogno di essere un Rousseau per comprendere che il denaro che si possiede (ma anche il potere e la fama che si possiedono) è strumento di libertà, ma quello che si insegue è strumento di schiavitù”. Colombo ricorda come, sulla facciata del palazzo di giustizia di Milano, sia scritto in rilievo “honeste vivere, alterum non laedere et suum cuique tribuere” (vivere onestamente, non recare danno ad altri, attribuire a ciascuno il suo), motto scritto negli anni Quaranta dello scorso secolo, evidentemente incompatibile con la teoria dell’ingordigia e della “lupaggine” che Colombo e Zagrebelsky descrivono. Che cos’è, dunque, la corruzione? Peggio di un velenoso diserbante. “La chiamano corruzione perché corrode” scrive Zagrebelsky, che fotografa l’erosione distruttiva della democrazia, perché “la corruzione produce decomposizione dell’ordine legale e ne ricompone un altro, illegale, che tende a generalizzarsi e a stabilizzarsi crescendo e moltiplicandosi”. La corruzione si legittima, diventa Stato, “perfino con le sue istituzioni”. Si parte con una semplice raccomandazione, si finisce per creare “un ordine diverso e alternativo”. E la legge che fine ha fatto? Che frutti hanno avuto le pur tante inchieste della magistratura negli ultimi trent’anni? La legge sta lì, sul crinale tra “la pulsione predatoria e la difesa delle prede dai predatori”. Ma Colombo, dopo una vita spesa a fare il pubblico ministero - sua, con Giuliano Turone, la scoperta della loggia P2 di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi - ammette che “in alcune zone d’Italia l’ordine e la sicurezza sono garantiti più dalla mafia che dallo Stato” e che durante Mani pulite “siamo stati a volte raggirati da chi, per proteggere il giro della corruzione, per garantire sicurezza alla massa di corrotti e corruttori, ci svelava il cinque per cento di quel che sapeva e copriva tutto il resto”. Forse, par di capire, il dialogo tra Zagrebelsky e Colombo non finisce qui, potrebbe proseguire ancora. Certo è che questo primo capitolo vive di pessimismo. Quello che fotografa l’Italia del “giro di potere”, per usare la definizione di Zagrebelsky, che Colombo traduce con “cultura”, il giro di potere della corruzione, la cultura della corruzione. Per rappresentarla con un esempio, è l’Italia del vigile urbano che tutti i giorni beve il caffè gratis al bar e non mette la multa alle auto piazzate lì davanti in divieto di sosta. L’Italia di Pasolini del 14 novembre 1974: “Io so. Ma non ho prove. Non ho nemmeno indizi”. L’Italia in cui il potere, di fronte alle accuse, replica: “Fuori i nomi”. Per liberare l’Italia dalle atomiche non basta una firma di Manlio Dinucci Il Manifesto, 19 novembre 2017 Trattato Onu-Ican. 243 parlamentari italiani hanno firmato per la ratifica del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari. L’Ican, coalizione internazionale di Ong insignita del Nobel per la Pace 2017, comunica che 243 parlamentari italiani hanno firmato l’”Impegno Ican” a promuovere la firma e la ratifica da parte del governo italiano del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari. È il Trattato adottato dalle Nazioni Unite il 7 luglio 2017. Che all’Articolo 1 stabilisce che “ciascuno Stato parte si impegna a non permettere mai, in nessuna circostanza, qualsiasi stazionamento, installazione o spiegamento di qualsiasi arma nucleare nel proprio territorio; a non ricevere il trasferimento di armi nucleari né il controllo su tali armi direttamente o indirettamente”. All’Articolo 4 il Trattato stabilisce: “Ciascuno Stato parte che abbia sul proprio territorio armi nucleari, possedute o controllate da un altro Stato, deve assicurare la rapida rimozione di tali armi”. Impegnandosi a promuovere l’adesione dell’Italia al Trattato Onu, i 243 parlamentari si sono quindi impegnati a promuovere: 1) la rapida rimozione dal territorio italiano