Digiuno contro l’ergastolo nella giornata della dichiarazione dei diritti dell’uomo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 novembre 2017 L’iniziativa fissata per il 10 dicembre è organizzata dall’associazione “Liberarsi”. Vi aderiranno non solo i detenuti e i familiari, ma anche alcuni parlamentari, uomini e donne della chiesa, esponenti dell’avvocatura, magistrati e professori universitari. Tantissimi detenuti ed ergastolani di tutta Italia digiuneranno contro la pena dell’ergastolo. L’iniziativa non violenta si svolgerà il 10 dicembre prossimo, in occasione dell’anniversario della dichiarazione dei diritti dell’uomo. Una data scelta non a caso. L’ergastolo viola i diritti dell’uomo? Sì, se non contempla la possibilità della scarcerazione e la possibilità di una revisione dopo alcuni anni di sconto della pena. La Corte europea, nel passato, ha condannato alla pena dell’ergastolo proprio in base a questi principi. La Grande Camera dei diritti dell’uomo, infatti, con un’importante sentenza depositata il 9 luglio del 2013 (caso Vinter nel Regno Unito) per un ricorso presentato da tre britannici in carcere per omicidio, ha affermato il principio per cui l’ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata o di revisione della pena è una violazione dei diritti umani, poiché l’impossibilità della scarcerazione è considerata un trattamento degradante e inumano contro il prigioniero, con conseguente violazione dell’art. 3 della Convenzione europea sui diritti umani. L’articolo specifica infatti che “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. In Italia esistono due tipi di ergastoli: quello normale e quello ostativo. Il primo consiste nel riconoscere al condannato benefici, quali permessi premio, semilibertà ovvero liberazione condizionale; per il secondo, invece non viene concessa la possibilità di alcun beneficio e rimane una pena perpetua. L’iniziativa fissata per il 10 dicembre è organizzata dall’associazione Liberarsi. Saranno coinvolti non solo i detenuti e familiari, ma anche alcuni parlamentari, uomini e donne della Chiesa, esponenti dell’avvocatura, magistrati e professori universitari. Tutti uniti per favorire un vero dialogo con le istituzioni e invitare le persone, tutte, a una riflessione nel senso stesso dei principi della giustizia italiana. In prima fila c’è l’ergastolano Carmelo Musumeci, plurilaureato e autore di numerosissimi libri di denuncia verso la condizione da “ostativo”. Conduce, ormai da anni, una battaglia per l’abolizione dell’ergastolo cercando di aprire un dibattito sulle ragioni e sul senso di una pena senza fine che in Italia è la storia di oltre 1000 persone. Così commenta a Il Dubbio le ragioni della battaglia: “Gli “uomini ombra”, così si chiamano fra di loro gli ergastolani, non hanno più niente in comune con gli altri prigionieri perché vivono in un mondo completamente diverso da quello di tutti gli altri. Tutti gli altri prigionieri, infatti, hanno delle speranze, dei sogni. Gli ergastolani invece non hanno più nulla. La cosa più brutta per l’uomo ombra è che il suo futuro non dipende più da lui perché con la pena dell’ergastolo egli diventa solo uno spettatore della propria vita. Questa terribile condanna è un insulto alla ragione, al diritto e alla giustizia perché dopo tanti anni di carcere diventi un altro, ma l’Assassino dei Sogni, il carcere come lo chiamano i prigionieri, ti ricorda che sei sempre quello di prima. Per questo l’uomo ombra non ha più speranze da sperare. E non ha più sogni da sognare. Il rapporto con il resto del mondo per un uomo ombra è diverso da quello di tutti gli altri prigionieri perché, mentre gli altri sanno quando usciranno, lui sa che quella data non esiste per lui. Per questo molti preferirebbero morire subito piuttosto che così, poco per volta. Un uomo ombra per soffrire di meno deve vivere alla giornata. Non deve mai più sperare in niente. E non gli deve importare più nulla del resto del mondo. Deve vivere di nulla in mezzo al nulla. E soprattutto deve dimenticarsi che una volta era un essere umano. Per noi uomini ombra, gli anni vanno e vengono senza nessuna importanza. Fino alla fine dei nostri giorni. Fino alla fine della nostra vita. Fino alla fine di tutto. L’unica speranza che rimane all’uomo ombra è quella della morte”. Nel 2014, un gruppo di intellettuali, giuristi e parlamentari bipartisan avevano depositato una proposta di iniziativa popolare che prevede l’abolizione dell’ergastolo ostativo. C’erano firme bipartisan come Stefano Rodotà, don Luigi Ciotti, Massimo D’Alema, Alfonso Papa e anche quella di Alessandro Di Battista, deputato del Movimento 5 Stelle. Qualche tempo prima, durante il governo presieduto da Letta, era stata depositata anche una proposta di legge - tuttora rimasta congelata nella Camera, sempre in senso abolizionista, presentata dai parlamentari Danilo Speranza e Danilo Leva. “Dobbiamo restituire dignità alle persone - aveva detto Danilo Leva del Pd, uno dei firmatari della proposta, uno Stato che non dà speranza ai detenuti non è uno Stato. Dobbiamo avere il coraggio di non cedere ai populismi e alla demagogia”. Contro l’ergastolo si erano pronunciati anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il capo del Dap Santi Consoli. L’hanno fatto, nel 2015, durante il congresso dell’associazione del Partito Radicale Nessuno tocchi Caino organizzato nel carcere milanese di Opera con il titolo “Spes contra spem”. Recentemente il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma ha sollevato nuovamente la questione invitando le istituzioni ad una riflessione. Il suo invito è arrivato dopo che ha ricevuto, ad aprile, un appello da parte di 100 ergastolani che provocatoriamente avevano dichiarato di voler avviare la raccolta firme per una proposta di legge che dovrebbe permettere a chi sta scontando la pena dell’ergastolo, in particolare quella dell’ergastolo ostativo, di ricorrere all’eutanasia. Una “provocazione” composta da più messaggi che i detenuti hanno scritto tramite il passaparola tra le carceri nella quale i carcerati confessano di sentirsi dei “morti viventi, privi di speranza, e senza la possibilità riavere una sola gioia di vita nel futuro”. Tortura e 41-bis, l’Onu ora bacchetta l’Italia di Marzia Paolucci Italia Oggi, 16 novembre 2017 Concetto di tortura troppo generico, reato imprescrivibile e non risarcibile. Il Comitato della Nazioni unite contro la tortura (Cat) boccia la legislazione italiana in materia approvata solo a luglio scorso, le politiche migratorie, il sistema di detenzione con 25 anni di 41bis e sul perché si apre la discussione con il governo italiano. La sessantaduesima sessione del Comitato svoltasi a Ginevra il 14 e 15 novembre critica la legge sulla tortura, la gestione delle politiche migratorie con il decreto Minniti-Orlando sull’immigrazione e gli accordi con la Libia per arginare il traffico dei migranti e il carcere ex 41-bis, passi che si tratti di oltre una decina di fattispecie di reato, tutte gravissime. Nel mirino delle Nazioni unite anche la custodia cautelare, il dramma del sovraffollamento carcerario e dei suicidi in carcere. Temi diversi mescolati tutti insieme alla luce di un nostro equivocabile concetto di tortura messo in discussione dai rilievi del Comitato. E se dal presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, c’è “rispetto per gli organismi internazionali e quel che rappresentano”, per la delegazione italiana, ha risposto tra gli altri Roberto Calogero Piscitello, direttore generale detenuti e trattamento del Dap del ministero della giustizia. Un passato da sostituto procuratore della Dda di Palermo e la voglia di dirla tutta sul carcere duro, anzi, corregge, “separato” del 41bis. “Un istituto di valenza fondamentale: l’Italia è l’unico paese occidentale con fenomeni di criminalità organizzata interni, per questo la sua istituzione nel 1992. Oggi interessa 721 detenuti di cui solo sette internati e nel tempo sono venute meno tante delle restrizioni iniziali: il limite agli incontri con il proprio difensore e grazie all’ultima circolare del 2 ottobre scorso il permesso di svolgere i colloqui con i figli minori di anni 12 senza vetro divisorio. La videosorveglianza è ridotta a pochissimi casi e durante il giorno ci si può trovare in gruppi di massimo quattro persone fino a due ore al giorno”. Ma soprattutto non si rinnova automaticamente come devono aver capito a Ginevra: “Dopo quattro anni, in prima approvazione e due anni per le successive proroghe”. Il paese dove Giustizia è Politica di Annalisa Chirico Il Foglio, 16 novembre 2017 L’Italia sembra ormai condannata alla commistione permanente tra i poteri dello Stato. Ma un antidoto c’è. “La legge è uguale per tutti” e “la giustizia è amministrata in nome del popolo”. Così recita la scritta che campeggia nelle aule dei tribunali italiani. Fino a prova contraria, “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Questo sancisce la Costituzione e questo s’insegna nelle facoltà di Giurisprudenza. Eppure l’Italia sembra aver imboccato un sentiero che porta dritti verso un modello assai diverso da quello tipico delle democrazie liberali, fondato sulla separazione dei poteri e sulla supremazia della legge applicata da una burocrazia togata indipendente e imparziale. Da qualche decennio assistiamo a un processo all’apparenza irreversibile: la graduale trasformazione del nostro paese in una repubblica giudiziaria. Dove giustizia e politica s’intrecciano, si confondono, si equivalgono. Dove la legge è diseguale per tutti, muta nelle forme, nei tempi e nei contenuti a distanza di poche decine di chilometri. Dove l’amministrazione della giustizia non pare ispirarsi alla volontà del popolo sovrano, ma sembra piuttosto asservita alle mutevoli esigenze e ai capricci di chi dirige i singoli uffici giudiziari. Dove il principio costituzionale della presunzione d’innocenza è ridotto a un artificio retorico privo di riscontro pratico. Oggi “fino a prova contraria” è una formula senza senso, a causa di una gigantesca falla nel sistema. I processi durano troppo a lungo e in non pochi casi si estinguono prima di arrivare a sentenza. La giustizia sommaria, incentrata sul circo mediatico-giudiziario e sul sovradimensionamento dell’inchiesta, diventa l’unico strumento risolutivo, per quanto imperfetto, sul quale i cittadini possano contare. Le indagini, che dovrebbero rappresentare una mera ipotesi accusatoria, assumono il valore inappellabile di una condanna preventiva. Il dibattimento si riduce a un rito da espletare nel generale disinteresse per le sorti del processo. È una giustizia di primo impatto. Nella repubblica giudiziaria gogna e impunità marciano unite. Nelle more dei dibattimenti senza fine i processi veri si celebrano sulle pagine dei giornali, le vittime apprendono l’arte del vivere con lentezza, i colpevoli restano a piede libero nell’attesa di una sentenza che li assicurerà - forse, un giorno - alla giustizia che non c’è. Vige l’equazione giustizia=politica: l’intreccio incestuoso tra chi applica la legge e chi quelle leggi le fa ha sovvertito le regole democratiche. Siamo l’unico paese al mondo dove ben due magistrati hanno fondato un partito per candidarsi alla guida dell’esecutivo e un magistrato in aspettativa pretende di candidarsi, e si candida, alla guida di un partito. Siamo l’unico paese al mondo dove una corrente organizzata di magistrati scende in campo per contrastare, con comizi e pubbliche assemblee, un referendum promosso dal governo in carica. Come se prendere parte, schierandosi apertamente nell’agone politico, non costituisse una flagrante violazione del dovere di imparzialità imposto dalla Costituzione a chi è chiamato non solo a essere terzo, ma anche ad apparire tale. Nel nostro paese Giustizia è Politica perché la magistratura ha conquistato una preminenza eccezionale, ha assunto il ruolo di suprema autorità incaricata di applicare il codice morale al posto di quello penale, al fine di imporre il “buon esempio”. Giustizia è Politica perché nella repubblica giudiziaria il ministero della Giustizia è affollato di magistrati. Altri, di ordini diversi, collaborano con i ministri dei principali dicasteri. Altri ancora siedono in Parlamento e nelle assemblee politiche: dal 1994 in poi il numero dei togati parlamentari è triplicato rispetto al periodo precedente. Giustizia è Politica perché la politicizzazione della giustizia italiana è un Giano bifronte: da una parte, taluni con indosso la toga perseguono obiettivi politici con mezzi giudiziari, acquisiscono notorietà non per le condanne ottenute ma per il clamore delle inchieste, gli arresti eccellenti, il protagonismo mediatico che si rivela poi un formidabile trampolino di lancio verso altri scranni. Dall’altra parte, una classe politica inetta e screditata politicizza la giustizia ogni qualvolta vi ricorre per risolvere questioni extragiudiziarie, strumentalizzando, all’occorrenza, avvisi di garanzia e arresti preventivi allo scopo di contrastare un avversario. Giustizia è Politica perché, dopo anni di giustizia a orologeria, abbiamo scoperto la politica a orologeria. Si pensi all’inchiesta pomposamente denominata Mafia Capitale che ha tirato la volata al movimento di Beppe Grillo nella corsa al Campidoglio, mentre l’allora sindaco, Ignazio Marino, veniva infilzato dai suoi stessi colleghi di partito per una vicenda di scontrini risultata penalmente irrilevante. O al caso siciliano, dove una presunta intercettazione, rivelatasi inesistente, è diventata la “scintilla” per invocare il passo indietro del governatore Rosario Crocetta e accelerare il suo avvicendamento. “È il sintomo di un’altra anomalia italiana. La tentazione di agganciare ogni tentativo di ribaltamento degli equilibri politici a qualche iniziativa della magistratura, come se la politica avesse sempre bisogno di un appiglio giudiziario a cui attaccarsi, prima di muoversi”, ha commentato il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, intervenendo pubblicamente per smentire l’esistenza della scellerata dichiarazione di cui non c’è traccia negli atti investigativi. Tacciare i politici di uso politico della giustizia: un’autentica novità dopo vent’anni trascorsi a discutere del contrario. Giustizia è Politica perché nel vuoto decisionale lasciato da un legislatore timoroso, incapace di risolvere sul piano normativo questioni sensibili come matrimoni gay e fine vita, la magistratura è chiamata a colmare tali lacune a colpi di sentenze creative che “fanno