Orlando: ci sono condizioni per mettere a Odg la riforma dell’Ordinamento penitenziario di Francesca Donnarumma contattonews.it, 15 novembre 2017 Il ministro della giustizia Andrea Orlando si dice convinto che Gentiloni metterà a Odg riforma dell’Ordinamento penitenziario, ed ha dichiarato: “È un obiettivo che dobbiamo portare a casa” perché si tratta di un “elemento di civiltà”, e “sono convinto che Gentiloni voglia mettere all’ordine del giorno questo provvedimento”. Così il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha risposto, intervistato da Radio Radicale, alla domanda su quando andrà al Consiglio dei ministri la riforma dell’ordinamento penitenziario. “Non ho titolo per dire quando e come sarà iscritta all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri. Farei un’invasione di campo se dicessi quando, ma da ora ci sono tutte le condizioni perché questo possa avvenire”, ha affermato Orlando. Il ministro ha poi invitato Rita Bernardini e Deborah Cianfanelli a sospendere lo sciopero della fame che stanno facendo a sostegno della riforma, dicendosi pronto a incontrarle “anche dopodomani. proseguiamo insieme l’attività di pressione ma troviamo forme diverse”. Andrea Orlando chiede a Rita Rita Bernardini e Deborah Cianfanelli di sospendere lo sciopero della fame. Quanto all’iniziativa di Rita Bernardini e Deborah Cianfanelli, della presidenza del Partito Radicale, in sciopero della fame da 30 giorni affinché vengano emanati tali decreti, inviati ieri da via Arenula a Palazzo Chigi, Orlando ha risposto: “non esponiamo Rita e Deborah e chiedo a loro di non esporsi a rischi per la loro salute, in qualche modo proseguiamo insieme una attività di pressione ma troviamo delle forme diverse”. Le date, ha osservato il Guardasigilli, “non sono molto diverse da quelle che avevamo detto perché l’invio a Palazzo Chigi è avvenuto ieri ma la chiusura del lavoro è avvenuta molto prima perché, prima di mandare i decreti a Palazzo Chigi, dovevamo assumere il parere di un’altra serie di soggetti, come il garante dei detenuti e altri ministeri competenti e quindi era fondamentale prima acquisire queste valutazioni”. Il lavoro del ministero si è concluso da diverse settimane, l’acquisizione dei pareri necessari si è conclusa soltanto ieri e quindi c’erano le condizioni per iscriverlo al pre-consiglio dei ministri. La delega, ha spiegato il ministro della Giustizia, “non aveva una scadenza stretta, ma che io ho voluto esercitarla per evitare il rischio che non fosse esercitata in futuro. Non è stato un grande sacrificio ma ho fatto il mese di agosto a Roma perché volevo costruire le condizioni per rispettare i tempi che mi ero dato su questo obiettivo. Devo dire che con qualche settimana di ritardo ce l’abbiamo fatta, sono convinto che questo sia un obiettivo che dobbiamo portare a casa e che considero davvero un elemento di civiltà”, ha concluso il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Tortura e 41bis: l’Onu critica duramente l’Italia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 novembre 2017 Sovraffollamento, carcere duro e maltrattamenti ai reclusi sono gli altri aspetti evidenziati. Per il Comitato delle Nazioni Unite la recente legge prevede elementi difficili da dimostrare. Apprezzata l’istituzione del Garante dei detenuti Il comitato dell’Onu contro la tortura solleva molte critiche sul rispetto dei diritti umani in Italia. La legge italiana che ha introdotto il reato di tortura è da cambiare, dubbi sull’applicazione del regime duro ex 41 bis e gestione delle politiche migratorie inaccettabili. Sono questi e altri ancora i dubbi e critiche sollevate dal Comitato Onu contro la tortura che monitora l’attuazione di uno dei principali Trattati internazionali sui diritti umani, la Convenzione contro la tortura e altre punizioni inumane, crudeli e degradanti. A darne notizia è l’associazione Antigone presente a Ginevra per partecipare ai lavori delle Nazioni Unite. “Antigone - spiega in comunicato Susanna Marietti, la coordinatrice nazionale - sta partecipando ai lavori di questa sessantaduesima sessione per la quale abbiamo presentato anche uno specifico rapporto indipendente nel quale abbiamo segnalato le nostre preoccupazioni su alcuni di quelli che sono stati poi i rilievi del Comitato”. Continua sempre Marietti: “Il Comitato muove una critica profonda alle politiche del governo sui temi dei migranti e della tortura, segnalando quanta poca attenzione sia stata posta sul terreno della difesa dei diritti umani. Quello che chiede dunque che, conformemente ai rilievi delle Nazioni Unite, si straccino gli accordi con la Libia e con il Sudan e si interrompano immediatamente gli accordi di collaborazione con paesi dove sono provate e testimoniate torture e violazioni dei diritti umani, che sia reintrodotto l’appello per i richiedenti asilo, che si adottino politiche dirette a ridurre il numero di persone in custodia cautelare, che si prendano provvedimenti disciplinari nei confronti di personale coinvolto in episodi di violenza. E che si cambi la legge sulla tortura rendendola coerente con la definizione Onu”. Quindi critiche durissime dal parte dell’Onu. Tra i rilievi più importanti che il rapporto sull’Italia del comitato delle Nazioni Unite contro la tortura (Cat) ha formulato ieri mattina all’Italia, durante la sessantaduesima sessione del Comitato stesso, riguarda appunto la legge sulla tortura recentemente approvata dal Parlamento italiano. Secondo il Comitato non è conforme alla Convenzione Onu e va cambiata. Secondo il Cat, infatti, la definizione di tortura prevista dalla legge aggiunge elementi che rendono la tortura difficile da dimostrare (la crudeltà, il verificabile trauma psichico, le condotte plurime), il reato è stato concepito come generico e dunque commettibile da chiunque e non solo da pubblici ufficiali, inoltre non è imprescrittibile e non c’è un fondo per risarcire le vittime. Altro rilievo mosso al nostro Paese riguarda la raccomandazione ad istituire un comitato nazionale per la promozione e protezione dei diritti umani. Molto apprezzata è stata invece l’istituzione del Garante Nazionale dei detenuti e delle persone private della libertà, che risponde al Meccanismo Nazionale di Prevenzione stabilito dalle Nazioni Unite, incarico attualmente ricoperto da Mauro Palma. Sempre Antigone ha fatto sapere che, in ambito penitenziario, il Comitato dell’Onu solleva dubbi sul fatto che un detenuto possa essere sottoposto al regime duro di cui all’articolo 41bis anche per vent’anni, nonché sull’eccessivo isolamento in cui vengono posti. Invita a ridurre l’uso della custodia cautelare che ha tra i più alti tassi in Europa. È preoccupato del sovraffollamento che supera il 120%. Valuta positivamente l’introduzione della sorveglianza dinamica ma denuncia la scarsità degli educatori e gli operatori sociali. Denuncia inoltre i troppi i casi di collocazione dei detenuti in regime d’isolamento, ovvero l’utilizzo delle cosiddette “celle lisce”. Il Cat chiede i dati sui casi di violenza nei confronti dei detenuti, perché mancano informazioni a riguardo. “Altrimenti - afferma il Comitato Onu - il fenomeno della tortura e dei maltrattamenti non è misurabile”. Chiedono spiegazioni sui casi delle violenze nei confronti di detenuti ad Asti dove c’è stata la recente condanna dal parte della Cedu e anche il caso riguardante l’ex detenuto Giuseppe Rotundo. Quest’ultimo caso vale la pena ricordarlo. Condannato a un anno e dieci mesi per dieci grammi di cocaina, ha scontato la pena nel carcere foggiano di Lucera. Il 12 gennaio del 2012, in pieno inverno, Rotundo aveva denunciato di essere stato denudato e picchiato in isolamento. Lo avrebbero torturato fino allo svenimento da una squadra di agenti penitenziari per punirlo a causa di un’offesa verbale nei confronti dell’agente preposto e poi trascinato per i piedi, nudo e ancora sporco di sangue, in un’altra cella di isolamento con dentro soltanto un materasso sudicio. Il processo per ristabilire verità e giustizia, è ancora in corso. Il suo caso è unico nel suo genere perché, di solito, i corpi dei detenuti pieni di lividi ed ematomi vengono fotografati solo da morti. Giuseppe Rotundo invece è sopravvissuto alla tortura e ha potuto denunciare l’accaduto con tanto di prove fotografiche. Il Comitato ha chiesto anche spiegazioni all’Italia sui casi di Valerio Guerrieri - storia raccontata sulle pagine de Il Dubbio e che riguarda un diciottenne con problemi psichiatrici suicidatosi nel carcere di Regina Coeli, mentre in realtà doveva essere ricoverato in una Rems - e Alfredo Liotta, morto nel carcere di Siracusa per non essere stato curato nonostante il suo evidente deperimento fisico. Rispetto alle violenze di polizia il Comitato Onu è preoccupato dell’assenza di provvedimenti disciplinari e penali nei confronti del personale delle forze dell’ordine che si è reso disponibile delle violenze a Genova, Napoli e Val di Susa. Non si placano le polemiche sul 41bis di Massimo Bordin Il Foglio, 15 novembre 2017 Il ministro Orlando chiede di rendere alcune norme emergenziali più compatibili con le norme europee. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando parlando ieri a Radio Radicale ha ribadito di ritenere necessario il cosiddetto doppio binario che caratterizza, rispetto alla legislazione ordinaria, quella antimafia ma nel contempo ha evidenziato la necessità di rendere alcune norme emergenziali più compatibili con le norme europee prodotte dalla Corte di Strasburgo. Altrimenti, ha sostenuto il ministro, rischia di saltare tutto e di questo occorre consideri chi critica i provvedimenti in materia da parte del governo, accusandoli addirittura di favorire la mafia. Orlando probabilmente pensava anche alle polemiche nate nelle ultime settimane su una circolare ministeriale sulla applicazione del regime carcerario 41 bis. La Circolare porta la data del 2 ottobre e già il giorno dopo l’onorevole Beppe Lumia, membro della commissione antimafia del gruppo Pd, aveva invitato la commissione a valutarla attentamente perché, secondo lui, alleggeriva il carcere duro a tutto vantaggio della mafia. A smentirlo il giorno dopo provvedeva non un membro del governo ma il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Nondimeno la presidente della commissione, Rosy Bindi, due settimane dopo, si doleva col direttore del dipartimento carceri di non essere stata preventivamente consultata e cinque giorni fa due deputati del M5s presentavano una interrogazione nella quale sostenevano che la circolare violava la legge, smentiti nel giro di 48 ore da un loro collega del Pd, Davide Mattielllo, e dal garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. L’argomentazione del ministro ha un senso, la polemica sulla circolare invece no ma sembra che ai fini del dibattito politico ciò non abbia alcun rilievo. Cascini: “la separazione delle carriere accentuerebbe i vizi della magistratura” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 15 novembre 2017 Il Procuratore aggiunto di Roma risponde al giudice Quatrano: “l’esistenza di un corpo separato di pm rafforzerebbe gli elementi negativi del protagonismo della fase inquirente”. “Una proposta che individua delle patologie e propone di trasformarle in regola, invece di combatterle. Ma così ci si arrende”. Giuseppe Cascini, procuratore aggiunto a Roma ed ex segretario dell’Anm, è convinto che la separazione delle carriere dei magistrati non risolverebbe affatto le distorsioni della giustizia. Il giudice Nicola Quatrano sul Dubbio ha dichiarato di aver sottoscritto la proposta di legge delle camere penali sulla separazione delle