Invito al compleanno di Ristretti Orizzonti Ristretti Orizzonti, 18 novembre 2017 1° dicembre 2017 ore 9,30-17. Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova Nuova redazione di Ristretti Orizzonti presso la Rotonda Tre Presentazione di “AbitareRistretti”. Un progetto di modificazione condivisa dello spazio della pena I vent’anni di Ristretti Orizzonti Programma della giornata ore 9,30 presentazione del progetto, realizzato, “AbitareRistretti” Visita guidata ai luoghi reinventati, Rossella Favero e Valentina Franceschini, cooperativa AltraCittà Introduzione: Enrico Sbriglia, Provveditore Triveneto Amministrazione Penitenziaria Il cantiere condiviso, il lavoro a misura di capacità: significato, strategia e strumenti, architetto Valeria Bruni, progettista e direttrice lavori, e architetto Federica Lea, responsabile Piano Sicurezza e Coordinamento “Abitare Ristretti”, un progetto realizzato: la narrazione dei protagonisti. Coordina Viviana Ballini, sociologa, membro del Tavolo 1 degli Stati Generali, “Lo Spazio della pena”: gli operai demolitori, gli operai pittori, gli operai costruttori, la MOF (Manutenzione Ordinaria Fabbricati), la cooperativa sociale AZServizi (parte elettrica e idraulica), il colorificio ARD Fratelli Raccanello, il coordinamento dei lavori “Abitare Ristretti”, seconda parte, un progetto da completare: Marella Santangelo e Paolo Giardiello, Università di Napoli, con gli studenti del WorkShop del 2016 Conclusioni: Cosimo Ferri, Sottosegretario Ministero della Giustizia ore 12,30 inaugurazione del laboratorio di assemblaggio con i rappresentanti di FischerItalia, Gianluca Cordellina e Stefano Marzolla ore 13,00 buffet ore 14,00 I 20 anni di Ristretti I redattori di Ristretti “interrogano”: Carlo Lucarelli, scrittore, giornalista, amico di Ristretti, sulla scrittura, e la cultura intesa come “parte della lotta alla ma­fia” Gherardo Colombo, ex PM, autore del libro Il perdono responsabile, sulla Giustizia Manlio Milani, Presidente Associazione dei caduti di Piazza della Loggia, sul rapporto fra vittime e rei Luigi Pagano, Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria per la Lombardia, sulla vita detentiva Rita Bernardini, del Partito radicale, sulle battaglie che ci aspettano nei prossimi anni Insegnanti, studenti, figli di detenuti sul progetto più importante di Ristretti, quello con le scuole Interverranno Carmelo Cantone e Salvatore Pirruccio, direttori della Casa di reclusione ai tempi in cui nasceva e poi cresceva Ristretti Carceri, buone notizie dal ministro Orlando. Ma non è finita agenziaradicale.com, 18 novembre 2017 Rita Bernardini e Deborah Cianfanelli hanno sospeso lo sciopero della fame durato nell’ultima fase 30 giorni e portato avanti per chiedere al governo l’emanazione dei decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario, provvedimenti adottati dallo stesso ministro. Le due esponenti del partito radicale hanno incontrato per circa 1 ora il ministro Orlando, incassando la riconoscenza per l’importante attività di supporto attraverso dell’iniziativa nonviolenta intrapresa per sollecitare l’azione del governo in materia di carceri. Ma ciò non basta. Orlando ha ancora bisogno di aiuto, in vista dell’approvazione da parte del Consiglio dei ministri dei approvare circa il 60/70 per cento dei decreti delegati già arrivati e che riguardano in particolare le modifiche dell’ordinamento penitenziario e l’ultima parte relativa alle misure di sicurezza, le pene alternative e il carcere minorile. Al termine dell’incontro con il ministro di Giustizia, Bernardini e Cianfanelli si sono dette comunque soddisfatte, dopo le rassicurazioni che entro la metà di dicembre il tutto arriverà sul tavolo di Palazzo Chigi. “Quindi, le cose stanno marciando bene - ha sottolineato Bernardini - e i contenuti tutto sommato sono positivi”. In particolare, “per quanto riguarda la sanità penitenziaria e l’affettività in carcere”. Purtroppo non è previsto quanto richiesto da i radicali (ma che non poteva esserlo nella delega) in merito “all’aumento dei giorni di liberazione anticipate”. In compenso, verrà stabilità “una forma di aumento dei giorni legata alla partecipazione al lavoro e ai lavori di pubblica utilità. Questi saranno al massimo 30 giorni in un anno e riguarderanno quei i detenuti che aderiscono al piano trattamentale”. “È previsto senz’altro l’aumento del lavoro, grazie anche al rifinanziamento della legge Smuraglia che dà la possibilità alle imprese di intervenire”. A tal proposito, Bernardini ha sottolineato l’importanza che vengano proposti ai detenuti dei lavori qualificati da fare in carcere”. Anche perché, cuoco a parte, attualmente i lavori in carcere sono sostanzialmente non qualificati. Restano da vedere le misure alternative. Si sa che è “prevista una maggiore diffusione che inciderà sul sovraffollamento penitenziario, con misure di semplificazione per quanto riguarda l’intervento dei magistrati di sorveglianza”. Insomma, il quadro è da considerare positivo. Tuttavia, Bernardini e Cianfanelli invitano a non abbassare la guardia, appellandosi anche agli 11mila detenuti che le hanno sostenute in questi giorni di Satyagraha: perché “non è finita”. “Ancora un po’, poi la strada dovrebbe essere in discesa”. Per ora si è preso atto che “questo venerdì la riunione del Consiglio dei ministri è saltata”, perché il Premier Gentiloni è all’estero. Si attende di verificare “cosa accadrà venerdì prossimo e se la questione verrà messa all’ordine del giorno. Inizia per questo la nuova fase della battaglia nonviolenta”. Non ci sono più Riina e Provenzano. Il 41 bis ora può essere abolito di Piero Sansonetti Il Dubbio, 18 novembre 2017 Il 16 maggio del 1974, tre giorni dopo la vittoria del divorzio al referendum, viene arrestato a Milano Luciano Leggio, detto Liggio. Il più celebre capomafia del dopoguerra. Da quel momento, dentro Cosa Nostra, il bastone del comando passa ai suoi luogotenenti che controllano la cosca dei corleonesi. Il principale luogotenente è Totò Riina, poi c’è Bernardo Provenzano. Riina tiene le redini della mafia per quasi vent’anni, fino al 1993, quando viene catturato, poco dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino. Gli succede Provenzano, che resta al comando un’altra decina d’anni. Lo catturano nel 2006. Ieri, con la morte di Riina, si è chiusa l’epopea feroce e maledetta dei grandi corleonesi. Provenzano era morto nel luglio di un anno fa. Liggio morì in carcere nel 1993. Il 41 bis - cioè l’organizzazione del carcere duro, una forma severa e un po’ crudele di carcerazione - è stato pensato proprio per impedire che i grandi corleonesi continuassero a nuocere, anche dal carcere. I politici e i magistrati, che difendono questa istituzione, hanno sempre spiegato che non è una forma più aspra di punizione ma solo una misura di sicurezza. E risponde alla necessità di impedire che i capi comunichino con i picciotti. Diano ordini, tessano strategie. L’asperità della punizione è solo un effetto collaterale. Non è facilissimo credere a questa tesi. Che è stata ripetuta per anni, anche negli ultimi tempi, per impedire che a Provenzano e Riina, ormai malatissimi, fosse risparmiato il 41 bis mentre erano agli sgoccioli della loro vita. Ma facciamo uno sforzo, e crediamoci. Ora che i due capi non ci sono più e che il vertice di Cosa Nostra è stato disarticolato, che senso ha mantenere il 41 bis? Non c’è nessuno tra gli investigatori e gli studiosi che pensa che il vertice operativo di Cosa Nostra sia collocato in carcere, e che sia da lì che partono gli ordini. Gli inquirenti e gli studiosi sanno che la mafia in questi anni ha subito dei colpi micidiali, che la sua struttura è molto indebolita, la sua potenza militare ridimensionata e quasi ridotta a zero, e che probabilmente - lo dice in un’intervista che pubblichiamo a pagina 3 il magistrato Alberto Cisterna, ex numero due della Dna - non dispone più di un comando unitario. Oltretutto - dice sempre Cisterna, l’impressione è che non abbia più, da tempo, un ruolo centrale nell’organizzazione e nella direzione del crimine nel nostro paese. Mantenere il 41 bis non risponde oggi a nessuna esigenza di sicurezza o di investigazione. Dopo la morte dei due capi, anche dal punto di vista formale (o dell’immaginario), risponde solo all’esigenza di mandare un messaggio di “durezza”, che possa servire come monito, come intimidazione. Ma la giustizia come monito o come intimidazione non è prevista dalla nostra Costituzione. E neanche la crudeltà come forma di risposta ai crudeli. Proprio in questi giorni, in seguito alla vicenda Ostia, che ha avuto un grande risalto sui giornali, è risultato molto evidente come la “mafiosità” rischia di diventare un pretesto che serve solo a rendere più semplice la repressione. Il che può anche essere considerato da molti un fatto positivo, ma è innegabile che è qualcosa che lede lo Stato di diritto. A Ostia è