delle bombe nucleari Usa B-61 e la non-installazione delle nuove B61-12 e di qualsiasi altra arma nucleare; 2) l’uscita dell’Italia dal gruppo di paesi che, nella Nato, “forniscono all’Alleanza aerei equipaggiati per trasportare bombe nucleari, su cui gli Stati uniti mantengono l’assoluto controllo, e personale addestrato a tale scopo” (The role of Nato’s nuclear forces); 3) l’uscita dell’Italia dal Gruppo di pianificazione nucleare della Nato, in base all’Articolo 18 del Trattato Onu che permette agli Stati parte di mantenere gli obblighi relativi a precedenti accordi internazionali solo nei casi in cui essi siano compatibili col Trattato. I parlamentari che hanno firmato tale impegno appartengono ai seguenti gruppi: 95 al Partito democratico (Pd), 89 al Movimento 5 Stelle, 25 ad Articolo 1-Mdp, 24 a Sinistra italiana-Sel, 8 al Gruppo misto, 2 a Scelta civica. Nel dibattito alla Camera, il 19 settembre scorso, solo i gruppi Sinistra italiana-Sel e Articolo 1-Mdp hanno chiesto la rimozione delle armi nucleari dall’Italia, come prescrive il Trattato di non-proliferazione, e l’adesione al Trattato Onu. Il Movimento 5 Stelle ha chiesto al governo solo di “relazionare al Parlamento sulla presenza in Italia di armi nucleari e dichiarare l’indisponibilità dell’Italia ad utilizzarle”. La Lega Nord ha chiesto di “non rinunciare alla garanzia offerta dalla disponibilità Usa a proteggere anche nuclearmente l’Europa e il nostro paese”. Il Pd - con la mozione di maggioranza approvata nella stessa seduta anche con i voti di Gruppo misto, Scelta civica, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Alternativa popolare, Democrazia solidale - ha impegnato il governo a “continuare a perseguire l’obiettivo di un mondo privo di armi nucleari” (mentre mantiene in Italia armi nucleari violando il Trattato di non-proliferazione) e a “valutare, compatibilmente con gli obblighi assunti in sede di Alleanza atlantica, la possibilità di aderire al Trattato Onu”. Il governo ha espresso “parere favorevole” ma il giorno dopo, con gli altri 28 del Consiglio nord-atlantico, ha respinto in toto e attaccato il Trattato Onu. I parlamentari di Pd, Gruppo misto e Scelta civica, e quelli del M5S, che hanno firmato l’Impegno Ican differenziandosi dalle posizioni dei loro gruppi, devono a questo punto dimostrare di volerlo mantenere, promuovendo con gli altri una chiara iniziativa parlamentare perché l’Italia firmi e ratifichi il Trattato Onu sulla proibizione delle armi nucleari. Lo deve fare in particolare Luigi Di Maio, firmatario dell’Impegno Ican, per la sua posizione rilevante di candidato premier. Aspettiamo di vedere nel suo programma di governo l’impegno ad aderire al Trattato Onu, liberando l’Italia dalle bombe nucleari Usa e da qualsiasi altra arma nucleare. Migranti, l’impegno decisivo dell’Italia di Alessandro Orsini Il Messaggero, 19 novembre 2017 L’Onu condanna l’Europa. Il patto con la Libia ha causato la nascita di campi in cui vengono violati i diritti umani dei migranti che vorrebbero raggiungere le coste siciliane. Il ministro Minniti ha replicato alle accuse con un discorso alla Camera. L’Onu - ha detto - ha potuto visitare i campi in Libia grazie all’Italia che, pur essendo impegnata nella difesa dei diritti umani dei migranti in Libia, non può rinunciare a controllare i flussi. I rappresentanti dell’Onu meritano grande rispetto, ma nessuna condanna è giusta se non tiene conto dei fatti. Dopo la tragedia di Lampedusa del 3 ottobre 2013, quando 368 eritrei annegarono su un’imbarcazione partita dalla Libia, l’Italia fu il primo paese a stanziare milioni di euro per i soccorsi in mare. Il presidente del consiglio era Gianni Letta e il sistema di aiuti prese il nome di Mare Nostrum che durò un anno e fu poi sostituito da una missione ancora più ampia che prese in nome di Triton. Nel 2016, l’Italia, dati del ministero