carriere. Partiamo da qui: perché lei non firmerebbe mai quell’appello? Prima di tutto perché credo che la separazione delle carriere sarebbe un danno per la giurisdizione e per le garanzie dei cittadini. Ma anche perché la proposta avanzata dalle camere penali introduce delle notevoli e rilevantissime modifiche dell’assetto costituzionale della magistratura, tali da stravolgere i principi di indipendenza e autonomia della magistratura giudicante. Penso in particolare alla possibilità d’ingresso in magistratura in base a nomina governativa, senza concorso, sul modello del Consiglio di Stato. Penso anche alla composizione dei due Csm, formato in maniera paritaria da componenti eletti dal Parlamento e componenti eletti dalla magistratura. Ma penso pure alla sostanziale abolizione del principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale contenuto in Costituzione. Si tratta dunque di una riforma complessiva della quale la separazione delle carriere è solo un pezzo - che rischia di incidere in maniera molto severa sull’autonomia della magistratura. Perché è convinto che verrebbe meno l’autonomia? Oggi i magistrati sono un corpo professionale selezionato solo a seguito di concorso e questo garantisce l’indipendenza rispetto al potere politico. Se il governo potesse nominare senza limiti magistrati di fiducia la separazione fra poteri non esisterebbe più. Una maggiore forza della componente laica all’interno del Csm, poi, significa maggior peso della politica sulla scelta dei dirigenti degli uffici, sulla nomina dei magistrati e sulla valutazione della loro carriera. In questo modo il potere politico avrebbe tutti gli strumenti per conformare, guidare e governare la magistratura. Chi invoca la separazione delle carriere, però, punta il dito sulla mancanza di terzietà del giudice, considerato troppo vicino al pubblico ministero... Noi dovremmo lavorare per una comune formazione professionale dei magistrati e degli avvocati, perché facciamo sostanzialmente lo stesso lavoro, anche se con parti diverse all’interno del procedimento. La separazione danneggia la formazione di una comune cultura della giurisdizione che invece è fondamentale per lo svolgimento delle proprie funzioni. Un giudice può esercitare meglio la sua funzione se conosce anche i meccanismi propri dell’investigazione o se ha maturato esperienze di difesa. La circolazione delle esperienze professionali e la comune cultura della giurisdizione sono valori che caratterizzano il sistema di molti paesi occidentali. Il tema della terzietà, invece, ha a che fare con le regole processuali, con la cultura delle garanzie. Per questo, secondo me, la battaglia sulla separazione delle carriere appare un po’ datata. Dopo quasi 30 anni dall’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, mi pare che la cultura della terzietà del giudice sia patrimonio acquisito di tutta la magistratura italiana. Ma come può lo stesso magistrato passare con disinvoltura dalla cultura del dubbio (da giudice) alla cultura della condanna (da pm)? È una visione sbagliata del ruolo del pubblico ministero. Anche il pm deve coltivare il dubbio, per questo è bene che abbia una formazione comune con giudici e avvocati. Il pm non deve perseguire la condanna a ogni costo, deve cercare anche le prove a favore dell’imputato e chiedere l’assoluzione in caso di innocenza. Quello che persegue la condanna a ogni costo è un modello di pm lontano dalla nostra cultura, un modello di pm politicizzato che istruisce i processi per costruire la sua carriera. Un modello in cui non è raro imbattersi... Queste sono generalizzazioni non utili al dibattito. Che ci sia una debolezza della politica, che subisce la diffusione di notizie di stampa, è un fatto con cui l’Italia purtroppo convive almeno dall’avvio delle indagini su Tangentopoli. Questo fenomeno però è figlio della debolezza dei partiti che delega alla magistratura l’accertamento della responsabilità politica, non solo di quella giudiziaria. Quando si dice “non bisogna dimettersi fino a condanna definitiva”, la di fatto politica trasferisce alla magistratura la decisione. Certo, ma davanti a potenti campagne stampa è complicato prendere decisioni in maniera serena. Caso di scuola: Clemente Mastella. A causa di un’inchiesta molto mediatica cade un governo e dopo dieci anni vengono tutti assolti... Se i processi avessero tempi ragionevoli, si potrebbe smontare un’accusa in tempi brevi e tornare a una situazione di normalità. Resta però il potere mediatico del pm che a volte mette in soggezione un giudice e lo trasforma in un “passacarte”... Che ci sia un peso rilevante sul dibattito pubblico della fase delle indagini preliminari è un dato, ahimè oggettivo, che dipende sostanzialmente dal fatto che i processi in Italia non si riescono a fare in tempi ragionevoli. E quando una vicenda giudiziaria finisce sulle prime pagine dei giornali siamo normalmente solo nella fase dell’investigazione perché il processo è molto lontano nel tempo e molto diluito. Però nel frattempo il giudizio è già arrivato a livello di opinione pubblica. Le Procure, come dice Quatrano, si trasformano nella “principale agenzia stampa del Paese”... Questa è una distorsione del meccanismo processuale che però non ha nulla a che vedere con la separazione delle carriere. Trovo ingeneroso pensare che un’alterazione della percezione da parte dell’opinione pubblica della realtà giudiziaria si trasferisca matematicamente sui giudici, che hanno una forte capacità d’indipendenza anche nei confronti delle parti del processo. È l’esperienza quotidiana che ci consegna decisioni coraggiose che non tengono conto dell’opinione pubblica. La cultura di terzietà è dimostrata nei fatti e non subisce particolari conseguenze da questa distorsione oggettiva. E innegabile, però, che esistano anche esempi opposti, di forte condizionamento del giudizio. Come si corregge questa distorsione? L’unico antidoto, ripeto, è fare i processi in tempi brevi e fornire immediatamente una risposta vera in termini di giustizia, dando maggiore centralità alla fase del giudizio. E da questo punto di vista, separare le carriere non produrrebbe alcun effetto. Anzi, probabilmente, aumentando l’autoreferenzialità del pubblico ministero rischiamo di accentuare questo fenomeno invece di arginarlo. Mi sembra piuttosto pericoloso. Pensate a un corpo separato di pubblici ministeri che ha la disponibilità della polizia giudiziaria, che si governa e amministra da solo: verrebbero rafforzati gli elementi negativi del protagonismo della fase inquirente. Da un punto di vista democratico i pm diventerebbero troppo potenti. E cercherebbero un rapporto stretto con la stampa molto più di adesso. Più tutele per chi segnala illeciti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2017 È atteso per oggi il voto finale sul provvedimento che introduce forme di tutela per i dipendenti, sia pubblici sia privati, che segnalano illeciti di cui sono venuti a conoscenza nell’ambito del proprio rapporto di lavoro. Un provvedimento rilevante, che rappresenta solo un primo passo ma che, come sottolineato dal presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone, è indispensabile. Il whistleblowing, la “soffiata” dei dipendenti pubblici sulle irregolarità all’interno del proprio ufficio è un istituto non ancora decollato, anche se dal 2012, quando è stato previsto dalla legge Severino, le segnalazioni sono in aumento: all’Anac nei primi 5 mesi di quest’anno ne sono arrivate 263 rispetto alle 252 dell’intero 2016. Arrivano in maggioranza (per il 75%) dalle prime linee delle pubblica amministrazione (impiegati, insegnati e personale sanitario); molte meno quelle dagli alti livelli della pubblica amministrazione, dirigenti, responsabili della prevenzione della corruzione, militari. Le attività più esposte sono gli appalti, l’attribuzione di incarichi, i concorsi pubblici, i danni erariali. Il disegno di legge ha l’obiettivo di fare da scudo rispetto a qualsiasi misura ritorsiva che le aziende pubbliche o le imprese private dovessero prendere nei confronti del dipendente. Diverso però il meccanismo messo in campo: nel settore privato il perno dell’intervento è rappresentato dal decreto 231 del 2001 e dalle modifiche introdotte ai modelli organizzativi mentre è per certi versi più diretto il sistema nel settore pubblico. Qui, infatti, centrale è il ruolo dell’Anac (Autorità che, insieme a magistratura, è responsabile della prevenzione della corruzione) rappresenta anche la figura cui vanno indirizzate le segnalazioni del lavoratore. Se è accertata l’adozione di misure discriminatorie da parte delle amministrazioni pubbliche, l’Anac applica al responsabile che ha adottato la misura una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 30.000 euro. Se viene verificato il mancato svolgimento da parte del responsabile di attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute, si applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro. L’anonimato di chi effettua la segnalazione è sempre assicurato. Invertito l’onere della prova. È a carico dell’amministrazione pubblica dimostrare che le misure di penalizzazione adottate nei confronti del segnalante sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione stessa. Gli atti discriminatori o ritorsivi adottati dall’amministrazione o dall’ente sono nulli. Il lavoratore licenziato a causa della segnalazione è reintegrato nel posto di lavoro. Le tutele non sono però garantite nei casi in cui è accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del dipendente per i reati di calunnia o diffamazione o comunque per reati commessi con la denuncia oppure la responsabilità civile, per lo stesso titolo, nei casi di dolo o colpa grave. Nel privato, tra i requisiti che i modelli organizzativi dovranno avere sono inseriti sia canali che garantiscano la possibilità della segnalazione e la riservatezza dell’identità degli autori, sia un meccanismo sanzionatorio per colpire chi ha fatto una segnalazione pretestuosa, con dolo o colpa grave. Le intercettazioni e il cerino dei pm di Piergiorgio Morosini Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2017 Chi aspettava norme chiare e trancianti dalla riforma delle intercettazioni, è rimasto deluso. Si tratta di una reazione “annunciata”. Da tempo, la privacy nelle comunicazioni è fonte di polemiche tra tifoserie politico-professionali. E nella stessa maggioranza, alimenta visioni conflittuali sulle prerogative della magistratura e sul giornalismo d’inchiesta. Così le ambizioni del governo, delegato dal parlamento a scrivere la nuova legge, non potevano andare oltre un “onorevole compromesso”. Ciò ha partorito regole contorte. Che nel complesso, però, esprimono la “pressione” per un self-restraint di magistrati, avvocati e stampa, ancora da decifrare. La riforma, quindi, è destinata a una delicata fase di rodaggio. Con possibili sorprese sulla futura fisionomia dei rapporti tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, sul ruolo della difesa e del giudice. Lo “scudo di segretezza” per le conversazioni processualmente irrilevanti propone un intreccio di questioni “sensibili”. C’è un divieto di trascrivere anche sommariamente i colloqui, con l’inserimento delle relative registrazioni (estranee al procedimento) in una “cassaforte” (archivio) della procura. Ma il primo “filtro” sulle “intercettazioni inutili” spetta alla polizia giudiziaria in ascolto. Che, per prevenire fughe di notizie, potrà annotare nel relativo verbale solo data, ora e dispositivo della registrazione. Dunque, non ci saranno più i cosiddetti “brogliacci”, con brani per esteso, che sovente