Quelli che vogliono il carcere duro per gli altri perché non sanno di essere liberi di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 17 novembre 2017 Nulla, quanto l’orribile situazione delle carceri, denuncia la rovina civile del nostro Paese. E nulla, quanto la generalizzata indifferenza per quell’orrore, denuncia la bassezza delle classi politiche e di governo che non si dice per minima sensibilità liberale, ma già solo per rispetto dell’ordinamento costituzionale, avrebbero dovuto e dovrebbero occuparsi di migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Governa le carceri una situazione di intollerabile afflizione e annientamento di ogni diritto (già il diritto di non ammalarsi, il diritto di ricevere cure adeguate, il diritto di disporre di spazi appena vivibili: già questi diritti, ormai normalmente riconosciuti anche alle bestie, sono negati a una quantità detenuti): e di fronte a questa situazione conclamata, nota a tutti, nessuno fa nulla. Perché? Perché nessuno mette in campo iniziative e soluzioni rivolte a far cessare questa vergogna? La risposta, semplice e terribile, è quella che ben si conosce: proporsi a difesa dei diritti dei detenuti, protestare l’esigenza non si dice umanitaria e cristiana, ma, ripeto, anche solo costituzionale e di diritto, che la vita rinchiusa delle persone incarcerate sia almeno decente, ecco, tutto questo non paga. Anzi costa. Costa la perdita di voti, di consenso. Perché configge con un sentimento radicato e diffusissimo, che si oppone quasi naturalmente e come un obbligato movimento di viscere a qualsiasi ragione di riforma civile su questo fronte. Qual è infatti la ragione profonda per cui si fa fatica a dire, e quasi pare una bestemmia, che il detenuto dovrebbe poter vivere decentemente quantunque carcerato? Qual è la ragione intima per cui ripugna generalmente l’idea che il carcerato abbia diritto di mangiare bene, di disporre di spazi vivibili e puliti, di potersi dedicare ad attività interessanti, studiare, leggere, fare sport, e magari di poter avere una vita affettiva e sessuale? Per quale motivo anche solo ipotizzare un’organizzazione di quest’altro tipo suscita addirittura sdegno, e la risposta per cui semmai bisognerebbe riservargli pane e acqua? Dice: “Ma come? Quello ha rubato, ha truffato, ha ucciso, e noi dovremmo anche trattarlo bene? Noi fuori, gente onesta, a faticare per arrivare a fine mese, mentre quelli, delinquenti, come in un albergo di lusso”. Questa risposta, che è la risposta comune, dipende dalla comune indifferenza per il bene primario che in realtà è sottratto al detenuto: la libertà. Dipende dalla comune mancanza di senso liberale della vita. Dipende dalla condizione di mancanza di libertà che affligge innanzitutto la vita di quelli che stanno fuori. Come chi sta fuori non avverte, non apprezza lo stato di libertà di cui in teoria gode, così egli non avverte quale sia la portata della privazione che affligge il detenuto, cioè appunto la mancanza di libertà. Ecco perché chi sta fuori pretende che il detenuto mangi male. Ecco perché pretende che viva in spazi angusti. Ecco perché si rivolta anche alla sola idea che il detenuto possa coltivare interessi, distrarsi, magari divertisti. Ecco, infine, perché chi sta fuori pretende che il detenuto “soffra”. Perché chi sta fuori condivide in realtà con il detenuto la medesima condizione di mancanza di libertà. E non avvertendo da questo punto di vista nessuna differenza di stato tra sé e il detenuto, allora chi sta fuori non tollera che quello stia “bene”. Non gli importa che quello, in realtà, per quanto bene possa mangiare, per quante comodità e piacevolezze (si fa per dire) gli siano concesse, comunque non è libero. Non gli importa perché gli è indifferente la libertà: la propria, innanzitutto, e dunque l’altrui. È questa la ragione per cui l’orrore delle carceri dovrebbe rappresentare un problema per tutti. Questa la ragione per cui le condizioni incivili in cui vivono i carcerati dovrebbero riguardare tutti, preoccupare tutti, costituire una pena per tutti. Perché in questa vergogna è implicata una questione di libertà: non quella dei detenuti, conculcata: ma quella di chi sta fuori, malvissuta. Medicina penitenziaria: riparto da oltre 165 milioni alle Regioni quotidianosanita.it, 17 novembre 2017 Intesa in Conferenza Stato Regioni. Cambiano i criteri che si basano su due sole percentuali: il 65% in base all’incidenza dei detenuti presenti e il 35% in base ai nuovi. In base a una richiesta della Commissione salute i nuovi criteri di riparto saranno modulati nell’arco di un biennio. Riparto per la medicina penitenziaria, si cambia. Si tratta di 167.800.000 previsti dalla legge 244/2007, ridotti di 2.375.977 come previsto dalla legge di stabilità 2014 attraverso l’eliminazione della quota del Friuli Venezia Giulia e la successiva riduzione proporzionale degli importi che spettano spettanti alle restanti Regioni. Il vecchio criterio prevedeva l’assegnazione dei fondi in base. auna quota indistinta (calcolata per ii 65% in proporzione al numero di detenuti adulti presenti negli istituti penitenziari e al numero di minori in carico ai servizi della Giustizia Minorile, per il 30% in proporzione al numero degli ingressi dalla libertà dei detenuti adulti e dei minori, e per ii 5% in proporzione alla presenza di istituti penitenziari con capienza regolamentare inferiore ai 200 posti attivi),di una quota riferita alla presenza degli ospedali psichiatrici giudiziari e di una quota riferita alla presenza dei Centri clinici. Il nuovo criterio - su cui c’è stata l’intesa Stato-Regioni - prevede sempre a una quota indistinta, ma articolata su due sole percentuali. Il 65% sarà assegnato sulla base dell’incidenza percentuale complessiva del numero di detenuti adulti presenti negli istituti penitenziari a fine 2016 e del numero di minori in carico ai servizi della Giustizia Minorile alla stessa data, attribuendo un peso pari a 1 nel caso di inserimento di minori in Istituti Penali Minorili, Centri di Prima Accoglienza c Comunità ministeriali, e un peso pari a 1/10 nel caso di inserimento di minori in Comunità private. Il 35% è assegnato invece in base dell’ incidenza percentuale complessiva del numero di ingressi dalla libertà dei detenuti adulti al fine 2016 e del numero degli ingressi dalla libertà dei minori sempre alla stessa data, attribuendo un peso pari a 1 in caso di inserimento in Istituti Penali Minorili, in Cpa (Centri di Prima Accoglienza) e Comunità ministeriali, e un peso pari a 1/10 se inseriti in Comunità private. La proposta di riparto poi fa riferimento a una specifica richiesta formulata dalla Commissione Salute delle Regioni sulla possibilità che le ricadute finanziarie che derivano dall’applicazione dei nuovi criteri di riparto siano modulate nell’arco di un biennio e, quindi, il riparto è stato rettificato di conseguenza. Rita Bernardini sospende lo sciopero della fame e oggi incontra il Ministro Orlando di Veronica D’Agostino openmag.it, 17 novembre 2017 Rita Bernardini, coordinatrice della Presidenza del Partito Radicale, in sciopero della fame da oltre 30 giorni, incontrerà oggi il ministro Orlando per discutere il tema carceri. La partita sembra ormai chiusa. Finalmente dopo oltre un mese di protesta, finalizzata all’approvazione dei decreti sull’ordinamento penitenziario, l’ex parlamentare, già Segretaria di Radicali Italiani, fondatrice del Fronte Radicali Invalidi, del Movimento dei Club Pannella-Riformatori e cofondatrice dell’Associazione Luca Coscioni, è riuscita ad attirare l’attenzione sul dramma delle carceri in Italia. Ci spieghi meglio cosa succede... La notizia veramente buona è che il Ministro, dopo 30 giorni di nostro sciopero della fame, è intervenuto a Radio Radicale per dire che i tre quarti dei decreti attuativi del nuovo ordinamento penitenziario sono stati inviati al Consiglio dei ministri; inoltre ha chiesto il nostro aiuto per fare in modo che il Presidente del Consiglio li calendarizzi e li licenzi al più presto. Orlando ha accettato il dialogo comprendendo che la nonviolenza non è ricatto ma una forma nobile di lotta che vuole far emergere il lato migliore dell’interlocutore. Così io e Deborah (Cianfanelli ndr) abbiamo sospeso lo sciopero e il 16 novembre alle otto di sera saremo ricevute dal ministro. Quanto è importante una riforma strutturale della giustizia per le casse del nostro Stato e quale sarebbe, in questo senso e sulla questione carceri, la scelta più urgente da compiere? Ormai non è solo il Partito Radicale ad affermare che una riforma strutturale e organica della giustizia farebbe guadagnare più di 2 punti di Pil al nostro Paese. In Italia lo Stato della giustizia ha raggiunto livelli di inefficienza assolutamente intollerabili, sconosciuti in altri Paesi democratici, per i quali, da anni ed in modo permanente, versiamo in una situazione di sostanziale illegalità per quanto riguarda le carceri, tale da aver generato numerosissime condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. L’enorme numero di processi pendenti sia nel settore civile che in quello penale e l’impossibilità che questi siano definiti in tempi ragionevoli hanno ormai determinato una sfiducia generalizzata dei cittadini nel sistema giustizia. Noi abbiamo chiaro quel che si dovrebbe fare a partire da un provvedimento di amnistia per ristabilire un minimo principio di legalità. Ma il nostro Paese è ostaggio delle burocrazie che sono ben insediate in ogni angolo delle nostre istituzioni e non potrebbe che essere così se contiamo 150.000 leggi e 35.000 fattispecie di reato. Occorrerebbe un’opera seria di semplificazione per arrivare ai livelli che si registrano in Europa: la Francia di leggi ne ha 7.000, la Germania circa 6.000, la Gran Bretagna 3.000: noi 20 o 50 volte di più. In questi giorni abbiamo assistito all’inizio del processo a carico di Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Coscioni (di cui lei è cofondatrice), per il suicidio assistito di Dj Fabo. Nel linguaggio radicale cos’è la disobbedienza civile? È una forma di lotta maledettamente seria. Se una legge è irragionevole, contraddittoria, stupida, la si viola per dimostrarlo; ci si assume la responsabilità, ci si autodenuncia. È Storia il fatto che Marco Pannella finì nelle carceri di Regina Coeli nel 1975 per aver fumato in pubblico uno spinello. È realtà il fatto che un’istituzione come la Direzione Nazionale Antimafia solo da due anni a questa parte si sia pronunciata a favore della legalizzazione della cannabis per colpire significativamente la criminalità mafiosa. Ci sono voluti decenni di scandali radicali per giungere alla presa di posizione della Dna, mi auguro che non ce ne vogliano altrettanti per la classe politica italiana ancora incapace di decisioni un minimo ragionevoli. Lo scandalo non sono io che ho fatto decine e decine di disobbedienze civili e ripetutamente ho coltivato marijuana sul mio terrazzo; lo scandalo, a pensarci bene, è la Procura della Repubblica di Roma che non mi arresta e nemmeno mi processa a differenza di quello che fa quotidianamente nei confronti di migliaia di consumatori coltivatori o piccoli spacciatori con cui riempie le carceri. Il prossimo anno si voterà il nuovo governo. Il Partito Radicale avrà il suo spazio? Lei corre troppo. Prima di fare il nuovo governo, ci saranno le elezioni che avverranno con una legge elettorale aberrante modificata a pochi mesi di distanza dal voto, un comportamento, quello delle nostre istituzioni, letteralmente fuorilegge secondo la Commissione di Venezia che raccomanda vivamente di non modificare la legge elettorale a un anno dal voto. Da anni, l’Italia non è una democrazia, non è uno Stato di diritto, ma anche per l’illegalità del sistema giustizia e per il sistema dell’informazione pubblica e privata che espelle i non graditi: pende, proprio su questo, una denuncia circostanziata della Lista Pannella davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Quanto al Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito, una regola statutaria prevede che non si possa presentare “in quanto tale”, con il proprio nome e il proprio simbolo, alle elezioni. La stessa regola valeva per tutti i soggetti dell’area radicale alcuni dei quali però, dopo la morte di Pannella, hanno cambiato idea. Marco non aveva mai voluto - e quanto aveva ragione! - che i radicali si trasformassero in uno dei tanti partitini partitocratici del sovraffollatissimo e indecente panorama politico italiano. Legge elettorale, informazione minacciata, brexit, Barcellona, Europa, immigrazione, diritti: quale sarebbe stata la priorità di Pannella? Quello che so è che l’ultima nuova (e antica) battaglia che ha lasciato Marco a chi vorrà raccoglierla è quella del riconoscimento in sede Onu del “diritto umano alla conoscenza” attraverso l’affermazione dello Stato di diritto e della democrazia. Il Partito Radicale ha raccolto in pieno questo suo lascito nella sua mozione congressuale approvata l’anno scorso a Rebibbia. Un bilancio a 50 anni dalla sua nascita: il movimento femminista ha tradito, in parte, gli scopi per il quale era nato? Oggi parlare di femminismo ha ancora senso? Mai fatto parte del movimento femminista. Negli anni 70 il Partito Radicale già rispondeva appieno alle mie idee e il Movimento di liberazione della donna era federato su obiettivi precisi, in particolare, quello per la legalizzazione dell’aborto. Senza bisogno di “quote rosa” nel 1976 il PR candidava in tutt’Italia donne capolista e metà delle liste erano formate da donne. Dei quattro eletti di allora due erano donne (Bonino e Faccio) e due maschietti (Pannella e Mellini). Quali sono gli strumenti, secondo lei, per combattere la cultura maschilista alla base della nostra società e che alimenta la violenza contro le donne? Intanto occorre ottenere parità di diritti: è inconcepibile che in Italia gli uomini a parità di lavoro e di mansioni debbano guadagnare più delle donne, fare carriere più rapide, occupare i vertici massimi delle aziende. Da questo punto di vista credo che occorra perseguire la strada dei ricorsi alle giurisdizioni superiori italiane, europee, onusiane. Da parte nostra, noi donne dobbiamo finirla di frignare e dobbiamo prenderci ciò che ci spetta; ma dobbiamo anche finirla - come purtroppo non di rado accade - di ricattare i padri mettendo di mezzo i figli o di denunciare a distanza di anni - a mezzo stampa e non nei tribunali dove c’è la possibilità di difendersi - violenze, molestie, abusi o avance sessuali come sta accadendo oggi. La violenza contro le donne non si combatte con la brutalità di leggi unicamente repressive, ma con più istruzione, più cultura, più rispetto dei diritti umani fondamentali per tutti. Come si immagina tra 10 anni e come sarà l’Italia che verrà? Ci vorrebbe Pannella per rispondere a questa domanda e per un semplice motivo: nella sua vita si è sempre comportato “come se” ciò che desiderava per se stesso e per la società in cui era immerso fosse stato già raggiunto. È così che, con il Partito Radicale, ha centrato obiettivi che sembravano impossibili ai più. Noi, per quel che possiamo, cerchiamo di fare tesoro di questa sua indicazione. Toghe in politica, chance per la stretta di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 17 novembre 2017 Legge al Senato, la Camera ha attenuato i limiti e i vincoli alle candidature. Le nuove norme si occupano anche dei magistrati oggi in parlamento. Ma per le prossime elezioni dominano le eccezioni. “Ci stiamo provando seriamente”, dice il senatore Lumia, capogruppo del Pd in commissione giustizia, a proposito della legge sui magistrati in politica. Tra i provvedimenti che hanno qualche speranza di essere approvati definitivamente prima della fine della legislatura c’è, un po’ in ombra rispetto ad altri più attesi (ius soli innanzitutto), la legge che pone dei limiti alla candidabilità di giudici e pm e introduce dei vincoli per il loro ritorno in organico. Limiti e vincoli troppo blandi, secondo i critici - Forza Italia e 5 Stelle, ma anche alcuni esponenti del Pd - che vorrebbero cancellare le modifiche (riduttive) approvate alla camera. Ma a questo punto rimandare la legge alla camera vorrebbe dire condannarla definitivamente. “Qualcosa potremmo modificare”, aggiunge ciò nonostante Lumia. Che ha proposto una modifica in senso più permissivo: escludere dai vincoli tutti i magistrati in pensione. E non solo, com’è previsto adesso, i magistrati in pensione da due anni. Proposta condivisa (anche da M5s e Sinistra) che però consegnerebbe le residue chance di approvazione a un voto di fiducia alla camera. “Il governo se la sente di impegnarsi?”, chiede il relatore Casson (Mdp). La risposta, non ufficiale, che si può ascoltare in via Arenula è praticamente opposta: “Sono i senatori a dover decidere se rendere disponibile per le prossime elezioni un sistema di regole, magari non perfetto ma che introduce comunque alcuni paletti seri alle candidature dei magistrati”. Dopo il passaggio alla camera, la legge non si occupa più del dovere di astensione (e quindi della possibilità di ricusazione) dei giudici che hanno partecipato alle elezioni, e che si trovino a dover giudicare altri candidati. Ma stabilisce che un magistrato non si può candidare nella circoscrizione (quindi nella regione, salvo per la camera nelle regioni grandi dove ci sono due o tre o quattro circoscrizioni) dove ha esercitato nei cinque anni precedenti. E in ogni caso non si può candidare se non si trova in aspettativa da almeno sei mesi al momento di accettare la candidatura (cosa che va fatta al massimo quando si depositano le liste). In teoria, dunque, queste norme escluderebbero dalle prossime elezioni tutti i magistrati che non sono già adesso in aspettativa. Ma questo solo in caso di scadenza naturale della legislatura. Se le camere com’è altamente probabile verranno sciolte prima di metà marzo, alle toghe per candidarsi basterà chiedere l’aspettativa al Csm al momento di firmare le liste. Tra chi spinge per l’approvazione della legge al senato c’è il presidente Grasso, che si è dimesso dalla magistratura nel 2013 dopo aver accettato la candidatura nel Pd. La nuova versione del testo, fermo in commissione a palazzo Madama da aprile, ha allentato i limiti al rientro in ruolo delle toghe candidate e non elette (niente funzioni inquirenti per due anni invece che cinque; niente più ricollocazione obbligatoria per cinque anni in organi collegiali e senza incarichi direttivi). Una norma transitoria si occupa dei magistrati fuori ruolo attualmente in parlamento (pochi: tre al senato e due alla camera) che potranno scegliere tra la Cassazione e l’avvocatura dello stato, senza poter assumere incarichi direttivi per due anni (erano tre). E dei tanti, oltre cento, magistrati che collaborano con i ministri o sono stati nominati commissari: il divieto di assumere incarichi direttivi al loro ritorno negli uffici di provenienza, per questa volta, non vale. Procuratore responsabile dei reati da perseguire di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 novembre 2017 Circolare Csm 16 novembre 2017. Monarca illuminato o despota assoluto? Di certo la circolare del Csm approvata ieri dal plenum all’unanimità ridisegna l’ufficio di procura, per la prima volta in maniera compiuta a 10 anni dalla riforma dell’ordinamento giudiziario, e disegna la centralità del capo procuratore. Un intervento condiviso, che arriva dopo 3 anni di lavoro e decine di audizioni (dai procuratori generali ai sostituti), e che è in qualche modo necessaria per le “periodiche fibrillazioni interne a uffici requirenti, anche di grandi dimensioni, che in questi anni, sono state portate all’attenzione del Csm”, si legge nella relazione introduttiva. Pur senza avvicinarsi al modello americano di rappresentante della pubblica accusa, alcuni aspetti della circolare certo fanno riflettere. Per esempio, pur nel rispetto del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, il Procuratore può elaborare criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti, indicare i criteri prescelti, tenendo conto, tra l’altro, della specifica realtà criminale e territoriale e delle risorse a disposizione. Una sorta di programma sul quale però poi il Procuratore sarà chiamato, almeno a livello “politico”. a rendere conto nel caso le priorità individuate si rivelassero infondate o irraggiungibili. Nel progetto organizzativo, il Procuratore della Repubblica, definisce i criteri di assegnazione e di co-assegnazione degli affari a singoli sostituti o a gruppi di essi e specifica che tali criteri devono assicurare una distribuzione equa e funzionale dei carichi di lavoro. Importanti i criteri sugli istituti dell’assegnazione e della co-assegnazione dei procedimenti, in particolare, si specifica che tanto l’assegnazione quanto la co-assegnazione hanno effetto per tutto il periodo delle indagini preliminari e fino alla definizione del procedimento e attribuiscono poi al magistrato la conduzione delle indagini e la determinazione degli esiti finali del procedimento stesso. Il Procuratore con l’atto di assegnazione o di co-assegnazione può stabilire i criteri cui il sostituto deve attenersi. Il Procuratore dovrà disciplinare le modalità di manifestazione dell’assenso obbligatorio per le misure cautelari, soprattutto quelle personali, perché su quelle reali potrà invece formalizzare la volontà di non vincolarle a un assenso formale. Per garantire il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale, può prevedere nel progetto organizzativo che determinati atti o categorie di atti posti in essere dai sostituti siano a lui preventivamente trasmessi per l’apposizione del “visto”. Il “visto” ha l’obiettivo di verificare, tra l’altro, la corretta attuazione, da parte dei sostituti, delle direttive emanate dal Procuratore della Repubblica. Anche il potere di revoca dell’assegnazione e della designazione è oggetto di un’articolata disciplina, i cui cardini sono rappresentati dall’individuazione dei presupposti, dalla necessità che la revoca sia effettuata come extrema ratio e dopo accurata interlocuzione, e dalla necessaria trasmissione dell’atto di revoca, delle osservazioni e delle eventuali controdeduzioni al Consiglio superiore della magistratura, che potrà formulare osservazioni rilievi. Nella circolare è stato individuato uno statuto minimo delle attribuzioni del Procuratore Aggiunto,- figura semi-direttiva per la quale il legislatore del 2006 non aveva individuato compiti e funzioni nell’architettura dell’ufficio, garantendo che a tale figura, al di là delle specifiche disposizioni organizzative, vengano effettivamente riconosciuti compiti di semi-direzione. Caso Cucchi, al via il processo ai carabinieri di Edoardo Izzo La Stampa, 17 novembre 2017 I militari dell’Arma sono gli stessi che lo arrestarono il 22 ottobre 2009 nel parco degli acquedotti di Roma. “C’è rabbia. Stefano potrebbe essere il fratello o il compagno di ognuno”. Ha parlato con la voce rotta dalle emozioni Ilaria Cucchi, a margine del processo che vede imputati 5 carabinieri coinvolti nel brutale pestaggio che il 22 ottobre 2009 portò alla morte di suo fratello Stefano. La prima udienza si è svolta oggi davanti ai giudici della prima Corte d’Assise del tribunale di Roma. I militari dell’Arma sono gli stessi che lo arrestarono quel giorno nel parco degli acquedotti di Roma: Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco (che rispondono di omicidio preterintenzionale), Roberto Mandolini e Vincenzo Nicolardi (che rispondono di calunnia). “Si è perso tanto tempo. Sono passati otto anni in cui si è fatta tanta confusione. È arrivato il momento di smettere di perdere tempo e fare chiarezza”, ha detto il pm Giovanni Musarò che contesta ai tre militari dell’Arma l’omicidio. Avrebbero provocato la morte di Stefano “con schiaffi, calci e pugni”, provocando con “una rovinosa caduta con impatto al suolo della regione sacrale” lesioni guaribili