stato arrestato Roberto Spada per un reato sicuramente grave e odioso, quello di avere pestato un giornalista che gli faceva domande scomode. Questo reato però non prevede la possibilità di arresto preventivo. E allora la Procura ha usato il grimaldello della mafiosità, e cioè ha stabilito che le botte (la testata) al giornalista, erano avvenute in modalità mafiosa. È evidente che siamo di fronte a una manipolazione quasi farsesca della legge, però nessuno ha avuto niente da dire, sulla base di un ragionamento molto semplice: Spada è colpevole, per di più Spada è antipatico, per di più Spada ha colpito un giornalista, quindi è indifendibile e non c’è nessun bisogno invocare per lui lo Stato di diritto. E così l’altro giorno si è arrivati a trasferire Spada in un carcere di massima sicurezza come se fosse un capomafia autore di omicidi e stragi. Una legge che procede con il doppio binario, utilizzando l’articolo 416 bis del codice penale (associazione mafiosa) per bypassare le garanzie offerte dai codici, può avere un senso - forse - per un periodo molto breve e di grande e vera emergenza. Aveva un senso, probabilmente, nel 1992, dopo gli attentati, le uccisioni, e poi nel 1993, l’anno delle stragi. Oggi è ingiustificabile. Non c’è una emergenza mafiosa e sono passati 25 anni da quelle stragi. Naturalmente anche per i reclusi accusati di mafia, e quindi chiusi al 41bis, funziona il ragionamento che viene fatto per Spada: son mafiosi, son colpevoli, a che serve lo Stato di diritto? Ecco, il punto è proprio questo. Lo Stato di diritto è Stato di diritto solo se vale per tutti. Se prescinde dalle colpe, o dalle accuse, o dalla gravità delle colpe o delle accuse. La forza dello Stato di diritto è quella. E se lo Stato di diritto perde la sua universalità, scompare. Tre giorni fa l’Onu ci ha fatto notare che le condizioni nelle quali si vive al 41bis non sono civili. E non rispondono alle norme previste dalla carta dei diritti dell’uomo. I giornali non ne hanno parlato. I giornali non parlano di queste cose. E neanche i partiti. Perché la contraddizione tra 41bis e Costituzione italiana non è molto popolare. Non porta voti. Non porta copie. L’opinione pubblica non ha nessuna voglia di sentirsi dire che lo Stato di diritto vale anche per chi è stato accusato o condannato per mafia. O vale per i terroristi. E invece proprio oggi, nel vortice dell’indignazione per Riina, per la sua vita, per la sua morte, mentre persino la Chiesa dimentica per un giorno la carità e rifiuta i funerali, bisogna avere il coraggio di non farsi mettere il silenziatore. Riina non c’è più, Provenzano non c’è più, la direzione della mafia non è in carcere. Il 41bis è solo un abuso che va abolito, ascoltando il parere dell’Onu. 41bis, la pena terribile che non rispetta il diritto di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 novembre 2017 Nessuno tocchi Caino: “Lo Stato ascolti le critiche del Comitato Onu contro la tortura”. “La morte del boss Totò Riina non diventi l’occasione per smantellare il 41 bis”. Butta subito le mani avanti, Aldo Di Giacomo, il segretario generale del Sindacato polizia penitenziaria (Spp) che da 26 giorni è in sciopero della fame per protestare contro le linee guida emesse dal Dap poco più di un mese fa con la finalità di uniformare l’applicazione del regime di carcere duro in tutti i 13 istituti penitenziari dove è previsto. Provvedimento che il ministro Orlando ha caldeggiato per “evitare ogni forma di arbitrio e di misure impropriamente afflittive” e che invece il sindacalista paragona all’”atteggiamento buonista nei confronti di Riina perché uscisse definitivamente di cella”. Si agita inutilmente, il segretario del Spp, preoccupato che “il clima di fine legislatura potrebbe favorire il disegno di ammorbidimento del 41 bis”, mentre al contrario, secondo lui, “bisogna lasciare le cose come stanno e rinviare ogni provvedimento che riguarda il nostro sistema penitenziario e giudiziario al nuovo Parlamento”. Preoccupazione inutile perché la norma, introdotta nell’Ordinamento penitenziario (art.90) per la prima volta nel 1992, dopo la strage di Capaci, con decretazione d’urgenza ma che subì una serie di proroghe fino a trasformarsi nel 2002 da provvisoria in stabile ed infine venne indurita ulteriormente da Berlusconi, ha ancora la fama di essere necessaria e indispensabile per combattere la criminalità mafiosa. Malgrado i dubbi sollevati da più parti e le critiche delle organizzazioni internazionali, ultima in ordine di tempo quella del Comitato Onu contro la tortura (Cat) che ha bacchettato l’Italia per l’eccessivo isolamento a cui vengono sottoposti i detenuti in 41 bis e il fatto che in alcuni casi, come quello di Totò Riina, il recluso venga sottoposto a questo tipo di regime durissimo, che i Radicali hanno più volte paragonato a “tortura”, anche per oltre vent’anni (24, nel caso del “boss dei boss” mafiosi). D’altronde Riina è personaggio che non ispira certo pietà, ma non è questo il punto. Come sottolinea l’associazione “Nessuno tocchi Caino” ricordando i rilievi fatti dal Cat, “uno Stato che resta sordo, cieco e muto rispetto agli impegni nei confronti della Comunità internazionale rischia di perdere la forza necessaria a contrastare il fenomeno della criminalità organizzata, perché le emergenze si affrontano con un’estensione dello Stato di Diritto e non con la sua abdicazione. Come diceva Leonardo Sciascia, la mafia si combatte non con la terribilità della pena ma con il Diritto”. Quei bambini chiusi in carcere per reati che non hanno mai commesso di Marco Sarti linkiesta.it, 18 novembre 2017 Lo scorso gennaio negli istituti di pena italiani si contavano quaranta piccoli detenuti. Rinchiusi dietro le sbarre insieme alle madri che stanno scontando la pena. Storie dimenticate, impossibili da dimenticare. “Mancano le strutture, ma per risolvere il problema basterebbero 900mila euro l’anno”. Dietro le sbarre senza aver commesso alcun reato. Troppo piccoli persino per conoscere il motivo della detenzione. È l’inaccettabile destino dei bambini rinchiusi insieme alle madri nelle carceri italiane. Una realtà incredibile e ancora poco conosciuta. Si spiega anche così il silenzio che, salvo rare eccezioni, ha accompagnato l’ultimo drammatico caso di cronaca. La vicenda di una bimba di tre anni, reclusa nel carcere di Messina insieme alla mamma nigeriana e al fratellino più piccolo, ricoverata d’urgenza dopo aver ingerito del veleno per topi. Storie dimenticate, ma impossibili da ignorare. Come ha denunciato il garante dei detenuti nell’ultima relazione al Parlamento, al 31 gennaio scorso in tutto il Paese si contavano quaranta piccoli detenuti. E con loro trentacinque madri, tredici italiane e ventidue straniere. La metà erano rinchiuse nelle sezioni nido degli istituti di pena, le altre negli istituti a custodia attenuata per madri (Icam). Quella dei piccoli reclusi è “una criticità che chiede soluzioni”, denuncia il garante. Ma soprattutto è una grande ingiustizia, perché per risolvere la questione basterebbe davvero poco. Pochi giorni fa il deputato di Possibile Andrea Maestri ha presentato una proposta di legge in cui quantifica le risorse necessarie per risolvere la situazione. “Per garantire la tutela dei bambini detenuti - racconta il parlamentare - basterebbero 900mila euro annui. Questi fondi permetterebbero una sistemazione idonea e sicura”. Anzitutto il contesto. Le situazioni in cui si trovano questi bambini, tutti minori di tre anni, sono molto diverse tra loro. Come spiega il garante, alcune sezioni “nido” delle nostre carceri rappresentano una realtà positiva. Non mancano reparti bene attrezzati, accoglienti e sufficientemente collegati con il territorio per evitare l’isolamento dei più piccoli. Purtroppo non è così dappertutto. In Italia “sussistono ancora situazioni del tutto inidonee”. Il documento depositato a Montecitorio nei mesi scorsi denuncia ad esempio la situazione della casa circondariale di Avellino. “La cella nido per le madri con i bambini - si legge - è di fatto semplicemente una stanza detentiva a due, nella sezione comune femminile, priva di qualsiasi attrezzatura necessaria per ospitare bambini così piccoli”. Il carcere non ha mai attivato una collaborazione con l’asilo del territorio. Mentre le madri non possono accedere alla sala nido dove lavorano diverse puericultrici. E così i bambini devono scontare a tutti gli effetti una pena di cui non hanno alcuna responsabilità. “Di fatto vivono nella sezione detentiva comune, in celle prive delle dotazioni necessarie, in un contesto difficile anche per gli adulti, senza rapporti con le scuole o le organizzazioni locali”. Invano, negli anni, si è cercato di trovare una soluzione al problema. Una legge del 2001 ha provato a risolvere la questione favorendo l’accesso delle donne con figli piccoli alle misure cautelari alternative. È una norma che ha permesso alle