finivano sui giornali o in tv. Ma così, soprattutto quando si indaga su trame criminali pervasive e complesse, alla polizia giudiziaria si consegna un potere enorme. Un potere che, peraltro, si salda con il dovere dei poliziotti di riferire delle indagini alla scala gerarchica, direttamente dipendente dall’esecutivo, secondo una norma introdotta nell’estate del 2016. Come evitare, allora, che certe “esclusioni” disperdano, nel “mare” delle registrazioni custodite nella cassaforte segreta, dati utili per accusa o difesa? E che la polizia giudiziaria diventi “motore” delle indagini, secondo logiche pre-costituzionali da codice Rocco? Decisivo sarà lo step successivo. Ossia il controllo del pubblico ministero su “tutti” i colloqui captati, anche quelli ritenuti inutili. Sarà effettivo solo se la polizia garantirà una interlocuzione tempestiva, completa e costante. Certo, non basteranno informazioni scarne e frammentarie. Aumenterebbe il rischio di perdere irrimediabilmente dati che, solo a posteriori, si rivelino preziosi; ad esempio per collegare una rete di corrotti o di una associazione criminale; o per rafforzare l’alibi di un indagato. Ma, sulle modalità e sui contenuti di quella informazione, la riforma appare ambigua. E il “cerino” della soluzione è destinato a finire nelle mani dei procuratori della Repubblica. Con apposite circolari o direttive, si potrebbero richiedere alla polizia giudiziaria “appunti a esclusivo uso interno”. Quelle “tracce scritte” (meno ricche dei “brogliacci”), da inserire anche nell’archivio segreto, dovrebbero permettere di “mappare” agilmente ore e ore di registrazioni. E, quindi, di effettuare, in tempi brevi, quei collegamenti tra i colloqui inizialmente considerati inutili e la miriade di dati disponibili (talvolta raccolti da diversi corpi di polizia). Ciò vale in prima battuta per l’accusa. E poi vale pure per la difesa che, solo così, potrà produrli tempestivamente per chiedere una scarcerazione o una assoluzione. Ma sarà possibile, per i procuratori, emanare circolari senza correre il rischio di violare la legge? Quale estensione potranno avere quelle tracce scritte? E certe ambiguità normative non potrebbero forse alimentare prudenze eccessive? Le incertezze della riforma non finiscono qui. Coinvolgono pure il ruolo del giudice e il modo di spiegare le sue decisioni. Per “blindare” la segretezza dei colloqui inutili, si prevede il divieto di riprodurre negli atti i “brani non essenziali”. Scontato. Il codice già vuole la motivazione “concisa” e “specifica”. Quale è, allora, il senso della novità? Una minaccia dai risvolti disciplinari per indurre al self-restraint? O solo un appello simbolico al senso di responsabilità? Sta di fatto che la “fumosità” d elle nuove regole potrebbe indurre a motivazioni incomplete, o timide nella esposizione, per evitare varie forme di censura. Così, dopo la “medicina difensiva”, avremmo la “giurisprudenza difensiva”. Con il risultato di rendere più difficile il controllo sulle decisioni. Insomma, professionalità e senso di responsabilità degli attori del processo ci diranno se la riforma delle intercettazioni implichi dei costi alti per la ricerca della verità e la credibilità dei verdetti giudiziari. Ma forse il legislatore ha ancora qualche spazio per supplementi di riflessione. Anche la chiarezza della legge può migliorare la qualità della giustizia che verrà. Arresti domiciliari, evasione se si porta il cane a spasso nel cortile di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2017 Corte d’appello di Roma - Sezione III penale - Sentenza 5 giugno 2017 n. 4418. Colui che è sottoposto alla misura degli arresti domiciliari non può allontanarsi, senza autorizzazione, dalla sua abitazione per nessun motivo. Nemmeno per portare il proprio cane nel giardino condominiale per i suoi bisogni. In tal caso scatta, infatti, il reato di evasione. Ad affermarlo è la Corte d’appello di Roma con la sentenza 4418/2017 che, tuttavia, ha riconosciuto l’applicabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, data la scarsa rilevanza offensiva della condotta. Il caso - Protagonista della vicenda è un uomo sottoposto alla misura degli arresti domiciliari presso la sua abitazione il quale, una mattina di gennaio, veniva sorpreso dalle Forze dell’ordine alle ore 07:40 del mattino nei giardini condominiali pertinenti la sua casa in calzoncini e ciabatte e con il suo cane al guinzaglio. Tratto in arresto per il reato di evasione, l’uomo si giustificava ammettendo sì di essersi allontanato dalle mura di casa, ma solo per portare fuori l’animale per i suoi bisogni, come dimostrava, tra l’altro, il suo abbigliamento non idoneo ad un allontanamento dal luogo designato per la misura restrittiva. Il Tribunale, tuttavia, riteneva integrato il reato di cui all’articolo 385 comma 3 c.p., seppur considerando il fatto non connotato da gravità, e condannava l’uomo alla pena di 6 mesi. La vicenda proseguiva, poi, in appello dove la difesa chiedeva l’assoluzione in quanto l’allontanamento era dipeso da una causa di forza maggiore legata allo stato del cane e, ad ogni modo, non vi era l’intenzione dello stesso soggetto di violare la misura cautelare impostagli, né tantomeno il fatto contestato poteva essere considerato di grande allarme sociale. La decisione - La Corte d’appello conferma la rigida linea interpretativa seguita dalla giurisprudenza in materia di evasione ritenendo integrato il reato previsto dall’articolo 385 comma 3 c.p., per la configurabilità del quale basta semplicemente un allontanamento non autorizzato dal luogo designato per la misura cautelare. Tuttavia, per i giudici capitolini, è possibile applicare al caso di specie la causa di non punibilità prevista dall’articolo 131-bis c.p., essendo ravvisabili tutti gli elementi della particolare tenuità del fatto. In particolare, quanto al profilo oggettivo, la condotta incriminata è sintomatica di una scarsa offensività, posto che la violazione del regime di detenzione è, infatti, avvenuto per poco tempo e nelle pertinenze dell’abitazione, “essendosi limitato l’imputato a portar fuori il cane di mattina presto, con abbigliamento pacificamente inidoneo ad allontanarsi ulteriormente”. Quanto all’aspetto soggettivo, invece, il comportamento dell’uomo è sicuramente legato a contingenze momentanee, il che consente di ritenere non punibile la sua condotta. Colpa medica alle Sezioni unite di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2017 Sulla colpa medica saranno le Sezioni unite a pronunciarsi. E non su un aspetto marginale, ma sulle conseguenze stesse della riforma del marzo scorso. La questione è stata sollevata d’ufficio e verrà trattata nell’udienza del 21 dicembre, l’ultima presieduta da Giovanni Canzio. Nella lettera inviata ai vertici della Corte, il presidente della Quarta sezione sottolinea di trovarsi a dovere affrontare un procedimento relativo al reato di lesioni colpose a carico di un medico specialista in neurochirurgia; tra i motivi del ricorso c’è quello dell’osservanza delle linee guida da applicare nel trattamento della specifica patologia considerata. Sul punto è intervenuta la legge Gelli Bianco, la n. 24 dell’8 marzo 2017, che ha cancellato la precedente disciplina datata 2012 (legge n. 189) che ha introdotto una causa di esclusione della punibilità per il medico imputato di omicidio colposo o lesioni personali colpose. Causa che scatta se l’evento si è verificato per imperizia, escluse le ipotesi di negligenza e imprudenza, e sono state rispettate le raccomandazioni contenute nelle linee guida o - in mancanza - le buone pratiche clinico assistenziali. Come considerare però l’impatto delle modifiche? La Cassazione, ricorda la lettera, si è già divisa. Secondo una prima pronuncia la n. 28187 la disciplina precedente era più favorevole perché aveva escluso la rilevanza penale delle condotte caratterizzate da colpa lieve in contesti regolati da linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. Quella successiva ha eliminato la distinzione tra colpa lieve e colpa grave per l’attribuzione della responsabilità, dettando nello stesso tempo una nuova articolata disciplina sulle linee guida che rappresentano il parametro per la valutazione della colpa per imperizia in tutte le sue espressioni. Una seconda sentenza, invece, (n. 50078) giudica la nuova disciplina come più favorevole, avendo previsto una causa di esclusione dalla punibilità a favore del medico che, a determinate condizioni opera su tutti i casi di imperizia, indipendentemente dal grado della colpa. Letture tanto diverse che hanno indotto i vertici della Corte a considerare rilevante la questione, sollevata in via preventiva, e ad affrontarla tra un mese. Lombardia: approvata legge regionale sulla tutela delle persone detenute expartibus.it, 15 novembre 2017 In Lombardia ci sono 8.000 persone detenute e 14.000 condannate a misure alternative. Obiettivo della legge: reinserimento in società e riduzione della recidiva. La Lombardia ha da ieri, 14 novembre, una nuova legge per la tutela delle persone detenute in carcere, con l’obiettivo primario di un loro reinserimento in società e con la relativa riduzione della recidiva. L’Aula si è espressa con 54 voti a favore, maggioranza di centrodestra, PD e M5S, e 5 astensioni, Patto Civico e Insieme x la Lombardia. Il testo è stato elaborato alla luce delle visite a tutte le strutture detentive promosse dalla Commissione Speciale Carceri, presieduta da Angelo Fanetti, Lista Maroni. Fanetti è stato anche il relatore in Aula del provvedimento. Ha detto il Presidente Fanetti: “Con questa legge prendiamo atto del nuovo contesto normativo nazionale e degli effetti della riforma sanitaria in Lombardia. La Lombardia si conferma all’avanguardia credendo con i fatti alla funzione rieducativa del carcere, stanziando risorse per la risocializzazione dei detenuti che passa dal lavoro, dalla scuola, dall’arte, ma anche dall’integrazione del carcere con la Pubblica Amministrazione, con il Terzo settore e in generale con il contesto territoriale di riferimento. Per noi sono fondamentali anche le nuove forme di formazione delle guardie carcerarie. Questa è una buona legge, condivisa trasversalmente e che nasce per risolvere le criticità che abbiamo avuto modo di constatare sul campo”. Il plauso del Presidente Cattaneo: “La legge approvata oggi in Consiglio regionale parte dal presupposto che per contrastare la recidiva l’unica misura veramente efficace sia il recupero della persona. I numeri parlano chiaro: là dove i detenuti seguono progetti di formazione e lavoro, come già avviene in alcune strutture presenti in Lombardia, la recidiva scende al 10%, contro una media del 90% di chi trascorre invece la detenzione in completa inattività”. È il commento del Presidente del Consiglio regionale, Raffaele Cattaneo che nell’ambito dell’iniziativa 100 Tappe in Lombardia aveva sottolineato la necessità di un intervento entro fine legislatura sul tema. Questo provvedimento risponde meglio alle esigenze del mondo carcerario perché punta sul recupero del detenuto anche attraverso progetti specifici come quelli culturali e sportivi; la formazione degli operatori del settore e dei volontari, il rafforzamento dei legami con i famigliari, il contrasto alla dispersione scolastica ma, soprattutto, attraverso l’inserimento lavorativo anche con progetti sperimentali di imprenditoria sociale. Perché solo un investimento vero sulla persona umana può favorire un pieno reinserimento. La legge - Inclusione sociale e lavorativo delle persone detenute, riduzione della recidiva e nuove modalità di formazione delle guardie carcerarie