in almeno 180 giorni e in parte esiti permanenti, che poi hanno portato alla morte di Cucchi. Ai carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale viene contestato anche l’abuso di autorità per aver sottoposto il geometra “a misure di rigore non consentite dalla legge”. Il tutto, per la procura, con “l’aggravante di aver commesso il fatto per futili motivi, riconducibili alla resistenza posta in essere da Cucchi al momento del foto-segnalamento presso i locali della Compagnia di Roma Casilina” dove era stato successivamente trasferito. Falso e calunnia sono contestati a Tedesco e al maresciallo Roberto Mandolini (che comandava la stazione Appia dove nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 venne fatto l’arresto) e, solo per il secondo reato, al carabiniere Vincenzo Nicolardi. “Le lesioni procurate a Stefano Cucchi, il quale fra le altre cose, durante la degenza presso l’ospedale Sandro Pertini subiva un notevole calo ponderale anche perché non si alimentava correttamente - è scritto ancora nel capo d’imputazione - a causa e in ragione del trauma subìto, ne cagionavano la morte”. Rita Calore, mamma di Stefano Cucchi, a margine della prima udienza ha detto: “Stefano merita giustizia perché non si può morire così e noi non ci fermeremo mai finché non sarà fatta giustizia. Lo abbiamo promesso a Stefano: davanti a quel corpo massacrato”. “Ho fiducia che questa volta i responsabili della morte di mio fratello e di anni ed anni di depistaggi saranno puniti”, gli ha fatto eco la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi che ha aggiunto: “La verità è in quest’aula, ma non sarà facile farla emergere. Perché proveranno a confondere le acque, dilatare i tempi. Siamo pronti a tutto”. I magistrati ascoltate le argomentazioni delle parti riguardo le liste testi hanno rinviato all’11 gennaio. Nei primi giorni dell’anno sarà anche depositata la perizia con le diverse intercettazioni ambientali e telefoniche per cui è stata sollecitata la trascrizione. Morto il boss Totò Riina, l’ultimo capo di Cosa nostra di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 17 novembre 2017 È morto Totò Riina, il capo di Cosa nostra. L’ultimo riconosciuto. Né la Commissione provinciale né quella regionale, infatti, dopo il suo arresto il 15 gennaio 1993 e 24 anni di latitanza, sono mai più tornate a riunirsi. La vita di Riina, 87 anni, che ha accumulato 26 condanne all’ergastolo per decine di omicidi e stragi, nato a Corleone (Palermo) il 16 novembre 1930, si è spenta dopo alcuni giorni di coma nel Reparto detenuti dell’ospedale di Parma, dove era ricoverato da gennaio 2016. La morte dignitosa, che i suoi legali avevano richiesto e che la Cassazione aveva suggellato a marzo di quest’anno, è arrivata senza che abbia potuto tornare nella sua Corleone. Una fine dignitosa che neppure sfiorò il giudice Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini di scorta, dilaniati nel 1992 nella strage di Capaci. Dietro quella strage, così come dietro quella in cui poco dopo perse la vita il giudice Paolo Borsellino e gli uomini che lo vigilavano giorno e notte, così come dietro i successivi tentativi di strage tra Roma, Firenze e Milano, c’era la sua follia e quella degli uomini pronti a rincorrerla. Fino a che - secondo la ricostruzione che da anni sta tentando di ricucire la procura di Palermo, finora senza successo - non giunse la trattativa con settori marci e deviati dello Stato per porre fine alla macelleria mafiosa. La strategia stragista, quella prova di forza con le Istituzioni a suon di morti e bombe, si sarebbe conclusa in cambio di favori inconfessabili. Nel processo a suo carico, in corso a Palermo sulla trattativa Stato-mafia, Riina era imputato di minaccia a Corpo politico dello Stato. La carriera criminale di Riina - detto “u curtu” per la sua statura o “la belva” per la sua crudeltà senza limiti - è stata un crescendo mortale e appare persino riduttivo ripercorrerne le tappe. A 19 anni aveva già conosciuto il carcere, poi arrivò la strage di Via Lazio del 10 dicembre 1969 e su per li rami criminali giunse ad alleanze sempre più strette, non solo all’interno di Cosa nostra ma anche con la ‘ndrangheta e la camorra. Grazie al boss Luciano Liggio, che lo allevò come un figlio pronto a prenderne un giorno il posto, Riina imparò presto che i matrimoni di interessi con Calabria e Campania, nel nome degli affari milionari da spartirsi, potevano tornare utili. Così si legò a don Mico Tripodo, vecchio capobastone della ‘ndrangheta di cui divenne compare d’anello e ai fratelli camorristi Nuvoletta che erano formalmente affiliati a Cosa nostra. Nel 1981 lui e i suoi uomini versarono e fecero versare fiumi di sangue con centinaia di morti nella seconda guerra di mafia dalla quale uscì vincitore tanto da imporsi, nel 1982, come capo della “cupola”. Questo curriculum sintetico si arricchisce di omicidi, intimidazioni, processi, condanne e persino assoluzioni, tutto rigorosamente in latitanza. Quando, il 15 gennaio 1993, giunsero le manette a Totò Riina, provocarono un terremoto che, come ricordano Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia nella richiesta di archiviazione al Gip di Palermo dell’indagine “Sistemi criminali”, determinarono la frammentazione degli assetti di potere interni all’organizzazione e lo scompaginamento di una direzione unitaria. Mai avuto un cenno di pentimento: solo tre anni fa, dal carcere parlando con un co-detenuto, si vantava dell’omicidio di Falcone e continuava a minacciare di morte i magistrati. Con la sua morte si apre la corsa alla successione nella quale non sembra stagliarsi il profilo del boss latitante Matteo Messina Denaro, nonostante ci sia chi, tra gli analisti più che tra investigatori e inquirenti, ne è convinto. Totò Riina morto: nella sua tomba il segreto dei segreti di Andrea Purgatori huffingtonpost.it, 17 novembre 2017 Ci fu o no trattativa tra Cosa Nostra e lo Stato? Fu Provenzano o no a venderlo ai carabinieri? Non lo sapremo mai. U Curtu se ne va un anno e spicci dopo il suo compare Bernardo Provenzano, portandosi nella tomba l’altra metà del segreto dei segreti su cui la Procura di Palermo si è rotta la testa: ci fu o no trattativa tra Cosa Nostra e lo Stato? Fu il suo compare o no a venderlo ai carabinieri? Non lo sapremo mai, anche se per molti è più rassicurante pensare e raccontarsi che tutto sia filato come succede tra guardie e ladri. Per il resto Salvatore Riina da Corleone, classe 1930, 26 ergastoli da scontare e 24 anni di carcere consumati a rimuginare, minacciare e ripetersi che a dare la vita e la morte era sempre lui, muto è rimasto fino alla fine. Muto come si conviene a un Capo dei capi e assassino feroce che, tra acido per squagliare i bambini e bombe per le stragi, non si è mai fatto mancare nulla. Il mondo che aveva visto soccombere magistrati e poliziotti, che aveva visto saltare in aria strade e autostrade, rimase sbalordito davanti a quella faccia da contadino spaesato che la mattina del 15 gennaio 1993 accompagnò la notizia del suo arresto. Possibile che quell’omino dimesso fosse il Padrino? Certo che sì. Provenzano, col fazzoletto per asciugare il sudore intorno al collo, era come lui. In fondo venivano dalle stesse campagne di Corleone, e avevano fatto tutta la strada insieme prima di dividersi (forse) per darsi il cambio al vertice di Cosa Nostra. E come Zu Binnu pure lui, Totò u Curtu, era stato nascosto vent’anni, un fantasma, durante i quali si era sposato in chiesa con Ninetta Bagarella e aveva fatto tre figli. Perché ammazzare la gente è una cosa, ma la famiglia altra cosa è. Certo, ripensare adesso alle parole di Giovanni Falcone che definiva la mafia un fenomeno umano che in quanto tale ha un inizio e una fine, fa venire i brividi. Come i 57 giorni d’agonia di Paolo Borsellino. Una morte annunciata. Riina se ne è andato nel giorno del suo ottantasettesimo compleanno, ma è un fatto che avesse cominciato a morire molto prima: il 30 gennaio 1992, quando la Corte di Cassazione confermò le sentenze del maxiprocesso contro Cosa Nostra istruito proprio da Falcone e Borsellino. Fu lì che tutto si ruppe: l’alleanza con i pezzi dello Stato che fino a quel momento gli avevano garantito l’annullamento delle sentenze, e il patto con la politica che gli aveva consegnato l’isola. Fu allora che Totò u Curtu impazzì. Dovevano pagare tutti per quello schiaffo inaccettabile, decise. E cominciò a farli fuori uno alla volta, a fargli fare la “fine del tonno”. La verità di quello che accadde veramente in quei dodici mesi scarsi, fino al 15 gennaio 1993 e al suo arresto, se la sono equamente divisa lui e Provenzano. Che forse lo vendette allo Stato per evitare la fine di Cosa Nostra e ne fu ripagato con la mancata perquisizione nella villa in cui U Curto era nascosto con la famiglia, ripulita dai picciotti dell’organizzazione (carta da parati compresa) prima che i carabinieri facessero irruzione scoprendo che dentro era rimasto il nulla di nulla. Insomma, storie di fantasmi maligni, di sangue e di misteri. Riina se ne è portati parecchi nella tomba, e come al solito adesso qualcuno verrà a dire che dovremo farcene una ragione. Si vedrà. Intanto annotiamo il giorno della scomparsa di un altro Padrino. Vecchio, malato e fuori giri. Senza alcun rimpianto. Appello ok senza piano di sentenza di Dario Ferrara Italia Oggi, 17 novembre 2017 Appello ammissibile anche se non contiene un progetto alternativo di sentenza. È dunque sufficiente che l’atto indichi le questioni e i punti contestati della sentenza impugnata, senza necessità di ricorrere a forme sacramentali. E ciò perché la riforma del 2012 non ha trasformato il giudizio di gravame in un’impugnazione a critica vincolata: il processo d’appello, insomma, resta un grado di merito e l’atto che lo introduce non può essere considerato una sorta di anticipato ricorso per cassazione. L’obiettivo del dl sviluppo 83/12 è spingere verso la decisione nel merito delle questioni poste. Con sentenza 27199/17 del 16 novembre le sezioni unite civili della Cassazione risolvono una questione di massima di particolare importanza. Accolto il ricorso della società di leasing contro la sentenza che dichiara inammissibile l’appello perché manca “una sia pur sintetica disamina e confutazione delle molteplici argomentazioni poste a base della sentenza impugnata”. In realtà dopo le modifiche agli articoli 342 e 434 Cpc il testo vigente non contiene più il riferimento all’esposizione sommaria dei fatti e dei motivi specifici di impugnazione. È sufficiente indicare le parti del provvedimento che si intendono appellare, le modifiche richieste rispetto alla ricostruzione del fatto operata dal primo giudice e le circostanze dalle quali deriva la violazione di legge: diversamente scatta l’inammissibilità. Insomma: se il nodo critico è la ricostruzione del fatto, esso va indicato con la necessaria chiarezza. Altrettanto vale per l’eventuale violazione di legge. E se in primo grado le tesi della parte non sono state vagliate si possono riprendere le linee difensive svolte in precedenza, con i dovuti adattamenti. È vero: alla parte volitiva l’atto di appello deve affiancare una parte argomentativa che contrasta e confuta le ragioni addotte dal primo giudice. Ma non può ritenersi che con il richiamo alla “motivazione dell’atto di appello” contenuto negli art. 342 e 434 cpc il legislatore abbia voluto porre a carico delle parti un onere paragonabile a quello della stesura della motivazione di un provvedimento decisorio. Il sindaco della Spa disattento paga: bancarotta per falso della società in rosso di Debora Alberici Italia Oggi, 17 novembre 2017 Rispondono di bancarotta fraudolenta i sindaci, in virtù di deficit sulla vigilanza, tollerano i falsi in bilancio della spa in evidente dissesto finanziario. Il giro di vite arriva dalla Corte di cassazione che, con la sentenza n. 52433 del 16 novembre 2017, ha respinto il ricorso di due manager accusati di non aver adeguatamente