madri di bambini con meno di dieci anni di scontare parte della pena a casa o in un luogo di accoglienza. “Ma alcune condizioni - denuncia Maestri nella sua proposta di legge - hanno finito per tagliare fuori dal beneficio le donne appartenenti a categorie più svantaggiate, soprattutto le straniere, spesso prive di fissa dimora, che non possono accedere agli arresti domiciliari”. È di pochi anni dopo l’intervento del legislatore che ha introdotto nuovi modelli detentivi più adatti ai bambini. Si tratta degli istituti a custodia attenuta per madri (Icam), gestiti dall’amministrazione penitenziaria. Ma soprattutto delle case famiglia protette, affidate ai servizi sociali e agli enti locali. Una realtà, quest’ultima, rimasta praticamente inapplicata. Ad oggi l’unica struttura esistente si trova a Roma, è stata creata nel 2015 grazie all’intesa tra il Comune e il Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. È proprio dall’esperienza di questa casa famiglia protetta che il deputato Maestri quantifica le risorse necessarie per risolvere il problema dei bambini dietro le sbarre. Utilizzando immobili confiscati alla criminalità, lo Stato potrebbe finanziare la gestione e le attività di sostegno delle strutture con 150mila euro annui. Sulla presenza di bambini in carcere, il deputato è in possesso di dati più recenti. Citando il ministero della Giustizia, Maestri spiega che lo scorso 30 settembre negli istituti di detenzione italiani risultavano recluse trentadue detenute straniere con trentasei figli. Per ospitare questi nuclei familiari, stima, basterebbero altre sei strutture da distribuire sul territorio nazionale. Per un totale di 900mila euro l’anno. Le storie dei bambini in carcere svelano un altro tema poco dibattuto. La detenzione femminile. Oggi le donne rinchiuse negli istituti penitenziari italiani rappresentano una realtà quasi marginale. Sono poco meno di 2.500, il 4,2 per cento dell’intera popolazione carceraria. Ma è proprio l’esiguità del numero che comporta un ingiustificato inasprimento della pena. “La detenzione - denuncia il garante - da sempre è pensata al maschile e applicata alle donne che, proprio per la loro scarsa rilevanza numerica, rischiano di diventare invisibili e insignificanti per il sistema penale”. I quattro penitenziari femminili del Paese possono accogliere solo 537 detenute, rinchiuse tra Trani, Rebibbia, Pozzuoli e Venezia. E così la maggior parte di loro sono ospitate nei circa 50 reparti femminili che si trovano all’interno di istituti maschili. “Reparti marginali, in cui le donne hanno meno spazio vitale, meno locali comuni, meno strutture e minori opportunità rispetto agli uomini”. Citando le esperienze raccolte dal noto programma “Radio Carcere”, qualche tempo fa un’interrogazione parlamentare del senatore Francesco Campanella ha denunciato la difficile condizione femminile dietro le sbarre. “All’interno delle carceri italiane, oltre agli spazi carenti, poca igiene e sovraffollamento, le donne sono costrette a vivere la detenzione con l’assenza di ginecologi o pediatri spesso irreperibili, difficoltà a procurarsi assorbenti e saponi per l’igiene intima”. Condizioni ancora più dure, senza alcuna ragione. Tragicamente incivili, per quanto riguarda le madri dei bambini più piccoli. La giustizia penale da riformare di Massimo Krogh La Repubblica, 18 novembre 2017 I processi penali fuori delle regole temporali sono divenuti ormai abituali, e purtroppo Napoli, meravigliosa città ma indietro a nessuno per disordine e litigiosità, al riguardo offre un notevole contributo alla giustizia senza tempi. Forse non è superfluo un accenno al percorso legislativo che nel concreto ha prodotto esiti diversi da quelli desiderati. Prima del 1989, il nostro processo penale era regolato dal codice Rocco (1931), di natura semi-inquisitoria, nel quale la fase del giudizio (dibattimento) era molto sacrificata; non vi erano esami e controesami come oggi, tutto si risolveva in una veloce “conferma” di quanto raccolto nell’istruttoria. Pertanto, i tempi processuali erano molto più ridotti rispetto ad oggi, ma in un contesto che appariva privilegiare la fase istruttoria rispetto a quella del giudizio. Sicché il legislatore, per mettersi al passo con le società più avanzate in materia dei diritti della gente (mondo anglosassone, che aveva cominciato a succhiare il latte dei diritti nel 1215 - Magna Charta), pensò di introdurre un codice processuale di rito semi-accusatorio; ciò avvenne nel 1989. Nel rito semi-accusatorio, tipico delle società moderne industrialmente più avanzate, si prevede un fortissimo controllo di legalità; reso necessario dal fatto che l’avanzamento industriale, con l’effetto consumistico, provoca anche una crescita potenziale e spesso effettiva della criminalità sia comune (e organizzata) sia economica. Ciò impone di attribuire un forte potere all’organo che presiede al controllo di legalità, cioè al pubblico ministero, peraltro nelle democrazie ogni potere, per forte che sia, è soggetto alla regola del bilanciamento, che si sostanzia nell’istituzione di contropoteri che evitino l’eccesso di esercizio del potere. Il legislatore italiano nell’89, nell’affidare enormi poteri all’ufficio del pubblico ministero, ha trascurato il problema del bilanciamento. Oggi si può indagare dappertutto senza “funzionanti” limiti di competenza nella fase investigativa, e quanto al tempo, i “paletti” temporali sono quotidianamente scapolati con piccoli artifici processuali, convalidati dalla giurisprudenza (fatta da giudici non terzi). Di qui processi “fiume”. In definitiva, anche in questo rito le indagini hanno espropriato e allontanato il verdetto, che il codice dell’89 avrebbe invece voluto privilegiare e rendere quanto più breve possibile. Il legislatore non tenne conto del medio standard culturale del Paese e delle strutture e dei mezzi in cui introduceva il nuovo rito; più avanzato, ma bisognoso d’una diversa cultura sociale e di altri mezzi per funzionare. Forse oggi l’eccesso di potere conferito senza bilanciamenti all’ufficio del pubblico ministero rappresenta una delle cause delle disfunzioni giudiziarie rompendo il necessario equilibrio fra indagine e processo; inoltre, compromette i rapporti istituzionali dello Stato (ad esempio con la politica), ed incide negativamente sul funzionamento sia della pubblica amministrazione che dell’impresa, per il clima d’intimidazione presente nel Paese Queste considerazioni inducono a essere favorevoli alla separazione delle carriere Giudici/Pm. Anche per adeguarsi al resto del mondo occidentale, visto che siamo l’unico paese ad avere un pubblico ministero che, nei fatti e nel contesto dell’opinione pubblica, è considerato (impropriamente) un giudice. “Intercettazioni, trojan e niente prescrizione”. Ecco la giustizia a 5Stelle di Giulia Merlo Il Dubbio, 18 novembre 2017 “Le intercettazioni non interessano ai cittadini e la stretta dell’ultima legge serve a proteggere i politici”. La giustizia sarà uno dei temi caldi della prossima campagna elettorale e Alfonso Bonafede, parlamentare 5 Stelle e vicepresidente della commissione Giustizia alla Camera, chiarisce la linea del Movimento. Onorevole, cominciamo con la prescrizione. Proponete di sospenderla nel momento in cui inizia il processo, perché? La prescrizione va bene nella fase delle indagini ma, nel momento in cui scatta il rinvio a giudizio - cioè quando un giudice ritiene che esista la necessità di iniziare la fase processuale la prescrizione deve fermarsi. Questo perché, altrimenti, si va incontro a un effetto collaterale grave e una vergogna solo italiana: che gli imputati stiano in giudizio solo per perdere tempo e arrivare alla prescrizione del reato. Gli esempi sono tanti. Eliminando la prescrizione nei termini da lei descritti, non teme che i tempi della giustizia si allunghino ulteriormente? Io temo che i cittadini onesti che chiedono giustizia non la ottengano perché i reati si prescrivono. La prescrizione genera ingiustizia e uno sperpero economico inaccettabile: lo Stato spende un sacco di soldi per fare processi che poi si devono interrompere senza accertare la verità. Sarà d’accordo, però, che la lunghezza dei processi è il problema del nostro sistema giudiziario? Ma certo, e la riforma di Orlando non lo risolve di certo. Noi siamo d’accordo che i processi debbano durare poco, però la responsabilità grava sulle spalle dello Stato, che deve investire di più in risorse, organizzazione e qualità. Non si può scaricare questa lungaggine sul cittadino onesto attraverso la prescrizione: lui sta nel processo per ottenere giustizia, ma lo Stato gli risponde: “Mi dispiace, io devo estinguerlo, perché altrimenti dura troppo per l’imputato”. La prescrizione è ingiustificabile per le vittime. L’ultimo testo approvato in materia di giustizia riguarda le intercettazioni. Era necessario? Di quel testo non ci piace nulla. Il principio