in rete con l’associazionismo: sono i principali obiettivi della legge, composta da 15 articoli. L’intervento legislativo si è reso necessario alla luce della riforma nazionale ma anche della legge di evoluzione del sistema sanitario in Lombardia. Obiettivo della legge è il recupero dei detenuti, attraverso percorsi di reinserimento lavorativo, di istruzione, formazione e riqualificazione professionale, sostenendo le associazioni e le attività del volontariato penitenziario, in area penale interna ed esterna. Fondamentale, e nuova, è l’attenzione agli aspetti sanitari, anche grazie all’istituzione di un organismo inter-istituzionale con compito di monitoraggio della rete dei servizi sanitari penitenziari favorendo, per i casi più gravi e delicati, l’accesso alle comunità terapeutiche riabilitative e ai centri semiresidenziali, la presa in carico dei detenuti con problematiche psichiatriche. Inoltre, grazie a interventi di prevenzione delle tossicodipendenze si intende migliorare le condizioni di vita delle persone recluse, limitando la recidività dei reati, con un notevole risparmio di risorse pubbliche. Un approccio che vuole avviare progetti concreti nell’ottica della giustizia riparativa, un approccio alla pena che coinvolge il reo, la vittima e la comunità nella ricerca di soluzioni, di riparazione del danno e di riconciliazione tra le parti. In quest’ottica la Regione promuove se sostiene interventi in area penale interna ed esterna, volti a mantenere e rafforzare i legami dei detenuti con i membri della famiglia, tutelando la relazione figli-genitori. Un articolo specifico del provvedimento riguarda il Difensore regionale come Garante dei detenuti, per contribuire, alla tutela dei diritti delle persone incarcerate o ammesse alle misure alternative. Un piano innovativo e ambizioso che, secondo la clausola valutativa introdotta su parere del Comitato paritetico di controllo e valutazione, sarà monitorato ogni due anni in merito agli obiettivi raggiunti. Per il 2017 la norma finanziaria mette a disposizione 1 milione di euro. Toscana: formazione dei detenuti, quasi 700mila € per progetti nelle carceri di Laura Montanari La Repubblica, 15 novembre 2017 Fornaio, idraulico, apicoltore, ma anche cuoco o elettricista: sono questi alcuni dei percorsi professionali che potranno intraprendere i detenuti delle carceri toscane. La Regione ha stanziato nei mesi scorsi 500 mila euro di risorse del Por Fse 2014-2020, per cofinanziare progetti di formazione professionale rivolti a persone recluse nelle case circondariali di Arezzo, Firenze Sollicciano, Firenze Gozzini, Massa Marittima, Livorno, Isola di Gorgona, Porto Azzurro, Lucca, Massa Carrara, Pisa, Volterra, Pistoia, Prato, Siena, San Gimignano. Il bando è uscito lo scorso luglio. Le domande presentate alla scadenza sono state in tutto 29, di cui 26 dichiarate ammissibili, per un totale di circa 700 mila euro (691.959). Per fare fronte alla richiesta di fabbisogno formativo espressa in risposta all’avviso, su proposta dell’assessore all’istruzione, formazione e lavoro, Cristina Grieco, la giunta ha deciso ora di aumentare lo stanziamento previsto di ulteriori risorse (pari a 191.959 euro), in modo da poter finanziare tutti i progetti ammissibili. “È un’iniziativa importante - ha detto Grieco - coerente con gli obiettivi del programma operativo regionale del Fondo sociale europeo che prevede azioni a favore di soggetti svantaggiati” Potranno usufruire dei corsi i detenuti delle carceri toscane con pena definitiva residua minima di cinque anni. L’avviso si rivolgeva a un singolo soggetto formativo oppure ad un’associazione temporanea di imprese o di scopo. Gli interventi prevedono: percorsi professionalizzanti riferiti al repertorio regionale delle figure professionali, finalizzati al rilascio di una qualifica professionale o di una certificazione di competenze. Percorsi di formazione obbligatoria sono quelli per responsabile tecnico dell’attività di panificazione e responsabile tecnico di tinto-lavanderia. Gli interventi formativi avvengono in particolare nei settori edilizia, idraulica, elettricità-elettrotecnica, cucina-ristorazione, apicoltura, giardinaggio- floricoltura, sartoria, acconciatura. Sono anche previsti specifici moduli formativi sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e, per le attività nell’ambito della cucina-ristorazione, dei moduli formativi sull’igiene alimentare. Campania: un bambino su quattro vive in povertà relativa Corriere del Mezzogiorno, 15 novembre 2017 Abbandono scolastico, la regione è seconda in Italia dopo la Sardegna. La Campania è la seconda regione in Italia con la Sardegna per numero di ragazzi che hanno lasciato precocemente la scuola (con un 18,1% su un tasso nazionale del 13,8%) e ha una percentuale del 27,5% di minori in povertà relativa (su una media nazionale del 22,3%), in un’Italia in cui le famiglie con minori in povertà assoluta in dieci anni sono quintuplicate e che si trova a fare i conti con gli effetti della recessione sulla motivazione dei giovanissimi e con una popolazione sempre più vecchia, con oltre 165 anziani ogni 100 bambini (in Campania i picchi sono a Benevento e ad Avellino, rispettivamente con 178 e 168,9). In questo contesto, alunni e studenti spesso non trovano nella scuola risposte idonee alle sfide di oggi. A livello nazionale, per esempio, le strutture sono spesso inadeguate, con oltre 4 istituti su 10 (41,4%) che non sono dotati di laboratori a sufficienza. Lo denuncia Save the Children, attraverso l’Atlante dell’infanzia a rischio “Lettera alla scuola”, pubblicato da Treccani. Tra i bambini e i ragazzi che vivono in condizioni di disagio è ancora elevato il rischio di dispersione scolastica: le scuole secondarie di secondo grado in Campania sono colpite da un tasso di abbandono del 5,06%, più basso solo di quello della Sardegna su un dato nazionale del 4,3% e dell’1,03% nelle scuole secondarie di primo grado, il secondo più alto dopo la Sicilia, su un dato nazionale dello 0,83%. In Italia vivono 669.000 famiglie con minori in condizione di povertà assoluta che, una volta sostenuti i costi per la casa e per la spesa alimentare, possono spendere solo 40 euro per la cultura e 7.60 per l’istruzione al mese. È un fenomeno che investe tutto il paese: i bambini in tale situazione - 1.292.000, il 14% in più in un anno - rappresentano il 12,5% del totale dei minori (si trovano nel 12% dei casi al Nord, nell’11,6% al Centro, nel 13,7% al Mezzogiorno). Il peggioramento della situazione economica ha colpito in modo ancora più profondo i minori in povertà relativa, che sono 1 su 5 in Italia, ossia il 22,3% (con un incremento del +20,2%), ma che in Campania riguarda il 27,9% dei giovani fino ai 17 anni, più di 1 su 4. La forbice tra Nord e Sud, nel caso della povertà relativa, è ampia: nel Meridione il 32,6% dei bambini vive tale situazione contro il 16,1% del Nord. Inoltre, sebbene negli ultimi decenni siano stati compiuti importanti passi in avanti nel contrasto alla dispersione scolastica, con una tendenza positiva che ha visto il tasso di abbandono abbassarsi progressivamente dal 2008 a oggi, il fenomeno della dispersione continua a rappresentare una delle principali sfide con cui la scuola italiana deve fare i conti, come mostrano i nuovi dati dell’anagrafe nazionale studenti del Miur resi disponibili nell’Atlante. Tali dati consentono di tracciare un identikit più preciso degli alunni a rischio: tra i ragazzi delle secondarie di II grado, possibilità superiori di abbandono sono registrate tra i maschi, in particolare tra coloro che vivono nelle regioni del Mezzogiorno, soprattutto in Campania e Sicilia e tra quelli con i genitori di origine straniera. Anche in questo caso il divario tra Nord e Sud è ampio: nel Settentrione i quindicenni in condizioni socio-economiche svantaggiate che non raggiungono le competenze minime nella lettura sono il 26,2%, cifra che sale al 44,2% nel Meridione. È necessario, dunque, che sistema scolastico e interventi sociali rispondano in modo adeguato a contesti e bisogni diversi. In Campania l’incidenza di alunni respinti nella scuola secondaria di primo grado va dallo 0,63% di Benevento al 4,09% di Napoli su una media nazionale del 2,8%, mentre i respinti alla scuola secondaria di secondo grado vanno dal 5,9% di Avellino all’11,4% di Napoli su una media nazionale del 9,1%, nei licei dal 3,1% di Benevento al 5,7% di Napoli su una media nazionale del 5,3%, e negli istituti tecnici dall’ 8,0% di Avellino al 16,1% di Caserta su una media nazionale dell’11,5%. Con l’aggravarsi delle condizioni socio-economiche di molte famiglie, all’aumento delle povertà economiche sono corrisposte anche nuove povertà educative: tanti bambini, infatti, non hanno accesso ad attività culturali. Sei ragazzi su 10 (il 59,9%) tra i 6 e i 17 anni non arrivano a svolgere in un anno (3 su 4 in Campania, 75,5%, terza percentuale più alta dopo Calabria e Sicilia) quattro delle seguenti attività culturali: lettura di almeno un libro, sport continuativo, concerti, spettacoli teatrali, visite a monumenti e siti archeologici, visite a mostre e musei, accesso a internet. Soki 4 scuole su 10 che possono fare affidamento su meno di un laboratorio ogni 100 studenti (che in Campania oscillano tra i 21,1% di Avellino e il 63,6% di Napoli). Solo il 17,4% degli istituti scolastici (1 scuola su 6), inoltre, è dotato di almeno una palestra in ogni sede (che in Campania diventa il 24,9% a Napoli, mentre nelle restanti 4 province scende sotto la media nazionale fino ad arrivare al 5,7% di Benevento) e sebbene quasi tutte abbiano una biblioteca, quasi 3 su 4 danno la possibilità di effettuare un servizio prestito (esattamente il 72,5% a livello nazionale, che in Campania scende in tutte le province, oscillando tra il 70,3% di Avellino e il 53,8% di Benevento) ma meno di un terzo del patrimonio librario risulta fruibile (in Campania tutte le province scendono sotto la media nazionale del 31,1%, fino ad arrivare al 12,9% di Benevento) Tra i fenomeni che condizionano la scuola di oggi, accanto alle povertà socio-economiche, c’è la denatalità: in cinquanta anni gli under 15 sono passati da 12 a 8 milioni, perdendo circa un terzo della popolazione in età della scuola dell’obbligo: l’Italia conta 165 anziani ogni 100 bambini sotto i 14, con un numero di over 65 che doppia quello dei giovanissimi in diverse province (in Campania sono 178 a Benevento e 168,9 ad Avellino). Livorno: rivolta in carcere, troppi letti in poco spazio e la cucina non funziona di Laura Montanari La Repubblica, 15 novembre 2017 Nella sezione di massima sicurezza monta la protesta. Ogni tre ore i detenuti sbattono le forchette sulle sbarre. Ora i reclusi minacciano di rifiutare il cibo se la situazione non cambierà. Già adesso non vanno a scuola e non fanno attività fisica. Non vanno più a scuola, si rifiutano. Non passeggiano più nel cortile e non fanno nemmeno lo sport o le altre attività. Rifiutano pure di fare acquisti nella lista del “sopravvitto” all’interno del carcere. È una protesta pacifica quella che arriva dalle Sughere di Livorno. Va avanti da una decina di giorni e riguarda esclusivamente le tre sezioni di massima sicurezza, quella che ospita diversi ergastolani e detenuti con condanne di venti o trent’anni. Fra questi ci sono esponenti di spicco della criminalità organizzata. Da giorni va avanti anche la “battitura”. Per mezz’ora, tre volte al giorno i detenuti battono sulle sbarre e quel rumore assordante è il segnale della protesta. “I problemi sono diversi: alcuni che conoscevamo e che abbiamo già segnalato, altri nuovi” spiega Marco