controllato le operazioni degli amministratori dell’azienda poi fallita. Fra gli illeciti commessi dagli imprenditori alcuni falsi in bilancio. Falsi sui quali i sindaci avrebbero dovuto vigilare con maggiore attenzione, pena la condanna per bancarotta. Infatti, hanno spiegato i Supremi giudici, le ipotesi di causazione dolosa del fallimento e di fallimento determinato da operazioni dolose vanno tenute distinte e non sono assimilabili. Infatti, la causazione dolosa del fallimento, prevista dall’art. 223, della legge fallimentare, comprende due ipotesi autonome che, dal punto di vista oggettivo, non presentano sostanziali differenze, mentre da quello soggettivo vanno tenute distinte perché, nella causazione dolosa del fallimento, questo è voluto specificamente, mentre nel fallimento conseguente ad operazioni dolose, esso è solo l’effetto, dal punto di vista della causalità materiale, di una condotta volontaria, ma non intenzionalmente diretta a produrre il dissesto fallimentare, anche se il soggetto attivo dell’operazione ha accettato il rischio dello stesso. La prima fattispecie è, dunque, a dolo specifico, mentre la seconda è a dolo generico. In poche parole, ecco un altro passaggio chiave delle motivazioni, in tema di bancarotta fraudolenta, le operazioni dolose sancite dal secondo comma dell’articolo 223 della legge fallimentare attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo nell’esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la salute economico-finanziaria dell’impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo, bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato. Sì a sequestro preventivo dei depuratori se il danno ambientale diventa possibile di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 17 novembre 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 16 novembre 2017 n. 52436. Il sequestro preventivo degli impianti di depurazione è legittimo quando ci sia timore che dal loro cattivo funzionamento possa derivare un inquinamento dell’ambiente. Questo il principio espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 52436/17. La Corte ha così rigettato il ricorso proposto dal legale rappresentante della società di depurazione secondo cui la campionatura dell’acqua doveva essere effettuata direttamente nell’acqua marina e riscontrare l’effettivo inquinamento prodotto dagli impianti. La vicenda - Nel caso concreto, invece, a detta dell’appellante il punto di scarico distava circa 2,4 chilometri da mare e di conseguenza nessuna offesa o molestia poteva arrecarsi agli utenti della costa. I Supremi giudici hanno così espresso il principio di diritto secondo cui “il delitto di inquinamento ambientale (ex articolo 452-bis cp), è reato di danno, integrato da un evento di danneggiamento che nel caso di deterioramento consiste in una riduzione della cosa che ne costituisce oggetto in uno stato tale da diminuire in modo apprezzabile, il valore o da impedirne anche parzialmente l’uso, ovvero da rendere necessaria, per il ripristino, un’attività non agevole, mentre nel caso della “compromissione” consiste in uno squilibro funzionale che attiene alla relazione del bene aggredito con l’uomo e ai bisogni o interessi che il bene deve soddisfare, e ai fini del sequestro preventivo è sufficiente accertare il deterioramento significativo o la compromissione come altamente plausibili, desunti dalla natura e dalla durata nel tempo degli scarichi abusivi”. In ordine alla contestazione di mancata misurazione e quantificazione del deterioramento penalmente rilevante, la sentenza ha chiarito che in sede di fumus cautelare non necessita la piena prova dell’evento costituto dalla compromissione o deterioramento significativi delle acque e dell’aria, ma basta la plausibilità di un giudizio prognostico sulla fattispecie del reato. In definitiva per la configurabilità del reato di inquinamento ambientale non è richiesta una tendenziale irreversibilità del danno. Conclusioni - Ne consegue quindi che le condotte poste in essere successivamente all’iniziale deterioramento o compromissione non rappresentano un “post factum” non punibile ma, integrano atti di un’unica azione lesiva che spostano in avanti la cessazione della consumazione, sino a quando la compromissione o il deterioramento diventano irreversibili andando a integrare il reato di disastro ambientale ex articolo 452-quater del cp. Diritto d’autore: la prescrizione blocca la confisca del materiale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 novembre 2017 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 16 novembre 2017 n. 52434. La prescrizione del reato di diffusione abusiva a scopo di lucro di opere tutelate dal diritto d’autore blocca la confisca e la distruzione dei file illecitamente utilizzati. La Corte di cassazione, con la sentenza 52434, dà partita vinta al ricorrente, amministratore di una radio privata al quale era stata contestata la violazione dell’articolo 171-ter (lettera a) comma primo lettera a) e b), perché trasmetteva i brani musicali senza pagare la Siae. La Corte d’Appello aveva disposto la confisca e la distruzione dei file sequestrati dichiarando al tempo stesso che non si doveva procedere per il reato previsto dalla legge sul diritto d’autore per l’intervenuta prescrizione. Secondo il giudice di merito la misura ablatoria era imposta dalla stessa legge sul diritto d’autore che, con l’articolo 171-sexies stabilisce che è “sempre” ordinata la confisca degli strumenti e dei materiali serviti o destinati a commettere i reati. Una norma che, ad avviso del ricorrente, non poteva essere applicata nel caso specifico in cui il reato era stato prescritto, mentre la confisca, essendo un provvedimento di tipo sanzionatorio, presuppone una condanna, come dimostra il riferimento esplicito del legislatore alla possibilità di applicare la misura anche in caso di patteggiamento. La Cassazione conferma la tesi della difesa e annulla senza rinvio la decisione della corte territoriale disponendo la restituzione del materiale sequestrato al ricorrente. I giudici della terza sezione precisano, infatti, che l’avverbio “sempre”, che compare al secondo comma dell’articolo 171-sexies non vuol dire che la confisca debba essere disposta in ogni caso e, dunque anche a prescindere dalla condanna, ma che la misura di sicurezza, in caso di condanna sia pure patteggiata, non è facoltativa ma va, appunto, “sempre” disposta. Lombardia: la Regione punta sul reinserimento dei detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 novembre 2017 Approvata, quasi all’unanimità, una legge che stanzia risorse per la risocializzazione. La Lombardia ha una nuova legge per la tutela delle persone detenute in carcere, con l’obiettivo primario di un loro reinserimento in società e con la relativa riduzione della recidiva. L’Aula si è espressa con 54 voti a favore (maggioranza di centrodestra, Pd e M5S) e 5 astensioni (Patto Civico e Insieme x la Lombardia), dando mandato di recarsi dal guardasigilli e chiedere di risolvere il problema della carenza del personale amministrativo presso il tribunale di sorveglianza. Il testo è stato elaborato alla luce delle visite a tutte le strutture detentive promosse dalla Commissione Speciale Carceri, presieduta da Fabio Angelo Fanetti (Lista Maroni). Fanetti è stato anche il relatore in Aula del provvedimento. “Con questa legge prendiamo atto del nuovo contesto normativo nazionale e degli effetti della riforma sanitaria in Lombardia - ha detto il Presidente Fanetti - per questo la regione si conferma all’avanguardia credendo con i fatti alla funzione rieducativa del carcere, stanziando risorse per la risocializzazione dei detenuti che passa dal lavoro, dalla scuola, dall’arte, ma anche dall’integrazione del carcere con la Pubblica Amministrazione, con il Terzo settore e in generale con il contesto territoriale di riferimento. Per noi sono fondamentali anche le nuove forme di formazione delle guardie carcerarie. Questa è una buona legge, condivisa trasversalmente e che nasce per risolvere le criticità che abbiamo avuto modo di constatare sul campo”. In Lombardia ci sono 18 istituti penitenziari, 8000 le persone detenute (di cui 5000 con condanna definitiva), 14.000 quelle condannate a misure alternative al carcere. Ad agosto di quest’anno, grazie al libro bianco presentato dal Partito radicale e dal Partito socialista, era emerso non solo il sovraffollamento, ma anche l’alto numero delle persone in attesa di giudizio. Ad aggravare la situazione contribuisce anche l’alto numero di casi psichiatrici e tossicodipendenti accolti in queste strutture. Sono 479 i tossicodipendenti a San Vittore e 254 quelli con problemi psichiatrici, a Brescia rispettivamente 128 e 100 a Monza 263 e 318, a Como 168 e 44. “La legge approvata oggi in Consiglio regionale parte dal presupposto che per contrastare la recidiva l’unica misura veramente efficace sia il recupero della persona. I numeri parlano chiaro: là dove i detenuti seguono progetti di formazione e lavoro, come già avviene in alcune strutture presenti in Lombardia, la recidiva scende al 10%, contro una media del 90% di chi trascorre invece la detenzione in completa inattività - è il commento del presidente del Consiglio regionale lombardo, Raffaele Cattaneo che nell’ambito dell’iniziativa 100 Tappe in Lombardia aveva sottolineato la necessità di un intervento entro fine legislatura sul tema. Questo provvedimento risponde meglio alle esigenze del mondo carcerario perché punta sul recupero del detenuto anche attraverso progetti specifici come quelli culturali e sportivi; la formazione degli operatori del settore e dei volontari, il rafforzamento dei legami con i famigliari, il contrasto alla dispersione scolastica ma, soprattutto, attraverso l’inserimento lavorativo anche con progetti sperimentali di imprenditoria sociale. Perché solo un investimento vero sulla persona umana può favorire un pieno reinserimento”. Obiettivo della legge è il recupero dei detenuti, attraverso percorsi di reinserimento lavorativo, di istruzione, formazione e riqualificazione professionale, sostenendo le associazioni e le attività del volontariato penitenziario, in area penale interna ed esterna. Fondamentale, e nuova, è l’attenzione agli aspetti sanitari, anche grazie all’istituzione di un organismo inter-istituzionale con compito di monitoraggio della rete dei servizi sanitari penitenziari favorendo, per i casi più gravi e delicati, l’accesso alle comunità terapeutiche riabilitative e ai centri semiresidenziali, la presa in carico dei detenuti con problematiche psichiatriche. Inoltre, grazie a interventi di prevenzione delle tossicodipendenze si intende migliorare le condizioni di vita delle persone recluse, limitando la recidività dei reati, con un notevole risparmio di risorse pubbliche. Un approccio che vuole avviare progetti concreti nell’ottica della giustizia riparativa, un approccio alla pena che coinvolge il reo, la vittima e la comunità nella ricerca di soluzioni, di riparazione del danno e di riconciliazione tra le parti. In quest’ottica la Regione promuove se sostiene interventi in area penale interna ed esterna, volti a mantenere e rafforzare i legami dei detenuti con i membri della famiglia, tutelando la relazione figli-genitori. Un articolo specifico del provvedimento riguarda il Difensore regionale come Garante dei detenuti, per contribuire, alla tutela dei diritti delle persone incarcerate o ammesse alle misure alternative. Un piano innovativo e ambizioso che, secondo la clausola valutativa introdotta su parere del Comitato paritetico di controllo e valutazione, sarà monitorato ogni due anni in merito agli obiettivi raggiunti. Per il 2017 la norma finanziaria mette a disposizione 1 milione di euro. La Regione, inoltre, ha approvato un ordine del giorno del Pd, poi emendato, per impegnare la Giunta ad attivarsi presso il ministro della Giustizia affinché venga presa in considerazione l’ormai cronica carenza - denunciata già da Il Dubbio - di personale amministrativo e giudiziario presso il Tribunale di Sorveglianza di Milano e Brescia. Napoli: “cella zero”, al via il processo per le violenze a Poggioreale di Fabrizio Ferrante Ristretti Orizzonti, 17 novembre 2017 Si è aperto questa mattina a Napoli uno dei processi più attesi da chi segue la realtà carceraria partenopea. Sul banco degli imputati sono finiti dodici agenti di Polizia Penitenziaria accusati, durante il loro servizio a Poggioreale, di aver pestato svariati detenuti nella famigerata Cella zero. I fatti risalirebbero ormai a diversi anni fa e oggi dopo quattro anni di attesa e il trasferimento degli imputati in altre carceri sul processo incombe la prescrizione. L’esito dell’udienza di oggi 16 novembre, infatti, presso la terza sezione penale del Tribunale di Napoli, è stato un rinvio al primo marzo 2018 e appare arduo pensare che in circa tre anni sia possibile portare il caso fino alla Cassazione. L’esultanza e la soddisfazione degli agenti imputati è eloquente in questo senso ma la battaglia affinché una parola sia scritta su una storia mai troppo chiara andrà avanti. Tra le parti civili, infatti, figurano anche le associazioni degli ex detenuti organizzati di Pietro Ioia e Gioco di Squadra di Carmela Esposito. A proposito di quanto accaduto oggi a Napoli abbiamo sentito Ioia che ha dichiarato: “Siamo stati all’udienza di stamattina dove ho potuto guardare negli occhi alcuni (sette o otto presenti in aula) dei dodici agenti imputati. Li ho visti esultare per il rinvio dell’udienza e sappiamo bene che il processo è a forte rischio prescrizione però non ci arrendiamo. L’obiettivo è ottenere una sentenza di primo grado e una condanna, se i fatti saranno accertati nel corso del processo”. Ioia ha inoltre aperto un ulteriore fronte di lotta sul fronte giurisdizionale anche grazie all’aiuto dell’avvocato Raffaele Minieri, dirigente nazionale di Radicali Italiani: “Ultimamente - ha aggiunto Ioia - abbiamo presentato alcune denunce relative a presunti pestaggi che avrebbero ancora luogo nel carcere di Poggioreale. Una di queste è stata accolta ed è stato aperto un fascicolo d’inchiesta. La vicenda è quella di un detenuto slavo che, nel padiglione Milano, sarebbe stato picchiato per futili motivi semplicemente per aver fatto notare che nella sua cella non fosse più possibile ospitare altri detenuti a causa della mancanza di spazio e del sovraffollamento”. La giornata di oggi segna comunque un risultato storico con l’apertura del processo sulla Cella zero ma soprattutto conferma come, con le denunce che continuano imperterrite, si sia ben lontani dallo stabilire se e quanto a Poggioreale certe pagine si siano scritte e se queste appartengano solo al passato. Ai prossimi appuntamenti in aula e alle prossime iniziative il compito di rispondere a questo quesito di civiltà. Torino: Freedhome, il negozio del cibo “made in carcere” di Nadia Toppino storiedicibo.it, 17 novembre 2017 Le Storie di cibo dietro le sbarre racchiuse in un negozio. A Torino, da poco più di un anno ha aperto il primo store permanente di economia carceraria, dotato anche di parte e-commerce per rendere più semplice l’acquisto. A lanciare il progetto un gruppo di imprese cooperative che lavorano negli istituti di pena italiani e che producono eccellenze enogastronomiche, alcune delle quali patrocinate da Slowfood. Si tratta dei torcetti realizzati nella casa circondariale di Aosta Brissogne, dell’alta pasticceria del carcere di Busto Arsizio, delle mandorle e dei torroni siciliani, del caffè Lazzarelle della casa circondariale femminile di Pozzuoli, dei panettoni della linea Dolci Libertà…. Ci sono anche prodotti caseari del carcere di Rebibbia, la pasta gluten free del carcere di Sondrio e tante atre prelibatezze, tutte accumunate dall’essere eccellenze gastronomiche appunto “made in carcere”. L’elenco dei prodotti è lungo, le cooperative di produzione presenti all’interno dello store sono numerose e in continua crescita. Al di là dell’elenco dei nomi presenti, echeggia forte e sonoro il “chi siamo” che si legge nella presentazione di Freedhome e che si vive quando tocchi con mano la loro realtà: “Ecco chi siamo. Siamo la voce delle tante realtà che ogni giorno dimostrano la forza riabilitativa del lavoro, portando valore, professionalità e voglia di fare all’interno del sistema carcerario italiano. Siamo il risultato di una riflessione condotta da un gruppo di imprese cooperative sociali accomunate, oltre che dall’attività negli istituti di pena, dalla condivisione di principi etici, scelte imprenditoriali e vocazione al mercato. Siamo convinti che nelle carceri esista un grande potenziale ancora da scoprire. Siamo azione comune verso il miglioramento. Un laboratorio di idee e progetti per ribadire forte e chiaro che l’economia carceraria è la chiave di volta per ripensare in modo più efficace il sistema penitenziario italiano”. Solitamente questi prodotti vengono venduti direttamente dalla cooperativa che ne segue la produzione, in un mercato abbastanza localizzato rispetto al carcere di riferimento. Freedhome nasce proprio per diffondere su scala più ampia queste prelibatezze che uniscono una forte connotazione sociale a una davvero eccelsa qualità…e lo posso certificare perché le ho sia degustate di persona, che viste produrre nelle varie case di detenzione dove sono stata in vista per Storie di cibo Dietro le Sbarre. All’interno dello spazio espositivo anche prodotti non alimentari, quali stoffe, pelletterie e oggetti artigianali di falegnameria; Storie di cibo si concentra ovviamente su quelli enogastronomici portando il proprio apporto dove è possibile nel creare contatti tra cooperative di produzione e i referenti di Freedhome, interessati ad ampliare sempre di più l’offerta presente. Così precisano i responsabili: “Dietro a questo progetto commerciale c’è la volontà di accendere i riflettori su una realtà come quella del carcere, perché portare lavoro nelle strutture detentive è la chiave di volta per ripensare e rifondare il sistema penitenziario in Italia”. Più volte è stato evidenziato nelle nostre Storie di Cibo dietro le sbarre, perché è il concetto che chiunque lavori in queste realtà tiene a sottolineare: “Se i numeri ci dicono che l’ozio in carcere non porta ad alcun risultato concreto, svolgere un’attività professionale, al contrario, significa ricostruire la dignità delle persone, riscrivere il futuro in termini di comportamenti virtuosi e abbassare notevolmente il rischio di recidiva, per la sicurezza di tutti”. Per quanto riguarda la tematica enogastronomica, al progetto Freedhome ad oggi partecipano: Banda Biscotti, Casa Circondariale di Verbania; Brutti e Buoni, Casa Circondariale di Aosta Brissogne; Extraliberi, Casa Circondariale di Torino; Dolci Libertà, Casa Circondariale di Busto Arsizio, Varese; Cibo Agricolo Libero, Casa Circondariale di Rebibbia, Roma; Caffè Lazzarelle, Casa Circondariale femminile di Pozzuoli, Napoli; Sprigioniamo Sapori, Casa Circondariale di Ragusa e Dolci Evasioni, Casa Circondariale di Siracusa. Ma come precisato il numero è destinato a crescere, visto che l’interesse anche degli istituti detentivi verso le attività legate al cibo è in continuo aumento. Vibo Valentia: puntare alla formazione, per l’inserimento lavorativo dei detenuti di Rita Maria Stanca Corriere del Mezzogiorno, 17 novembre 2017 Sette detenuti assunti per due mesi con il compito di realizzare 10mila confezioni regalo per la Callipo Conserve. L’azienda calabrese specializzata nella lavorazione e conservazione del tonno, ha deciso di delocalizzare un comparto all’interno del carcere, rinnovando la collaborazione, avviata lo scorso anno, con il Penitenziario di Vibo Valentia. “Crediamo molto in questo progetto di formazione e lavoro - afferma Giacinto Callipo, quinta generazione al timone dell’omonima azienda - Vogliamo trasmettere ai detenuti un messaggio di speranza e di fiducia in un futuro migliore in un’ottica di reinserimento sociale ed offrir loro una seconda possibilità”. I detenuti sono regolarmente assunti dalla Callipo che, per questo progetto, è stata affiancata dalla società Openjobmetis. Percepiscono, dunque, un regolare compenso secondo i criteri del contratto collettivo nazionale di lavoro industria alimentare. “Per il periodo di assunzione previsto sono quindi - precisa Callipo - a tutti gli effetti nostri dipendenti, sebbene operino, per ovvi motivi, all’interno del penitenziario”. Il marchio Callipo, oltre alle conserve ittiche conta 4 società controllate, esporta in Gran Bretagna, Germania, Libia, Canada, Stati Uniti ed Australia ed impiega 350 dipendenti. L’asset strategico aziendale è rappresentato dai suoi lavoratori. Il Gruppo, ha da sempre messo in atto politiche di welfare aziendale per garantire il benessere delle sue risorse umane. Nel 2016, l’azienda ha premiato l’impegno dei dipendenti con un bonus di produzione di 600 euro, riconosciuto a tutti i lavoratori anche somministrati e distaccati. “Le nostre maestranze, ogni giorno, con passione, cura ed attenzione, eseguono fasi di lavorazione fondamentali per la qualità del nostro prodotto - afferma Giacinto Callipo - sono loro a fare la differenza, un capitale per noi di rilevanza fondamentale costituito da professionalità, capacità organizzativa e cultura d’impresa”. I detenuti-lavoratori sono stati formati in carcere attraverso un periodo di training con il personale specializzato, che ha trasferito loro in primis i valori e le linee guida a cui tutti i lavoratori dell’azienda devono attenersi, specialmente quelli relativi alla sicurezza sui luoghi di lavoro, per noi prerogativa imprescindibile. “Inoltre - ammette Callipo - poiché le confezioni regalo sono per noi un prodotto molto importante in quanto, oltre a contenere l’assortimento Callipo più pregiato, rappresentano una strenna molto ricercata e richiesta su tutto il territorio nazionale, per tutto il periodo di confezionamento il nostro personale ha lavorato a stretto contatto con i detenuti infondendo loro la stessa passione per la qualità, la cura e la dedizione che ci anima da oltre cento anni”. Vasto (Ch): gli internati in Casa di Lavoro potranno svolgere lavori socialmente utili noixvoi24.it, 17 novembre 2017 Firmata una convenzione tra Comune, Tribunale e Casa di Lavoro. Questa mattina presso l’Aula Magna del Tribunale di Vasto è stata firmata la convenzione, tra il Comune di Vasto, il Tribunale e la Casa di Lavoro, per inserire alcuni internati/detenuti in attività di lavori socialmente utili all’interno del Palazzo di Giustizia. Gli internati/detenuti saranno impegnati nel settore della piccola manutenzione, quattro ore al giorno, per cinque giorni a settimana. Il sindaco di Vasto, Francesco Menna, che ha firmato la convenzione in rappresentanza del Comune ha ringraziato il Presidente del Tribunale Bruno Giangiacomo e la direttrice della Casa Lavoro la dr.ssa Giuseppina Ruggero. “Mi sento in dovere di ringraziare tutte le persone che hanno permesso - ha detto il sindaco Menna - il reinserimento sociale di queste persone. Il Comune si occuperà dell’assicurazione contro gli infortuni e cercherà di agevolare gli internati nel raggiungere il posto di lavoro”. Il Presidente del Tribunale Bruno Giangiacomo ha ricordato che “il Palazzo di Giustizia di Vasto ha un deficit di personale. A questa carenza si aggiunge la manutenzione del Tribunale. Abbiamo necessità quasi giornaliera, questa convenzione servirà per entrambe le situazioni”. La direttrice della Casa Lavoro, la dr.ssa Ruggero ha evidenziato che gli internati potranno svolgere un lavoro, con funzione riparativa per il danno commesso, per l’organo che li ha puniti. “Il lavoro più importante - ha detto Giuseppina Ruggero - è quello che ha lo scopo di dare in cambio qualcosa alla società”. Roma: il Comune apre 4 Centri di accoglienza per ex detenuti laprimapagina.it, 17 novembre 2017 Offrire la garanzia per ex detenuti e condannati del diritto di recuperare la propria