ispiratore è la difesa dei politici. È evidente come il ministro Orlando non abbia a cuore la giustizia al servizio dei cittadini ma solo la difesa della politica dai suoi scandali. Tanto è vero che, se si analizzano i lavori parlamentari, si nota che ogni accelerazione sulle intercettazioni è avvenuta subito dopo uno scandalo che ha riguardato la politica. Senza parlare poi del fatto che si tratta di una norma tecnicamente inutile. Che cosa intende? Il dl intercettazioni infarcisce il diritto di aggettivi come “rilevante”: ma chi decide cosa lo è, la polizia giudiziaria? Stiamo parlando di ridurre la discrezionalità dei pm. La regolazione dello strumento doveva avvenire con direttive interne alle procure, come del resto già stavano facendo molti capi degli uffici in tutta Italia. Il Legislatore non può scrivere norme che creano solo confusione. Voi chiedete addirittura di ampliare l’utilizzo delle intercettazioni e dei virus spia dei Trojan, allargandoli ad altri reati. Il fatto più grave del dl è l’esclusione della possibilità di usare i Trojan se non per mafia e terrorismo. Sono uno strumento invasivo, è vero, e del resto va applicato solo per reati gravi. Noi però, sosteniamo che tra questi debbano rientrare anche quelli di corruzione. La norma che lo vieta è una sorta di istigazione a delinquere di stampo legislativo. Esiste il pericolo, però, di ledere il diritto alla privacy? La Costituzione tutela anche quello. Intendiamoci, non sono certo favorevole all’intercettazione facile. In un momento storico come questo, però, in cui la criminalità organizzata si evolve e migliora le proprie tecniche criminali, lo Stato deve allo stesso modo mettere in campo le tecnologie più efficaci per combatterla. È mai possibile che per scoprire i reati corruttivi si debba ancora mandare il poliziotto a mettere le cimici? Le intercettazioni spesso finiscono sui giornali, però. Lei ritiene che sia corretto pubblicarle? Un giornalista, se viene in possesso di un’intercettazione che ha una rilevanza di carattere pubblico, la deve sempre pubblicare. Anzi, temo uno Stato in cui un giornalista le tiene nel cassetto. Anche se non hanno alcuna rilevanza penale? Facciamo degli esempi: io credo che l’intercettazione sul Rolex al figlio del ministro Lupi o la battuta sulla sguattera del Guatemala alla ministra Guidi andassero pubblicate. È di interesse pubblico che una ministra venga trattata in quel modo da una persona che vuole far passare un emendamento che riguarda le compagnie petrolifere? È evidente che sì. I giornalisti, però, le vanno a prendere in Procura queste intercettazioni. È chiaro che le Procure debbano attrezzarsi per non farle trapelare, ma si tratta di cose che accadono in tutto il mondo. Il punto è un altro: se l’intercettazione viene pubblicata, il politico non può per tutta risposta imbavagliare l’informazione. Il politico deve mettere in conto che possa succedere, quindi? Quando si diventa politici si devono assumere sia gli oneri che gli onori dell’essere un personaggio pubblico. Esiste un grado di riservatezza che palesemente si perde, quando ci si espone. È chiaro che mi arrabbio se vengo ripreso nel fine settimana con i miei figli al parco, perché questo è un fatto di riservatezza. Non posso, però, accampare problemi di privacy nel momento in cui, come è successo con la ministra Guidi, vengo intercettato mentre sto prospettando soluzioni che favoriscono un imprenditore rispetto a un altro. Esiste il rischio, però, che la politica finisca sotto processo sui giornali prima che in tribunale, che poi magari archivia o assolve? È un rischio inevitabile. Anche il Movimento 5 Stelle ha subito titoloni e attacchi vergognosi sui giornali su fatti certamente poco rilevanti. Noi, però, non abbiamo risposto sventolando il diritto alla privacy. Abbiamo denunciato le invenzioni della stampa spiegando i fatti. Non va limitata la pubblicazione di nulla, quindi? Noi lottiamo contro la stampa che inventa notizie per danneggiare una forza politica, mai contro la stampa che fa il suo lavoro. Infatti non abbiamo mai chiesto una stretta sulle intercettazioni: queste iniziative solo un becero servizio alla politica, che non interessano per nulla ai cittadini. Eppure questo clima dimostra che il rapporto tra giustizia e politica è quanto mai teso, nonostante siano molti i magistrati che sono passati dai tribunali all’Aula del Parlamento. Il passaggio è legittimo, basta che poi non vogliano tornare a fare i giudici. Se un magistrato legittimamente decide di mettere il suo bagaglio di competenze ed esperienze al servizio della comunità in politica va bene, ma quando passa al potere politico, legislativo o esecutivo, smette automaticamente di essere soggetto terzo. Per i magistrati, la via della politica deve essere a senso unico? Sì, il confine che separa politica e giustizia deve essere perfettamente delineato. Per anni il dibattito è stato deviato in modo fuorviante, come se si dovesse difendere una o l’altra categoria. Il punto, invece, è difendere il principio costituzionale della separazione dei poteri: un magistrato può fare politica, ma poi non può tornare a indossare la toga. La morte di Totò Riina: il padrino e la mafia che cambia di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 18 novembre 2017 Anche se prima di finire in una tomba Totò Riina è stato sepolto da una ventina di ergastoli e sigillato al “carcere duro” per quasi venticinque anni, con la sua morte cambiano molte cose dentro la mafia. Quella con il marchio originale di “Cosa nostra”, mantenuto anche quando il metodo mafioso s’è esteso a tutto il continente, con organizzazioni “originarie e autoctone” che poco o nulla hanno a che vedere con i padrini siciliani. Muore definitivamente, invece, il metodo mafioso del dittatore corleonese di Cosa nostra, che rivendicava la sua presunta grandezza rispetto agli altri capi, compresi quelli del suo stesso paese divenuto il simbolo della mafia nel mondo; il metodo da cui è scaturita la guerra contro i vecchi alleati e poi contro lo Stato, interrompendo la vecchia convivenza con le istituzioni per provare a imporne una nuova a chi magari non poteva immaginare di trovarsi a fare i conti con un contadino come quello. Con Riina muore una concezione monarchica della mafia, quella del leader supremo e unico che ancora pochi mesi fa, detenuto e malato, si paragonava al direttore della prigione in cui era rinchiuso definendosi davanti alla moglie “un capo come lui”, e rivendicava la sua inflessibilità: “Non mi piegheranno. Mi posso fare anche tremila anni, non trent’anni”. S’è fermato sulla soglia dei venticinque, senza svelare nulla dei segreti che custodiva e di cui però ha seminato qualche indizio. Per esempio quando, nel cortile del carcere, raccontava al suo compagno di passeggio di quando un futuro pentito, Salvatore Cancemi, gli chiedeva che cosa si dovevano “inventare” con gli altri uomini d’onore per giustificare ciò che avevano combinato con la strage di Capaci, e lui enigmatico rispose: “Non c’è niente da discutere, se lo sanno la cosa è finita”. Uno spezzone di frase ambiguo che lascia intravedere scenari indicibili anche ai mafiosi di allora, magari ricompresi nella presunta trattativa con lo Stato di cui si discute nel processo che ora ha perso l’imputato principale; contatti oscuri di cui ora restano custodi e testimoni solo eventuali pentiti non mafiosi, di cui finora non s’è vista traccia. Come coloro a cui Riina andò a “tastare il polso” prima di far esplodere le bombe del 1992, secondo il ricordo del collaboratore di giustizia Nino Giuffrè, già braccio destro di Provenzano; uomini che garantirono le “spalle coperte” a Riina e ai suoi progetti stragisti che lui stesso ha continuato a esaltare fino alla fine, nonostante la strategia del terrorismo abbia spinto Cosa nostra sull’orlo del precipizio, scatenando la reazione a quel punto inevitabile dello Stato (più o meno come accadde con il terrorismo neofascista dopo la strategia della tensione dei primi anni Settanta). Ora quella mafia e quell’idea di mafia, forse utilizzata e strumentalizzata dall’esterno per fini diversi, è morta insieme a lui. Definitivamente sepolta. Altri pezzi di Cosa nostra, vecchia e nuova, potranno rialzare la testa e ricominciare a tessere trame seguendo nuove strade e altri metodi. Sempre mafiosi ma differenti, per certi versi più insinuanti e dunque più insidiosi. Senza più la piccola ma ingombrante ombra del padrino sanguinario di Corleone. Cafiero de Raho: “la politica tenga alta l’attenzione, va colpita la borghesia mafiosa” di Conchita Sannino La Repubblica, 18 novembre 2017 Intervista al procuratore nazionale Antimafia: “Collaborazione internazionale tra magistrati per colpire i cartelli criminali. I Casalesi? Non sono finiti”. “Catturare i capi, abbattere le leadership cui fanno capo i cartelli criminali è fondamentale. Ma non basta”. Sempre di più, analizza