legge” anziché limitarsi ad applicare quella esistente. Giustizia è Politica perché ci sono magistrati pronti a imbastire indagini e processi non per accertare eventuali responsabilità, ma per riscrivere pezzi di storia patria, per condurre campagne moralizzatrici, per legittimare cure mediche bocciate dalla scienza ufficiale, per criminalizzare apparati dello Stato in nome di una pretesa, e indimostrata, verità. Giustizia è Politica perché oggi l’Italia vive un’epoca radicalmente nuova: le toghe direttamente impegnate in politica sono una specie in via di estinzione, e la giustizia si fa politica grazie a un movimento che non conta nei suoi ranghi magistrati ma cittadini comuni, spesso senza un passato professionale alle spalle. Il M5S è la quintessenza del populismo giudiziario. Deve la propria ragion d’essere alla delegittimazione della classe politica seguita ad alcune inchieste, perciò brandisce l’avviso di garanzia come un’arma contundente contro l’avversario, applica il principio del “siamo tutti colpevoli fino a prova contraria”, professa il ruolo salvifico dei magistrati, invoca l’espansione del controllo giurisdizionale. L’equilibrio fra i poteri dello stato si dimostra sempre più precario. L’Italia sembra condannata alla commistione permanente. Altro che separazione, sia benedetto Montesquieu. Il primato della politica Esiste un antidoto contro la repubblica giudiziaria: si chiama “primato della politica”. Soltanto una politica forte, consapevole della propria missione, può essere il motore del cambiamento. Non è un caso che, in più occasioni, autorevoli magistrati, nonché il Consiglio superiore della magistratura, abbiano invocato l’intervento del legislatore al fine di regolare materie rilevanti per l’amministrazione della giustizia. Si pensi soltanto alle cosiddette “porte girevoli”: la delibera, adottata nel 2015 dal plenum di Palazzo dei Marescialli, prevede il divieto di svolgere contemporaneamente funzioni politiche e giurisdizionali (per scongiurare i casi di pm assessore o giudice sindaco, consentiti dalla legge vigente). Il documento approvato dall’organo di autogoverno della magistratura considera la “discesa in campo” del magistrato come un percorso irreversibile: al termine dell’esperienza politica, la toga deve essere ricollocata nei ranghi dell’Avvocatura dello stato o della dirigenza pubblica, senza che possa tornare a svolgere il ruolo di pm o giudice. Sono trascorsi mesi, anzi anni, e in Parlamento si discute una legge che vedrà la luce chissà quando e che, per paradosso, introduce norme più blande e permissive di quelle concepite dai magistrati. Che dire poi delle circolari di autoregolamentazione interne alle procure, ovvero dei ripetuti moniti, provenienti dalla magistratura associata, contro l’uso politico della giustizia a opera di chi brandisce avvisi di garanzia e soffiate giornalistiche per risolvere conti interni ai partiti. La supplenza togata è l’altra faccia dell’inerzia politica. Un movimento fondato da un comico ha costruito il proprio successo elettorale sulla falsa credenza che i politici siano una massa di ladri e corrotti, e che il penale rappresenti la panacea di tutti i mali, il lavacro per la società intera. Meglio i buoni a nulla che i capaci di tutto. Nel “circo mediatico-giudiziario”, secondo la celebre definizione dell’avvocato francese Daniel Soulez Larivière, i capisaldi dello Stato di diritto vengono sacrificati sull’altare del fanatismo punitivo. L’articolo 27 della Costituzione? Da riformulare: siamo tutti colpevoli fino alla sentenza definitiva. La prescrizione? Va abolita. La democrazia rappresentativa? Meglio la tirannia del clic. Per tornare a governare il fenomeno giudiziario, nelle sue molteplici sfaccettature e senza derive autoritarie (la paura dell’uomo solo al comando ha fatto sprofondare il paese nel pantano immobilista), serve una classe politica credibile. Spetta a essa, e non alla magistratura, il compito di selezionare il proprio personale. In questo quadro la burocrazia togata è un alleato, non un nemico. La stragrande maggioranza dei novemila magistrati italiani è composta da professionisti che intendono tutelare l’autorevolezza e l’onore della categoria. Il protagonismo di pochi getta discredito su tutti. Se la macchina dei tribunali si dimostra all’altezza delle aspettative dei cittadini, i magistrati sono più forti nella società. Contro la repubblica giudiziaria dobbiamo anzitutto mettere in sicurezza l’abc dello stato di diritto. Basterebbe mandare a memoria la lezione di Giovanni Falcone sull’informazione di garanzia, “non una coltellata da potersi infliggere così ma qualcosa che deve essere utilizzata nell’interesse dell’indiziato”. È “profondamente immorale che si possano avviare delle imputazioni e contestare delle cose nella assoluta aleatorietà del risultato giudiziario”. “La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo”. Una volta salvaguardati i pilastri della democrazia, si potrà ragionare sui diversi campi d’intervento. C’è una gigantesca questione organizzativa che non va elusa; esistono uffici giudiziari che, a parità di norme e risorse, registrano divari di produttività ragguardevoli. Un buon magistrato non è per forza un buon dirigente, oltreoceano il court manager non è laureato in Giurisprudenza ma in Business administration. Bisogna proseguire nella direzione di una magistratura specializzata per venire incontro alle esigenze delle imprese: le ragioni del diritto e dell’economia non sono destinate a fare a pugni, né può ritenersi libero il paese dove l’imprenditore onesto ha paura del magistrato. C’è un’eccessiva domanda di giustizia, un gran numero di illeciti sarebbero affrontati in modo più efficace e celere nell’ambito della stessa amministrazione e, in ogni caso, con metodi di risoluzione extragiudiziale. È necessario separare le carriere di magistrati e giornalisti, non limando l’ennesimo avverbio di un divieto già in vigore, ma introducendo sanzioni effettivamente dissuasive (una multa di poche decine di euro non lo è). E, infine, quale effetto deflattivo avrebbe sul carico pendente l’introduzione di una regola semplice: se lo stato ti assolve, nessun tribunale può processarti una seconda volta per i medesimi fatti. È il principio del ne bis in idem, un’invenzione degli antichi romani. Nella “Via della schiavitù” Friedrich von Hayek ricorda che una società imbocca il sentiero dell’autoritarismo quando “si diffonde l’idea che, se si vuole che le cose vengano fatte, le autorità responsabili devono essere liberate dalle catene della procedura democratica”. Serve una classe politica che torni a fare, a decidere. Se così non accadrà, si affermerà l’ingannevole idea che la dittatura dell’algoritmo sia, tutto sommato, un’alternativa preferibile a pastoie procedurali e parlamenti vintage. È la sfida del futuro, anzi, del presente. Tanto per cambiare, è l’Italia il paese i cui cittadini sono i più intercettati al mondo di Ermes Antonucci Il Foglio, 16 novembre 2017 76 ogni 100.000 abitanti, 140 volte più che negli Usa. Il problema non solo di privacy dei trojan e la riforma che non riformerà. Il quotidiano britannico Guardian ha riportato con preoccupazione la notizia delle intercettazioni realizzate dalla procura di Palermo nei confronti di alcune conversazioni tra un suo giornalista (italiano) e una delle sue fonti, nell’ambito di un’inchiesta su un presunto trafficante di esseri umani. Si tratta di una notizia difficilmente concepibile per la cultura anglosassone e il motivo è presto detto: in nessun paese occidentale si realizzano così tante intercettazioni come in Italia. I dati parlano chiaro: nel 2015, come riportato nell’ultima Relazione sull’amministrazione della giustizia, in Italia sono state realizzate 132.749 intercettazioni. Quattro volte il numero di intercettazioni compiute in Francia. Oltre quaranta volte il numero di captazioni effettuate in Gran Bretagna e negli Stati Uniti (sono escluse le attività compiute dai servizi segreti). Le comparazioni a livello internazionale sull’uso di questo strumento investigativo sono rare, ma un rapporto realizzato nel 2004 dal centro studi tedesco Max Planck Institute for Foreign and International Criminal Law sottolineava come l’Italia sia il paese con il più alto numero di intercettazioni procapite (76 ogni 100.000 abitanti), lontanissimo da Francia (23,5), Germania (15), Gran Bretagna (6) e Stati Uniti (0,5). In altre parole, la probabilità che un cittadino sia intercettato in Italia è 140 volte più alta che negli Stati Uniti (escluse comunque, anche in questo caso, le captazioni compiute dai servizi segreti). A una maggiore limitazione della propria libertà personale si aggiungono i costi economici di questa pratica: nel 2015 lo stato italiano ha sborsato 230 milioni di euro per effettuare tutte le intercettazioni (e nel 2014 erano stati 250 milioni). A cos’è dovuto questo uso diffuso - spesso sconsiderato - delle intercettazioni in Italia? Colpa delle norme troppo morbide? “In realtà altri stati hanno normative che apparentemente sono più permissive della nostra, sia per i reati per i quali si può intercettare che per la durata delle captazioni - spiega l’avvocato Rinaldo Romanelli, componente della giunta dell’Unione Camere Penali Italiane ed esperto di intercettazioni. In Francia, per esempio, possono essere disposte intercettazioni per la durata di quattro mesi, mentre da noi la durata dell’intercettazione ordinaria è di 15 giorni e al termine il giudice deve rinnovare l’autorizzazione se permangono i presupposti. Negli Stati Uniti la normativa è abbastanza eterogenea perché ci sono reati federali e quelli dei singoli stati, ma per intercettare è sufficiente che un reato sia punibile con una pena superiore a un anno, una soglia molto bassa”. “Il discrimine - prosegue Romanelli - sta nell’applicazione concreta delle norme, cioè nella valutazione che il giudice fa dell’assoluta necessarietà dell’utilizzo di questo strumento investigativo. Negli altri paesi, il giudice dispone l’autorizzazione alle intercettazioni solo se ricorrono i presupposti previsti dalla legge e se l’organo requirente dimostra che non può reperire dati investigativi se non attraverso le intercettazioni. Da noi invece questo profilo valutativo, che pure è previsto in modo chiarissimo dal codice, nella pratica non si rinviene”. Il codice di procedura penale italiano, infatti, prevede che le intercettazioni possano essere disposte solo per reati per i quali è prevista una pena superiore a 5 anni, di fronte a gravi indizi di colpevolezza, per una durata massima di 15 giorni e solo se sono assolutamente indispensabili alla prosecuzione delle indagini. “Ciò non avviene nella prassi - sottolinea Romanelli. Spesso non c’è un quadro indiziario che giustifichi l’utilizzo delle intercettazioni e queste vengono disposte anche quando non sono uno strumento assolutamente indispensabile. Sono frequenti i casi in cui i pubblici ministeri chiedono e ottengono l’autorizzazione a intercettare ipotizzando gravi reati (ad esempio l’associazione per delinquere, i cui tratti sono difficili da delineare), senza che vi siano sufficienti indizi e solo per poter indagare su altri reati per i quali non è prevista la possibilità di intercettare”. Non è, dunque, un problema di norme: “Il problema sta nella cultura di chi esercita la giurisdizione, perché la funzione del giudice dovrebbe essere quella di garantire i diritti del cittadino che si trova coinvolto in un procedimento penale. Ma quando pm e giudice fanno parte dello stesso ordinamento, fanno lo stesso concorso e la stessa carriera (cosa inconcepibile, ad esempio, in Gran Bretagna), la giurisdizione finisce per perdere la sua funzione di terzietà”. Lo scenario è reso ancor più preoccupante dal crescente impiego, durante le investigazioni, del trojan, il virus informatico autoinstallante attivato sui dispositivi elettronici (pc, smartphone, tablet) che può captare ogni forma di comunicazione e anche videoregistrare il bersaglio, ovunque vada: “Poiché il domicilio è un bene particolarmente tutelato dalla nostra Costituzione, la normativa prevede che non si possano fare intercettazioni ambientali a meno che all’interno del domicilio non si stia svolgendo la condotta delittuosa. C’è dunque una relazione tra il domicilio violato e l’indagato - spiega Romanelli. Il trojan invece viene in giro con me ovunque io vada. Per cui se io vado a casa di un amico anche lui viene intercettato, il suo domicilio viene violato anche se non ha nessun rapporto con l’indagine. Il trojan quindi apparentemente sembra un’intercettazione ambientale, ma ha un potere invasivo infinito, perché con questa microspia posso andare a casa di chiunque, anche del presidente della Repubblica”. La riforma del processo penale e il recente decreto sulle intercettazioni voluto dal Guardasigilli Andrea Orlando non sembrano consegnare speranze di cambiamento: “Non si è in alcun modo intervenuto sull’uso delle intercettazioni. Anzi, sotto il profilo dei presupposti applicativi, la riforma Orlando facilita l’impiego delle intercettazioni per i reati più gravi contro la pubblica amministrazione commessi da pubblici ufficiali”. Minniti: “In democrazia il carcere ai giornalisti e le querele-bavaglio vanno cancellate” primaonline.it, 16 novembre 2017 “Le due questioni ancora in piedi, il carcere ai giornalisti e le querele bavaglio in una democrazia vanno cancellate”. A dirlo il ministro dell’Interno, Marco Minniti, in un incontro nella sede della Fnsi, rispondendo agli organismi di vertice dei giornalisti che chiedevano una modifica alle norme in discussione in Parlamento. “Mi impegno su questo anche se siamo a fine legislatura”, ha garantito il titolare del Viminale. Durante l’incontro, al quale - oltre ai vertici della Federazione della Stampa - hanno preso parte anche il responsabile per la legalità del sindacato dei giornalisti, Michele Albanese, e i cronisti sotto scorta, Minniti ha annunciato la nascita di un centro di coordinamento per la libertà di stampa del quale facciano parte, Viminale, Polizia, Federazione della stampa e l’Ordine dei giornalisti per “lavorare insieme affinché non vi sia nessuno minacciato e nessuno tacitato”. Tre i principali obiettivi del tavolo: evitare la solitudine dei cronisti minacciati, stabilire una strategia di attacco e prevenzione che consenta di impedire la nascita di certi fenomeni, occuparsi di tutti quei giornalisti che non sono sotto i riflettori ma che rischiano comunque ogni giorno