autonomia e costruirsi un nuovo progetto di vita, grazie ad azioni di stimolo, sostegno e orientamento. A questo mira il Campidoglio (Assessorato alla Persona, Scuola e Comunità Solidale) che lancia una procedura aperta per affidare la gestione di quattro centri d’accoglienza, per la durata di tre anni. Tre strutture accoglieranno persone tra i 18 e i 59 anni, dedicando ciascuna due posti a giovani adulti (18-29 anni). Il quarto centro dovrà ospitare ultrasessantenni, sviluppando interventi specifici per i bisogni della terza età. Particolare attenzione è riservata ai giovani adulti: di loro si occupa un accordo tra Campidoglio (Dipartimento Politiche Sociali, Sussidiarietà e Salute) e Ministero della Giustizia (Dipartimento per la Giustizia minorile e di Comunità) che punta a sviluppare percorsi d’inclusione mirati. Per chi è in età da lavoro è previsto il sostegno all’autonomia. Le attività: counseling, verifica delle attitudini lavorative, individuazione partecipata di iniziative per il reinserimento (corsi di formazione o apprendistato, affiancamento nella ricerca di lavoro). Per gli utenti in età pensionabile sono invece previsti percorsi d’inserimento nel volontariato e di aiuto nella fruizione di servizi pubblici e del privato sociale, comprese le strutture di accoglienza per la terza età. Tutte le attività dovranno essere organizzate in modo da assicurare precisi requisiti. Verrà inoltre promossa l’integrazione con gli altri servizi territoriali, in particolare sul versante socio-sanitario. La gestione deve comportare l’attiva partecipazione degli ospiti alla gestione del servizio. Entro i primi 15-30 giorni dall’accoglienza di un ospite dovrà venir definito il piano d’intervento personalizzato. Il fascicolo contenente l’intera documentazione di ciascun ospite dovrà risultare costantemente aggiornato. “La nostra azione politica è basata su un principio essenziale ma irrinunciabile: mettere sempre la persona al centro”, spiega l’assessora Laura Baldassarre (Persona, Scuola e Comunità Solidale). “Questa iniziativa si sposa alla perfezione con gli articoli 2 e 27 della Costituzione, che promuovono il pieno riconoscimento e la tutela dei diritti dell’uomo e del rispetto della sua dignità, compresa quella delle persone detenute e condannate. La pena deve assolvere una funzione rieducativa, con strumenti di reinserimento nella comunità e nel tessuto sociale”. “Puntiamo quindi”, aggiunge Baldassarre, “su una forte connessione con i servizi territoriali, valorizzando attività di accoglienza, informazione, orientamento e accompagnamento. Abbiamo sviluppato un’azione specifica per i giovani adulti, affinché venga tutelata la loro specificità, senza catapultarli subito tra gli adulti. L’obiettivo finale è il recupero dell’autonomia e la costruzione di un nuovo progetto di vita”. Milano: “Mostra Galeotta”, dalle carceri allo Spazio Big Santa Marta artslife.com, 17 novembre 2017 Grazie all’Associazione Artisti Dentro Onlus anche i detenuti possono trovare la loro vena artistica. Sabato alle 18:00 allo Spazio Big di Via Santa Marta 10 si terrà la seconda edizione di Mostra Galeotta, l’evento rientra tra gli appuntamenti di BookCity. L’inaugurazione sarà preceduta alle ore 17:00 da una tavola rotonda sul tema Arte in carcere: scrittura, cucina e pittura a confronto. Un’esposizione di mail-art, piccole opere (cartoline) inviate dai detenuti che hanno aderito al bando, opere che hanno viaggiato oltre le sbarre. Quest’anno l’edizione è caratterizzata da un’importante novità insieme alle opere dei carcerati saranno esposte opere degli Artisti Fuori: artisti liberi, noti nel mondo dell’arte, che generosamente hanno donato le loro opere, prodotte su cartoline, che saranno esposte insieme a quelle dei carcerati e messe in vendita per sponsorizzare i progetti futuri dell’Associazione. Ho incontrato la presidente Sibyl von der Schulenburg alla quale ho sottoposto qualche domanda. Di quali progetti si occupa l’associazione? Attualmente abbiamo tre progetti: Scrittori Dentro, un premio letterario caratterizzato dall’assistenza di un tutor per ogni finalista; Cuochi Dentro, un premio di arte culinaria che funziona sulle ricette elaborate nelle celle; Pittori Dentro, un premio di arte visiva che si fonda sulla mail art o arte postale in cui il significato si manifesta nella spedizione dell’opera artistica su cartolina, senza busta, una modalità che rappresenta il coraggio di affrontare tutti i rischi di un viaggio nel mondo oltre le mura, sfidando le incertezze legate alla libertà e all’indifferenza della gente. I nostri progetti godono dei patrocini del Ministero della Giustizia, della Segreteria Affari Esteri e Giustizia della Repubblica di San Marino, della Segreteria di Stato Istruzione e Cultura della Repubblica di San Marino e di Città Metropolitana di Milano. I nostri progetti vogliono dare una voce a chi è recluso offrendo contemporaneamente una possibilità a chi è libero di riflettere sul tema criminalità, detenzione e recupero sociale. Per raggiungere questi obiettivi usiamo i concorsi a premi riservati esclusivamente ai detenuti nelle carceri italiane e sammarinesi. Come vengono coinvolti i carcerati? Attraverso la diffusione dei bandi, nelle case di reclusione, per quel che riguarda Artisti Dentro forniamo cartoline pre-indirizzate e francobolli per rendere la partecipazione possibile a tutti, anche a quelli che non hanno neppure un euro per l’affrancatura. Questa è la seconda edizione di Mostra Galeotta ci puoi dare qualche anticipazione? Grazie alla generosità dello sponsor Massimo Ciaccio l’evento si terrà di nuovo nello Spazio Big Santa Marta, preceduto da una tavola rotonda sull’arte in carcere che rientra negli eventi di Bookcity. Quest’anno i numeri dei partecipanti e delle opere sono aumentati. Faremo un vernissage particolare poiché includerà la premiazione di Pittori Dentro 2017 e contiamo sulla presenza di almeno un paio di detenuti che, spero, otterranno il permesso di intervenire. La grande novità di questa seconda Mostra Galeotta è la partecipazione di ben 22 artisti liberi, personaggi di grande spessore, artistico e personale, che hanno offerto alcune loro opere di mail art accettando il rischio della spedizione, proprio come è stato richiesto ai detenuti. Sono stata molto sorpresa e toccata dalla manifestazione di solidarietà e supporto dato da questi artisti. Le loro opere saranno vendute e il ricavato servirà all’associazione per finanziare nuovi progetti e, possibilmente, fornire materiale didattico ai corsi di pittura in qualche carcere. Il catalogo delle loro opere - aggiornato man mano che arrivano, sperando che arrivino tutti - è visionabile sul nostro sito artistidentro.com. I componenti dell’associazione sono tutti volontari, se qualcuno volesse partecipare come può fare? L’associazione si prefigge di operare nel principio del puro volontariato; ad oggi non c’è spazio per rimborsi spese agli operatori o gettoni presenza per i VIP. Abbiamo bisogno di contatti nelle carceri e di persone che intervengano quelle poche volte che ci sono manifestazioni, come appunto le mostre. Ci servono ricercatori di sponsor e testimonial e ci farebbe comodo un addetto stampa. Chi volesse partecipare all’impresa può contattarmi via mail artistidentroonlus@gmail.com. Libera scelta in libera chiesa. Il Papa ridefinisce il fine vita di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 novembre 2017 Sì alla sospensione dei trattamenti, autodeterminazione e ultima parola al malato. Bergoglio cambia la “prospettiva” sul biotestamento. I pro-life vanno in tilt ma la legge ancora attende. No all’eutanasia e no all’accanimento terapeutico. Non dice nulla di rivoluzionario, Papa Francesco: concetti già espressi almeno dal suo predecessore Benedetto XVI. Nulla di nuovo, se non fosse che il diavolo si nasconde nei dettagli. Con grande tempismo e senso politico, Bergoglio, nella lettera inviata alla Pontificia Accademia per la Vita e al Meeting europeo della World medical association, usa infatti parole risolutive su due o tre punti sostanziali sui quali invece il Parlamento - non certo la società italiana e neppure la chiesa dei credenti - è impantanato almeno dai tempi di Eluana Englaro. Sì alla sospensione dei trattamenti; tutti, anche di nutrizione e idratazione artificiale (“interventi sul corpo umano che possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti o addirittura sostituirle”); accento sull’autodeterminazione del paziente, che ha l’ultima parola rispetto al medico (ed è questa una sostanziale differenza con l’approccio di Ratzinger); differenza tra caso e caso (“dimensione personale e relazionale della vita”), come dire: ciascuno ha il proprio concetto di dignità. Papa Francesco cita la “Dichiarazione sull’eutanasia” dell’ex Sant’Uffizio del 1980 ma anche Pio XII che nel 1957 considerò “lecito astenersi in casi ben determinati” dalle cure “potenzialmente disponibili”. Il Pontefice chiede “un supplemento di saggezza”, perché “gli interventi sul corpo umano diventano sempre più efficaci, ma non sempre sono risolutivi: possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute”. È “dunque moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli, quando il loro impiego non corrisponde a quel criterio etico e umanistico che verrà definito proporzionalità delle cure”. È una “differenza di prospettiva”, quella che propone Bergoglio, che “assume responsabilmente il limite della condizione umana mortale, nel momento in cui prende atto di non poterlo più contrastare”. “Vediamo bene, infatti - spiega - che non attivare mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso, equivale a evitare l’accanimento terapeutico, cioè compiere un’azione che ha un significato etico completamente diverso dall’eutanasia, che rimane sempre illecita”. Ma a chi spetta l’ultima decisione? Qui le parole del Papa sudamericano segnano la discontinuità con il suo predecessore tedesco. Per Ratzinger infatti “è innegabile che si debba rispettare l’autodeterminazione del paziente” ma la “specifica competenza” del medico “lo mette in grado di valutare la situazione meglio del paziente stesso” (discorso alla Società italiana di chirurgia, ottobre 2008). In ogni caso, Benedetto XVI, un mese dopo, nella Pastorale ai bambini malati, spiegava che va sempre raggiunto “un giusto equilibrio tra insistenza e desistenza terapeutica”. Secondo Bergoglio invece “le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità”. È “anzitutto lui che ha titolo, ovviamente in dialogo con i medici, di valutare i trattamenti che gli vengono proposti e giudicare sulla loro effettiva proporzionalità nella situazione concreta”. Per stabilire “se un intervento medico clinicamente appropriato sia effettivamente proporzionato non è sufficiente applicare in modo meccanico una regola generale. Occorre un attento discernimento che consideri l’oggetto morale, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. La dimensione personale e relazionale della vita - e del morire stesso, che è pur sempre un momento estremo del vivere - deve avere, nella cura e nell’accompagnamento del malato, uno spazio adeguato alla dignità dell’essere umano”. Concetti che hanno scatenato la reazione scomposta (“no alla strumentalizzazione”, da un lato, e “la legge va contro le parole del Papa”, dall’altro) di destre, ultra cattolici e “pro-life”, impegnati a bloccare in Senato il blando testo di legge sul fine vita licenziato nell’aprile scorso dalla Camera, con centinaia di emendamenti ostruzionistici che hanno costretto la relatrice in commissione Emilia Di Biasi (Pd) a dimettersi nel tentativo di portare il testo direttamente il Aula per approvarlo entro la fine della legislatura. Ma la calendarizzazione è nelle mani della Conferenza dei capigruppo, e in attesa che il partito di Renzi concluda sul biotestamento, come sullo ius soli, la propria trattativa. Il ministro Martina, vicesegretario del Pd, coglie l’occasione per invitare (non è chiaro