Solimano, garante per i diritti dei detenuti di Livorno. Uno dei motivi di scontento per esempio è “il letto aggiunto” o quella che viene chiamata terza branda. “Le celle sono per due, ma per il problema del sovraffollamento in molte, “circa nel sessanta per cento dei posti” è stata aggiunta una persona. E questo, spiega Solimano, crea un grave scontento. “Poi c’è un altro problema, la questione della cucina interna: è nuova, i lavori sono finiti due anni fa ma non è mai stata inaugurata perché i pali di sostegno dell’edificio sarebbero più piccoli di quelli previsti dalle normative e quindi serve un altro intervento”. Nella protesta che coinvolge al momento 120 detenuti, soltanto quelli della massima sicurezza, su un totale di 240, sono entrate altre richieste e una minaccia: quella di rifiutare il cibo, di proclamare lo sciopero del vitto se la situazione non cambierà. Fra le ragioni dello scontento c’è la questione delle coperte e del computer. Per quest’ultimo la direttrice, Santina Savoca (che ieri abbiamo cercato di contattare ma senza riuscirci ndr), avrebbe deciso di applicare rigidamente le disposizioni dopo che mesi fa era stato scoperto che alcuni detenuti (poi trasferiti in un altro istituto) erano riusciti a violare le regole e ad avere delle connessioni Internet. L’accesso in rete in carcere è vietato e a maggior ragione in una sezione di massima sicurezza che ospita anche camorristi e mafiosi. “Le coperte - riprende il garante per i diritti dei detenuti - vengono fornite dall’amministrazione carceraria, ma alcuni detenuti preferiscono averne di più morbide. Al momento a Livorno sono concesse soltanto quelle della fornitura, chi non le può tollerare deve consegnare un certificato medico che attesti una allergia o una incompatibilità”. Altra questione sollevata in una lettera all’amministrazione da parte dei detenuti riguarda i colloqui con i familiari. In genere sono ore che vengono accumulate perché magari i parenti di questi detenuti vengono da lontano, spesso dal Sud, dalla Campania, dalla Calabria e della Sicilia. I detenuti chiedono di poter avere delle sedie con uno schienale al posto degli sgabelli cementati presenti oggi in parlatorio: “spesso abbiamo familiari anziani, non ce la fanno a stare seduti si quegli sgabelli”. La situazione in quelle sezioni delle Sughere è molto tesa anche se la protesta al momento è pacifica. Ieri il provveditore Toscano Antonio Fullone era a Livorno ed è andato a visitare la struttura per rendersi conto di persona di quello che sta accadendo. Milano: i “giovani adulti” del carcere Beccaria di Franco Vanni La Repubblica, 15 novembre 2017 Condannati da minorenni ora stanno in cella con i ragazzini, anche a 25 anni. Dici carcere minorile e immagini detenuti ragazzini. Adolescenti che hanno sbagliato, e che il sistema penitenziario cerca con tutte le forze di restituire alla società. È vero, ma non del tutto. E rischia di esserlo sempre meno. Un decreto legge del 2014, applicato dall’anno successivo, ha infatti stravolto la natura e le dinamiche degli istituti penitenziari per i minori, disponendo che chi viene condannato per reati commessi prima dei 18 anni sia rinchiuso insieme a chi maggiorenne non è ancora. Nel linguaggio carcerario, i maggiorenni richiamati in carcere si chiamano “giovani adulti” e hanno fino a 25 anni. Fino a due anni fa, il limite massimo di età era di 21 anni. All’anagrafe del Beccaria i giovani adulti sono 14 su una cinquantina di ospiti. Quasi uno su tre. E gli effetti sulla quotidianità della vita dentro le mura hanno aggravato “una realtà già di difficile gestione”. A lanciare l’allarme è la procura presso il tribunale per i minorenni, guidata da Ciro Cascone, che nella relazione annuale sulla giustizia minorile scrive: “L’espiazione della pena in istituto minorile fino ai 25 anni di età, apprezzabile in astratto e in linea con la normativa internazionale, è rimasta un intervento isolato”. Un provvedimento attuato “inserendoli nelle strutture esistenti insieme ai ragazzi ancora minorenni, senza la realizzazione di apposite strutture”. La procura conclude: “Come al solito le riforme a costo zero rischiano di produrre risultati scarsamente efficaci, se non, qualche volta, dannosi”. La convivenza fra quindicenni in custodia cautelare e venticinquenni carcerati di lungo corso sembra nuocere agli uni come agli altri, nonostante il Beccaria resti un esempio in tutta Italia per l’offerta di attività, dentro e fuori il carcere. Don Claudio Burgio, cappellano dell’istituto, spiega: “Anche se la struttura negli anni ha offerto loro molte possibilità di recupero, il fatto di non andare a scuola rende la vita in carcere per i giovani adulti molto simile a quella di coloro che stanno nelle carceri per maggiorenni. Frequentano laboratori, certo, ma più che altro aspettano la fine della pena”. E rappresentano, agli occhi dei minorenni, un modello molto diverso da quello che dovrebbe essere il detenuto in carcere minorile. “Come naturale, spesso i ragazzini prendono i più grandi a esempio - dice Robert Ranieli, avvocato penalista specializzato nell’assistere giovani carcerati. Rischiano di sviluppare la concezione sbagliata secondo cui il carcere è un luogo in cui la vera occupazione è la conta dei giorni che mancano alla libertà. E non, come dovrebbe, un ambito protetto che aiuti a rientrare in società”. Per quanto riguarda il Beccaria, una soluzione (necessariamente temporanea) alla convivenza di minori e giovani adulti arriva dalla difficile situazione dello storico edificio di detenzione. Da oggi, infatti, il complesso malandato che ospitava celle e aule di laboratorio è stato chiuso. Nella nuova ed efficiente ala di detenzione troveranno posto solo trenta dei cinquanta detenuti attuali. La precedenza viene data ai minori, soprattutto a coloro per cui non è ancora possibile il collocamento in comunità. Quindi i maggiorenni in questi giorni saranno trasferiti altrove. Alcuni saranno smistati in altre carceri minorili in Italia, altri nei penitenziari ordinari, come loro stessi auspicano e chiedono da tempo, stanchi di “dovere vivere fra i ragazzini”. Ma in futuro, quando gli interventi di manutenzione restituiranno alla struttura la sua capienza fisiologica, anche il Beccaria dovrà tornare a ospitare quei “giovani adulti” che negli ultimi anni sono progressivamente cresciuti di numero. Simone Pastorino, operatore di Comunità Nuova che da tredici anni lavora con i ragazzini del Beccaria, spiega: “La legge aveva un suo senso, ma nell’applicazione si è perso il significato. Il Beccaria ha sempre offerto ai giovani adulti tutte le possibilità, in linea con una tradizione nobilissima. Il problema spesso è la loro risposta. Hanno risposto positivamente ai programmi di recupero soprattutto coloro che mai in precedenza avevano conosciuto il carcere”. Il meccanico di 23 anni vuole andare a Bollate Quando sono arrivati i carabinieri, stava riparando uno scooter. Lo faceva ormai da anni, senza contratto ma con mestiere. Ahmed - il nome è di fantasia, come altri elementi che lo renderebbero riconoscibile - era sicuro che per chiudere col passato bastasse sapere montare una marmitta, pulire un carburatore, arrivare presto in officina e finire tardi la sera. Ma non è così semplice: se a 17 anni ti hanno denunciato per spaccio, il processo va avanti. E se nemmeno rispondevi al telefono all’avvocato d’ufficio, succede che alla condanna in primo grado non segua appello. Così quella pena a tre anni diventa definitiva. A 23 anni compiuti Ahmed si trova rinchiuso al Beccaria. Ora che la vecchia ala è stata chiusa, spera di essere trasferito al carcere di Bollate, con quelli della sua età. Troppo a lungo è stato rinchiuso fra ragazzini con cui non ha molto a che spartire. È un adulto, un meccanico. Ma da quando lo ha visto andare via con gli uomini in divisa, il suo vecchio capo in officina non lo vuole più. Ogni tanto dà una mano nella piccola manutenzione del carcere. Al pomeriggio, quando gli va, segue i laboratori organizzati dalle cooperative. Ma l’impegno, quello vero, è farsi scivolare addosso il tempo che passa lento. Viterbo: uso e abuso di farmaci tra i detenuti, corso di formazione a Mammagialla tusciaweb.eu, 15 novembre 2017 Oggi, 15 novembre, nell’aula Rossi dell’istituto penitenziario di Viterbo si svolgerà un corso di formazione sull’uso e sull’abuso di farmaci e sostanze stupefacenti nella popolazione detenuta. Per affrontare a fondo tali problematiche, i sanitari (medici e infermieri) che si occupano di medicina penitenziaria nella Asl di Viterbo hanno ritenuto utile organizzare un evento formativo diretto agli operatori del campo, ma anche a coloro che sono interessati all’argomento, oggi molto attuale, del trattamento di patologie e dei comportamenti devianti assai diffusi nella popolazione detenuta. L’obiettivo dell’iniziativa è condividere strategie e protocolli per una migliore gestione di questi pazienti “difficili”, non dimenticando che lo scopo ultimo dell’operatore sanitario è, non solo il mantenimento quanto più possibile dello stato di salute del singolo, ma anche il recupero sanitario e sociale prima del ritorno in libertà. “La popolazione detenuta, che attualmente conta oltre 10,2 milioni di persone nel mondo e oltre 2 milioni nei Paesi della Unione europea - spiega il direttore dell’unità di Medicina penitenziaria territoriale, Roberto Monarca, è caratterizzata da un’alta prevalenza di persone con gravi condizioni di salute e, nonostante si tratti di una popolazione anagraficamente giovane, è gravata da un’elevata frequenza, rispetto alla popolazione generale, di disturbi psichici, di dipendenza da sostanze psicotrope, di malattie infettive e di alcune patologie croniche. L’alta prevalenza di disturbi mentali nelle carceri può essere associata al crimine e agli atti delinquenziali, ma esistono, su questo punto, pareri diversi: alcuni studi assumono che i problemi di salute mentale precedono la reclusione mentre altri, di parere opposto, sostengono che sia proprio l’esperienza carceraria a peggiorare le già precarie condizioni di salute mentale”. È, quindi, comprensibile come tra la popolazione detenuta sia ampio il ricorso al trattamento con farmaci psicoattivi come sia frequente l’abuso e l’uso incongruo (“misuse”) di questi farmaci. “Da un recente studio su “La Salute dei detenuti in Italia”, promosso dal Ministero della Salute in collaborazione con l’Osservatorio epidemiologico dell’Agenzia regionale di sanità della Toscana, a cui ha partecipato anche il nostro Istituto Mammagialla di Viterbo - prosegue Monarca -, risulta che i disturbi psichici affliggono il 42,9% dei detenuti presenti e che ogni detenuto assume in media 2,8 farmaci al giorno. I disturbi mentali da dipendenza di sostanze rappresentano circa il 50% dei disturbi psichici, seguiti dal 27,6% di disturbi nevrotici e reazioni di adattamento e dal 9% di disturbi alcool-correlati”. Tra le patologie legate alla dipendenza la più frequente è l’abuso di cocaina (il 23,5% del campione) seguita dalla dipendenza da oppioidi (16,6%). L’abuso di cannabinoidi colpisce il 12,5% del campione considerato. “Indubbiamente - conclude il direttore della Medicina penitenziaria territoriale della Asl - la gestione e il trattamento delle patologie psichiatriche, in un contesto difficile e pieno di problematiche come il carcere, è molto complicata, dovendo prevedere un approccio multidisciplinare e il coinvolgimento di componenti sanitarie, ma anche sociali, giudiziarie e politiche. Di questo parleremo nel corso di formazione”. Torino: rivolta all’ex Cie di corso Brunelleschi, immigrati appiccano il fuoco diariodelweb.it, 