per quello che scrivono. “Serve un patto tra di noi”, ha detto Minniti. “Lavoriamo insieme affinché nessuno sia dimenticato nel nome della libertà di informazione e con un doppio obiettivo, non essere né impauriti né intimiditi”. “Non possiamo che accogliere con soddisfazione la risposta positiva data dal ministro dell’Interno Marco Minniti alla richiesta formulata da Fnsi e dall’Odg di istituire un Centro di coordinamento per la libertà di stampa che si ponga l’obiettivo di uno scambio permanente di informazioni sulle realtà dei cronisti minacciati, quelli già noti e soprattutto i tanti che non sono sotto i riflettori, e dei nuovi fenomeni di aggressioni che non vengono più solo da mafie, criminalità e corruzione, ma anche da organizzazioni neonaziste e neofasciste”. Lo affermano il segretario generale e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, e il presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, Carlo Verna, a margine dell’incontro in Fnsi con il ministro Minniti. “Coordinamento che avrà anche il compito di definire le più opportune misure di sicurezza e di protezione nei confronti dei cronisti minacciati, della libertà di informazione e del diritto dei cittadini ad essere informati”. Fnsi e Odg, concludono i vertici del giornalismo italiano, “hanno inoltre apprezzato l’impegno del ministro, anche nella sua veste di senatore della Repubblica, affinché siano portate a rapida approvazione le parti della proposta di legge sulla diffamazione relative all’abrogazione del carcere per i cronisti e per giungere alla definizione di specifiche norme che scoraggino le cosiddette querele temerarie”. Tutele a chi denuncia il malaffare. Approvata la legge sul “whistleblowing” di Francesca De Benedetti La Repubblica, 16 novembre 2017 In aula oggi a Montecitorio il sì definitivo. Il testo ha come prima firmataria la 5stelle Businarolo. “Ce l’ha già la Romania, che così ci ha superato nella classifica anti-corruzione”. Indennità fino a 50 mila euro per chi subisce “punizioni” dopo aver segnalato abusi. Francesca Businarolo esulta e fissa i numeri sul display, per lei sono le cifre di un piccolo trionfo: presenti a Montecitorio 418, favorevoli 357, “contraria Forza Italia” spiega lei (mentre i numeri sobriamente recitano: “46 contrari e 15 astenuti”). Ampia maggioranza: poco prima di mezzogiorno del 15 novembre, l’Italia mette a segno la sua “legge sul whistleblowing”. Ci sono voluti quattro anni di lavoro: nel 2013 Businarolo, parlamentare 5 stelle e prima firmataria, avanzò la proposta. Ora, dopo ben un anno e mezzo di stallo al Senato, “il testo è approvato alla Camera, migliorato”. Perché festeggiare? “Ha presente l’indice che misura la corruzione percepita nei vari Paesi? Bene, le dico solo questo: prima, l’Italia era messa male, agli ultimi posti, ma eravamo pur sempre messi meglio della Romania. Poi è successo che Bucarest si è dotata di una legge per proteggere i whistleblower, mentre noi eravamo fermi a discuterne in aula. Risultato? L’indice 2017 dice che ora noi siamo più corrotti di loro. Ora possiamo finalmente ribaltare quei numeri”, conclude Businarolo mentre la legge viene sdoganata. Gli Edward Snowden d’Italia potranno denunciare abusi e corruzione con le spalle (più) coperte. La novità. Sotto il cappello di “whistleblower”, cioè tutti coloro che da insider scoprono una magagna (un abuso, un illecito, molto spesso un episodio di corruzione) e la rivelano, si nascondono le storie più diverse: negli Stati Uniti, c’è chi ha svelato storie sporche sul nucleare, sull’Fbi, sull’ambiente, o il Datagate come nel caso di Snowden. Lì però, nella maggior parte dei casi, lo Stato tutela e “paga” chi denuncia. Lo fa per interesse: “Una volta scovato l’episodio di corruzione, di evasione fiscale e così via, le casse pubbliche recuperano miliardi di dollari”, come spiega l’avvocato Stephen Kohn che in Usa difende sentinelle celebri dagli anni ‘80. In Europa non esistono premi in denaro, anzi: molto spesso chi si espone, e denuncia, è lui a pagare; viene mobbizzato, licenziato, spende migliaia di euro per avvocati o psicologi. O finisce in tribunale, come Antoine Deltour, la sentinella dello scandalo LuxLeaks. Eppure anche in Europa, col fioccare delle denunce, si potrebbero rimpinguare le casse pubbliche: la Commissione europea ha stimato che il whistleblowing può valere qualcosa come 50 miliardi di euro. Pure per questo, il Parlamento italiano ha deciso di integrare le blande protezioni già contenute nella legge Severino. Con le nuove regole, l’aula stabilisce tutele più forti per i dipendenti pubblici e introduce le prime garanzie per chi lavora in aziende private e partecipate. Andrea, Giulia, Stéphanie. Nel settore pubblico, chi denuncia con fondatezza non potrà essere demansionato, licenziato, trasferito, insomma “punito” per aver agito nell’interesse pubblico. Anzi: dovrà essere messo in condizione di fare la sua denuncia in condizioni di segretezza e attraverso precisi canali di segnalazione. La legge dice pure che se il datore di lavoro ti licenzia perché hai “spifferato”, dovrà dimostrare - lui, non tu - che il motivo non è la tua soffiata (tecnicamente si chiama: “inversione dell’onere della prova”). Se viene fuori che il capo ti licenzia o mobbizza, dovrà pagare una sanzione (fino a 50mila euro); una sanzione spetterà pure al responsabile anticorruzione che non avesse dato il giusto seguito alla tua segnalazione. Le nuove regole, se fossero arrivate prima, avrebbero potuto cambiare le sorti di un po’ di storie. Per esempio quella di Andrea Franzoso, il whistleblower nostrano più noto, che ha da poco pubblicato un libro-testimonianza (“Il disobbediente”) e che rivelò le “spese pazze” di Ferrovie Nord: quella era appunto una partecipata, settore che, senza la nuova legge, rimane totalmente scoperto da protezioni ad hoc. E lui non esita ad ammettere che “questa legge è un buon punto di partenza”. Gioisce anche Giulia Romano, ricercatrice pisana che ha denunciato irregolarità nei concorsi universitari e ha vinto il ricorso al Tar. Pure da oltralpe c’è chi esulta: “Meno male che le cose da voi migliorano un po’“, commenta Stéphanie Gibaud, che portò a galla in Francia lo scandalo Ubs - un pasticcio di banche e evasione fiscale. Tallone d’Achille. Ma attenzione: per molti pasionari della soffiata, questa legge è solo un inizio. Lo stesso Franzoso nota molti punti deboli: “Gioisco che le nuove regole vadano in porto - dice - ma soprattutto per il settore privato, le protezioni rimangono deboli, e ancor più incerte per le aziende piccole e medie: non è detto che abbiano modelli organizzativi adeguati per garantire un sistema di segnalazione dell’abuso”. L’associazione Transparency, che assieme a “Riparte il futuro” è tra le più attive nel pressing per l’approvazione delle tutele, sintetizza così - per voce di Giorgio Fraschini - punti forti e deboli: buona la protezione dell’identità di chi segnala, la possibilità per l’autorità anticorruzione (Anac) di imporre sanzioni, l’introduzione di tutele anche per il settore privato. Ma rimangono alcune debolezze: “Manca una protezione completa nel settore privato, nel senso che il modello non è obbligatorio, non sono previste misure di protezione per le segnalazioni a regolatori esterni o all’autorità giudiziaria. Nei procedimenti giudiziari, a un certo punto l’identità del segnalante potrebbe essere rivelata. Manca poi un fondo economico di ristoro per chi segnala”. Insomma si può sempre migliorare: c’è chi sogna l’Irlanda, che ha da poco approvato una legge per “blindare” chi denuncia, o l’Olanda, che ha addirittura pensato a una “Casa per la tutela del whistleblower”, con tanto di consulenze per far sentire la sentinella “accolta”. Intanto però, c’è pure chi, come Businarolo, pregusta i primi successi: “Magari sorpassiamo la Romania”. Misure di prevenzione patrimoniali : un sistema che funziona per impoverire i boss di Gaetano Paci* La Repubblica, 16 novembre 2017 Chi avesse delle misure di prevenzione patrimoniali un’idea limitata ai fatti che sono emersi dall’inchiesta sulla gestione dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati dalla sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo è pregato di ricredersi. Non solo perché questo strumento è costato la vita a chi se ne era fatto convinto sostenitore, come Cesare Terranova, Carlo Alberto dalla Chiesa e Pio La Torre, che per primo ne ideò l’impianto originario nel 1982, ma soprattutto per la rilevanza strategica che esso ha assunto nella attuale strategia di contrasto alla ‘ndrangheta. Basta dare un’occhiata ai casi più recenti. Quello che riguarda Gioacchino Campolo è esemplare: piccolo imprenditore del settore dei giochi e delle scommesse, dai primi anni ‘80 inizia una escalation che lo porta a diventare monopolista grazie ai rapporti di scambio con le potenti famiglie De Stefano e Libri di Reggio Calabria e ad acquisire un patrimonio stimato in oltre 300 milioni di euro, composto in massima parte di beni immobili, auto di lusso e di una impressionante collezione di opere d’arte. Condannato per le estorsioni sistematiche perpetrate ai danni dei suoi operai, ai quali sottraeva una parte dello stipendio che dichiarava di versare all’Erario, nonché per concorrenza illecita con violenza e minaccia per i metodi sbrigativi con cui sbaragliava la concorrenza, per anni ha rappresentato il prototipo dell’imprenditore che, pur senza essere organico alle cosche, aveva instaurato con queste rapporti di reciproca convenienza. Gli oltre 260 immobili disseminati tra Reggio Calabria, Roma, Milano e Parigi (tra cui un lussuoso appartamento in rue St. Honorè), hanno trovato nel tempo una destinazione diretta o indiretta a fini pubblici mentre le opere d’arte, comprendenti tele originali di De Chirico, Ligabue, Fontana, Sironi e Modigliani, sono adesso esposti al Palazzo della Cultura di Reggio Calabria. Ancora più curiosa la storia di Rocco Musolino, patriarca mafioso di Santo Stefano di Aspromonte, deceduto nel 2015 dopo un cursus honorum iniziato negli anni ‘70 che lo ha visto assurgere al vertice della ‘ndrangheta reggina, dove ha potuto acquisire l’incontrastata posizione di imprenditore boschivo dominante nell’area aspromontana ed una ferrea capacità di influenza sull’apparato politico-amministrativo e sugli uomini delle istituzioni. Anche taluni magistrati, tra gli anni 80 e 90, non disdegnavano di intrattenere relazioni con don Rocco. Nonostante il suo coinvolgimento nella guerra di mafia degli anni 80 ed in numerose vicende di mafia, compreso un tentato omicidio in cui rimase vittima nel 2008, morì senza avere mai riportato una condanna. Se non fosse stata emanata nel 2008 la norma che consente la confisca dei beni dei mafiosi nei cinque anni dal decesso, oggi gli eredi di Rocco Musolino potrebbero disporre liberamente dello sterminato patrimonio immobiliare illecitamente accumulato in vita. La storia di Giovanni Zumbo, infine, è assolutamente unica. Perché si tratta di un professionista molto stimato a Reggio Calabria, commercialista ed amministratore giudiziario di fiducia del Tribunale, informatore sotto copertura dei servizi di sicurezza, che inaspettatamente si materializza, nel febbraio del 2010, a casa del noto e potente boss Giuseppe Pelle, al quale rivela informazioni segrete su delicatissime indagine delle procure di Reggio Calabria e Milano e dettagli preziosi sui tempi ed i nomi di coloro che saranno arrestati. La ricostruzione delle sue attività porterà ad accertare che si era adoperato per schermare i beni dei mafiosi al fine di sottrarli alle misure di prevenzione e che i beni in sequestro che aveva in gestione erano stati svuotati del loro valore economico allo scopo di consentire ai mafiosi di ritornarne in possesso attraverso manovre fraudolente. Gli esempi potrebbero continuare ma quelli sinteticamente evidenziati consentono di capire che il sistema delle misure di prevenzione rappresenta un argine insostituibile alla diffusione dell’impresa ‘ndranghetista ed uno strumento per bonificare il mercato dai comportamenti che comprimono o annullano la libertà di iniziativa economica ed impediscono l’esercizio della concorrenza. La ‘ndrangheta è la mafia planetaria più potente, partner dei grandi cartelli sudamericani per l’importazione in Europa della cocaina, dotata di una immensa liquidità che le consente di inserirsi agevolmente nelle più importanti piazze commerciali e finanziarie occidentali, di accreditarsi come fornitore a basso costo di servizi alle imprese e come affidabile procacciatore di voti elettorali. Un’organizzazione che, nonostante la dura repressione degli ultimi anni, conserva ancora un grande vantaggio verso lo Stato per essere stata “scoperta” con almeno vent’anni di ritardo rispetto al suo sviluppo, durante i quali ha potuto radicarsi nel sistema economico nazionale ed internazionale ed ha sempre più affinato il proprio spirito imprenditoriale si da rendere indistinguibili le attività illecite da quelle lecite. È sbagliato infatti pensare che la ‘ndrangheta limiti le proprie attività a quelle tradizionali come l’edilizia, il movimento terra o la media e la grande distribuzione commerciale; è sufficiente dare uno sguardo sommario alle inchieste più recenti per rendersi conto della molteplicità dei segmenti di mercato occupati: dai servizi alle imprese ed agli Enti locali in materia di gestione, trasporto e trattamento di rifiuti, anche speciali, alla costituzione ed alla gestione di società internazionali operanti nel settore dei giochi e delle scommesse on line, alla gestione dei servizi sanitari, anche in convenzione, alle infrastrutture nel settore del turismo e dei trasporti, compreso il controllo del transhipment presso il porto di Gioia Tauro, alla produzione e commercializzazione agricola, ai lavori edili di alta specializzazione tecnologica nell’ambito della Tav alla produzione di lampade a led. Per operare in questi settori di mercato occorrono competenze e professionalità che la ‘ndrangheta non ha difficolta a reclutare perché le sue imprese sono riconosciute come operatori credibili ed affidabili, erogano beni e servizi con costi notevolmente abbattuti ed assicurano un elevato livello di efficienza che gli imprenditori onesti non sono in grado di raggiungere. Ecco perché lo strumento delle misure di prevenzione si rivela il più adeguato per contrastare l’insidiosa diffusione dell’impresa ‘ndranghetista, perché per giungere al sequestro ed alla confisca, necessaria per sottrarre