dell’economia, ha speso 3,3 miliardi di euro per l’assistenza ai migranti in un momento difficile per la nostra economia. Gli italiani in condizioni di povertà assoluta, dati Istat, sono passati da 1,6 milioni nel 2006 a 4,7 milioni del 2016. L’Italia si è trovata a fronteggiare quattro emergenze contemporaneamente ovvero l’aumento degli italiani poveri, i migranti da soccorrere in mare, la crescita dei migranti che delinquono, fotografata dalle statistiche del ministero di Grazia e Giustizia, e l’aggressività dei movimenti di estrema destra che utilizzano l’ondata migratoria per accrescere i consensi elettorali. Alcuni di questi movimenti, quelli neofascisti, considerano la Costituzione italiana un orrore nato dal tradimento nei confronti di Hitler durante la seconda guerra mondiale. A queste quattro emergenze, si è aggiunta la quinta rappresentata dagli attentati dell’Isis, i cui autori sono immigrati di seconda e di prima generazione, come Anis Amri, l’autore della strage contro il mercato natalizio di Berlino del 19 dicembre 2016: Amri giunse a Lampedusa su un barcone partito dalla Tunisia nel febbraio 2011 e si radicalizzò nelle carceri italiane. Se studiamo la vita di tutti coloro che hanno realizzato una strage nelle città occidentali in nome dell’Isis, scopriamo che si tratta di immigrati, o di figli di immigrati, che non sono riusciti a integrarsi per mancanza di risorse adeguate. Quasi sempre, erano ragazzi che nutrivano sogni occidentali e che si sono radicalizzati per la frustrazione di non essere riusciti a realizzarli. Volevano essere come noi e non ci sono riusciti. I governi italiani sono giunti alla conclusione che, se i flussi migratori fossero cresciuti al ritmo degli ultimi anni, le conseguenze prevedibili sarebbero state: 1) aumento dei migranti annegati; 2) crescita dei migranti che delinquono; 3) crescita dei movimenti che celebrano la figura di Hitler e Mussolini; 4) contrazione delle risorse per aiutare gli italiani poveri; 5) aumento del rischio della radicalizzazione dei migranti. L’Italia, abbandonata da tutti gli Stati europei nella gestione dei migranti provenienti dall’Africa, è stata promotrice di un accordo con la Libia per impedire ai migranti di salire sui barconi. La conseguenza è che i migranti non partono quasi più, ma vengono trattati in modo inumano nei campi libici. Dopo la denuncia dell’Onu, l’Italia ha davanti a sé due strade. La prima è quella di tornare al sistema precedente che si riassume in una parola: l’Italia viene lasciata sola a fronteggiare la crisi migratoria. La seconda strada è quella di battersi per il rispetto dei diritti umani nei campi libici: un’impresa difficile da raggiungere e che richiede tempo. Una classe politica dotata di energia vitale, quando è chiamata a prendere decisioni in un momento drammatico, è tenuta ad avere un’idea chiara del male peggiore da evitare. Il male peggiore, nell’epoca storica in cui viviamo, è che la crisi migratoria metta in pericolo la sicurezza della Repubblica, che è cosa diversa dalla sicurezza pubblica. Quando la sicurezza della Repubblica vacilla, la società soffre. Quando crolla, la società precipita in un inferno che non consente di aiutare né gli italiani poveri, né i migranti. Le strategie per affrontare il dramma dei migranti possono essere numerose. Tuttavia, nessuna di queste è accettabile se accumula tensioni e problemi che, con il passare degli anni, possono rappresentare una minaccia, anche soltanto potenziale, alla sicurezza della Repubblica. Migranti. Il paradosso di chi spera in un dittatore per la Libia di Romano Prodi Il Messaggero, 19 novembre 2017 A rendere ancora più tragica la tragedia libica mancava solo la lite fra l’Onu e l’Unione Europea (Italia compresa). A scatenare questa lite sono stati i media che hanno mostrato a tutto il mondo quello che gli addetti ai lavori sapevano