15 novembre 2017 Le cariche delle forze dell’ordine hanno permesso ai vigili del fuoco di entrare nella struttura e spegnere l’incendio. Intanto, fuori dall’ex Cie, un gruppo di appartenenti ai centri sociali si è ritrovato per manifestare e solidarizzare con i migranti. Notte di fuoco all’ex Cie di corso Brunelleschi: intorno alle 21:30, un gruppo di detenuti ha dato vita a una rivolta nel centro di permanenza e rimpatrio per immigrati non regolari. Alcuni ospiti ha incendiato materassi e arredi vari in nove stanze della struttura, costringendo i vigili del fuoco a intervenire spegnere le fiamme. La situazione, già di per sé critica, si è aggravata quando i mezzi dei vigili del fuoco sono entrati nella struttura: i detenuti gli sono andati incontro con fare minaccioso, costringendo la polizia ad effettuare alcune cariche di alleggerimento. Gli agenti hanno bloccato gli immigrati e consentito così ai pompieri di fare il loro lavoro in assoluta sicurezza. Intanto, fuori dai cancelli dell’ex Cie, un gruppo di ragazzi appartenenti ai centri sociali si è ritrovato per manifestare e solidarizzare con i migranti: “Deportazioni forzate verso il paese d’origine, cibo scaduto, psicofarmaci fatti prendere a forza, cooperative che lucrano sul business dell’accoglienza e violenze dei secondini. Il centro di corso Brunelleschi va chiuso. Solidarietà ai ragazzi reclusi!” si legge sul profilo di Askatasuna. Dopo attimi di tensione, poco dopo le 22:30, si è tornati alla normalità. Bari: dalla scrittura espressiva un nuovo modo per trattare i disturbi mentali di Teresa Valiani Redattore Sociale, 15 novembre 2017 Parte dall’università di Bari il progetto gemellato con la New York University e che sta interessando 3 istituti di pena italiani. Gli obiettivi: promuovere la resilienza, testare il grado di disagio, ridurre il rischio di suicidi. Ed è in cantiere la creazione di un nuovo manuale. La scrittura espressiva come modello per promuovere la resilienza tra la popolazione penitenziaria, testare il grado di disagio, ridurre il rischio di suicidi e rilasciare effetti benefici sulla condizione psicofisica dei detenuti. Si chiama “MeNS SANA”, acronimo di Metodo Narrativo Sperimentale di Scrittura Autobiografica, Nosologia e Analisi, il progetto che parte dalla Puglia, coinvolge dirigenti penitenziari e ricercatori dell’università di Bari ed è gemellato con la New York University. Avviato all’istituto penale minorile del capoluogo pugliese e successivamente a quelli di Treviso e Acireale, tra circa un mese approderà nelle carceri per adulti di Lecce e Trani e vede, tra gli obiettivi di punta, la creazione di un nuovo manuale di trattamento, in linea con gli studi che si stanno compiendo anche oltreoceano. Nel ruolo di ricercatrice, Lydia de Leonardis, dirigente penitenziario del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), già alla direzione del carcere di Bari, ora in aspettativa proprio per sviluppare il nuovo progetto. “Collaboro da un anno con l’università - racconta la dirigente - e, dopo aver vinto un concorso di dottorato ho scelto volutamente il curriculum in Psicologia clinica e giuridica. Nel corso del lavoro svolto in carcere sono arrivata alla convinzione che dovremmo cambiare alcune modalità di trattamento, soprattutto di tipo tradizionale, e trovare soluzioni che siano molto più specialistiche. Questo sia per gli aspetti riabilitativi, per chi ha problemi fisici, sia per chi presenta deficit di tipo psichiatrico e psicologico. Mentre altri obiettivi riguardano le psicoterapie che possono essere realizzate in carcere, utili anche per un monitoraggio più attento ai rischi suicidari”. Il progetto parte dalla premessa che “tra i soggetti detenuti (adulti ed ancor più giovani) si registrano allarmanti tassi di problemi di salute mentale. In particolare, l’esposizione a traumi (ad esempio il maltrattamento) è un’esperienza fondamentale che amplifica il rischio per la delinquenza e la recidiva. Nonostante una profonda necessità di rispondere ai bisogni di salute mentale di questi soggetti reclusi, vi è una scarsità di trattamenti trauma-informati e centrati clinicamente”. Nel solo carcere di Bari (dati 2015-2016) si è registrata un’incidenza di disturbi mentali pari ad un quarto della popolazione: su 400 detenuti 100 erano seguiti dal Servizio di Salute Mentale. Un numero molto alto che riguardava generalmente soggetti affetti da disturbi della personalità. I diversi step del progetto: “Prima di tutto - spiega Lydia de Leonardis - realizziamo uno screening molto accurato con psicodiagnostici collaudati per verificare lo stato psicologico del soggetto. Poi si parte con il laboratorio legato a un modello sperimentato dal professor James W. Pennebaker dell’università del Texas negli anni ‘90 e che in tutti questi decenni è stato al centro di una serie di studi. L’invito alla scrittura autobiografica prevede la costituzione di 2 gruppi: quello di controllo e quello sperimentale. Il secondo è invitato a scrivere su un trauma profondo, non raccontato. I benefici sui partecipanti, testati con un monitoraggio delle condizioni cliniche, registrano un incremento delle difese immunitarie, il miglioramento dell’umore e, soprattutto, riusciamo a creare un setting interposto con questo foglio, abituando l’utente a confrontarsi col suo vissuto traumatico, a tirarlo fuori e a poterci lavorare come operatori. Attraverso una serie di esperimenti, i ricercatori hanno scoperto che quando i soggetti mettono in chiaro con le parole i loro sconvolgimenti, lo stato fisico e mentale migliora notevolmente”. Nella seconda fase del progetto si effettua un nuovo monitoraggio per riverificare le condizioni psicofisiche e le funzioni cognitive ed esecutive dei soggetti: “tutto quello - sottolinea la dirigente - che riguarda l’elaborazione e la rielaborazione dell’utente in termini psicologici. Attraverso questo tipo di informazioni, noi possiamo intervenire e creare un percorso che, dove occorre, è anche di tipo riabilitativo”. “Se riuscissimo ad estendere il progetto in tutti gli istituti - ipotizza la ricercatrice - si concretizzerebbe il più grande studio condotto per un modello trattamentale in carcere. Anche l’equipe del professor Pennebaker condusse un’importante ricerca nel ‘98 in un istituto di massima sicurezza degli Stati Uniti con un campione di 200 detenuti dell’alta sicurezza e molti malati psichiatrici. I risultati migliori furono rintracciati con i sex offender, soggetti di difficile trattamento, e questo ci potrebbe aprire la strada anche a nuove sperimentazioni per questa tipologia di detenuti ad alta recidiva”. Al centro del progetto, anche la creazione di un nuovo manuale di trattamento che la ricercatrice sta sviluppando insieme al dipartimento di Scienze della Formazione, di Psicologia e Comunicazione dell’università di Bari. “Crediamo molto a questo nuovo manuale - conclude la dirigente - che stanno elaborando anche negli Stati Uniti. Un’altra ricercatrice americana sta lavorando in questa direzione sui minori a rischio o con seri problemi di devianza e anche lei sta elaborando un documento per la fascia giovanile. Con la mia piccola equipe stiamo lavorando a una progettualità mirata su persone che sono portatrici non solo del disagio che prova chiunque sia chiuso in un carcere, ma anche di grandi sofferenze passate: traumi profondi che molto spesso sono alla base del comportamento deviante e di quello che desocializza e porta fuori dal tessuto familiare e sociale”. Casal del Marmo (Rm): nel carcere minorile nasce una “merendina” giornaledelrubicone.com, 15 novembre 2017 Il fagottino di pasta sfoglia ha un doppio ripieno, latte e cioccolato. Bianco e nero “perché dentro di noi c’è una parte bella e una brutta”. Lo hanno inventato e realizzato i giovanissimi detenuti dell’Istituto penale minorile di Casal del Marmo, a Roma, e per loro ha un sapore ancora più dolce: quello della libertà. Il sogno di diventare pasticceri e costruirsi oltre le sbarre una vita migliore passa anche per una merendina - dal marchio “Libere dolcezze” - creata nel corso di un progetto concepito dal carcere con la Asl Roma 1. Il 13 novembre dentro le mura di Casal del Marmo, la presentazione ufficiale di fine corso: in prima fila il governatore Nicola Zingaretti, il direttore della Asl Angelo Tanese e il capo dipartimento Giustizia Minorile Gemma Tuccillo, accolti dal direttore dell’Istituto Liana Giambartolomei, che grazie al progetto ha potuto riattivare il laboratorio interno di pasticceria già finanziato anni fa dalla Regione Lazio. Qui, per 5 mesi e sotto la guida di un esperto chef, i ragazzi hanno imparato l’arte dell’impastare e dell’infornare, realizzando tra l’altro il fagottino “Libere Dolcezze”. Poi, grazie al coinvolgimento della Antonelli Srl, la merendina è stata prodotta, confezionata (anche il logo del packaging è stato disegnato dai ragazzi del carcere dopo un concorso interno) ed è pronta per essere venduta. Al momento si può comprare, ha spiegato Giambartolomei, “nell’edicola di fronte al Colosseo, uno dei punti più frequentati d’Europa. Ora - il suo appello - sviluppiamo una migliore catena di distribuzione”. Appello raccolto dal governatore Zingaretti: “Il messaggio è arrivato al 100 per cento - ha detto - contate pure su di noi, siamo a vostra totale disposizione: state sicuri che faremo tutto quello che possiamo”. L’idea è quella di coinvolgere nella distribuzione del prodotto alcuni ospedali, magari iniziando dal San Filippo, che si trova a poche centinaia di metri dal carcere. “Anche questo - ha detto il dg Tanese - è servizio pubblico: questo progetto nasce da una lunga tradizione di collaborazione tra la Asl e Casal del Marmo. È un lavoro che ci arricchisce”. E arricchisce soprattutto i ragazzi del carcere, che si raccontano in un video e di persona, durante la festa nella palestra di Casal del Marmo. Alle loro spalle furti, rapine, situazioni familiari drammatiche. Di fronte a loro, spesso, altri lunghi anni di Istituto. “Vuoi stare sempre alla finestra a fumarti la sigaretta o vuoi imparare qualcosa?”, mi ha chiesto lo chef - racconta uno di loro - e io ho risposto che volevo imparare. La speranza passa anche per il sacco della farina, o il barattolo dello zucchero. Oggi sorridono: “Io - dice un altro detenuto - pensavo che il mio tempo fosse bruciato, invece non è vero. Questo è un brutto posto, ma ora penso di avere un bel futuro”. “Non è che se sbagliamo una volta nella vita - conclude uno dei ragazzi - allora dobbiamo essere esclusi”. Lodi: incontro sulle carceri “basta con l’ergastolo, una pena disumana” Il Cittadino, 15 novembre 2017 Molte testimonianze al Verri per l’incontro sulle carceri con il provveditore Pagano. Un’occasione di incontro tra due mondi diversi: da una parte, il Meic (Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale), dall’altra l’associazione Los Carcere. Le due realtà si sono confrontate sul messaggio che Papa Francesco ha rivolto a tutta la società, un messaggio in cui il Santo Padre ha ribadito a gran voce la necessità di lavorare contro il populismo penale, contro la giustizia vendicativa predicata da una parte del mondo dell’informazione, contro la tortura, contro la pena di morte e quella “pena di morte nascosta” che è l’ergastolo. La serata, che si è tenuta al liceo Verri davanti ad un folto pubblico, ha visto l’intervento di Luigi Pagano, provveditore per l’amministrazione penitenziaria di Regione Lombardia, di Ornella Favero, direttrice della rivista Ristretti Orizzonti, il più importante periodico legato al mondo carcerario, Bruno Monzoni e Lorenzo Sciacca, due redattori di Ristretti