le ricchezze alle persone pericolose, per evitare che possano ancora delinquere, ma anche per eliminare dal circuito economico i beni illecitamente acquisiti, non occorre dimostrare la commissione di uno specifico reato, spesso difficile da accertare in una condizione in cui la manifestazione dell’illegalità non è resa visibile, bensì la pericolosità sociale di chi ne ha la gestione e l’origine illecita dei mezzi economici con cui viene svolta. In tutte le situazioni descritte emerge che lo strumento delle misure di prevenzione trova applicazione allorquando si tratta di impedire la reiterazione di condotte criminali che, per la loro durata nel tempo, caratterizzano la vita di una persona ma che non possono essere adottate per colpire manifestazioni di illegalità isolate in un percorso esistenziale o comunque circoscritte a singoli fatti di reato. Non è un caso che le potenzialità dello strumento fossero state colte, già venti anni fa da Salvatore Riina, che, nel pieno della strategia stragista tra il ‘92 ed il 1993, nel noto papello di richieste allo Stato anche l’abolizione delle misure di prevenzione. *Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria Ecco l’equo compenso, dal Senato il primo sì di Errico Novi Il Dubbio, 16 novembre 2017 Tutele per gli avvocati e per tutte le professioni, entro domani l’ok dell’aula. Nel giro di una notte cambia tutto. Sulle professioni, sul rapporto tra lavoro autonomo e grandi soggetti economici, sul ruolo dell’avvocatura e degli altri ordini professionali rispetto alla politica, persino rispetto agli incarichi della pubblica amministrazione. La norma sull’equo compenso nata dal tavolo tecnico tra Cnf e ministero della Giustizia viene inserita nel decreto fiscale, grazie al voto espresso dopo la mezzanotte di martedì dalla commissione Bilancio del Senato. Da ieri mattina il provvedimento collegato alla Manovra, arricchito dalle tutele per la professione forense e altre categorie, è all’esame dell’aula di Palazzo Madama: ma sulla convinzione con cui Pd e governo intendono portare fino in fondo le misure dice tutto l’intervento di un ministro molto vicino a Matteo Renzi, il responsabile dell’Agricoltura Maurizio Martina, che per primo rivendica lo sforzo del governo per “l’equo compenso ai professionisti e, in particolare, agli avvocati”. Arriva l’estensione delle norme a tutte le categorie, anche ai professionisti che non fanno parte di un ordine. Ed è una svolta che riafferma l’inderogabilità del principio: il lavoro autonomo non può essere gratuito o sottopagato. Neppure se la controparte è la pubblica amministrazione, e questo è il terzo, persino sorprendente atto “rivoluzionario” compiuto dalla politica: non c’è naturalmente un’estensione all’ambito pubblico della “nullità di protezione” che il professionista può far valere davanti al giudice quando i committenti gli impongono compensi minimi e clausole vessatorie. Non sarebbe stato possibile senza chiamare in causa la Ragioneria generale. Eppure, l’articolo 19 bis del dl fisco stabilisce, al terzo comma, che “la pubblica amministrazione garantisce il principio dell’equo compenso in relazione alle prestazione rese dai professionisti”. Il “principio” dunque diventa il cuore della norma. Come il presidente del Cnf Andrea Mascherin aveva sostenuto fin dall’inizio dell’esame in Parlamento. “Si è anche riusciti ad inserire nel decreto legge un obbligo comportamentale per la pubblica amministrazione, tenuta a rispettare il principio dell’equo compenso”, nota il vertice dell’avvocatura, che sottolinea “proprio questo passaggio con cui si formalizza in una fonte normativa primaria il concetto di equo compenso come principio”. Il ruolo del Cnf, l’impegno di Orlando - E il ruolo della professione forense resta decisivo, rispetto alla scelta formalizzata nel decreto fiscale dal relatore Silvio Lai (Pd), che in commissione Bilancio ha ottenuto l’approvazione dell’emendamento riformulato. Fino all’ultimo è andata avanti l’interlocuzione del Cnf in vista delle modifiche che hanno perfezionato e ampliato il testo. D’altronde l’articolato di base nasce dal tavolo tecnico istituto a via Arenula tra lo stesso Consiglio nazionale forense e il ministero della Giustizia. “La breccia aperta dalla proposta relativa agli avvocati ha spianato, come promesso, la strada per tutte le altre professioni”, commenta non a caso il guardasigilli Andrea Orlando. Il quale rivendica “l’impegno” assunto “con tutti i professionisti italiani” per “sradicare quello che ho più volte definito come un vero e proprio caporalato intellettuale”. Responsabile lavoro Pd: no a bandi gratis - Ma così come l’esecutivo era stato compatto, a inizio agosto, al momento di varare il ddl proposto dal ministro della Giustizia, così la maggioranza si è mostrata determinata nella decisiva accelerazione di martedì notte. A favorirla è intervenuta infatti la stessa segreteria del Pd: dopo che negli incontri dei mesi scorsi prima Matteo Renzi e poi la sottosegretaria alla Presidenza Maria Elena Boschi avevano assicurato al Cnf di essere favorevoli alle tutele per gli avvocati, è stata la responsabile Lavoro dei dem, Chiara Gribaudo, a chiedere unità in commissione Bilancio sull’emendamento Lai. “Si tutelano i professionisti anche nel rapporto con la Pa” e “si estende oltre gli avvocati”, dichiara Gribaudo, che ricorda come le nuove norme “freneranno bandi e affidamenti gratuiti”. La stessa ministra della Pubblica amministrazione Marianna Madia definisce l’equo compenso “un principio di giustizia per i professionisti” che svolgono incarichi per conto dello Stato. Mascherin: “è una battaglia di civiltà” - L’iniziativa dell’avvocatura istituzionale è stata decisiva nel processo che ora arriva a far vacillare il totem del dumping legalizzato. Il presidente del Cnf Mascherin parla di “passaggio molto importante verso l’approvazione definitiva” e appunto nota come “la soddisfazione” derivi anche “dalla conferma che l’avvocatura abbia fatto e faccia da traino anche per le altre professioni, in una vera e propria battaglia di civiltà quale è quella del riconoscimento della dignità e del rilievo del lavoro autonomo. Seguiremo il restante percorso con ottimismo”, dichiara Mascherin, “certi che la politica continuerà a essere coerente con le scelte finora fatte”. L’avvocatura è compatta attorno al Cnf. E a esprimere soddisfazione è innanzitutto Laura Jannotta, presidente dell’Unione Camere civili, rappresentativa della componente più toccata dalla corsa al ribasso dei compensi: “Il principio che la Pubblica amministrazione debba riconoscere un compenso equo ai professionisti viene accolto con grande favore dalla nostra associazione, in una iniziativa che ha visto la condivisione di gran parte dell’avvocatura in pieno appoggio al Cnf”. “Soddisfazione” viene manifestata anche dall’Ocf, che pure nei giorni scorsi aveva espresso critiche al governo. E ad accogliere con sollievo l’introduzione della norma sono tutte le categorie, per prima Confprofessioni, ieri riunita a congresso nella Capitale, tra le prime a parlare, per voce del presidente Gaetano Stella, di “un grande, importante momento” per tutto il lavoro autonomo. È il tono che ricorre anche nelle parole di chi, come la presidente del Comitato unitario delle professioni (Cup), Marina Calderone, si è battuto negli ultimi giorni perché il Parlamento accelerasse sulle misure. Ancora, per il presidente della Rete professioni tecniche Armando Zambrano il provvedimento “è la base fondamentale per lavorare tutti assieme, Parlamento, governo e professionisti per migliorare questo Paese”. A sostenere i lavoratori autonomi sono stati anche senatori di opposizione come Simona Vicari, Maurizio Sacconi (entrambi di Ap) e Andrea Mandelli (Forza Italia), che parla di “primo passo”, giacché “non possiamo ritenere il problema risolto, ma vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno”. D’altra parte, prima del traguardo, serve ancora il passaggio del decreto fiscale nell’aula di Palazzo Madama, che si definirà entro domani, e quello a Montecitorio. Dna, se il prelievo è complesso può scattare l’avviso alla difesa di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2017 In un procedimento penale, il prelievo di tracce biologiche per la raccolta del Dna non è assimilabile ad un accertamento tecnico preventivo, in quanto attività semplicemente “esecutiva”, e come tale non richiede le particolari cautele - avviso all’indagato, alla persona offesa, alla difesa ecc. - previste per gli esami “non ripetibili”. Tuttavia, e questo è un passaggio decisivo della pronuncia, se l’operazione risulti particolarmente complessa, allora anche al prelievo dovranno essere applicate le regole previste per l’acquisizione della prova scientifica. Lo ha stabilito la Consulta, con la sentenza 239 del 15 novembre, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale, proposte dalla Corte di assise di appello di Roma - chiamata a giudicare un caso di omicidio - dell’articolo 360 del codice di procedura penale”ove non prevede che le garanzie difensive riguardano anche le attività di individuazione e prelievo di reperti utili per la ricerca del Dna”, sollevate, in riferimento agli articoli 24 e 111 della Costituzione. Dunque se è priva di fondamento la tesi del giudice rimettente secondo cui “il prelievo di tracce biologiche, per sua natura, avrebbe caratteristiche tali da farlo assimilare in ogni caso a un accertamento tecnico preventivo e da richiedere quindi le medesime garanzie difensive”. “Ciò però - prosegue la Consulta - non esclude che tale prelievo, come altre operazioni di repertazione, richieda, in casi particolari, valutazioni e scelte circa il procedimento da adottare, oltre che non comuni competenze e abilità tecniche per eseguirlo, e in questo caso, ma solo in questo, può ritenersi che quell’atto di indagine costituisca a sua volta oggetto di un accertamento tecnico, prodromico rispetto all’altro da eseguire poi sul reperto prelevato”. Infatti, prosegue la Corte, come ha già rilevato la Cassazione (n. 2476/2015), possono verificarsi situazioni in cui per la repertazione del campione biologico necessario agli accertamenti peritali “si debba ricorrere a tecniche particolari e in tal caso anche l’attività di prelievo assurge alla dignità di operazione tecnica non eseguibile senza il ricorso a competenze specialistiche e dovrà essere compiuta nel rispetto dello statuto che il codice prevede per la acquisizione della prova scientifica”. Del resto, conclude, è significativo il fatto che, con la sentenza di annullamento all’origine del giudizio, la Corte di cassazione (n. 6256/2015) ha ritenuto che nel caso in esame si fosse trattato di “attività richiedente cognizioni certamente specifiche, ma esecutive e quindi non identificabile nell’accertamento tecnico irripetibile ai sensi dell’art. 360 c.p.p.”. Secondo i giudici di legittimità, dunque, “nessun avviso doveva essere dato in previsione della esecuzione dei prelievi delle tracce organiche (trattandosi di mero rilievo non comportante valutazioni)”. Al contrario, il giudice di merito ritenendo la procedura non rispettosa dei diritti della difesa aveva stabilito la nullità degli atti di ispezione e prelievo di Dna della vittima sulle scale. Si tratta dunque di un apprezzamento da fare di volta in volta perché una cosa è il prelievo di un capello, paragonabile a qualsiasi altri reperti, altra quello in cui entrino in gioco complesso competenze specialistiche. Milano: “#Ripartodame”, progetto di Adecco per reinserimento dei detenuti Adnkronos, 16 novembre 2017 Parte venerdì 17 novembre, nell’headquarter di the Adecco Group Italia, in via Tolmezzo, a Milano, il primo appuntamento di “Incontri e racconti”, che vedrà la presentazione a un gruppo ristretto di aziende del progetto #Ripartodame. Il progetto nasce dalla collaborazione tra Fondazione Adecco per le pari opportunità, Fondazione Alberto e Franca Riva onlus e il Centro studi sugli Enti ecclesiastici e sugli altri enti senza fini di lucro (Cesen) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Coinvolge un gruppo di detenuti del carcere di Bollate (Milano) per favorirne l’inclusione in contesti lavorativi in modo da facilitare anche la loro integrazione sociale. Con #Ripartodame si vogliono mettere a disposizione delle persone contenuti di orientamento al lavoro e formativi, utili per potersi approcciare con efficacia al mercato del lavoro. Vuole, inoltre, diventare una buona prassi, replicabile e sostenibile, sul tema dell’inclusione di persone detenute. “Le statistiche - ha affermato Giovanni Rossi, segretario generale di Fondazione Adecco per le pari opportunità - ci dicono che solo il 27% dei detenuti svolge un’esperienza di lavoro durante la permanenza in carcere e di questi solo il 19% presso datori di lavoro esterni alla struttura penitenziaria. Con #Ripartodame vogliamo offrire un’occasione di integrazione sociale concreta per persone che si trovano in regime di restrizione della libertà e il primo ciclo di ‘Incontri e racconti’ punta proprio a spiegare alle aziende del territorio il valore etico e sociale insito nell’offrire percorsi di inserimento per i detenuti. Fornire a persone detenute gli strumenti per cercare un lavoro è dare loro una speranza di integrazione unica che richiede il sostengo delle imprese, il primo luogo in cui si realizza l’integrazione sociale”. In #Ripartodame le persone sono seguite da Fondazione Adecco e Fondazione Riva con un programma di educazione e orientamento al lavoro volto ad agevolare il loro futuro ingresso nel mercato del lavoro. Le attività prevedono colloqui individuali, redazione progetto professionale, orientamenti di gruppo e individuali, sostegno all’integrazione, monitoraggio del percorso svolto. Inoltre, è previsto un comitato di studio per la descrizione scientifica del progetto. Le attività saranno condotte da personale della Fondazione Adecco secondo la metodologia e il know how che da oltre 16 anni contraddistinguono l’operato della Fondazione. Il self empowerment e la redazione del progetto professionale sono alla base di una metodologia che ha come presupposto fondamentale l’adesione attiva del beneficiario al percorso di educazione e orientamento al lavoro. Fondazione Adecco seguirà anche la parte di accompagnamento al lavoro per supportare i beneficiari nella ricerca di opportunità occupazionali. “Come dimostra l’esperienza - fa notare - che abbiamo maturato anche in altri contesti, la rieducazione dei carcerati è