con Repubblica il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, “in casa nostra ma anche a livello internazionale, dobbiamo cercare le casseforti, circoscrivere le alleanze delle organizzazioni tra politica ed economia. E soprattutto : individuare i loro complici nei ceti professionali”. Le idee su come affrontare padrini, capitali marci e soci insospettabili, Cafiero de Raho, il 65enne ex procuratore aggiunto a Napoli, le ha sempre avute chiarissime. E lo ha mostrato scompaginando l’impero di Gomorra quando il mondo - addetti ai lavori a parte - non lo chiamava così e lui apriva un’inchiesta chiamata Spartacus, risalendo poi su in alto, controcorrente per oltre quindici anni, su fino alle più alte complicità della politica e dell’imprenditoria. E fino all’altro ieri, quando dalla sua stanza di procuratore capo di Reggio Calabria ha fatto arrestare capi e narcotrafficanti delle più potenti ‘ndrine fino in Paraguay. Meno quattro giorni all’insediamento nel palazzetto seicentesco di via Giulia, sede della Dna e antiterrorismo, dove un napoletano succede a un napoletano. Dopo Roberti, Cafiero de Raho. Che aveva sfiorato l’incarico a Napoli (per pochi voti al plenum del Csm, la scorsa estate) e ora invece ha già disposto i primi “viaggi” verso la capitale di carte, archivi, dossier, ricordi, foto, premi, le cornici con le foto di moglie e figlie. Procuratore, se dovesse sintetizzare il suo modello? “Credo che ci sia in questo passaggio il riconoscimento di un impegno profuso sia all’ufficio della Procura di Napoli, che in quello di Reggio Calabria, prendendo atto di risultati che, si badi, non sono mai il frutto dell’impegno di uno solo: ma conseguiti con il contributo delle professionalità che si sono dispiegate in questi territori, di tanti magistrati ed esponenti della polizia giudiziaria, pronti spesso a prove di dedizione e sacrifici non comuni. Il mio modello? La condivisione. Ed è questo che intendo trasferire alla Direzione Nazionale, anche attraverso una partecipazione allargata”. Ha in mente un format improntato al massimo scambio tra Procure ? “Mi ha preceduto un eccellente magistrato ed amico, Roberti. In questo nuovo impegno sono intenzionato solo a portare a un’esperienza di scambio e partecipazione molto attiva e aperta non solo con tutti i magistrati che personalmente conosco e sono forti di una straordinaria capacità, ma con tutti i procuratori distrettuali dei 26 uffici che compongono la struttura antimafia. E la stessa condivisione è importante che si attui con la Direzione investigativa antimafia, oltreché con i servizi centrali e interprovinciali della polizia giudiziaria”. Totò Riina è morto. Cambiano volto, ma le nostre mafie restano cartelli transnazionali: tra i più potenti investitori al mondo. “Sì ma dobbiamo partire dal dato che l’azione di contrasto in Italia sta dando risultati straordinari e questo anche grazie agli interventi legislativi che si sono susseguiti, e che fanno della disciplina antimafia nazionale, vista nel suo complesso, come uno dei modelli più avanzati e ai quali spesso attingono gli altri Paesi. Ciò non toglie che ci siano aree in cui la presenza delle organizzazioni storiche - non solo quelle storiche : ‘Ndrangheta, Cosa Nostra, camorra, Sacra Corona - ma anche quelle straniere ha generato un profondo inquinamento economico; oltre che della parte politica che si è lasciata contaminare”. Lei che aprì l’inchiesta che ha portato alla condanna per mafia di Cosentino, non pensa che la politica continui a non dotarsi di anticorpi? “Su questo aspetto non c’è dubbio che sia necessario che la poltica tenga alta, intendo dire : particolarmente alta, l’attenzione. Perché le organizzazioni criminali sanno coltivare i rapporti e sui territori stringono relazioni con il potere economico e politico. E, di volta in volta, come vediamo, poi la penetrazione si insedia a livelli via via più profondi e avviene in modo silenzioso, quasi non percettibile. Parliamo di cartelli che ormai, quasi complessivamente, hanno abbandonato la strategia dell’intimidazione, della violenza per raggiungere i loro obiettivi non con il piombo, ma a tavola, o ai desk di lavoro manageriale : attraverso la corruzione, le collusioni, le contiguità”. Su questo aspetto, la recente introduzione del Codice antimafia che equipara i corrotti ai mafiosi è dal suo punto di vista uno strumento utile? “Resto assolutamente convinto che siano utilissime le innovazioni del codice antimafia. Così come sono importanti le introduzioni di reati in materia ambientale, l’innalzamento dei tetti massimi di pena per reati di mafia, la pluralità di attenzioni sul tema dell’Antiterrorismo. Per tornare alla corruzione: esiste un livello di ceti professionali collusi, la famosa borghesia mafiosa, di cui si è sempre parlato e che rappresenta l’aspetto più pericoloso. E insieme costituisce un obiettivo tra i più significativi nell’ambito dell’azione di contrasto. La forza delle mafie ora proviente dal reinvestimento dei grandissimi profitti che derivano dal narcotraffico : il primo strumento di arricchimento”. La cooperazione internazionale tra magistrati può dare più frutti? Specie sul tema dei paradisi fiscali. “Abbiamo già compiuto passi avanti che sembravano impossibili solo fino a poco fa. Basta guardare ciò che abbiamo ricostruito sulla ‘Ndrangheta in iItalia e anche in Europa. Lì operano soggetti ‘ndranghetisti che si riferiscono a broker internazionali che risiedono nei paesi produttori”. Parliamo della Colombia? “Non solo. Colombia, Costa Rica, Perù e Uruguay: paese, quest’ultimo, dove è stato catturato Rocco Morabito, boss delle cosche calabresi già condannato a pene rilevantissime. Un frammento che lascia comprendere come questi cartelli abbiano la capacità di rigenerarsi sull’intero globo terreste”. Avete registrato anche nuovi Patti tra mafie? “Da questo angolo di visuale si è potuto assistere ad un accordo tra esponenti di Cosa Nosta e della camorra. Insieme decidevano strategie e accordi finalizzati all’importazione con grosse partite di cocaina. D’altro canto, le alleanze con Cosa Nostra giá nel periodo delle stragi con proiezioni nei territori europei e in America testimoniano come noi siamo all’inseguimento di modelli continuamente avanzati. E se da un lato rappresenta un costante campanello d’allarme, dall’altro questa verifica ci rafforza nella consapevolezza della necessità di puntare sulla cooperazione giudiziaria : che deve essere particolarmente stabile e tempestiva. Proprio in occasione degli arresti dei Morabito, che ci ha portato a catturare gli importatori di cocaina nei loro posti di origine, abbiamo verificato che solo una costante rete di relazioni anche umane, tra uffici e magistrati, può assicurare una collaborazione che era impensabile fino a poco fa. Lo stesso avviene e deve avvenire sempre di più con la rete europea degli uffici giudiziari, Eurojust”. Procuratore, dalle strategie internazionali alla visione manageriale di un padrino catturato da lei, Michele Zagaria. Come valuta la plateale protesta inscenata dal super boss, solo due giorni fa, in aula? “Direi che i capi delle organizzazioni più storiche non sono nuovi ad atteggiamenti che mirano a condizionare i giudici e far deviare l’attenzione dal merito dell’impianto accusatorio” Specie per un capo carismatico che sente la pressione dello Stato sull’individuazione del suo immenso patrimonio. “Appunto. È una chiara strategia quella di rappresentarsi vittime, di spostare attenzione e riflettori su atteggiamenti che hanno l’unico scopo di allontanare il processo dal processo. È già avvenuto anche clamorosamente, in passato. Avverrà ancora”. Lei si riferisce all’ istanza di remissione che fu letta dagli avvocati dei boss contro lei e Cantone, e per i quali sono finiti a giudizio anche due avvocati. “La tattica è sempre la stessa: capovolgere la loro situazione, da criminali a vittime, spostare il focus dal dibattimento al dibattito”. I casalesi sono finiti? “No. I casalesi non sono finiti affatto. Nonostante la decapitazione della prima linea di comando: così come tutte le cosche, che sono radicate sul territorio da oltre 40 anni, continuano ad operare”. Non bastano, insomma, né i blitz, né le catture “Come sempre. Perché le organizzazioni criminali sono diventate holding, con ramificazioni all’estero e articolazioni potenti ma leggere, spesso invisibili. Oltreché calate, spesso, nel volto dei top manager. Per questo bisogna cercare le loro casseforti. Individuare i loro riferimenti politici. Dare la caccia ai loro imprenditori e riciclatori”. È riciclaggio il conto in banca con denaro sporco di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2017 Riciclaggio e non ricettazione per chi deposita in banca denaro di provenienza illecita, allo scopo di farlo sostituire con banconote pulite. La Cassazione, con la sentenza 52549, accoglie il ricorso del Pubblico ministero