Orizzonti. A moderare l’incontro, Cecco Bellosi, direttore dell’associazione comunità Il Gabbiano, che ogni anno ospita un centinaio di detenuti in misura alternativa. I due redattori di Ristretti Orizzonti hanno portato la propria esperienza di carcerati, raccontando di come sia stato inutile il carcere duro, e di come abbiano iniziato a maturare un cambiamento solo quando inseriti in un progetto. Luigi Pagano, che è sicuramente un illuminato nel vasto mondo delle istituzioni che ruotano intorno alla giustizia, ha esordito dicendo che la vera rivoluzione consiste nell’applicare le norme: “Basti pensare a quei ventimila carcerati con pena inferiore ai tre anni, che dovrebbero essere assegnati a misure alternative ma non lo sono, perché sono poveri in termini economici e di relazioni, perché non hanno nessuno ad accoglierli. Oppure alle dimensioni regolamentari delle celle che non vengono rispettate, al sovraffollamento, alle condanne ricevute per trattamento degradante e disumano”. “In attesa di abbandonare definitivamente lo strumento anacronistico del carcere - ha concluso Pagano, bisogna fare il possibile perché la detenzione non rimanga un intervento fine a se stesso” Rems, un patto tra Stato e Regioni di Raffaele Barone, Roberto Mezzina e Pietro Pellegrini Il Manifesto, 15 novembre 2017 Accordo su quasi tutti i punti, in particolare quelli riferiti allo statuto della “persona con misura di sicurezza” (non più “internato”), con la scomparsa di ogni riferimento al regolamento penitenziario. Il 24 ottobre il Coordinamento Nazionale delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) è stato ricevuto dal sottogruppo di lavoro del Ministero della Sanità e delle Regioni. Il coordinamento si è costituito con l’obiettivo di vigilare sulla piena realizzazione della legge 81/2014 e valorizzare le buone pratiche che in alcune regioni si sono avviate con la chiusura degli Opg e l’apertura delle Rems. Il radicamento territoriale, in connessione con tutta la rete dei servizi, è forse il cambiamento più significativo. In questa prospettiva la Rems non sostituisce in alcun modo l’Opg, tanto che i criteri d’invio, l’accesso, la cura, la dimissibilità sono tutti elementi che nella legge 81 connotano in maniera innovativa le strutture che accolgono pazienti in misura di sicurezza detentiva (da considerare “residuale” rispetto ad altre forme di misura di sicurezza) e con le quali risulta inconciliabile il regolamento penitenziario dell’Opg. Ciò in una situazione in cui, purtuttavia, il codice penale e il codice di procedura penale restano ancora inalterati: persiste il “doppio binario”, il concetto di incapacità e di non imputabilità esclude “il folle reo” dal normale percorso giudiziario. La misura di sicurezza “detentiva”, nonostante che le sentenze della corte costituzionale la abbiano parzialmente modificata, si basa sul riconoscimento della pericolosità. La persistenza dell’incapacità e della pericolosità come figure giuridiche di riferimento rafforza la contraddizione tra cura e custodia, già propria del manicomio civile. Una contraddizione che piuttosto che scomparire si trasforma in un equilibrio da gestire con intelligenza. Il clima dell’incontro è stato positivo con la disponibilità ad accogliere le proposte che dovranno essere confrontate anche con altri interlocutori, il Ministero della Giustizia e il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. È stata accolta la richiesta del Coordinamento di essere consultato su tutte le questioni che riguardano l’applicazione della legge 81/2014, così per la prima volta potranno aver voce in capitolo gli operatori che si trovano in prima linea a gestire una serie di contraddizioni e difficili equilibri tra i diversi poteri. Vi è stato accordo su quasi tutti i punti, in particolare quelli riferiti allo statuto della “persona con misura di sicurezza” (non più “internato”), con la scomparsa di ogni riferimento al regolamento penitenziario; su una visione del sistema di accesso che vede la Rems come “soluzione residuale” rispetto alla prevenzione e alla messa in campo di alternative da parte dei Dipartimenti di Salute Mentale; alla visione stessa della Rems non come luogo chiuso in sé, ma come insieme di servizi che si integrano tra loro; sulla globalità del piano di cura e del “progetto terapeutico riabilitativo individuale” che comprende le uscite sul territorio per relazioni sociali e lavorative e non solo singoli permessi. Si è fatto inoltre riferimento alla figura del garante delle persone private della libertà; alla facilitazione di un “cruscotto operativo regionale interistituzionale” con la Magistratura e il Dap, che eviti l’assegnazione casuale alle Rems e fornisca soluzioni alternative concordate; all’abolizione della precisazione sui livelli di sicurezza, all’esclusione dei sanitari da qualsiasi atto o pratica che non siano di rilevanza sanitaria e terapeutico-assistenziale. Gli esiti dell’incontro saranno discussi in una riunione sul tema che si terrà a Trieste il 17 novembre in occasione della conferenza internazionale The right [and the opportunity] to have a life (Trieste 15 - 18 novembre) promossa dal Dipartimento di Salute Mentale in collaborazione con l’Oms (triestementalhealth.org). Vergogna Italia, l’accordo sui migranti con la Libia “è disumano” di Adriana Pollice Il Manifesto, 15 novembre 2017 L’Onu accusa l’Europa. L’Alto commissario delle Nazioni Unite attacca la politica Ue e il piano Minniti: “La sofferenza nei campi di detenzione è un oltraggio alla coscienza dell’umanità”. La collaborazione tra Ue e Libia per fermare il flusso di migranti è “disumana”. Così l’ha bollata ieri in una nota l’Alto commissario Onu per i diritti umani, il principe giordano Zeid Raad al-Hussein, che ha poi aggiunto: “La politica dell’Unione europea di sostegno alla Guardia costiera libica perché intercetti i migranti e li consegni alle terrificanti prigioni in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità. Il sistema di detenzione per migranti è irrecuperabile: una situazione già disperata è diventata catastrofica”. L’accusa si fa più esplicita quando Zeid Raad al-Hussein spiega: “La comunità internazionale non può pretendere di risolvere migliorando le condizioni di reclusione. I prigionieri non hanno alcuna possibilità di contestare la legalità della loro detenzione e non hanno accesso a un aiuto legale”. L’Alto commissario ha chiesto la depenalizzazione dell’immigrazione irregolare perché “solo le alternative alla detenzione possono salvare le vite dei migranti”. Secondo il dipartimento libico per il “contrasto all’immigrazione illegale” (che dipende dal ministero dell’Interno libico), 19.900 persone sono trattenute in strutture sotto il suo controllo, contro le 7mila di metà settembre. “L’Ue non ha prodotto nulla per ridurre gli abusi subiti dai migranti” ha proseguito l’Alto commissario. Una donna sub-sahariana ha raccontato allo staff Onu, che a novembre ha visitato quattro strutture: “Sono stata portata via dal centro di detenzione e stuprata in una casa da tre uomini, compresa una guardia del centro”. Donne, uomini e bambini raccontano: “Ci picchiano solo perché chiediamo cibo o cure mediche o informazioni”. Un uomo rinchiuso nel centro di Tarik al-Matar, dove in 2mila vivono ammassati in un hangar senza bagni funzionanti, ha spiegato: “Non dormiamo, abbiamo malattie, ci manca il cibo, non ci laviamo per mesi. Moriremo tutti, è troppo difficile sopravvivere all’odore di feci e urine”. Stupri e violenze accompagnano i migranti fin dall’inizio del loro viaggio, ricorda l’Onu: “Sono già stati esposti a rapimenti, torture, lavori forzati, sfruttamento, gravi violenze fisiche, fame e altre atrocità nel corso dei loro viaggio attraverso la Libia nelle mani dei trafficanti”. Una donna della Costa d’Avorio ha raccontato: “Durante il viaggio uomini armati hanno scelto sei donne, quando mi sono rifiutata sono stata schiaffeggiata e mi hanno puntato una pistola alla testa. Quattro uomini mi hanno stuprata. Ero all’inizio di una gravidanza, ho sanguinato molto, penso di aver perso il bambino”. Ue e Italia, ricorda l’Onu, stanno fornendo assistenza alla Guardia costiera libica per intercettare le imbarcazioni, anche in acque internazionali, “nonostante i timori che questo condanni più migranti a una detenzione arbitraria, illimitata, atroce. Non possiamo essere testimoni silenziosi di questa schiavitù - ha concluso l’Alto commissario - in nome della prevenzione dell’arrivo sulle coste europee di gente disperata e traumatizzata”. L’Onu chiede poi alle autorità libiche di porre fine alle violazioni dei diritti umani. Dall’Ue ieri si è cercato di ridimensionare la portata delle accuse: “L’Unione europea lavora in Libia in cooperazione con l’Onu, la priorità è salvare vite e combattere i trafficanti - spiega una portavoce - per creare canali legali verso l’Europa per chi necessita protezione internazionale. La Ue finanzia Oim, Unhcr e Unicef per migliorare le condizioni in Libia. I campi di detenzione devono essere chiusi, la Ue chiede che i migranti vengano portati in centri di accoglienza con standard umanitari internazionali. Solleviamo regolarmente questo argomento con le controparti libiche”. Nessuna marcia indietro neppure sulla marina libica: “Abbiamo addestrato 142 membri della Guardia Costiera. Fa parte dell’Operazione Sophia”. Proprio ieri la Guardia costiera libica è tornata ad attaccare le Ong chiedendo più fondi all’Ue. Si è fatto sentire anche il presidente del parlamento europeo, il forzista Antonio Tajani: “Oggi sarà presa la decisione ufficiale, una delegazione del Parlamento europeo si recherà in Libia per verificare la situazione. L’azione contro l’immigrazione illegale non può essere confusa con la violazione dei diritti umani”. Migranti. Viminale e Palazzo Chigi in imbarazzo, dubbi sulla strategia verso Tripoli di Francesco Grignetti La Stampa, 15 novembre 2017 È il giorno del silenzio più glaciale, nei palazzi del governo italiano. Le immagini raccapriccianti che la Cnn ha raccolto a Tripoli, dove i migranti africani sono ridotti in schiavitù e venduti all’asta, sommate allo sdegno del commissario ai Diritti umani delle Nazioni Unite, il principe giordano Zeid Raad al-Hussein (“La politica dell’Ue è inumana”) sono state una sorta di bomba atomica. Dalla sinistra più critica verso le politiche del governo, e dal M5S, parte l’atteso attacco al ministro dell’Interno Marco Minniti, che sull’accordo con la Libia ci ha messo la firma. E però il Viminale sceglie la politica del silenzio più assoluto: è il momento di schivare il colpo, non di reagire. Anche Palazzo Chigi preferisce tacere. E d’altra parte che cosa dire di fronte a immagini che parlano da sole e descrivono una realtà al di là dell’immaginabile e dell’orrorifico? Il governo Gentiloni, grazie alla dottrina Minniti, era riuscito a raffreddare le tensioni in patria, visto che gli sbarchi negli ultimi tre mesi erano calati del 75%. Ma la dura strada di sostenere le forze libiche nel contrastare le partenze - pur coinvolgendo l’intera Europa, sia a livello di ministri dell’Interno, sia di capi di Stato e di governo, sia di Commissione - non è mai stata digerita dal mondo cattolico radicale e solidaristico. Figurarsi ora che ci si avvicina ad elezioni. Unica a parlare, solo in serata, la Farnesina che rilascia un comunicato sulla falsariga di quanto già dichiarato dall’Ue: “Sin dal primo momento l’Italia ha posto in tutte le sedi il problema delle condizioni umanitarie dei centri di accoglienza in Libia. Sono mesi che chiediamo a tutti i player coinvolti di moltiplicare l’impegno e gli sforzi in Libia per