efficiente sia per i detenuti sia per la società e il lavoro è la forma più adeguata per perseguirla. L’esperienza lavorativa, infatti, aumenta il grado di stima dei detenuti consentendo una riscoperta della loro dignità, permette il recupero dei legami familiari favorendo una rinnovata socialità e, infine, incide sulla recidiva migliorando i comportamenti individuali e le abitudini sociali”. “Per questo - sottolinea Andrea Perrone, ordinario di diritto commerciale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e direttore del Cesen - riteniamo che il progetto #Ripartodame, che mira all’inserimento lavorativo dei detenuti, rappresenti un’occasione unica per i carcerati di sperimentare un contesto reale con cui misurarsi”. Salerno: “il carcere di Sala Consilina è vecchio e inadeguato” di Erminio Cioffi infocilento.it, 16 novembre 2017 “Il carcere di Sala Consilina è tra le strutture più obsolete che io abbia mai visto ed inoltre è inadeguato per gli standard previsti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e non rispetta la legislazione europea sugli spazi minimi previsti negli istituti di pena”. Con queste parole lunedì sera, nel corso di una cerimonia pubblica tenutasi presso l’aula consiliare del Comune di Polla, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Lagonegro, Vittorio Russo, ha commentato il provvedimento del Ministero della Giustizia con cui è stata chiusa la casa circondariale di via Gioberti. Il Procuratore ha fatto una analisi di quella che è la realtà dei fatti e non ha nascosto l’esistenza di difficoltà conseguenti alla chiusura dell’unico carcere presente nel circondario del tribunale lucano. “Si sta cercando una soluzione per allocare i detenuti - ha aggiunto - ma ci sono difficoltà per le spese da sostenere, si dovrebbe costruire una struttura ex novo, ma al momento purtroppo ci scontriamo con difficoltà di bilancio facilmente intuibili”. Nei giorni scorsi il Consiglio di Stato ha ritenuto tra l’altro legittimo il provvedimento di chiusura della casa circondariale anche se ha ritenuto che la procedura seguita dal Ministero è stata viziata dal mancato coinvolgimento del Comune di Sala Consilina e dell’Ordine degli Avvocati di Lagonegro e per questo motivo il dicastero di via Arenula dovrebbe promulgare un nuovo decreto di soppressione dopo aver sentito Comune e Ordine Forense. Arrivano però anche buone notizie per il Tribunale di Lagonegro sul fronte della carenza di magistrati, sono stati infatti assegnati al Palazzo di Giustizia, che dal 2013 ha accorpato anche il tribunale di Sala Consilina, 6 nuovi magistrati. Ad annunciarlo è stato Claudio Matteo Zarrella che qualche giorno fa è andato in pensione lasciando quindi il suo incarico di Presidente del Tribunale di Lagonegro. “Dopo l’accorpamento con il Tribunale di Sala Consilina - ha spiegato l’ex presidente del Tribunale, anche lui presente a Polla - abbiamo incontrato delle difficoltà che erano prevedibili con l’incremento dei carichi di lavoro, ma tutti abbiamo dato il massimo per risolvere nel minor tempo possibile le criticità. Il mio pensiero spesso va alla comunità di Sala Consilina e del Vallo di Diano perché penso che perdere un tribunale è come perdere il cuore e per questo capisco ed ho sempre capito il sentimento ed il risentimento di una popolazione che si è vista privata del suo presidio di giustizia”. Foggia: il carcere raccontato ai ragazzi. “Colpevoli” nella scuola media Da Feltre-Zingarelli Ristretti Orizzonti, 16 novembre 2017 Il libro di Annalisa Graziano, che raccoglie le storie di “Vita dietro (e oltre) le sbarre”, tra i banchi della scuola media foggiana. Numerose le domande dei giovani alunni, che hanno dialogato con la giornalista nel corso di un’intensa mattinata. Le domande dei giovani alunni - Com’è nata l’idea di scrivere un libro sui detenuti del carcere di Foggia e quali sensazioni ha provato la prima volta che è entrata nella Casa Circondariale? A tutti i carcerati è data la possibilità di riabilitarsi? Ha mai pensato di cambiare prospettiva e dare voce ai familiari delle vittime in un nuovo libro? Efficaci e impegnative, sono solo alcune delle 15 domande che gli alunni della secondaria di primo grado dell’Istituto Comprensivo Statale “da Feltre Zingarelli” hanno posto durante la presentazione del libro “Colpevoli. Vita dietro (e oltre) le sbarre” all’autrice Annalisa Graziano. L’iniziativa, organizzata nell’ambito del Progetto “Incontro con l’autore”, che vedrà impegnati gli studenti durante l’intero anno scolastico, è stata fortemente voluta dalla dirigente scolastica, Mirella Coli e coordinata dalla docente Lucia Palmieri. Il lavoro in classe - Gli alunni delle sette sezioni coinvolte, nei giorni scorsi, hanno letto in classe alcune pagine del libro ed elaborato percorsi di approfondimento, grazie al lavoro delle docenti di lettere. Preparati e attenti, nell’auditorium della scuola hanno interagito con la giornalista foggiana confrontandosi su temi attuali quali il rapporto dei detenuti con le famiglie, il lavoro in carcere, il volontariato penitenziario e il valore dei percorsi rieducativi. Il “viaggio” del libro - “Colpevoli - ha spiegato la scrittrice agli studenti della Zingarelli - nasce da una lunga chiacchierata con il direttore della Casa Circondariale di Foggia, Mariella Affatato. Dopo l’esperienza della mostra e del volume fotografico “L’altra possibilità. Reportage dal mondo penitenziario”, realizzati a quattro mani con Giovanni Rinaldi, ho pensato di raccontare la vita e le vite dentro. ‘Colpevoli’ è un viaggio nelle sezioni dell’Istituto Penitenziario foggiano, tra le celle, le aule scolastiche, i passeggi, nella cucina e in tutti i luoghi accessibili. È, soprattutto, la rivelazione delle storie che ci sono dietro i nomi e le foto segnaletiche cui ci hanno abituati la cronaca nera e giudiziaria. Non solo rapinatori, omicidi, ladri e spacciatori, ma anche uomini, padri, figli e mariti con storie che nessuno aveva ancora raccolto. ‘Colpevoli’ alcuni detenuti si sentono fino in fondo, altri in parte. Ma tutti si sono messi in discussione, raccontandosi e hanno ‘scritto’ alcune pagine insieme a me”. La “buona scuola” - Gli interventi di Annalisa Graziano sono stati intervallati dalla proiezione di immagini e dalla lettura, a cura della prof Palmieri, di brani del libro e di stralci di una lettera scritta da un detenuto agli studenti. “Ringrazio la preside Mirella Coli dell’invito, la prof Lucia Palmieri dell’organizzazione perfetta, la vicepreside Fusco e tutti i docenti per i percorsi realizzati in classe con la lettura del libro e del calore con cui mi hanno accolta. Un ringraziamento particolare - ha sottolineato la scrittrice - va soprattutto a loro, i bambini: con domande e partecipazione hanno arricchito la presentazione”. Il messaggio della piccola alice alla città - Il senso dell’iniziativa è racchiuso nel dono spontaneo che una alunna della II F, Alice, ha voluto consegnare all’autrice di “Colpevoli”: un cartellone che racconta il difficile percorso di riabilitazione dei carcerati. “Ad Alice va un pensiero particolare. Forse ancora non lo sa, ma il suo dono non è solo un cartellone: è cemento fresco per il ponte ideale che stiamo costruendo tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’. La sua idea di rieducazione, la sua umanità di 12enne sono semi di quella comunità matura e accogliente che sta mettendo - con difficoltà- radici nel nostro territorio e che non dobbiamo mai smettere di coltivare”, ha concluso l’autrice. Il libro è realizzato con il sostegno della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia e in collaborazione con il CSV Foggia. Annalisa Graziano ha rinunciato ai diritti d’autore: i proventi di “Colpevoli” sosterranno attività di volontariato nel carcere di Foggia. Catanzaro: la Saint Michel in campo con i detenuti minorenni per la solidarietà soveratoweb.com, 16 novembre 2017 La partita, che si disputerà all’interno del carcere “Silvio Paternostro” di Catanzaro, è stata organizzata e voluta dall’associazione “Universo Minori”, presieduta da Rita Tulelli. Lo sport oltre le sbarre per vincere insieme pregiudizi, emarginazione, distanze, parlando il linguaggio universale del calcio. Maglie, pantaloncini e scarpette per disputare la partita più importante, quella contro l’indifferenza. A giocare questo match, sul campo da gioco dell’Istituto penale per minori “Silvio Paternostro” di Catanzaro, fiore all’occhiello per il reinserimento dei giovani ospiti nell’alveo della società civile, il prossimo 22 novembre, la squadra dell’Asd Saint Michel di Gioia Tauro guidata dal presidente don Gaudioso Mercuri e quella dei detenuti minorenni. Il fischio di inizio, previsto alle 15.30, rappresenterà un momento di aggregazione e condivisione, portando avanti i valori del rispetto delle regole e dell’avversario, sigilli della Saint Michel, che gioca con “la fede nel cuore”. “L’esperienza al carcere minorile - ha affermato il patron della Saint Michel - è terreno fecondo per la nostra testimonianza cristiana. La nostra presenza vuole essere un supporto palpabile e motivato alla speranza che brilla negli occhi di tanti giovani, che desiderano che i sogni diventino certezze di vita”. L’evento è stato organizzato dalla presidente dell’associazione “Universo Minori”, Rita Tulelli, impegnata su più fronti nel comparto sociale. “Ringrazio don Gaudioso Mercuri - ha dichiarato la presidente - per aver accettato di condurre la sua squadra nell’Istituto. Sono sicura che sarà un evento pieno di sentimento sportivo, di lealtà e rispetto dell’avversario senza nessuna corsa per la vittoria”. E una cosa è certa, al di là del risultato finale della partita o di chi dovesse aggiudicarsi un gol in più nella porta avversaria, ciascuna squadra riceverà in premio delle medaglie. Le medaglie della solidarietà. Le detenute sono “libere” nel libro di Ada Fiore Quotidiano di Puglia, 16 novembre 2017 “Sono Libera Dentro”: è questo il titolo del libro che, questa sera alle 20, l’autrice Ada Fiore, docente di storia e filosofia presso il liceo classico “F. Capece” di Maglie, nonché ex sindaco di Corigliano d’Otranto, presenterà a Sannicola presso “Casa Metoxè” (in via Roma), l’associazione culturale che vede come presidente Simona Mosco e che ormai da qualche anno promuove momenti culturali a Sannicola. Ada Fiore, promotrice della società “Industria Filosofica”, nel suo libro riporta nero su bianco il progetto di filosofia che ha visto come protagoniste le detenute della casa circondariale di Borgo San Nicola, le quali, una volta a settimana per cinque mesi, hanno accettato di mettersi in gioco partecipando ad un laboratorio filosofico attraverso cui sconfiggere “la periferia umana”, condizione di fatto, e a volte cliché, attribuito alla generalità degli istituti penitenziari. Le detenute, attraverso la lettura di Aristotele, Platone, Sant’Agostino, hanno dato vita ad un traffico di pensieri stupefacenti attraverso i quali sentirsi per la prima volta libere dentro. Il materiale raccolto in questi incontri è stato suddiviso in quattro sezioni: amore, amicizia, tempo e libertà, le quali corrispondono alle quattro stagioni della vita (rispettivamente primavera, estate, autunno ed inverno); l’eserciziario, nel suo scorrere, è inoltre disseminato da domande ispirate dai pensieri delle detenute ed è indirizzato a tutte le donne che, seppur libere, sono prigioniere silenti della loro esistenza. I lettori infatti troveranno all’interno del libro una cartolina da inviare alle detenute del carcere di Borgo San Nicola, attraverso la quale rispondere a scelta ad una delle domande “alimentando un traffico speciale di pensieri stupefacenti, tra dentro e fuori, interno ed esterno” nel tentativo di distruggere i silenzi dell’anima. Presenterà la serata Valentina Manzo dell’associazione Metoxé. A.Mar. Parole e rime in musica Musicare filastroccando. Un gioco di parole? No, realtà: quando alle filastrocche si combinano le note, giocando, divertendosi e musicando. “Parole e Rime Combinote”: è questo il titolo del libro, che verrà presentato questa sera a Maglie nella sala conferenze “Cartoffice” (via Nicola Ferramosca, 127), alle 18. Un libro scritto a sei mani da Mario Piatti, Eligia Levita e Daniela Canitano. Introdurrà la serata Domenica Muci, voce narrante: Salvatore Della Villa. La serata è griffata Associazione PerFormare e Fondazione Capece. “Streets of freedom. Le parole che liberano”. La libertà della poesia nel carcere minorile di Alessandro Canella radiocittafujiko.it, 16 novembre 2017 Dall’esperienza di Poetry Slam al carcere minorile del Pratello nasce un libro. Dal progetto di Poetry Slam al carcere minorile del Pratello nasce il libro “Streets of freedom. Le parole che liberano”, con i lavori prodotti dai ragazzi reclusi. La presentazione giovedì 16 novembre al Cpia. Il ricavato dell’acquisto per i materiali didattici dell’istituto minorile. L’intervista all’organizzatrice Silvia Parma. Nel marzo del 2016 i ragazzi dell’istituto minorile del Pratello si sono trasformati in poeti ed hanno partecipato ad un progetto di Poetry Slam, il campionato di poesia orale, che ha ottenuto anche il patrocinio dell’Unesco. Le insegnanti del Cpia li hanno guidati fino ad una performance in carcere, dove la poesia ha permesso ai partecipanti di essere liberi. “Un’esperienza bellissima - racconta l’organizzatrice Silvia Parma - in cui i ragazzi hanno interpretato benissimo lo spirito della poesia, mettendosi a nudo e facendo uscire testimonianze toccanti”. Un anno e mezzo dopo, quel percorso si è trasformato in un libro, intitolato “Streets of freedom - Le parole che liberano”, che verrà presentato giovedì 16 novembre, alle 17.30, nella sede del Cpia in viale Vicini 19, crocevia di migranti che stanno imparando l’italiano. Alla presentazione interverranno Giuseppe Spadaro, presidente del Tribunale dei Minori dell’Emilia Romagna, Stefania Melandri, vice-coordinatrice dell’Unesco Emilia Romagna, Federica Mazzoni, presidente della Commissione Cultura, Giovani e Istruzione del Comune di Bologna e Alfonso Paggarino, direttore dell’Ipm di Bologna, accompagnato da due giovani detenuti, protagonisti del percorso. Il libro è stato consegnato anche a papa Francesco nella sua recente visita in città, ma quel che è importante è che il ricavato della vendita sarà devoluto per l’acquisto di materiale didattico da utilizzare all’interno del carcere. “Il volume non era stato pensato per la vendita - spiega Parma - ma poiché abbiamo ricevuto