chi) ad affrettare l’iter legislativo. Mentre a Firenze nasce il comitato #fatepresto che ha lanciato un appello al presidente del Senato e ai capigruppo sottoscritto, tra le oltre cento personalità, da Bersani, Bindi, Saviano, Civati, Farina Coscioni, Fratoianni, Speranza e molti altri. Ma in Parlamento giace da 4 anni anche una legge sottoscritta da 68 mila cittadini. È dei Radicali italiani e dell’Associazione Coscioni, e legalizza l’eutanasia. Parlamento se ci sei batti un colpo: la vita è bella e va vissuta con dignità di Maria Antonietta Farina Coscioni* Il Dubbio, 17 novembre 2017 Bizzarro Paese, l’Italia: dove sono “eccezionali” le cose “normali”. Non solo. Deve venire un “Pastore” da “quasi la fine del mondo”, e che la ventura (o, se preferite, la Provvidenza) fa sì che diventi Pontefice, per dirci cose “normali”, di “buon senso”, soprattutto di “senso buono”. Quelle cose che ognuno di noi “sente”, “comprende”, “condivide”, “dice”, che vuole sentirsi dire: e cioè che la vita è bella, merita di essere vissuta, ma con dignità, reciproco rispetto; e che, come tutte le cose terrene, ha inizio, uno svolgimento, una fine; una “fine” che a tutti tocca, è questione di tempo; si può lenire la sofferenza (e in questo, in Italia, ancora dobbiamo fare tanto); si può prestare attenzione e letteralmente “cura” a malati, anziani, indifesi. Ma a un certo punto, non c’è linimento che tenga, non c’è “cura” possibile: accade l’inevitabile; e quando l’inevitabile bussa alla nostra soglia, è ingiusto, sbagliato, crudele perfino, accanirsi a ogni costo. Il ciclo finisce, e con dolore che strazia non si può che prenderne atto. Questo ci dice Francesco, il “Pastore” venuto da “quasi la fine del mondo”; e prima di lui, un altro erede di Pietro, l’aveva detto: un papa “condottiero”, de- terminato, venuto dalla Polonia, anche lui carico di amore e di misericordia: ricordate Giovanni Paolo II, la sua lunga, penosa agonia; e la sua invocazione finale: “Lasciatemi tornare alla casa del Padre”. Giustamente venne accontentato. I medici - è da credere con grande dolore - cessarono di accanirsi, l’avranno accompagnato nel viaggio finale cercando di alleviare al massimo la sofferenza, di confortarne gli ultimi minuti; ma hanno riconosciuto che la “pietas”, sentimento che vale per credenti e laici, imponeva che quel desiderio espresso in quelle poche, semplici, parole, venisse esaudito. Cose “normali”, che in Italia diventano “eccezionali”, fanno “notizia”. Eppure quello che dice oggi il “Pastore” Francesco, quello che ha invocato il “Condottiero” Giovanni Paolo II, lo si coglie nella catechesi, nei documenti pontifici di papa Paolo VI e anche prima di lui. Un santo venerato come tale, Thomas Moore nella sua “Utopia” va addirittura più in là: sostiene che è atto di misericordia non accanirsi non solo quando il malato è d’accordo; ma anche quando non lo è, o non può esprimere il suo volere. Lo aveva ben compreso Aldo Moro, quando nei lavori che poi hanno portato alla Costituzione italiana si è applicato con particolare attenzione e sensibilità alla questione della volontà del malato di rifiutare cure anche quando questo rifiuto comporta la fine dell’esistenza. C’è inoltre, lo certificano tutti i risultati di sondaggi demoscopici e ricerche specifiche, da sempre, una diffusa, ultra-maggioritaria coscienza popolare che sa benissimo distinguere il “grano dal loglio”, l’atto pietoso e di misericordia dall’inutile, crudele, accanimento. Se davvero si vuole la “notizia”, la “novità”, eccola: è una novità che ha il sapore, in questo caso amaro, del consueto, purtroppo: una classe politica, oggi come ieri, incapace di comprendere gli umori, i sentimenti, il “sentire” del Paese, dei cittadini che siamo. Una classe politica pavida, vile, miope, prona a interessi e voleri che non sono neppure quelli che si crede siano. Quello che è accaduto nel 1974 con la battaglia radicale per il divorzio; nel 1975 con la battaglia radicale per il diritto a poter interrompere la gravidanza; con la lunga e bella, esaltante, stagione dei diritti civili, sembra non aver insegnato nulla; tetragoni, i politici di oggi, nella quasi totalità, si comportano come quelli di ieri. Con una differenza, forse, e in peggio: c’è, nel centrosinistra, un Loris Fortuna, un Giacomo Mancini, un Antonio Landolfi, un Salvatore Frasca, un Umberto Terracini? C’è, oggi, nel centro- destra un Antonio Baslini? Ce ne saranno sicuramente; ma ancora troppo timidi, silenti. Ripeto: ce ne saranno, ed è a loro che come militante e dirigente del Partito Radicale e presidente dell’Istituto Luca Coscioni, impegnata dentro e fuori il Parlamento su queste tematiche, che mi rivolgo: raggiungeteci, utilizzate lo “strumento” Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito, fatelo vostro, come in passato è accaduto, quando liberali, repubblicani, socialisti, comunisti, cattolici e laici, hanno saputo trovare “unione” vera sui valori, e superare fittizie e posticce unità su principi senza senso e importanza; dobbiamo, al di là delle appartenenze politiche, dei credo ideologici, dell’essere credenti o non credenti, corrispondere al sentimento popolare diffuso che si ritrova nelle parole di papa Francesco e di papa Giovanni Paolo II. Queste tematiche devono entrare nell’agenda politica, dobbiamo insieme invertire la rotta finora seguita, fatta di ostracismo ed esclusione di problematiche che colpevolmente sono state eluse. Michele Gesualdi, convintamente cattolico, uno dei primi allievi di don Lorenzo Milani nella scuola di Barbiana, malato di Sla, nel corso di una recente puntata de “La Nuda Verità” (la trasmissione che curo con Massimiliano Coccia per “Radio Radicale”), ha posto la classe politica con le spalle al muro: Michele rifiuta interventi inutilmente invasivi, e nella lettera che faticosamente ha scritto e ci ha autorizzato a leggere dice, tra l’altro: “Non si tratta di favorire l’eutanasia ma solo di lasciare libero l’interessato, lucido, cosciente, consapevole, di essere giunto alla tappa finale, di scegliere di non essere inutilmente torturato”. Michele, come papa Francesco, come papa Giovanni Paolo II. Parlamento italiano, se ci sei, batti un colpo. *Presidente Istituto Luca Coscioni Migranti. La marcia per la dignità fermata dalla polizia di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 17 novembre 2017 Ammassati in mezzo alle campagne del Veneto più che periferico. E abbandonati al destino di rifugiati in eterna attesa. O al rischio di perdere la vita, fra una “rivolta” e l’altra. Nell’ex base militare Silvestri nella frazione di Conetta - lembo di Veneziano al confine con la Bassa padovana - in estate erano stati censiti più di 1.400 ospiti. “Affidati” alla coop Ecofficina-Edeco, sinonimo dei coniugi Sara Felpati e Simone Borile (ex politico Dc e Fi, poi seguace di Alfano, già indagato dalla Procura su più fronti). Una cosiddetta emergenza, come sempre in questi casi. Ma dall’inerzia, più o meno istituzionale, “emergono” soprattutto due cadaveri. Mercoledì sera un’auto ha investito e ucciso Salif Traore, ivoriano di 35 anni che pedalava lungo l’argine del Bacchiglione. Un altro è rimasto ferito in modo lieve. Volevano raggiungere insieme, con biciclette senza fanali funzionanti e privi di giubbotti catarifrangenti, le centinaia di migranti “in marcia per la dignità”. Quelli che si erano lasciati alle spalle Conetta e hanno trascorso la notte nella chiesa di Codevigo, aperta dal parroco don Michele Fanton. Assistiti dalla solidarietà di chi si è rimboccato le maniche: coperte termiche dai centri sociali, torce o tende dalla gente, cibo e bevande calde grazie alla Caritas. Chiesa riscaldata, servizi igienici a disposizione e accoglienza: all’alba, i migranti hanno così provveduto alla pulizia, lasciando tutto in ordine. Lunedì 2 gennaio in uno dei bagni di Conetta, invece, era spirata in modo atroce Sandrine Bakayoko, 25 anni, anche lei ivoriana: tromboembolia polmonare bilaterale fulminante come recita l’autopsia. Era approdata in Italia il 30 agosto 2016, insieme al suo compagno Mohamed, con un barcone salpato dalla Libia. Sognava di diventare parrucchiera. L’hanno pianta nella chiesa metodista evangelica di Padova, insieme alla pastora Ulrike Jourdan. È sepolta a Piove di Sacco, grazie alla sensibilità del sindaco Davide Gianella. Già allora il “caso Cona” era rimbalzato fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Ma dopo dieci mesi nulla è cambiato. E sono ricominciate le proteste per le condizioni di vita inaccettabili: freddo e umido negli hangar trasformati in dormitori, burocrazia elefantiaca, attività o corsi di italiano abborracciati, isolamento quotidiano in una prigione di fatto. Da tempo, si vociferava di una “marcia a Venezia”. Lunedì il primo tentativo lungo la statale Romea, bloccato dalle forze dell’ordine. Poi è arrivato il vicario del prefetto, Sebastiano Cento. I migranti avevano iniziato a dormire nei bus: sempre meglio delle tende di naylon. La trattativa ha coinvolto per due giorni il questore Vito Danilo Gagliardi e il prefetto Carlo Boffi, ma alla fine altre decine di ospiti di Conetta sono usciti con la valigia o in bicicletta. La marcia era cominciata: prima tappa a Codevigo. Ieri mattina è ripartita, lungo gli argini del Brenta per non bloccare il traffico. Nel corteo spiccavano le bandiere dell’Usb e la presenza di attivisti. La mèta dichiarata della giornata è Mira con la volontà di raggiungere comunque la prefettura in piazza san Marco. Invece, percorsi circa sei chilometri la “marcia della dignità”si è arrestata di fronte allo spiegamento di forze della polizia. Kaba, profugo dalla Guinea, in francese interpreta lo spirito della protesta: “Troppe volte ci hanno promesso che sarebbe cambiata la situazione. Ma tutti aspettiamo più o meno da un anno il permesso di soggiorno e a Cona non facciamo niente se non dormire e mangiare. Niente italiano, niente lavoro, niente integrazione. Adesso basta. Non vogliamo creare problemi, ma arrivare fino a Venezia”. Un bel rebus che non si risolve certo con il trasferimento di 15 (su 1.100…) richiedenti asilo in altre strutture. E che mette spalle al muro Borile & C nella gestione del loro business senza troppi scrupoli. Tanto più che con i migranti c’è addirittura il patriarca Francesco Moraglia: ha disposto l’apertura straordinaria delle parrocchie di Mira e Oriago in modo da assicurare ristoro e riparo. Un segnale inequivocabile. Migranti: Ius soli: accordo o no, meglio vigilare di Luigi Manconi Il Manifesto, 17 novembre 2017 E ora, finalmente, lo ius soli e culturae. Insomma, si può fare. E, dunque, facciamolo. Si tratta di una legge sacrosanta e ragionevolissima e, allo stesso tempo, imprescindibile. Ed è proprio la sua equilibrata e pacata sensatezza a renderla così strettamente necessaria. Di conseguenza, va comunque bene se pure l’approvazione del provvedimento sulla cittadinanza, come scriveva ieri la Repubblica, corrispondesse alla “prima mossa per la pace a sinistra”. Anche se una tale interpretazione lascia un po’ l’amaro in bocca: quasi che, per realizzare una cosa buona e giusta, fosse comunque indispensabile subordinarla a un sistema di relazioni politiche e a una strategia di coalizione elettorale. Ed è proprio la possibile egemonia di questa logica che, alla resa dei conti, inquieta. In altre parole, c’è il rischio che un diritto così importante e dagli esiti tanto significativi, risulti condizionato dalle tattiche parlamentari e dal conflitto su una posta in gioco controversa: su chi, cioè, se ne assumerà il merito o ne dovrà pagare lo scotto, su chi ne rivendicherà il successo o ne patirà gli eventuali costi elettorali. A proposito di conseguenze elettorali, è utile notare come - nel calcolo di costi e benefici - non si trovi uno, a pagarlo a peso d’oro, che faccia riferimento ai secondi (i vantaggi), timorosi come sono, pressoché tutti, del fatale prevalere dei primi. Quasi che una battaglia di diritto e di libertà sia condannata, fatalmente, a