da tempo e che le colonne di questo giornale avevano già chiaramente denunciato: che nel territorio libico i migranti vengono trattati in modo inumano. Le scene crudeli che gli schermi della Cnn hanno portato nelle nostre case non rappresentano purtroppo nulla di nuovo: le accuse incrociate fra l’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite e l’Unione Europea hanno solo reso evidente l’impotenza delle istituzioni internazionali di fronte a una Libia ancora divisa tra due governi, a loro volta impotenti di fronte al controllo che le diverse bande e le diverse tribù esercitano sul territorio. Alcuni tra i Paesi interessati al conflitto libico hanno concluso parziali accordi con gruppi di potere locale, soprattutto allo scopo di bloccare o rallentare, come è accaduto nel caso italiano, il flusso dei migranti che attraversano il deserto libico per arrivare in Europa. In un Paese dominato dalle lotte fratricide questi accordi sono tuttavia, per loro natura, parziali e fragili e, per definizione, fingono di non vedere ciò che capita nelle aree comandate dalle bande criminali. Oggi però non possiamo più fare finta di non vedere le aste degli schiavi che la Cnn ci ha mostrato, così come non possiamo rimuovere l’immagine delle migliaia di migranti inghiottiti dalle acque del Mediterraneo. Mentre accadono queste tragedie si sta anche completando il crollo della società e dell’economia libica. Sono al collasso gli ospedali, si interrompe sempre più spesso il rifornimento dell’elettricità e del gas, la Banca Centrale ed il petrolio non sono più sotto il controllo del governo. Mettere finalmente a nudo queste verità non sembra però aiutare la soluzione del conflitto. Il Consiglio di Sicurezza continua a ignorare il problema libico e, tra i suoi componenti, solo la Francia esercita costantemente una presenza attiva all’interno del paese, sorvegliando le frontiere confinanti con i paesi francofoni, mantenendo i rapporti con il governo di Tripoli ma anche operando attivamente nel campo avverso, a fianco del generale Haftar. Gli altri componenti del Consiglio di Sicurezza, cioè i “grandi” della terra, si comportano come se il conflitto libico possa trovare la sua soluzione nel gioco delle forze all’interno del paese. Per quanto riguarda l’evoluzione della situazione interna, il generale Haftar lancia continui messaggi con i quali cerca di fare capire che solo lui può essere l’uomo forte, capace di riunificare tutta la Libia. Un giorno annuncia di avere sotto il suo comando la gran parte del territorio e di essere ad un passo dal conquistarlo tutto. Il giorno dopo fa scivolare il messaggio che vi è ormai un accordo con i potentati di Misurata per dare il colpo finale al debole governo di Tripoli. Tuttavia il giorno dopo ancora tutto questo viene smentito e il generale Haftar ritorna ad essere solo uno dei protagonisti (anche se certamente il più forte) di una sempre lontana soluzione del caso libico. Dopo sei anni di una guerra che la comunità internazionale aveva voluto per abbattere un dittatore, la stessa comunità internazionale sembra limitarsi ad attendere che l’arrivo di un nuovo uomo forte risolva i problemi che essa non è in grado di affrontare. Si continua perciò a parlare di elezioni, come se esse potessero essere messe in atto nella completa anarchia esistente nel paese, mentre non vi è alcun accordo nell’ambito del Consiglio di Sicurezza per obbligare le diverse tribù e i diversi potentati libici a sedersi attorno a un tavolo alla ricerca di una possibile soluzione. Come purtroppo sempre avviene nella politica mondiale, il Consiglio di Sicurezza si dimostra in grado di affrontare i conflitti minori, nei quali non sono in gioco gli interessi delle grandi potenze, ma è incapace di intervenire quando tali interessi sono in contrasto fra di loro. Siamo ormai arrivati al più imprevisto paradosso: la