molte richieste, abbiamo pensato che devolvere il ricavato al Pratello fosse la destinazione migliore”. Grazie alla poesia, infatti, ragazzi cresciuti con la violenza e il crimine hanno potuto cimentarsi con abilità diverse e nuove. “Fino a prova contraria”, di Annalisa Chirico. Un viaggio tra gogna e impunità Di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 16 novembre 2017 Nella repubblica giudiziaria è assente madama giustizia. Al massimo del clamore per un avviso di garanzia corrisponde la massima probabilità di svanire “nelle more di dibattimenti senza fine”, mentre gli autentici processi “si celebrano sulle pagine dei giornali”. Talché falso e vero divengono inestricabili agli occhi dei cittadini e l’unica pena certa diventa appunto l’umiliazione mediatica, naturalmente preventiva, alla faccia della presunta innocenza. È un libro di ossimori e paradossi “Fino a prova contraria”, di Annalisa Chirico, giornalista del Foglio: “Gogna e impunità marciano unite”, scrive infatti lei che, a dispetto dell’età (è poco più che trentenne), ci accompagna in un viaggio dentro una storia antica, tra la nascita del giustizialismo e il “populismo penale”, il crollo dei partiti, il disperato aggrapparsi di una politica “inetta e screditata” a un gancio togato che la legittimi, sino all’oggi, Tempa Rossa e Consip, echi di un’Italia vecchia che tira a fondo quella nuova, risorse che diventano anomalie in un carosello di reciproco discredito. “Siamo l’unico Paese al mondo dove ben due magistrati hanno fondato un partito per candidarsi alla guida dell’esecutivo e un magistrato in aspettativa pretende di candidarsi, e si candida, alla guida di un partito”, scrive la Chirico tratteggiando, senza nominarli, i profili di Tonino Di Pietro, Antonio Ingroia e Michele Emiliano. “Siamo l’unico Paese al mondo dove una corrente organizzata di magistrati scende in campo per contrastare, con comizi e pubbliche assemblee, un referendum promosso dal governo in carica”, aggiunge, riferendosi al pronunciamento di esponenti di punta di Magistratura Democratica contro la riforma bocciata il 4 dicembre. È un libro su certa giustizia, dunque, ma non è affatto un libro contro le toghe (tra i primi a ravvisare il rischio che i magistrati, sentendosi investiti dal popolo, potessero munirsi di “spada fiammeggiante” per cacciare “i reprobi all’inferno” si cita un galantuomo spesso impropriamente ascritto al giustizialismo come Saverio Borrelli). È un libro che non fa sconti a Md, la corrente “rossa” che nel 1971 teorizzava la giustizia di classe, e tuttavia le rende il merito d’essere stata “fucina di elaborazione culturale”, antesignana nel garantismo. In definitiva, è il libro di una giovane italiana che, innamorata della “politica come missione”, ne sogna ancora il primato. Magari in un’Italia meno faziosa e paradossale, che sappia separare le “carriere di magistrati e giornalisti” (sic) e rammenti le parole di Giovanni Falcone: “La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, ma del khomeinismo”. In “Gramigna” la storia vera di un boss e di suo figlio di Ilaria Urbani La Repubblica, 16 novembre 2017 “Non sono come mio padre, non sono come mio padre”. Luigi ripete al mondo che lui non c’entra con il genitore camorrista. Il padre è Giuseppe Di Cicco, alias Peppe ‘e Cecce, boss legato al gruppo Bidognetti dei Casalesi, e prima alla Nco di Cutolo. Sconta in carcere l’ergastolo, nel film è chiamato Diego. Unico elemento di fantasia di “Gramigna”, film sulla vita e il riscatto di Luigi Di Cicco, figlio del boss di Lusciano, nel casertano, a pochi chilometri da Casal di Principe. Il film è in sala giovedì 23 (anteprima il 21 al Metropolitan), e intanto fa il giro di scuole e università. Tour fino a marzo con Unicef Italia, grazie al vicepresidente Margherita Dini Ciacci. Il film, regia di Sebastiano Rizzo, è tratto dal libro omonimo, scritto da Luigi con Michele Cucuzza (in ristampa da martedì per Piemme). E Luigi, oggi 42enne, ci mette la faccia: lui che ha realizzato il sogno di essere una persona normale, un semplice ristoratore a Civitavecchia. “Non sono un eroe, non sono un santo - dice - se sono riuscito a non diventare camorrista è stato grazie a mia madre, alla scuola. Amo mio padre, ma non gli perdono la vita che mi ha regalato. Vorrei che “Gramigna” diventasse anche una serie tv e un’associazione per aiutare i detenuti a trovare lavoro dopo il carcere”. Nel ruolo del padre, in carcere da quando lui era bambino, c’è Biagio Izzo. Luigi invece è Gianluca Di Gennaro: i due si abbracciano, Luigi si commuove. Di Gennaro, 26 anni, sin da bimbo a teatro con gli zii Gianfranco e Massimiliano Gallo, tante fiction e cinema, l’anno scorso nella seconda stagione di “Gomorra”. “Finalmente si racconta una storia reale di riscatto dice Di Gennaro - che dà la speranza. Se il male da anni si mostra a 360 gradi, anche il bene va raccontato nei particolari, per dimostrare ai ragazzi che un’altra vita è possibile. Anche se sembrava segnata”. Nel film, in lizza per il David Giovani, la madre di Luigi è interpretata da Teresa Saponangelo. Una donna che cerca di salvare il figlio da un girone dantesco, tra perquisizioni della polizia, violenza e delusioni. “È “carcerata”, a sua volta, combattuta tra due amori, per il marito e per il figlio, è moderna e antica: non rinnega nessuno dei due, ma si batte per tenere fuori il figlio dalla malavita - spiega l’attrice - i ragazzi di oggi, in contesti di camorra, ma anche in altri contesti, hanno bisogno di modelli positivi”. Luigi recide il legame con i clan, estirpa la “gramigna”, l’erba cattiva che infesta il raccolto. A dargli forza il professore di educazione fisica, Vittorio, interpretato da Enrico Lo Verso. “Il docente farà quello che la scuola deve fare, diventa osservatorio, non oltre: se Luigi non avesse avuto a casa la madre, forse non ce l’avrebbe fatta. Ma i maestri sono importanti: il preside del mio liceo mi face fare l’Agamennone al Teatro Greco di Siracusa”, spiega l’attore siciliano, il 15 dicembre a teatro a Castellammare in “Uno, nessuno e centomila”. Nel cast anche Gianni Ferreri, Ernesto Mahieux, Mario Porfito, Anna Capasso e Lucia Ragni. Il magistrato Nicola Graziano veste i panni di un detenuto. “Gramigna” è prodotto da Klanmovie. “Usciamo in venti copie, siamo indipendenti: produciamo e distribuiamo, non abbiamo trovato un distributore, ma si sa come funziona… contiamo sul passaparola”, spiega il produttore Alfonso Santoro. L’informazione è un bene prezioso, difendiamola per migliorarla di Caterina Malavenda Corriere della Sera, 16 novembre 2017 La ricerca delle notizie diventa sempre più difficile, nonostante gli sforzi, i segreti aumentano, le sanzioni anche, i muri di gomma finiscono per diventare invalicabili. Qualche anno fa, con due colleghi, ho scritto un libro “Le regole dei giornalisti. Istruzioni per un mestiere pericoloso”, il cui titolo, ahimè, risulta oggi quanto mai attuale. Il pericolo evocato era ovviamente quello giudiziario, ma adesso è preoccupante quello fisico, che riguarda molti, troppi professionisti dell’informazione. Una categoria, purtroppo, sempre più delegittimata, a prescindere dai meriti e dalle colpe dei singoli e non solo da coloro cui dà fastidio; una categoria - e questo è il problema più serio, perché alimenta gli altri - la cui funzione sociale non è più riconosciuta e condivisa, non è più strumento essenziale di conoscenza ed elemento fondante della democrazia. Appare, piuttosto, a molti un inutile orpello o, peggio, uno strumento da usare e, se necessario, piegare ad interessi più o meno nobili. Ma non è tutto. L’altro giorno, un articolo mi ha colpita: la notizia, l’arresto di una persona, il cui cognome era stato omesso; a corredo una didascalia senza le generalità, posta sotto la sua foto. Una cautela di per sé incomprensibile - da sempre il nome degli arrestati viene diffuso, anche per tranquillizzare i familiari - vanificata, in ogni caso, dalla contemporanea divulgazione dell’immagine. Ho chiamato l’autore che, sconsolato, mi ha detto di aver avuto dagli inquirenti la foto, ma non il cognome, nonostante le sue insistenze, senza alcuna spiegazione plausibile, perché non ce ne sono. La Cassazione non ha mai messo in discussione, infatti, che i nomi degli arrestati, al pari di quelli degli imputati e dei condannati, possano essere diffusi, essendo essenziali per un’informazione completa, eppure quel nome il giornalista non lo avuto e la notizia è circolata sì, ma monca. Un episodio banale, che nulla toglie alla professionalità di chi opera sul campo, ma che la dice lunga sulla considerazione di cui gode l’informazione oggi, depauperata com’è del suo ruolo - un cane da guardia che raramente morde - sopravanzata dalla convinzione, meramente apparente, di poter sapere subito tutto su tutto, con un clic, impoverita di risorse e ostacolata con ogni mezzo, anche legislativo, nella ricerca delle notizie, specie di quelle scomode. E là dove non arriva la legge, subentrano l’ostilità preconcetta, il diniego gratuito, norme spesso ambigue, di difficile interpretazione, per tutte quelle sulla privacy, che rendono più facile dir di no, tanto non costa nulla. La ricerca delle notizie diventa così sempre più difficile, nonostante gli sforzi, i segreti aumentano, le sanzioni anche, i muri di gomma finiscono per diventare invalicabili. Ecco perché le manifestazioni di solidarietà, certo un balsamo per chi ha subìto ferite non solo fisiche, non bastano, peggio non servono. Occorrerebbe, invece manifestare, finché non si riesce a ricostruire il rapporto di fiducia con l’opinione pubblica, sempre più convinta che non si debba più credere ai giornalisti, stare in piazza fino a quando non sarà consentito il libero accesso alle fonti consultabili; e bisognerebbe tornare a cercare le notizie, senza attendere che arrivino, magari già edulcorate, perché tornino ad essere indispensabili. Si capisce quanto è importante l’acqua, solo quando manca, un giorno l’informazione, quella vera, potrebbe sparire e solo allora potremmo accorgerci di avere sete. “Fondi Ue per lo sviluppo usati per fermare i migranti” di Carlo Lania Il Manifesto, 16 novembre 2017 Una ricerca di Oxfam. 400 milioni di euro in meno alla cooperazione per blindare le frontiere. Soldi europei destinati allo sviluppo utilizzati per finanziare progetti di contrasto all’immigrazione. È quanto emerge da una ricerca condotta da Oxfam sull’uso del Trust Fund per l’Africa, finanziamenti dell’Unione europea che stando a quanto previsto dall’Agenda per le migrazioni del presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker dovrebbero servire esclusivamente a creare lavoro e migliorare le condizioni di vita nei Paesi di origine dei migranti e che invece vengono impiegati anche per impedire a chi fugge da miseria e violenze di raggiungere l’Europa. 400 milioni di euro, pari al 22% del fondo, che l’Europa spende per blindare i confini dei Paesi di transito, addestrare guardie di frontiera e organizzare i rimpatri. “Da tre anni c’è una tendenza alla securizzazione dell’aiuto” denuncia Francesco Petrelli, responsabile relazioni istituzionali di Oxfam. “Non puoi dire che vuoi rimuovere le cause dell’immigrazione e pensare di risolvere il problema chiudendo le frontiere. E invece è quello che sta facendo l’Unione europea”. L’idea di dar vita a un Trust Fund per l’Africa è nata nel 2015 durante il vertice Ue-Unione africana di La Valletta. Allo stanziamento iniziale di 1,8 miliardi di euro, quest’anno si sono aggiunti altri 2,9 miliardi di fondi europei ai quali vanno sommati 200 milioni messi a disposizione dagli Stati membri (con 15 milioni di euro l’Italia è il primo Paese donatore). In tutto 3,1 miliardi, sulla carta interamente destinati a contrastare le cause dell’emigrazione e l’esodo di uomini, donne e bambini dall’Africa. In realtà, denuncia Oxfam, le cose non starebbero completamente così. I progetti approvati fino a settembre di quest’anno sono stati 117 per un totale di 1,9 miliardi di euro. Di questi, solo il 63% è per la cooperazione (pari e 1,1 miliardi di euro destinati principalmente ai rifugiati e, in misura minore, agli sfollati interni al continente) mentre invece altri 400 milioni (22% del totale) riguardano la gestione della migrazione e mirano, spiega Oxfam, “a limitare e scoraggiare la migrazione irregolare” attraverso misure di contenimento dei migranti, aumentando i controlli alle frontiere e addestramento le guardie di confine (attività che assorbono il 55% del finanziamento) ma anche incentivando i rimpatri (25%), l’attività di identificazione della nazionalità dei migranti (13%) e l’avvio di campagne di sensibilizzazione nei Paesi di origine in cui si sottolineano i rischi del viaggio verso l’Europa (4%). “C’è un uso dei fondi in parte diverso da quello per cui sono stati destinati”, prosegue Petrelli. “In tutti i suoi documenti ufficiali l’Unione europea sostiene che per mettere un argine alle migrazioni si deve incidere sulle sue cause profonde: povertà, cambiamenti climatici, assenza di democrazia. Per far questo occorre sostenere progetti e iniziative utili a promuovere uno sviluppo che sia anche rispettoso dell’ambiente. Così invece si sottraggono risorse alla lotta contro la povertà”. “Da un po’ di tempo i rapporti con i Paesi africani sono pesantemente condizionati dalle politiche di esternalizzazione delle frontiere portate avanti da Consiglio e Commissione europea”, commenta Elly Schlein, eurodeputata di Possibile a capo di un gruppo di lavoro della commissione Sviluppo che ha compito di monitorare proprio come vengo impiegati i fondi Ue per lo sviluppo. “Questa tendenza tradisce l’essenza della cooperazione allo sviluppo che secondo i Trattati deve mirare a eliminare la povertà. Ma così le povertà aumentano e di certo non si creano opportunità per i giovani africani”. Proprio i tentativi di bloccare i migranti in Africa potrebbero dunque spingere a nuove e massicce partenze, con il rischio di trasformare in un fallimento gli obiettivi di sviluppo del Fondo. Per di più - denuncia sempre Oxfam - costringendo i migranti ad avventurarsi lungo rotte sempre più pericolose. Basta finanziare gli aguzzini, cancellare l’accordo di Francesca Chiavacci* e Filippo Miraglia** Il Manifesto, 16 novembre 2017 Nelle ultime ore gli effetti dell’accordo del nostro governo con la Libia si sono materializzati davanti a tutto il mondo. Prima i 50 morti provocati dal comportamento della guardia costiera libica. Che cerca di impedire