non ottenere consensi elettorali. A tal punto è giunta la tirannia dei sondaggi farlocchi e della politologia da Ambra Jovinelli (senza offesa per il glorioso teatro di avanspettacolo). D’altra parte fanno un po’ sorridere le fiere, fierissime dichiarazioni dell’ultima ora, con cui alcuni esponenti politici, finora compuntamente silenti, dichiarano di volersi battere fino alla morte per conquistare l’agognato ius soli. Sono gli stessi che - con la sola eccezione del Ministro Graziano Delrio - esattamente un mese fa dichiaravano che quel provvedimento era ormai definitivamente archiviato “perché mancano i numeri e il tempo”: e, dunque, tutto andava rinviato alla prossima legislatura. Se ciò non è accaduto si deve alla caparbia volontà di movimenti come “Italiani senza cittadinanza” e “Rete G2”, le cosiddette seconde generazioni di stranieri che si battono da anni per la piena titolarità di diritti e dovere. E, poi, il grandissimo lavoro realizzato dagli insegnanti, dalle loro organizzazioni e dai loro leader (tra questi Eraldo Affinati e Franco Lorenzoni); e, ancora, associazioni come Arci e A Buon diritto. E, tra i soggetti politici organizzati, Radicali italiani. Infine, tantissimi intellettuali militanti come Goffredo Fofi, Ginevra Bompiani, Alessandro Bergonzoni, Maddalena Crippa, Chiara Valerio, Maurizio Maggiani, Marco Paolini, Carlo Ginzburg, Moni Ovadia e un’infinità di altre e altri. Buoni ultimi, sono arrivati i parlamentari. Ma, a onor del vero, ormai numerosissimi sono quelli che si sono uniti agli iniziali (cito a memoria) Elena Ferrara e Sandra Zampa, Michele Piras e Paolo Corsini, Loredana De Petris, Lucio Romano, Walter Tocci, Franco Monaco, Mario Marazziti. Tutti questi, a partire dal 3 ottobre, hanno fatto ricorso allo sciopero della fame a staffetta e a mille altre forme d’azione per sostenere la mobilitazione a favore dello Ius soli. Ed è stata proprio questa mobilitazione, in primo luogo orizzontale e decentrata, a ottenere che i gruppi dirigenti dei partiti infine aderissero. Tutti questi, a partire da lunedì 20 novembre, giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, rilanceranno l’iniziativa: manifestazione in piazza Montecitorio dalle 15.00 alle 19.00 e ripresa dello sciopero della fame a staffetta. A questo punto è indispensabile che si resti tutti lucidi e con i nervi saldi. Guai a credere che l’obiettivo sia a portata di mano o, addirittura, già acquisito. Non è così. Da qui al 5,6 dicembre - quando presumibilmente il provvedimento arriverà in aula - molti potranno essere gli ostacoli, le resistenze, le trappole. Non si dia tutto per scontato, per carità. Proprio perché la partita è cruciale, è possibile che si tenti ancora di truccare il gioco. Avverto irresistibile la voglia di ricorrere a un antico verbo: vigiliamo. Germania. La Procura si oppone alla scarcerazione di Fabio Vettorel di Beppe Caccia Il Manifesto, 17 novembre 2017 Dopo quattro mesi e dieci giorni di carcerazione preventiva, il Tribunale di Amburgo potrebbe finalmente liberare Fabio Vettorel. Ma la Procura è contraria: vorrebbe perpetuare lo scandalo della detenzione del diciottenne studente-operaio di Feltre (Belluno), arrestato in occasione delle proteste del luglio scorso contro il vertice dei G20 nella città anseatica. La notizia si è diffusa nel tardo pomeriggio di ieri dopo che, al termine della quarta seduta del processo a suo carico, i suoi legali - Gabriele Heinecke e Arne Timmermann - avevano formalizzato la richiesta di scarcerazione per Vettorel. Erano stati già ascoltati quattro dei sei testimoni a suo carico, tutti poliziotti in servizio la mattina di venerdì 7 luglio scorso, nella zona di Rondenbarg. Nessuno di loro era stato in grado di riconoscere Fabio tra i manifestanti dello spezzone che era stato caricato. E tanto meno di identificarlo tra quanti avessero posto in essere comportamenti violenti o atteggiamenti aggressivi nei confronti delle forze dell’ordine. Ragion per cui la difesa era passata al contrattacco: “Signor giudice, cosa sappiamo sinora con certezza? Soltanto che quel giorno l’imputato era lì. - ha arringato Heinecke - All’inizio del corteo e alla fine. Nessuna prova che abbia partecipato a una sassaiola che per ora è solo presunta. Solo sospetti, dopo quattro lunghe udienze”. E l’avvocato Timmermann ha subito dopo aggiunto: “Sono emerse molte contraddizioni, tra le testimonianze dei poliziotti ma anche rispetto agli stessi video della polizia. Fabio è un ragazzo. Come potete ancora giustificare la sua detenzione, signor giudice? La sua condotta processuale è chiarissima: lui si è dichiarato innocente e rivendica il diritto a manifestare. È irrealistico pensare che voglia in qualche modo sottrarsi al giudizio”. Di qui l’istanza e la conseguente decisione del Tribunale: il giovane imputato (Fabio viene considerato ancora minorenne dal diritto penale tedesco) potrebbe uscire dal carcere, pur se sottoposto a rigide misure restrittive della libertà di movimento, inconsuete in simili casi. Non dovrebbe infatti lasciare Amburgo, sarebbe obbligato a comunicare preventivamente i suoi spostamenti in città, a firmare ogni giorno in un commissariato di polizia, e a versare 10.000 euro di cauzione. Tutte condizioni che la madre Jamila Baroni, presente da mesi in Germania per seguire il processo, si è subito detta disposta ad accettare. Ma come una doccia gelata è arrivata l’opposizione dei pubblici ministeri. Nei prossimi giorni si pronuncerà la Corte d’Appello, forse già questa mattina sulla sospensione della scarcerazione, in attesa delle prossime udienze del 27 novembre e 4 dicembre. “È una vicenda surreale - commenta Jamila Baroni - trovo illogico che la Procura abbia fatto ricorso. Ma in fondo, finora, ho visto prevalere atteggiamenti che non corrispondono a una logica di giustizia”. Una vicenda che, secondo la trasmissione della televisione pubblica Zdf Aktuell, avrebbe potuto svolgersi ad Ankara e non nella “democratica” Amburgo. Stati Uniti. Non trovano la vena al detenuto: “rinviata” la pena di morte di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 17 novembre 2017 La tortura è durata due ore, 180 minuti di pura crudeltà in cui la macchina della morte alla fine si è inceppata: il boia non è riuscito a trovare una vena “utile” nelle braccia (e nelle gambe) di Alva Campbell, 69 anni, condannato all’iniezione letale per un omicidio di un 18enne commesso nel 1997. I testimoni raccontano di una scena grottesca che sembra uscita da una pellicola di David Lynch con quattro agenti di polizia che hanno cercato invano di applicare un catetere venoso negli arti del prigioniero immobilizzato sul lettino, con un ultimo infruttuoso tentativo di far entrare il veleno attraverso la parte posteriore del ginocchio destro. Mentre le guardie si accanivano per trovare il “varco”, Campbell cercava disperatamente di stringere le mani dei suoi aguzzini. Quando lo spettacolo è diventato insostenibile gli agenti hanno mandato via senza spiegazioni i giornalisti che, per la legge americana, possono assistere al supplizio assieme ai familiari delle vittime. “L’esecuzione si è conclusa con un fallimento, una nuova data verrà presto fissata”, si legge in un laconico comunicato della portavoce dei servizi penitenziari di stato JoEllen Smith. Lo hanno riportato in cella su una sedia a rotelle, in attesa che la giostra mortale riprenda a girare. Lo stato di salute di Campbell è però pessimo: può camminare solo tramite un deambulatore, ha gravi insufficienze respiratorie (dorme con un cuscino medico speciale e riceve ossigeno quattro volte al giorno), ha recentemente subito una colostomia ed è probabilmente consumato da un tumore ai polmoni. I suoi avvocati hanno chiesto più volte la sospensione della pena ma le autorità dell’Ohio non hanno mai ritenuto le sue condizioni incompatibili con l’iniezione letale: “L’evoluzione dello stato di salute di mister Campbell è seguito in modo professionale per prendere le misure necessarie alla sua esecuzione”, aveva detto appena tre giorni fa la stessa JoEllen Smith. Parole raggelanti, pronunciate dopo un esame medico sulle “vene palpabili” del condannato che avrebbe avuto esiti positivi. Durissimo il commento dell’Unione americane per le libertà civili (Aclu): “Oggi la vita di un uomo è stata oggetto di uno spettacolo macabro: è la seconda volta in pochi anni che questo accade in Ohio, questo è disumano”, tuona Micke Brickner, dirigente dell’organizzazione che ha chiesto l’ennesima moratoria sulla “pratica selvaggia” delle iniezioni letali rivolgendosi direttamente al governatore dello Stato John Kasich. Sul caso Campbell è intervenuta via Twitter anche Helen Prejan, religiosa cattolica e icona della battaglia contro la pena di morte negli Stati Uniti: “Kasich e i tribunali dell’Ohio avrebbero fatto meglio ad ascoltare gli avvocati di Alva”. In ogni caso ci vorrà del tempo per riprogammare l’esecuzione, tra ricorsi legali e i normali tempi della burocrazia federale, Campbell dovrebbe tornare davanti al boia non prima della primavera del 2019, sempre che per quella data non sia già stato ucciso dalla malattia. Per il momento è rientrato nel braccio della morte come uno che torna dall’aldilà senza sapere bene il perche: “È un giorno che non dimenticherò mai nella vita”, sono state le uniche parole riferite al suo avvocato. Il primo caso moderno di un tentativo di esecuzione fallito è accaduto in Louisiana nel 1946, quando una sedia elettrica malfunzionante non è riuscita a togliere la vita a Willie Francis un afroamericano condannato per un omicidio commesso quando aveva 15 anni. In quel caso la Corte Suprema degli Stati Uniti permise allo Stato di replicare l’esecuzione che avvenne nel giugno 1947. Guinea Equatoriale. Fumettista in carcere da due mesi senza accusa di Riccardo Noury Corriere della Sera, 17 novembre 2017 Amnesty International ha sollecitato le autorità della Guinea Equatoriale a rilasciare immediatamente e senza alcuna condizione il fumettista Ramón Esono Ebalé, arrestato il 16 settembre nella capitale Malabo. Noto per le sue critiche al governo, Ebalé entra oggi nel terzo mese di detenzione senza che nei suoi confronti sia stata formalizzata alcuna accusa. Questo sebbene la legge della Guinea Equatoriale preveda che un sospetto non possa essere trattenuto per oltre 72 ore senza accusa. Fonti della procura hanno affermato che, secondo alcuni testimoni, Ebalé avrebbe diretto un’organizzazione coinvolta nel riciclaggio di denaro sporco e nella contraffazione, circostanze che il vignettista nega decisamente. Secondo Amnesty International, quello di Ebalé è l’ennesimo caso di detenzione arbitraria in Guinea Equatoriale, stavolta ai danni di una persona che ha semplicemente esercitato attraverso l’arte il suo diritto alla libertà d’espressione. Il 9 ottobre gli avvocati di Ebalé hanno chiesto di contro-interrogare i presunti testimoni dell’accusa ma la loro richiesta è rimasta finora senza esito. Se non riceveranno una risposta entro il 30 novembre, giorno in cui si chiude l’anno giudiziario in Guinea Equatoriale, Ebalé dovrà rimanere in carcere almeno fino al 16 gennaio. In uno degli ultimi contatti con Amnesty International, Eloísa Vaello Marco, moglie di Ebalé, ha detto: “Attraverso le sue vignette, Ramón fa satira nei confronti del governo e denuncia le cose che non vanno. Lo fa con un senso dell’umorismo che gli viene dal fondo del cuore. Tutto qua. Da quando è in carcere ho potuto parlargli una sola volta, quando è comparso di fronte al giudice. Poche parole… Ogni giorno, attraverso sua sorella, gli mando messaggi in cui gli chiedo di resistere, di avere fiducia”. I familiari, che invece possono recarsi in visita regolarmente, raccontano che Ebalé ha dei momenti di tristezza. Suo figlio, che ha 17 anni, è scoppiato a piangere la prima volta che si sono incontrati in carcere. Il 2 novembre la Rete internazionale per i diritti dei fumettisti ha assegnato a Ebalé il premio Coraggio nel fumetto editoriale 2017.