che chiedeva di riqualificare il reato, commesso dagli imputati, in riciclaggio dopo la decisione della Corte d’Appello di condannare per la più lieve fattispecie di ricettazione. Nel mirino dei giudici era finita la condotta degli imputati che avevano aperto libretti di risparmio, intestati a persone di fantasia o, comunque all’oscuro dell’operazione, utilizzando falsi documenti di identità. Un sistema che consentiva ai ricorrenti di utilizzare il denaro erogato dalla banca, in sostituzione di quello “sporco” transitato sui conti correnti. Un’operazione di money washing che, per la Cassazione, non può certamente ricadere nel raggio d’azione della norma che punisce la ricettazione. Il riciclaggio si distingue, infatti, dalla ricettazione “per l’elemento materiale che si connota per l’idoneità ad ostacolare l’identificazione della provenienza del bene e per l’elemento soggettivo costituito dal dolo generico di trasformazione della cosa per impedirne l’identificazione”. Perché scatti il reato non è neppure necessario che sia efficacemente impedita la tracciabilità del percorso del denaro provento di truffa ma è sufficiente che la possibilità di risalire all’origine sia ostacolata. I giudici precisano che commette il reato di riciclaggio chi versa denaro di provenienza illecita sul conto di una società fiduciaria senza un formale incarico da parte del proprietario della somma, rendendo così più difficile la tracciabilità. La Cassazione cita dei casi specifici. Sono state condannate per riciclaggio due donne del clan che, nascondendo di essere mogli di boss della camorra dediti al narcotraffico, avevano intestato milioni di euro a una società fiduciaria, ottenendo, grazie allo “smobilizzo” dell’investimento, l’emissione in loro favore di assegni circolari. Riciclaggio in “famiglia” anche per il padre che versa 99 assegni circolari proventi di truffa nei conti correnti intestati ai figli. Spiegato il meccanismo la Cassazione annulla la sentenza e rinvia, respingendo anche la tesi di un imputato, secondo il quale la banca, che si era costituita parte civile, doveva essere estromessa dal giudizio. I giudici spiegano che esiste un interesse della parte civile a partecipare in sede di legittimità quando il Pm chiede una qualificazione in “peggio” del fatto, perché per effetto della vittoria dell’accusa può “lievitare” il danno morale per i turbamenti e il patema d’animo sofferto dalla vittima. Ed è questo il caso. Bancarotta, pene accessorie alla Consulta di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2017 Sotto esame la sproporzionata compromissione del diritto di iniziativa economica. Non convincono la Cassazione le sanzioni per la bancarotta. Tanto da rinviare la questione alla Corte costituzionale. Il dubbio sollevato ieri con la sentenza n. 52613 della Quinta sezione riguarda la durata delle misure accessorie, i 10 anni cioè previsti di inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e di incapacità a esercitare gli uffici direttivi presso ogni impresa. La pronuncia è stata emessa su ricorso presentato, tra gli altri da Cesare Geronzi e Matteo Arpe, in un filone del crac Parmalat riguardante la compravendita delle acque siciliane Ciappazzi. In appello a Geronzi erano stati inflitti 4 anni e mezzo e ad Arpe 3 e mezzo. Nel capo d’imputazione, fatti di bancarotta. La Cassazione adesso, investita della decisione sulla non manifesta infondatezza della previsione di un termine ampio e indifferenziato di inabilitazione come sanzione accessoria alla condanna per bancarotta, sottolinea come una violazione dei principi costituzionali è possibile sotto più punti di vista. Mette in evidenza, tra l’altro, rifacendosi a un precedente del 1980 (sentenza n. 50), come è riscontrabile una infrazione ai principi di eguaglianza, colpevolezza e proporzionalità, quando non è possibile adeguare la pena accessoria alle personali responsabilità. La risposta punitiva deve cioè essere aderente al tasso di colpevolezza accertato. Inoltre quello che per la Cassazione è un “inflessibile rigore della sanzione interdittiva” si traduce anche “in una ingiustificata, indiscriminata incidenza sulla possibilità dell’interessato di esercitare il suo diritto al lavoro non soltanto come fonte di sostentamento, anche come strumento di sviluppo della sua personalità”. A venire compresso in maniera drastica e non proporzionale è il diritto di iniziativa economica che si esercita anche attraverso l’attività d’impresa. Ma sul concetto di proporzionalità si incentra anche la contestazione per infrazione alla Convenzione dei diritti dell’uomo. In particolare all’articolo 8, e alla lettura data dai giudici di Strasburgo. Nella nozione cioè di vita privata rientrano anche le attività professionali e commerciali. Le limitazioni per effetto dell’applicazione della pena accessoria allora devono essere considerate come ingerenze nel godimento del diritto al rispetto della vita privata e devono essere, oltre che stabilite dalla legge proporzionate e finalizzate a uno scopo legittimo. Per la Cassazione, invece, sia l’automatismo conseguente alla condanna, sia la rigidità di durata della misura accessoria, senza la possibilità di graduare la misura sulla base della gravità delle condotte, sembrano stridere con i principi richiamati. La Cassazione fa poi un passo in più, delineando una possibile soluzione, consistente nella cancellazione della misura fissa dei 10 anni, facendo rivivere la regola base del Codice penale che, all’articolo 37, parifica la durata della pena accessoria a quella della pena base. Lauro (Av): il Garante regionale Ciambriello in visita alle mamme detenute Il Mattino, 18 novembre 2017 Il Garante: impegno per attrezzare le aree riservate ai bambini in visita “Dignità per chi sconta la pena”. “Da Benevento, Salerno, Pozzuoli, Avellino, Santa Maria Capua Vetere, dalle sezioni femminili, le detenute chiedano di essere trasferite a Lauro. L’impegno è portare altre detenute con bambini a Lauro, in questo istituto che è tra i pochi in Italia che è effettivamente funzionante”. Il Garante Regionale delle persone sottoposte a misure restrittive e limitative della libertà personale, Samuele Ciambriello in visita a Lauro all’istituto a custodi attenuata per detenute madri con minori a seguito. Un carcere che consente alle madri in carcere di avere con sei i figli fino all’età di sei anni. In attesa che venga innalzato il tetto dell’età dei bimbi fino ai 10 anni (anche per sostenere un percorso lungo di assistenza), a Lauro si sperimenta un sistema che consente alle donne detenute il dritto alla genitorialità e all’affettività. “Il percorso rieducativo non contrasta con questi diritti fondamentali”, dice Ciambriello. Ora si punta ad un’assistenza per queste donne e per i loro bambini, introducendo nell’istituto, d’intesa con il piano di zona, le figure dell’assistente sanitario e dello psicologo oltre alla puericultrice. Bisogna consentire alle donne di avere uno spazio anche per le donne che sono continuamente con i bambini. La richiesta sarà rivolta all’Asl. Ciambriello ha poi comunicato alle detenute e al direttore Paolo Pastena e al cappellano Padre Carlo De Angelis che saranno avviate attività ludiche ed educative prima di Natale. Nell’istituto irpino sono presenti sei detenute (cinque straniere e una è italiana) che hanno 8 figli di età compresa tra i 6 mesi e i 4 anni. L’obbiettivo è arrivare ad accogliere 35 donne con figli, alcune potrebbero arrivare dal carcere di Bellizzi. Le donne sono sistemate in bilocali con letti, culle e armadio e una zona giorno con angolo cottura. Agli ospiti, mamme e bambini, sono stati portate dei doni dal garante dei regali e la guida “Diritti e i Doveri dei detenuti” tradotta in 5 lingue. Per Ciambriello è fondamentale umanizzare le carceri e anche in altri istituti tradizionali della regione sarà necessario pensare a spazi per i bambini che arrivano per l’incontro con i familiari, quindi prima dei colloqui. Per Ariano Irpino e per il carcere di Salerno c’è già un bando regionale per portare le attrezzature nelle aree verdi dei carceri per i bambini prima o dopo i colloqui. Ciambriello spiega che si tratta di un’opportunità che riguarda 400 donne su 57 mila detenuti. Ma se si ha la possibilità di far loro vivere una dimensione più umana, si offre un’occasione. Chi sbaglia non gli si deve togliere la dignità oltre alla libertà a chi si deve rieducare. Dove è possibile bisogna consentire una dimensione umana. “Qui i figli sorridono, vivono. Questa è la mia esperienza. Per questi bimbi visite mediche e un pulmino comunale che li porta a scuola. Mi auguro che dalle sezioni femminile degli Istituti penitenziari campani e dal carcere femminile di Pozzuoli possono arrivare richieste di donne detenute, con figli minori a carico, che volontariamente chiedano di essere trasferite per favorire e tutelare il legame genitoriale ed affettivo”. Prato: da detenuti a tirocinanti, quando lo stage apre le porte del carcere di Annalisa Ausilio La Repubblica, 18 novembre 2017 Nicola ha vissuto gli ultimi dieci anni della sua vita dentro una cella, Endry (nomi di fantasia) oltre sedici. Immaginare il ritorno alla libertà è stato per loro un conforto nei momenti più duri. Ma difficilmente avrebbero pensato che l’occasione per uscire da quelle mura si sarebbe presentata sotto forma di tirocinio. Operatore con i disabili mentali “Una sensazione travolgente, un misto di elettrizzante felicità e paura del nuovo” racconta Nicola, 41 anni “nel giro di pochi minuti sono passato dalla condizione di educando a quella di educatore”. È ansioso, dopo anni in cella passati a preparare esami è arrivato per lui il momento di mettere in pratica quello che ha appreso sui libri. Nicola è stato uno studente-detenuto, si è iscritto al corso di laurea in Psicologia del lavoro dell’università di Urbino nel 2006 dal carcere di Fossombrone per poi passare alla facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Firenze dopo il trasferimento nell’istituto penitenziario di Prato. “Studiare significava evadere dalla pesantezza della detenzione”, spiega. Il tirocinio formativo previsto nel suo corso di studi, quattrocento ore per dieci crediti formativi, ha significato la possibilità di ritornare in quel mondo che da anni vedeva attraverso le sbarre. Così ha lasciato la cella per assistere persone con disturbi psichiatrici in un centro gestito dalla cooperativa Alice. “Ho ottenuto un articolo 21 esterno, un beneficio concesso dal direttore dell’istituto penitenziario che consente di lavorare all’esterno”. Per tre mesi, da ottobre 2011 a gennaio 2012, Nicola ha assistito gli utenti della casa famiglia, rientrando in carcere alle otto di sera. “La mia condizione mi ha permesso di sviluppare empatia con gli ospiti, trascorrevamo le giornate insieme ma la sera anche loro come me andavano a dormire in una stanza, beh certo loro, a differenza mia, erano liberi di lasciare il centro in qualsiasi momento”. La fine del tirocinio avrebbe significato per Nicola il ritorno al normale regime detentivo fino alla fine della pena. Attraverso l’università di Firenze è riuscito però ad ottenere un altro stage: stavolta presso la polisportiva Aurora, che organizza attività ricreative per persone affette da disabilità mentale. “La psichiatria mi ha sempre interessato, lavorare con queste persone è un’esperienza profondamente formativa che mi ha fatto conoscere una parte di me che non credevo di possedere”. Per sei mesi quindi ha giocato sui campi di calcio, rugby e pallavolo con gli utenti della Polisportiva condividendo con loro passeggiate nei boschi e gite nell’hinterland pratese. “Grazie agli stage ho avuto la possibilità di acquisire competenze e conoscenze fondamentali per iniziare un percorso di reinserimento”. Tre mesi fa ha ottenuto la scarcerazione e, come tutti gli stagisti, ha cercato una possibilità di inserimento lavorativo. Magari proprio nella cooperativa Alice: “Sono rimasti molto soddisfatti del mio lavoro e forse una possibilità c’è”. Per ora scrive la tesi - la discuterà a febbraio - e per arrotondare, fa lo spedizioniere. Tramite l’assistente sociale ha ottenuto una borsa lavoro dal Comune di Prato, lavorerà come giardiniere. Prima dell’assunzione, tre mesi di tirocinio con un rimborso spese di 500 euro. Obiettivo: diventare assistente sociale. Anche Endry ha studiato nel carcere di Prato, anni sui libri inseguendo un sogno. Durante il suo percorso universitario ha svolto tre tirocini, due dei quali in centri di assistenza per anziani, “i nonni” li definisce. “Uno crede che dopo tanti anni dietro le sbarre non ci sia niente di peggio del carcere, ma anche fuori ci sono tante situazioni drammatiche. Il mio primo contatto con l’esterno è stato con la sofferenza”. Lui, che ha convissuto sia con il dolore psicologico che fisico, qualche hanno fa ha subìto un pesante intervento chirurgico, ha conosciuto in questa condizione di marginalità l’altruismo degli operatori. “Vedere la dedizione di queste persone, l’aiuto che forniscono quotidianamente ai nonni mi ha reso ancora più convinto della mia scelta”. Nel 2004, a quarantacinque anni, Endry si è iscritto al corso di laurea in Servizio sociale dalla casa circondariale di Prato, dopo aver preso la licenza elementare, media e superiore dietro le sbarre. Per imparare l’italiano ha dovuto mettere da parte il diploma preso in Albania, il suo paese d’origine e ricominciare da zero. “Ho scelto questa facoltà perché voglio aiutare gli altri, rendermi utile come le persone che mi sono state vicine, senza le quali non avrei mai saputo affrontare una condanna di trent’anni”. Dopo l’assistenza ai “nonni”, ha svolto il terzo stage previsto dal suo corso di laurea, a fianco di un’assistente sociale in una struttura delle Asl. Un’esperienza più lunga, di 440 ore cioè quasi tre mesi a tempo pieno: “In questa occasione ho capito la complessità del lavoro che voglio fare”. Al momento Endry lavora all’esterno e rientra in carcere la sera. Sa bene che la sua strada sarà in salita date le difficoltà di inserimento in cooperative sociali e la sua condizione di detenuto. Fra pochi mesi conseguirà la laurea magistrale ed è determinato a portare avanti il suo obiettivo. “Se mi sarà concessa questa possibilità sarò l’uomo più felice della terra, in caso contrario” promette “io comunque non mollo”. Ancona: detenuti sui banchi di scuola, corsi per il recupero sociale dei carcerati anconatoday.it, 18 novembre 2017 La formazione professionale e il lavoro rappresentano i pilastri del trattamento educativo all’interno delle strutture carcerarie. La Cna, da sempre attenta al sociale, ha iniziato sette anni fa un percorso formativo rivolto proprio ai detenuti, al fine di favorire una futura concreta possibilità di reinserimento sociale a fine pena. I corsi si sono svolti negli anni sia nella struttura di Montacuto, sia in quella di Barcaglione. L’ultimo in ordine di tempo organizzato da Cna, finanziato nell’ambito di Ancona ATS11 che ha approvato per l’anno 2017 il piano di interventi in materia penitenziaria, si è appena concluso a Montacuto. Ben 20 detenuti hanno frequentato le attività del corso per elettricisti, ottenendo l’attestato di partecipazione professionalizzante che potrà essere utilizzato per i crediti formativi una volta scontata la pena. “La possibilità di recupero sociale dei carcerati - dichiara Loredana Giacomini, presidente Cna Ancona - passa prioritariamente dal lavoro. Riuscire ad insegnare un mestiere richiesto dal mercato, come la professione artigiana di elettricista, può essere la soluzione per molte di queste persone che si sono trovate in difficoltà, hanno pagato per i loro errori e cercano un riscatto. Un’esperienza toccante, molto ricca anche sotto il profilo umano e relazionale”. Roma: “L’impatto del teatro in carcere”, alla Camera la presentazione del libro Redattore Sociale, 18 novembre 2017 Il prossimo 22 novembre 2017 verrà presentato alla Camera dei Deputati il libro “L’impatto del teatro in carcere. Misurazione e cambiamento nel sistema penitenziario”. Il volume presenta i primi risultati di una ricerca sulla misurazione dell’impatto del teatro in carcere condotta presso la Casa di Reclusione di Milano-Opera. L’attività di ricerca e misurazione è stata svolta tra dicembre 2015 e gennaio 2017 e ha visto il coinvolgimento di 260 detenuti oltre a polizia penitenziaria, educatori, medici, ex-detenuti, volontari e organizzazioni del terzo settore. L’attività di ricerca è stata coordinata del prof. Filippo Giordano che è fra gli autori della pubblicazione. Oltre agli autori interverranno alla presentazione: Andrea Orlando, Ministro della Giustizia, Francesco Bonini, Rettore Università Lumsa, Santi Consolo, Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Stefano Dambruoso, Magistrato e Questore Camera dei Deputati, Pr Laurent Mazas, Direttore esecutivo Fondazione Cortile dei Gentili, Dott. Riccardo Turrini Vita, Direttore generale Formazione Dap, Luca Mattiucci, Corriere della Sera. Livorno: “Ombre della sera”, docu-film di Valentina Esposito, interpretato da detenuti riverflash.it, 18 novembre 2017 Sarà proiettato a Livorno, domenica 19 novembre al Circolo del Cinema Kinoglaz, presso il Centro Artistico Il Grattacielo (via del platano,6) all’interno della rassegna “Sguardi In Autunno” il docu-film Ombre della Sera, opera prima di Valentina Esposito, prodotto da Simonfilm e Lupin Film, che racconta il mondo degli affetti di detenuti in misura alternativa ed ex detenuti che ‘tornano a casà, tra rimpianti e una vita da ricostruire. Il film sarà proiettato alle ore 18:00 e sarà preceduto, alle ore 17:00 da un incontro-dibattito a cura di Arci Solidarietà Livorno, con gli attori del film Alessandro Bernardini, Giancarlo Porcacchia e il livornese Matteo Cateni, attualmente