alla nave della Ong Sea Watch di prestare soccorso. Poi la denuncia del Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite che accusa esplicitamente il governo e l’Unione Europea di essere corresponsabili dei crimini che vengono commessi nei lager libici. E ancora, le terribili immagini dei migranti venduti come schiavi, probabilmente dalle stesse milizie con cui ha trattato il ministro Minniti. Da ultimo, la denuncia alla Corte Internazionale dell’Aja per crimini contro l’umanità del generale Khalifa Haftar, uno degli autorevoli interlocutori del ministro. Un quadro terribile, che conferma la sistematica violazione dei diritti umani nel paese che l’Italia ha rifornito di armamenti e soldi per fermare i flussi migratori. Salvare i migranti da quell’inferno, interrompere i finanziamenti - trovati attingendo ai fondi per la cooperazione - è ormai un imperativo. Non ci si può dire preoccupati per le sorti di chi viene ricacciato in Libia e allo stesso tempo finanziarne gli aguzzini. In questi giorni il nostro Parlamento discute la legge di bilancio, che prevede risorse per la cooperazione allo sviluppo che in realtà vengono utilizzate per tutt’altri fini. In particolare, il Maeci (Ministero affari esteri, Cooperazione internazionale) ha istituito un fondo straordinario per l’Africa per il 2017, con una dotazione di 200 milioni di euro, volto a finanziare interventi di cooperazione allo sviluppo e di controllo e prevenzione dei flussi di migranti irregolari. Fondi che sono stati in parte finalizzati a progetti specifici nei principali paesi interessati dalla rotta del Mediterraneo Centrale - Niger, Libia e Tunisia in particolare - in parte sono invece transitati per il contenitore europeo dei Fondi Fiduciari per poi arrivare direttamente nelle casse dei Paesi africani coinvolti. Un sistema di vasi comunicanti - sia tra Italia e Europa, che tra il Maeci e il Ministero degli Interni - che rende ancora più difficile il monitoraggio del loro utilizzo. È però evidente che l’utilizzo reale del Fondo per l’Africa ha poco a che vedere con l’obiettivo dello sviluppo previsto dalla legge. Le risorse più ingenti sono infatti quelle stanziate per il contrasto all’immigrazione e il controllo delle frontiere. L’esempio più esplicito del sistema di vasi comunicanti è il fondo allocato per il Niger, con cui questo paese s’impegna a creare nuove unità specializzate necessarie al controllo dei confini. Una militarizzazione delle frontiere che obbliga i migranti a uscire dalle rotte abituali, aumentandone i rischi e trasformando così il deserto, come già il Mediterraneo, in un cimitero a cielo aperto. Il fondo per l’Africa è dunque diventato lo strumento centrale per l’esternalizzazione delle frontiere, affidando a paesi che violano sistematicamente i diritti umani l’intercettazione dei migranti per deportarli in luoghi dove sono esposti a trattamenti violenti e disumani. L’esempio più lampante, come riportano le tante denunce documentate, è quello della Libia, per la quale il Maeci stanzia dieci milioni, gestiti dal Ministero degli Interni italiano, che si aggiungono agli altri due milioni e 500mila euro forniti per la riparazione di quattro motovedette assegnate alla guardia costiera libica perché svolga la sua violenta opera di intercettamento e respingimento. Con gli stessi obiettivi, dodici milioni sono stati destinati al governo tunisino per il pattugliamento delle zone costiere e delle frontiere terrestri. Con questo utilizzo dei fondi l’Italia viola le Convenzioni Internazionali, affidando ad altri Paesi i respingimenti sistematici di cittadini stranieri, potenziali richiedenti protezione internazionale. Chiediamo che sia cancellato l’accordo con la Libia e che le risorse previste per la cooperazione vengano destinate all’aiuto allo sviluppo, come prevede la legge, e non utilizzate per finanziare strumenti di controllo e di militarizzazione delle frontiere africane. *Francesca Chiavacci è presidente nazionale Arci **Filippo Miraglia è presidente Arci Terapia del dolore, cannabis gratuita: sarà a carico del servizio sanitario di Lorenzo Salvia Corriere della Sera, 16 novembre 2017 Stanziati 2,3 milioni. Lorenzin: ne servono 350 chili all’anno. Oltre allo stabilimento militare di Firenze altri enti potranno essere autorizzati a produrla. La cannabis per uso medico, utilizzata soprattutto nella terapia del dolore, diventa gratuita per il paziente e passa a carico dello Stato, cioè del Servizio sanitario nazionale. In tutta Italia. E non solo nelle undici regioni che già lo prevedono, a partire dalla Toscana che nel 2013 era stata la prima fare questa scelta seguita poi da altre, Lombardia compresa. È l’ultima novità del decreto fiscale, il provvedimento che anticipa la manovra, la vecchia Finanziaria, e che ieri è arrivato nell’Aula del Senato. Non è ancora legge ma dovrebbe diventarlo presto. Il decreto potrebbe essere approvato già oggi a Palazzo Madama con il voto di fiducia per poi passare alla Camera, che però non dovrebbe modificarlo visti i tempi stretti per la conversione in legge. Il tema della cannabis è stato inserito un po’ a sorpresa nel decreto fiscale, provvedimento che tratta temi diversi come lo stop alle bollette a 28 giorni per i cellulari e le televisioni a pagamento o l’uscita da scuola degli studenti delle medie senza la necessità di essere accompagnati dai genitori. È il frutto di una serie di emendamenti presentati dal Pd, da Mdp e dal Movimento 5 stelle. Il passaggio dei costi a carico dello Stato in tutto il territorio nazionale non è l’unica modifica di rilievo. Per la cannabis terapeutica vengono stanziati 2,3 milioni di euro. Un fondo che sarà utilizzato per potenziare la produzione da parte dello stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, che detiene il monopolio della coltivazione e della trasformazione legale. “L’obiettivo - dice il ministro della Salute Beatrice Lorenzin - è di garantire il soddisfacimento dell’intero fabbisogno nazionale di cannabis terapeutica, pari a circa 350 chilogrammi l’anno, senza dover più ricorrere all’importazione del prodotto da altri Paesi dell’Unione europea”, come è avvenuto in questi anni. Non solo. Il ministero della Salute - Il ministero della Salute è autorizzato a estendere ad altri enti e imprese, la possibilità di trasformazione e coltivazione di ulteriori quote di cannabis. Naturalmente seguendo i protocolli del ministero e le regole fissate nello stabilimento militare di Firenze. Previsto anche l’aggiornamento del personale medico, sanitario e socio-sanitario sulle potenzialità terapeutiche della cannabis per uso medico, in particolare sul trattamento del dolore. Viene poi aperta la strada allo sviluppo di nuove preparazioni a base di cannabis per la distribuzione nelle farmacie, dietro ricetta medica non ripetibile. Sarà necessaria in ogni occasione, cioè, una nuova prescrizione, senza poter utilizzare più volte quella vecchia. Oggi in Italia le persone che soffrono di dolore cronico sono stimate in 12 milioni, con punte tra gli over 65 e una presenza più rilevante tra le donne. Gli emendamenti inseriti nel decreto fiscale - Gli emendamenti inseriti nel decreto fiscale ricalcano buona parte del disegno di legge sulla cannabis terapeutica approvato alla fine di ottobre dalla Camera dei deputati, dopo una serie di accelerazioni e frenate da parte della maggioranza. Il testo era arrivato al Senato ma avrebbe avuto la strada sbarrata proprio dal decreto fiscale e dalla successiva manovra, che va approvata prima della fine dell’anno e del probabile scioglimento delle Camere per andare al voto in primavera. Di qui la decisione di agganciare il pacchetto sulla cannabis a un provvedimento sicuro di arrivare fino al traguardo. La madre di Fabio Vettorel: “Mio figlio in cella in Germania accusato senza prove” di Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 16 novembre 2017 Detenuto da quattro mesi dopo il G20 di Amburgo. Ora Amnesty International chiede che sia liberato. Fabio Vettorel è in carcere da quattro mesi. Senza uno straccio di prova e con un impianto accusatorio che farebbe sorridere, non fosse che ci troviamo nella civile Germania. Su Repubblica avevamo raccontato nei mesi scorsi il caso degli stranieri rimasti mesi dietro le sbarre dopo il G20 di Amburgo - i tedeschi sono stati rilasciati tutti - a causa di una carcerazione preventiva che ignora le leggi europee. Ma Fabio sta diventando un caso talmente clamoroso che Amnesty International ha chiesto che sia liberato. Sua madre, Jamila Baroni, non si perde d’animo. Tre mesi fa si è trasferita nella città anseatica per stargli più vicino. La raggiungiamo al telefono all’uscita dal tribunale di Amburgo dove ha visto Fabio “stanco ma contento che ci siano almeno delle udienze”, dopo mesi in cui tutti aspettano invano che il suo impianto accusatorio prenda forma. E Jamila ha visto sfilare in tribunale, uno dopo l’altro, cinque testimoni dell’accusa. Uno più imbarazzante dell’altro. Si tratta di cinque poliziotti che non hanno mai visto Fabio e che dovrebbero dare sostanza a un capo d’imputazione che in Germania suona pesante, quello di grave disturbo della quiete pubblica. Inasprito, guarda caso, nei giorni immediatamente precedenti al G20. Il sindaco, il socialdemocratico Olaf Scholz, cui la situazione in piazza è del tutto scappata di mano, tenta a posteriori di fare lo sceriffo, ma intanto gli inquirenti usano una fattispecie che può essere facilmente buttata addosso a chiunque manifesti la propria opinione. Federica Graziani, collaboratrice della Commissione diritti umani del Senato, ci spiega che “è chiaro oggi che inasprire gli strumenti repressivi a disposizione delle forze dell’ordine, in previsione dei vertici dei Paesi più industrializzati, rischia di tradursi in una grave lesione al fondamentale diritto alla libera espressione”. Jamila, infatti, racconta che “nessuno ha visto Fabio. Cercano di dimostrare genericamente che le violenze sono partite dal gruppo in cui si trovava”. Un agente sostiene di aver visto partire da quello spezzone del corteo “15 grandi pietre”. Peccato che il collega che si trovava proprio accanto a lui abbia testimoniato il contrario. E peccato che in un video della polizia, ripreso dall’idrante che è passato proprio in quel punto, non si veda mezza pietra. Il fatto ancora più grave è che il diciottenne sia costretto in tutto questo tempo a rimanere in prigione. “Spero non stiano cercando di ottenere da lui la confessione di una colpa che non ha”, ci dice angosciata Jamila. I giudici ripetono che c’è “pericolo di fuga”. Nell’aula del tribunale di Amburgo, ieri, c’era anche il console italiano, Giorgio Taborri. Insieme all’ambasciatore, Pietro Benassi, sta seguendo la vicenda dall’inizio. Dopo il G20, i tedeschi fermati dalla polizia sono stati rilasciati quasi subito, solo perché hanno la residenza in Germania. Gli stranieri no, nonostante una direttiva europea consenta loro di scontare la carcerazione preventiva nei loro Paesi. Per il senatore Luigi Manconi, il caso Vettorel dimostra che “su una questione delicatissima e cruciale per il livello di democrazia dell’Ue, come la libertà personale, i diritti e le garanzie non sono uguali per tutti i cittadini europei”. E viene da chiedersi quale sia il confine con un atteggiamento repressivo nei confronti di una persona che scende semplicemente in piazza, se dopo mesi di cella nessuno riesce a dimostrare alcunché a suo carico. In Libia c’è chi soffia sul fuoco di Stefano Stefanini La Stampa, 16 novembre 2017 In Libia c’è un problema umanitario urgente. Il messaggio dell’Onu, ribadito dalle immagini della Cnn, è chiaro e inequivocabile: le condizioni dei campi - assembramenti? - di migranti in Libia sono disumane. Gli interventi necessari, e immediati, non devono però offuscarne la causa vera: la precarietà e pericolosità della situazione libica. Senza stabilizzazione del Paese resterebbero dei palliativi. Se la comunità internazionale ha a cuore le sorti dei migranti, presenti e futuri, deve innanzitutto sostenere i tenui equilibri interni libici, fissati dall’accordo di Skhirat del 17 dicembre. Scade l’anno; il rischio che non venga rinnovato farebbe riprecipitare la Libia in un caos da cui si stava faticosamente estraendo. Il Paese è stato sull’orlo dello Stato fallito. Ha visto sventolare a Sirte, sulla costa mediterranea, la bandiera nera dello Stato Islamico; ci sono voluti i raid americani per farla ammainare. Resta esposto al virus terrorista sia di Isis che di Al Qaeda. Rischiava di finire in un conflitto senza fine come quello che insanguina la Siria da oltre sei anni. La guerra civile avrebbe visto Tripoli contro Tobruk, Tripolitania contro Cirenaica, Al Sarraj contro Haftar, più altre milizie e componenti tribali. È stato l’accordo di Skyra a scongiurarlo. L’accordo stabilisce essenzialmente una tregua (armata) fra Al Sarraj e Haftar. Non ha completamente pacificato il Paese, ma ha ridotto la conflittualità ad una bassa intensità in termini di scontri e di vittime, spesso di matrice terroristica quindi di schegge fondamentaliste che non si riconoscono nelle parti dell’accordo. Questo è il compromesso che ha evitato alla Libia le sorti della Siria. Sul piano politico, Skhirat ha però anche mantenuto ferma la fragile legittimità internazionale di Al Sarraj. È un elemento importante nel bilanciamento delle forze. Non dà certo al governo di Tripoli il controllo del territorio, ma gli permette di avere le credenziali per confrontare l’alleanza tra Parlamento di Tobruk e il generale Haftar, l’uno legittimato da un’elezione, l’altro più forte militarmente. Questo precario equilibrio offre oggi l’unica prospettiva di riconciliazione nazionale e di stabilizzazione sostenibile della Libia. È pertanto essenziale che regga. Questa è stata ed è la costante della politica italiana sulla Libia. Il pericolo, oggi, è la tentazione di una parte di prevalere sull’altra anziché rispettare un compromesso di convivenza e di divisione di potere. Potrebbe cadervi soprattutto Khalifa Haftar, forte delle armi, e d’importanti sostenitori, come Egitto, Russia e Francia. A loro dissuaderlo: c’è da augurarsi che iniziative come i recenti contatti russi con tribù dell’interno non siano un pescare nel torbido. Quanto a Parigi, qui si mette alla prova l’europeismo di Emmanuel Macron: collaborare con Roma e Bruxelles ad un approccio comune o ricadere in una sterile gara d’influenza post-coloniale? Il problema delle condizioni dei migranti in Libia va