speranza non espressa che un nuovo dittatore sostituisca il vecchio e risolva lui quello che né le istituzioni internazionali né le grandi potenze hanno voluto affrontare. Nell’attesa di questo evento si è ritornati al vecchio gioco di rimpallarsi la responsabilità delle presenti tragedie. Questa è purtroppo la vera spiegazione dello scambio di accuse fra l’Onu e l’Unione Europea. Dopo sei anni di guerra non vi è certo ragione di rallegrarsi. Oman ed Emirati. Hrw: così i lavoratori tanzaniani sono sfruttati e abusati La Repubblica, 19 novembre 2017 Costretti ad orari insostenibili, picchiati e spesso stuprati. È questo il destino di gran parte delle collaboratrici domestiche che arrivano dalla Tanzania nei paesi del Golfo. Lavoro o schiavitù? È difficile rispondere a questa domanda analizzando le condizioni d’impiego di centinaia di tanzaniane emigrate nei paesi del Golfo in cerca di una vita migliore. Stando al rapporto di Human Rights Watch “Lavorano come robot”, le migranti della Tanzania sono costantemente vessate anche a causa delle leggi sui visti che garantisce ai datori di lavoro un enorme potere sulla vita di queste persone. Padroni e schiave. A fare la differenza nel Golfo è il paese di provenienza. Gran parte dei lavoratori domestici arrivano infatti da Indonesia, Filippine, India e Sri Lanka. Ma a differenza dei loro pari tanzaniani, provengono da stati che hanno migliorato le leggi contro lo sfruttamento, aumentando quindi la protezione giuridica e il salario minimo. Proprio per questo motivo, sembra che i reclutatori abbiano cambiato mercato, preferendo maggiormente attingere collaboratori domestici provenienti dall’Africa Orientale. “I lavoratori che sono riusciti a fuggire dalle grinfie di datori - ha detto Rothna Begum, ricercatrice di diritti delle donne in Medio Oriente per Human Rights Watch - hanno raccontato di come sia la polizia che l’ambasciata li hanno costretti a ritornare sui loro passi, obbligati poi a lavorare senza stipendio e per mesi per mettere da parte i soldi per tornare a casa”. Basma e le altre. Hrw ha intervistato 87 lavoratrici tanzaniane. Le loro testimonianze si assomigliavano tutte. In molte infatti raccontavano di aver lavorato fino a 21 ore al giorno per stipendi miseri sotto il ricatto dei datori di lavoro che in alcuni casi hanno sequestrato i loro passaporti. Agli abusi si aggiungono anche i pasti avariati e violenze fisiche, anche sessuali. Basma N. ha raccontato che il fratello del suo datore di lavoro ha tentato di stuprarla tre volte, così è fuggita rischiando l’arresto per non aver ripagato i costi di assunzione e ha dovuto prendere a prestito dei soldi per tornare in Tanzania emotivamente distrutta e più povera di quando era partita. Kafala. L’Oman e gli Emirati escludono i lavoratori domestici dalle leggi statali sul lavoro che ad oggi permettono ancora una grande autonomia ai fdatori liberi di abusare dei propri dipendenti. Il sistema sott’accusa è il Kafala che vieta ai domestici di poter cambiare datore di lavoro senza il permesso di quest’ultimi e quelli che lo fanno rischiano il carcere. Molti datori di lavoro usano questo espediente per ricattare i loro dipendenti obbligandoli a rinunciare al loro salario. A casa. La Tanzania dovrebbe adottare strategie chiave per prevenire e perseguire gli abusi. È necessario che sviluppi una regolamentazione rigorosa e migliori la sorveglianza su assunzioni, programmi di formazione basati sui diritti e un adeguato aiuto consolare, incluso il pagamento dei biglietti aerei per le vittime di sfruttamento che volessero tornare a casa. “La Tanzania - conclude Begum - dovrebbe garantire alle donne la possibilità di migrare in sicurezza. Assieme a Oman ed Emirati Arabi Uniti dovrebbero cooperare per prevenire lo sfruttamento dei migranti lavoratori domestici, indagare sugli abusi e perseguire i responsabili”.