impegnati con la compagnia Fort Apache Cinema Teatro e con la testimonianza di Giacomo Silvano, detenuto presso il Carcere di Volterra e attore della Compagnia della Fortezza. Alle ore 22:00 presso il Nuovo Teatro delle Commedie concerto dei Villa Sound, gruppo rap e hardcore latino capeggiato da Matteo Cateni. Biglietto unico a 5 euro e un euro per la tessera annuale. Un film che è prima di tutto un progetto che intende non solo descrivere l’invisibile dolore di chi vive dietro le sbarre e deve fare i conti con la vita ‘fuori’, ma anche raccontare di una concreta possibilità per gli ex detenuti divenuti attori di costruirsi una seconda opportunità professionale. Realizzato con il Patrocinio del Ministero della Giustizia, del Consiglio Regionale del Lazio, riconosciuto di interesse culturale dal Mibact Direzione Cinema e sostenuto dal Fondo Cinema e Audiovisivo della Regione Lazio, Ombre della Sera, presentato recentemente alla Commissione Diritti Umani del Senato della Repubblica, ha iniziato un tour nelle sale con una distribuzione indipendente che sta toccando carceri, università e mondo associazionistico, in città quali Torino (21 febbraio al cinema Baretti) e prossimamente anche a La Spezia. Il film, che vede l’amichevole partecipazione di Pippo Delbono, è stato candidato ai Nastri D’Argento 2017 nella sezione Docu-Film, ha ottenuto la Menzione Speciale al Bafici Film Festival di Buenos Aires e partecipato al Sofia International Film Festival (Fuori Concorso), al Riff - Rome Independent Film Festival e al Cairo International Women Film Festival. Interpretato da detenuti in misura alternativa e da ex detenuti attori del Carcere di Rebibbia (oggi attori della compagnia Fort Apache), trae ispirazione dalla biografia dei protagonisti e delle loro famiglie per svelare allo spettatore l’aspetto più intimo e delicato del percorso di reinserimento che intraprendono i “liberanti” tornando nel mondo esterno dopo anni di lontananza. Storie intrecciate, attraverso i complessi e sconosciuti labirinti della libertà. Uomini condannati e afflitti, nel tentativo di espiare i propri peccati e di ricostruire le proprie vite. “Ombre della Sera - sottolinea la regista - è un film sul ritorno: il ritorno a casa e agli affetti dopo anni di lontananza e separazione. Mi sono mossa con discrezione tra la verità e la ricostruzione cinematografica per raccontare la condizione emotiva di chi è condannato per sempre a vivere tra la vita dentro e quella fuori dal carcere, tra le ombre del passato e il bisogno disperato di ritrovarsi nel presente”. Privacy. Fine dell’anonimato in Rete, uno scenario che si sta avvicinando di Martina Pennisi Corriere della Sera, 18 novembre 2017 Ev Williams e Tim Berners-Lee, sono solo due fra le personalità di spicco ad aver manifestato preoccupazione e sentenziato, il secondo, che “Internet è rotta”. Una delle soluzioni è l’addio agli pseudonimi e al tentativo - ammesso che sia applicabile - di rendersi irrintracciabili, e di conseguenza alla tutela di whistleblower o dissidenti? “L’anonimato in Rete aiuta le persone a esprimersi liberamente”. Lo ha dichiarato il general counsel di Twitter Sean Edgett al Senato Usa. Una risposta anche ai sempre più frequenti auspici dell’utilizzo di identità reali sulle piattaforme per arginare la proliferazione di bot, troll, cyberbullismo, fake news o propaganda. Dal principe William, “l’anonimato è molto molto pericoloso”, a Kevin Kelly, fra i maggiori teorici di Internet, secondo cui Facebook dovrebbe imporre un’identificazione certa ai suoi iscritti. In gioco c’è, o sembra esserci, il futuro della Rete: il fondatore di Twitter Ev Williams e uno dei padri di Internet, Tim Berners-Lee, sono solo due fra le personalità di spicco del settore ad aver manifestato preoccupazione e sentenziato, il secondo, che “Internet è rotta”. Una delle soluzioni è l’addio agli pseudonimi e al tentativo - ammesso che sia applicabile - di rendersi irrintracciabili, e di conseguenza alla tutela di whistleblower o dissidenti? In realtà la “verifica al 100 per 100”, auspicata da Kelly, potrebbe essere ridondante in un contesto in cui i nickname non proteggono chi sia chiamato a rispondere legalmente di un abuso. E, soprattutto, in cui i concetti di identità e dati anonimi sembrano ormai superati per l’utente comune. La conferma risiede nel nuovo Regolamento europeo per la protezione dei dati, applicabile dal maggio del 2018: nei considerando introduttivi si parla di pseudonimizzazione per “destrutturare la informazioni relative a un individuo in modo da rendere meno probabile l’applicazione di una procedura secondo la quale si riesca a individuarlo in modo inequivocabile”, spiega l’esperto di informatica forense Riccardo Meggiato. “Le modalità di identificazione sono aumentate esponenzialmente, parlare di anonimato reale è sempre più difficile”, incalza Chiara Romano del Garante della Privacy. Gli algoritmi consentono un incrocio di dati e di tracce tale da ridurre la dimensione dei cluster fino a rendere pressoché immediato il collegamento tra un soggetto e le sue informazioni. Il docente di sicurezza informatica del Politecnico di Milano Stefano Zanero sottolinea inoltre come sia “sempre più complesso e meno alla portata di tutti” celare la propria identità durante la navigazione anche con sistemi avanzati. Cyberbullismo. 4 adolescenti su 10 hanno un profilo social accessibile a chiunque di Simone Cosimi La Repubblica, 18 novembre 2017 L’indagine di quattro atenei su 1.500 giovani: quasi il 30% ha subito forme di abuso, specialmente via Facebook e WhatsApp. Qualcosa si muove ma c’è da lavorare sulla prevenzione: cancellare periodicamente i contatti non basta. C’è ancora poca consapevolezza dei rischi. Specialmente nel lasciare i profili dei social network “aperti”, cioè disponibili a chiunque. E poi le esperienze sperimentate: il 27,8% dei ragazzi ha risposto di aver subito nell’ultimo anno una forma di bullismo, il 20% ha ricevuto messaggi a contenuto sessuale e il 5% circa si è accorto che qualcuno aveva creato un proprio profilo falso, in quello che è a tutti gli effetti reato di sostituzione d’identità. Infine, il 13,6% ha scovato online foto che non voleva fossero diffuse. Sono le cifre, impietose, di uno studio firmato da quattro atenei (Federico II di Napoli, Sapienza e Lumsa di Roma, Cattolica di Milano) e promosso dai Corecom di Lombardia, Lazio e Campania battezzato Web reputation e comportamenti online degli adolescenti in Italia. Al centro proprio i ragazzi (ne sono stati ascoltati 1.500 dalle tre regioni) e l’uso che fanno delle piattaforme sociali, da Facebook in giù. Emerge anzitutto l’onnipresenza: il 95,5% degli utenti fra 15 e 18 anni dispone di almeno un profilo sui social network. Quelli tra gli 11 e i 14 toccano il 77,5%. Secondo l’indagine, il 39,6% delle vittime ha sperimentato una qualche forma di abuso su Facebook, il 31,7% su WhatsApp, il 14,3% con chiamate ed sms sul proprio cellulare e l’8,1% su Instagram, che si conferma la piattaforma più lontana da questo genere di fenomeni. In seconda battuta esce la scarsa consapevolezza degli strumenti per la riservatezza personale: il 40,3% ha infatti un profilo pubblico. Solo il 57% - la maggioranza, certo, ma a fronte di una sterminata minoranza - ha impostato i propri account come privati, cioè visibili solo ai contatti con cui si è in collegamento. Mentre poco meno della metà (45,7%) ha aggiunto alla propria lista di contatti persone che non aveva mai incontrato faccia a faccia o inviato loro informazioni personali (30,9%). Privati o pubblici che siano, i profili dei social sono scrigni di tante (troppe) informazioni personali. Se il volto è ovviamente impossibile da non condividere (il 73% ha postato proprie foto e il 72% scatti e video personali), il 64,7% ha ovviamente diffuso anche il cognome, la metà pure la scuola frequentata e il 19% perfino il numero di telefono. Per fortuna solo una minoranza, il 9,1%, ha pubblicato l’indirizzo della propria abitazione. D’altronde, chi possiede profili pubblici ha il 10% di probabilità in più di andare incontro ai problemi citati prima, dal cyberbullismo all’abuso dei dati personali. Qualche segnale, tuttavia, comincia a emergere. Anche se il rimedio più frequente (60,4%) è quello di periodiche cancellazioni di amici o contatti non più graditi. C’è dunque ancora molto da fare sulla prevenzione: pochi (36,2%) quelli che hanno deciso di non pubblicare qualcosa per paura che potesse danneggiare la propria immagine mentre il 25,1% ha postato messaggi in codice che solo alcuni amici potessero capire. Anche le scuole, passo dopo passo, iniziano a ritagliarsi il ruolo che spetta loro: un terzo degli intervistati ha spiegato infatti di aver ricevuto consigli dai propri insegnanti su come comportarsi con i propri contatti online (32%) e su cosa fare nel caso in cui qualcosa li turbasse o infastidisse su internet (32,7%).