affrontato rapidamente, ma non deve tradursi in una delegittimazione di Al Sarraj e di Tripoli - a danno dei precari equilibri interni e, tanto meno, a vantaggio di una parte, che nel caso sarebbe Haftar. Il messaggio dell’Onu sulla situazione umanitaria è rivolto innanzitutto alla Libia, ma ci vogliono una Libia stabile, e un governo responsabile per ascoltarlo. Una ricaduta nella guerra civile non aiuta nessuno, men che meno i migranti. Cosa fare allora? Bisogna subito rimboccarsi le maniche per alleviare la situazione umanitaria dei campi. È una responsabilità dell’intera comunità internazionale. Ue e Italia sono in prima fila, ma anche l’Onu e l’Unhcr forse possono fare qualcosa di più oltre che accusare. Ma, soprattutto, bisogna raddoppiare gli sforzi per stabilizzare la Libia attorno al nucleo della legittimazione internazionale di Al Sarraj e di un processo politico di riconciliazione internazionale. I migranti non potranno che beneficiare del ristabilimento di autorità responsabili, mentre sarebbero di nuovo vittime innocenti di una recrudescenza della conflittualità e di una rottura della tregua fra Tripoli e Tobruk. Turchia maglia nera della libertà sul web di Dimitri Bettoni Il Manifesto, 16 novembre 2017 Freedom on the Net 2017. Social e internauti spiati e bloccati dai governi: la classifica nel report annuale dell’Ong Usa Freedom House. Non libera. Così è bollata la Turchia nell’ultimo rapporto Freedom on the Net 2017 della Ong americana Freedom House (Fh), dedicato alla libertà di internet. Criticata per la sua presunta ed eccessiva vicinanza al governo a stelle e strisce, le pubblicazioni di Fh restano un punto di riferimento per misurare le tendenze nei rapporti tra i governi e la rete. È già il secondo anno che la Turchia finisce nel lato buio della classifica e il malato è sempre più grave. Il rapporto prende in esame i 12 mesi tra giugno 2016 e luglio 2017, l’anno seguito al tentato golpe, le cui conseguenze, riuscito o meno, restano tragiche. Perché da quel giorno il mantra è diventato la sicurezza nazionale, formula a cui l’orecchio turco è da sempre ipersensibile. L’ha esplicitato anche il Consiglio di sicurezza nazionale quando, accanto a strutture religiose deviate e gruppi terroristici etnicamente ispirati, ha indicato i social media tra le principali minacce al Paese. Così dice anche la legge 5651, nata nel 2007 per proteggere i minori dall’accesso a contenuti pericolosi come pedofilia, promozione al suicidio e persino crimini contro Ataturk, ma emendata negli anni successivi “per ampliare l’applicazione della censura allo scopo di garantire la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico”, come dice il rapporto. Se è la famigerata legge anti terrorismo che conduce alla sbarra giornalisti, accademici, ricercatori, attivisti e normali cittadini, è la legge 5651 che blocca siti, cancella account, elimina pensieri e parole. Certo, “il 90% dei siti sono stati bloccati con motivazioni di oscenità”, ma è un effetto collaterale che la stessa ragione porti al blocco di piattaforme dedicate al tema Lgbt”. Molto meno collaterali sono i blocchi decisi dal governo ai canali di comunicazione. Fh lo denuncia come il più grave ostacolo all’accesso a internet. Facebook, YouTube, Whatsapp sono stati congelati più volte, come Twitter, che riceve dalla Turchia il 65% di richieste di cancellazione di account o contenuti. Ora per via di un attentato, ora perché vengono arrestati politici d’opposizione, per una nuova operazione militare nel Sudest curdo. Come l’11 settembre 2016, quando internet venne bloccato per ore in 10 città mentre 28 sindaci venivano ammanettati. “Per tutelare la sicurezza pubblica”, disse il primo ministro Yildirim. Per il cittadino sapere è pericoloso. Infatti da mesi Wikipedia è bloccata per via di due articoli sul ruolo turco nella guerra in Siria. Il rapporto Fh sostiene anche che il governo “utilizza i post online di attivisti, giornalisti e cittadini come prova in tribunale”. E non incute meno timore “l’esercito di 6.000 individui arruolati dall’Akp (il partito di Erdogan ndr) per manipolare la discussione pubblica” e indebolire i movimenti antigovernativi sui social. “Un team professionale di grafici, programmatori ed ex militari addestrato alla guerra psicologica”, secondo un report del Daily Dot riportato anche da Fh. Così si spiegano i numeri riportati dall’Ipi (International Press Institute), che ha registrato 760 comportamenti abusivi e 176 comportamenti violenti contro giornalisti. Perché all’ignoranza si aggiunga la minaccia. Sarà per questo che in Turchia per il cittadino sapere è pericoloso. Stati Uniti. La “giustizia” a Guantánamo e i tweet del presidente Trump di Ezio Menzione* Il Dubbio, 16 novembre 2017 Attualmente a Guantánamo ci sono 41 prigionieri provenienti da 13 paesi, compresi fra i 31 e i 70 anni di età. Di questi 41, 26 sono destinati a rimanervi per tutta la vita. Numeri abbastanza esigui se consideriamo che nel suo picco massimo i detenuti furono, nel 2003, 677 e che dalle sue prigioni ne sono passati 780. Lo staff del campo è passato da 2.268 dipendenti a 1.500: quasi 40 addetti per ogni prigioniero (bisogna però tenere conto che i prigionieri non sono l’unica “mansione” degli addetti). Obama, durante la sua presidenza cercò di smantellare Guantánamo, ma non gli riuscì: uno dei tanti wishful thinking di quel presidente. Il tema delle detenzioni a Guantánamo è tornato all’attenzione dei media non solo perché Trump, all’indomani della strage di New York dell’ottobre scorso si è affrettato ad auspicare Guantánamo per il terrorista, ma per l’esplodere del “caso Cole”. La “Uss Cole” era un cacciatorpediniere militare, che, nel porto di Aden nello Yemen, nel 2000, subì un attentato dove persero la vita 17 marinai americani, oltre ai due attentatori, e i feriti gravi furono 39. L’attentatore, certo al-Nashiri, saudita, supposto capo di al- Qaeda in loco, fu individuato, tratto in arresto, fatto girare per le prigioni segrete di mezzo mondo e condotto a Guantánamo, dove fu come d’uso ripetutamente e gravemente torturato (water boarding, trapano elettrico o pistola alla tempia e altro). Ora è chiamato a rispondere dell’atto terroristico dinnanzi a una corte militare, che sarebbe improprio chiamare War Court poiché non segue le regole che disciplinano il processo penale, sia pure di giustizia militare, ma che i militari stessi chiamano Military Commission, commissione militare. Spesso negli ultimi anni si è discusso se dinnanzi a queste commissioni debba valere il codice di procedura, oppure se esse - situate fuori dal territorio delle 50 stelle - possano procedere secondo regole amministrative interne. La questione è stata portata anche davanti alla Corte Suprema per ben tre volte, ma non è stata sciolta con chiarezza. Anche se la Corte ha deciso che anche dinnanzi a queste commissioni debbano essere rispettati i principi fondamentali che regolano ogni processo, sia pure di fronte alla giustizia militare. Una di queste regole, giusta e comprensibile, è che l’imputato di crimini per cui è prevista la pena di morte debba avere almeno un difensore con esperienza in processi che implichino tale pena. E qui la macchina si è inceppata. Nel “caso Cole”, attualmente in fase di udienza preliminare, erano impegnati tre avvocati, uno militare e due civili. È avvenuto però che il difensore militare - di vasta esperienza nei processi di Guantánamo - si è astenuto per “motivi etici riservati”, mentre i due difensori civili hanno rifiutato sia di recarsi a Guantánamo sia di lavorare in videoconferenza dalla Virginia (dove Guantánamo ha una sorta di pied-à-terre) perché non hanno esperienza sufficiente in un caso che implica la pena di morte e perché lavorando in videoconferenza vedevano compromessa la riservatezza dei contatti col proprio cliente. A questo punto il Presidente del “tribunale” ha spiccato un mandato di arresto per 21 giorni per il difensore militare, da scontare in un container appositamente attrezzato nel campo. Egli però ha fatto ricorso e il giudice superiore lo ha liberato (almeno temporaneamente) al terzo giorno. Quanto ai difensori civili, due donne della Virginia, si sono rese irreperibili ed hanno provveduto a depositare tre ricorsi preventivi in tre stati: la Virginia e due stati limitrofi, per l’ipotesi di essere raggiunte da un mandato di arresto del presidente del “tribunale”, l’arcigno Vance Spath. A questo punto l’udienza preliminare si è arenata, penserete voi. Niente affatto: il presidente ha nominato un altro difensore militare, anch’esso senza esperienza di difesa in casi di pena capitale e sta procedendo ad ogni costo con tempi strettissimi. Ma anche questo difensore si sta rifiutando di contro esaminare i testi dell’accusa, proprio invocando anche lui la propria inesperienza: Questo incidente, assai importante e significativo, ha però fatto sì che Trump, il quale si era augurato che il terrorista newyorkese fosse tradotto e giudicato a Guantánamo perché la giustizia ordinaria americana sarebbe secondo lui una “buffonata” (laughing stock), ha fatto marcia indietro rettificando via tweet la propria posizione e auspicando che il terrorista venga lasciato alla giustizia ordinaria: si fa prima e viene a costare meno, tanto il risultato sarebbe scontato nell’una e nell’altra giurisdizione. Ma non finiscono qui gli inopportuni interventi del Presidente Trump in materia di giustizia. Trump non si è ricordato del pur recentissimo caso del Sergente Bowe Bergdahl. Questi era un militare americano, certo non terrorista, che nel 2009 abbandonò il suo campo base in Afghanistan e fu catturato dai Talebani, rimanendo in mano loro per 5 anni, fino a quando, nel 2014, Obama lo scambiò con 5 detenuti di Guantánamo. Durante la campagna elettorale nel 2016 Trump ebbe più volte l’occasione di chiamarlo “traditore”, anzi, “traditore incapace” (no-good traitor) e sostenere che per lui ci volesse la pena capitale o comunque una pena severissima. Al processo, nel quale il sergente doveva rispondere di diserzione e comportamento scorretto davanti al nemico (questa ultima accusa può comportare l’ergastolo) il sergente ammise le proprie responsabilità, ma la sua difesa non solo sostenne che Obama certamente non lo scambiò con 5 talebani perché andasse in galera negli Usa, ma soprattutto mostrò un filmato con tutti gli attacchi di Trump sostenendo che nella sua veste di capo delle forze armate aveva creato un clima di linciaggio pregiudicando la serenità di giudizio della corte. Il giudice, riconoscendo l’incidenza degli argomenti difensivi, ha condannato il sergente alla riduzione allo stato civile e a una forte multa: niente prigione, però. Naturalmente, Trump, proprio mentre stava partendo per il suo tour asiatico ancora in corso, ha commentato la decisione con un tweet come “una completa e totale disgrazia per la nazione e per il suo sistema militare”. Evidentemente non si è ancora accorto, il presidente Trump, che basta un suo tweet per costringere i giudici a una certa indulgenza e quasi certamente a escludere la pena di morte dai possibili risultati! *Osservatore internazionale per l’Ucpi Stati Uniti. 46 anni in carcere per uno stupro mai commesso di Federica Macagnone Il Messaggero, 16 novembre 2017 È stato recluso in prigione per 46 anni per uno stupro che non aveva mai commesso: una vita sgretolata per una serie di errori da parte della giustizia. Solo ora Wilbert Jones, un 65enne di Baton Rouge, in Louisiana, potrà uscire dal carcere e riappropriarsi di quel che resta della sua esistenza sfortunata. Accusato di aver rapito e violentato un’infermiera nel parcheggio di un ospedale nella notte del 2 ottobre 1971, quando aveva 19 anni, Wilbert fu condannato all’ergastolo nel 1974. Tutto ciò, ha detto il giudice Richard Anderson che ha deciso di liberarlo, nonostante le autorità avessero in mano prove che avrebbero potuto scagionarlo da decenni. Le accuse contro di lui, all’epoca, si basarono totalmente sulla testimonianza dell’infermiera che, tre mesi dopo la violenza subìta, da un lato riconobbe in Wilbert il suo aggressore, ma dall’altro disse che l’uomo che l’aveva violentata era più alto e aveva una voce “molto più ruvida”. Come se non bastasse, la sua descrizione corrispondeva a un uomo arrestato, ma mai incriminato, per lo stupro di un’altra donna nel parcheggio di un altro ospedale della città avvenuto 27 giorni dopo l’aggressione all’infermiera. Lo stesso uomo fu arrestato in seguito, nel 1973, per aver violentato un’altra donna, ma fu poi condannato solo per rapina a mano armata. “La polizia - ha detto il giudice Richard Anderson, che ha definito le accuse contro Wilbert “quantomeno deboli” - sapeva delle somiglianze tra quell’uomo e l’identikit fornito dall’infermiera, ma non fornì queste informazioni alla difesa. Le autorità avevano in mano prove che avrebbero potuto scagionare Jones già da decenni”. Laconica la risposta fornita dai pubblici ministeri nel febbraio scorso: Lo Stato non era tenuto a informare la difesa di ogni stupro o rapimento avvenuto a Baton Rouge dal 1971 al 1974”. Gli avvocati di Wilbert hanno anche raccontato che un pubblico ministero che si era battuto per la condanna aveva dietro di sé una lunga scia di omissioni di prove che, se fossero state esibite, si sarebbero rivelate favorevoli agli imputati. Un parere del 1974 redatto dalla Corte suprema affermava che nell’anno precedente quel magistrato era stato responsabile di 11 sentenze di condanna poi ribaltate in assoluzioni: “Una statistica incredibile per un singolo procuratore” osservarono i giudici. Quando ora il giudice Anderson ha emesso la sentenza, Wilbert non ha esternato alcuna reazione, mentre i suoi familiari si sono abbracciati piangendo. La nipote, Wajeedah Jones, ha detto di saper già quale sarà il primo desiderio dello zio una volta uscito: un piatto di gumbo, tipica pietanza della Louisiana. La pubblica accusa, dal canto suo, ha già annunciato che chiederà alla Corte suprema della Louisiana di riesaminare la decisione del giudice, ma di non avere intenzione di chiedere un nuovo processo. Gli avvocati di Wilbert, che descrivono il loro assistito come un detenuto modello (versione confermata anche dalle guardie carcerarie), hanno detto che il marito dell’infermiera violentata, che è morta nel 2008, non si è opposto alla liberazione: “Sente che il signor Jones è stato in prigione troppo a lungo e che gli deve essere concesso di uscire e trascorrere i suoi ultimi anni con la sua famiglia”.