assicurare condizioni accettabili e dignitose alle persone presenti nei centri di accoglienza. L’auspicio del ministero degli Affari Esteri è che ora si passi dalla denuncia e consapevolezza “a un’azione rapida, efficace e imprescindibile dalla parte dei diritti e della dignità delle persone”. Questa dei centri di detenzione in Libia, sia quelli legali, sia quelli illegali, è in verità un cruccio antico del governo italiano e del ministro Minniti. Non c’è comunicato in cui non si sottolinei la necessità per il governo libico di allinearsi agli standard di rispetto dei diritti umani. Già, ma quale governo? È stata Roma, peraltro, a insistere più di tutti con l’Onu affinché venissero avviate missioni operative sul suolo libico dell’Oim (Organizzazione per le migrazioni) e Unhcr (Protezione dei rifugiati) ed è stata la Ue a pagare le spese. Se così non fosse stato - fa notare regolarmente il Viminale - le Nazioni Unite non avrebbero potuto verificare quel che accade a Tripoli e anche documentare gli orrori. Sempre grazie alle missioni volute fortemente da Roma e da Bruxelles, l’Unhcr ha potuto identificare i primi 1000 meritevoli di protezione internazionale e che tutti i Paesi del mondo sono chiamati ad accogliere (ma finora solo il Niger ha accolto i primi 25). E alla data del 1° novembre, l’ufficio libico di Unhcr aveva registrato i nominativi di 43.608 richiedenti protezione. Ora si attendono le prime mosse nel quadro delle politiche europee. Ieri il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, ha dichiarato: “I centri di detenzione vanno chiusi”. Oggi a Ginevra l’incontro con l’Alto commissario per i diritti umani. Migranti. Il generale libico Haftar denunciato all’Aja per crimini di guerra di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 15 novembre 2017 La sicurezza in Libia non migliora e la Guardia costiera di Tripoli ora dà forfait sullo stop ai migranti. Come spesso i despoti, il generale libico Belqasim Kalifa Haftar ha un’espressione stereotipata scolpita in volto che si adatta molto bene come maschera del potere dai molti travestimenti. Così, mentre l’anno scorso si faceva vanto di indossare pesanti cappelli di pelo con le orecchie nei suoi ricorrenti viaggi a Mosca a convegno con gli alleati russi, ora fa mostra di sè, con quella stessa faccia inespressiva, circondato da emiri in veste bianca e kefia, i suoi nuovi sponsor. L’uomo forte della Cirenaica, che si propone di governare la Libia e si dice pronto anche a fermare per conto dell’Italia e dell’Europa il flusso di migranti sulla rotta del Mediterraneo, era infatti in visita ieri al Dubai Air Show, sua terza visita negli Emirati arabi uniti negli ultimi sei mesi. Contro di lui, proprio ieri mentre era a Dubai, un pool di avvocati europei dei diritti umani con base a Londra, lo studio intitolato “Guernica 37” in memoria del primo bombardamento a tappeto di una città durante la guerra civile spagnola, ha presentato una richiesta di avvio di indagine penale per crimini di guerra. I legali chiedono al Tribunale dell’Aja che Haftar sia messo sotto accusa per stragi intenzionali di civili, omicidi, torture e deportazioni. Ma niente lascia pensare per il momento che l’iniziativa dello studio Guernica 37 avrà un esito in termini brevi. La procuratrice delll’Icc, la stessa Fatou Bensouda che in estate presentò un vero e proprio atto d’accusa contro le milizie che continuano a combattersi e a contendersi il contrabbando di migranti e petrolio, ha appena presentato la sua nuova relazione sulla Libia, nella quale si ricordano i mandati di cattura spiccati dall’Aja nei confronti del generale gheddafiano Senussi, del secondogenito del Colonello Saif Al Islam Gheddafi per crimini commessi durante la guerra civile del 2011 e nei confronti del generale Mahmoud al Werfalli al comando delle forze speciali di Haftar per l’assassinio di 33 prigionieri legati. Un episodio, questo, che non risale alla guerra ma a tempi molto più recenti: l’anno scorso. La procuratrice menziona Haftar solo per i suoi ringraziamenti al Tribunale internazionale dell’Aja, ma ricorda anche che tutti e tre i ricercati dall’Icc dovrebbero essere consegnati dallo stesso Haftar. E le accuse dello studio legale di Londra, anche se meno precise, si riferiscono agli stessi uomini e alle stesse circostanze. Nel frattempo i partner che l’Italia si è scelta per fare il lavoro sporco che prima della guerra faceva Gheddafi - fermare i migranti - sono sempre più in difficoltà. Il portavoce della Guardia costiera del governo Serraj, Ayoub Qasem, annuncia da Tripoli tramite l’agenzia di stampa italiana Nova che dall’anno che viene, “in mancanza di aiuti economici”, il personale impegnato sulle coste nella caccia ai barconi verrà radicalmente diminuito. Qasem sostiene di non avere mezzi sufficienti per salvare i naufraghi e accusa le Ong come Sea Watch di intromissione e mancanza di collaborazione. Antigone e le leggi non scritte: i corpi di quei migranti parlano di noi di Carola Susani Il Dubbio, 15 novembre 2017 Lo scontro navale fra Ong e libici: il fronteggiarsi impari tra chi, senz’armi, vuol salvare e traghettare in Europa le persone che fuggono e chi, su incarico italiano, vuole riportarle indietro senza avere alcun riguardo. Leggevo stamattina di quello che i giornali chiamano scontro navale fra Ong e Libici, il fronteggiarsi impari tra chi senz’armi vuol salvare e traghettare in Europa le persone che fuggono e chi su incarico italiano vuole riportarle indietro senza avere alcun riguardo per il loro corpo, per la loro vita, per la loro incolumità. Pensavo ad Antigone, anche se è per molto meno che Antigone si oppone a Creonte, molto meno appariscente è la colpa di suo zio il re. Ma Antigone ci può aiutare a capire, forse a reagire. Credo che in questo momento un gran numero di persone fra coloro che aiutano chi arriva da lontano, in difficoltà, senza tetto o cibo, stia pensando ad Antigone. Ho parlato di Antigone a fine settembre in occasione del festival Inquiete, che radunava e metteva in dialogo con la città di Roma una quantità di scrittrici, organizzato dalla libreria Tuba e da Francesca Mancini. Ne ho parlato per introdurre un video del gruppo teatrale Motus che faceva incontrare due attrici, Judith Malina dello storico Living Theater e Silvia Calderoni, e le loro Antigoni, The plot is Revolution. L’Antigone di Sofocle mette in scena un conflitto, il conflitto fra Creonte, zio di Antigone e re, e Antigone, sua nipote, figlia di Edipo. L’antefatto, ricorderete, vede i due fratelli di Antigone, Eteocle e Polinice in conflitto per il dominio sulla città di Tebe. Tebe, nelle mani di Eteocle, è assediata da Polinice e dai suoi alleati, Polinice vuole prendersi Tebe con la forza, uno scontro fratricida li lascia per terra morti entrambi. Creonte che ha il potere a Tebe decreta che Eteocle abbia un funerale in gran pompa, che il corpo di Polinice al contrario sia abbandonato alle fiere e agli uccelli e che chiunque si azzardi a seppellirlo, a rendergli onori funebri, sia destinato alla morte. Creonte fa un uso politico della morte. Probabilmente ci sono stati re, prima che la storia di Creonte venisse narrata, che hanno fatto un uso politico della morte, di sicuro è stato fatto dopo. Esporre il nemico morto, riemerge come gesto politico nelle grandi fratture. Trattare i corpi dei defunti come rifiuto è un oltraggio estremo che non è mai mancato, nella Shoah, nella Seconda guerra, e via via venendo fino a noi negli stermini e nelle guerre che abbiamo conosciuto. L’uso politico dei corpi vivi e morti è segno eminente della nostra epoca, un’epoca che inizia con una frattura che non smette di dolere, la Prima guerra mondiale. Ma c’è Antigone. Antigone riaffiora, ritrova vita e senso, nei momenti in cui si mostra la frattura, nei momenti in cui si giunge a tal punto nell’oltraggio verso gli esseri umani. Jean Anouilh scrive un’Antigone nel 1941, la mette in scena nel 1943, Bertolt Brecht nel 1948. Tornando a Tebe, Antigone, a costo della sua vita, decide di rendere onori funebri e di seppellire il fratello. Si sente addosso la responsabilità di onorare il cadavere in quanto è la sorella del morto, ma i gesti che va a compiere sono i gesti che vanno compiuti per ciascun essere umano, non si abbandonano i corpi alle intemperie e alle bestie, lo impongono le leggi che vengono prima di tutte le leggi, ci dice Antigone, leggi non scritte. Sono leggi però che l’intera Tebe conosce, il coro sa di cosa Antigone sta parlando, anche Creonte lo sa. Maria Zambrano, nell’introduzione al testo teatrale La Tomba di Antigone parla di quelle leggi come della “prima rivelazione”, leggi che ci indicano la strada. Zambrano scrive del ricorrente riaffiorare nella storia di figure che ricordano e rivendicano quelle leggi, sono persone d’ogni genere e condizione che si ritrovano addosso la “vocazione” di Antigone. Dev’essere la mia disposizione di questi tempi, ma ritrovo la provocazione di quelle leggi non scritte di continuo. Le ritrovo senza sorpresa nel mondo greco. Non sono né una filologa, né una studiosa di storia antica, ma l’anno scorso ho riletto più volte l’Odissea per farne una riscrittura per ragazzi. Leggendo e rileggendo traduzioni (con particolare devozione per la traduzione poetica di Giovanna Bemporad) mi sono accorta ad osservare la vicenda di Ulisse in una chiave particolare, come se parlasse in modo deliberato delle leggi non scritte, del loro contenuto, di come Ulisse impari a rispettarle, a farsene carico. Precisando ancora: ho letto l’Odissea come se trattasse specialmente di un passaggio, quello fra il tempo in cui eravamo fiere di una specie particolare, predatori inauditamente efferati e un altro tempo, quello che ci vede pienamente umani. Questo tempo nuovo, che spesso somiglia appena a un dover essere, tempo che è sempre scosso, messo in tensione, incompiuto, sarebbe segnato al suo confine da quelle leggi che Zambrano chiama “la prima rivelazione”. Sono le leggi che rivendica Antigone. Seppellire i morti, dicevamo. L’Odissea parla del seppellimento. A casa di Circe un compagno di Ulisse ubriaco va a camminare sul tetto, cade e si rompe l’osso del collo. Ulisse andando verso il mondo dei morti ne lascia il cadavere insepolto. Seppellire i morti è gravoso, fa perdere tempo, è antieconomico, anche Ulisse preferirebbe lasciar perdere, ma gli tocca, prima di riprendere il cammino, tornare da Circe e onorare il corpo del compagno. Tra le leggi che fanno da diaframma labilissimo fra il tempo in cui eravamo le fiere della nostra specie e il tempo in cui siamo qualcos’altro, c’è n’è un’altra che attraversa l’intera Odissea: è la legge dell’ospitalità. Quella legge nell’Odissea suona più o meno così: se il mendicante, lo straniero, bussa alla tua porta, c’è Zeus accanto a lui che l’accompagna. Non è una legge semplice, persino i civilissimi Feaci hanno paura dei mendicanti, degli stranieri; la legge non scritta, ma a tutti nota, permette loro di vincere la paura. Il ritorno di Ulisse a Itaca è tutto improntato a questa legge, Ulisse si presenta in veste di mendicante straniero, ed è questa trasmutazione che gli permette di distinguere i suoi dagli altri: gli stessi che lo rispettano da mendicante, sono quelli che lo onorano da re; e viceversa: quelli che lo umiliano da mendicante, sono gli stessi che lo oltraggiano e tradiscono da re. Seppellire i morti, dare ristoro agli stranieri, ai viaggiatori, ai mendicanti, le leggi non scritte parlano con noi. Mi sono ritrovata a leggere il nostro tempo come un tempo in cui - come e più che in altri momenti della storia - negando le leggi non scritte, si violenta il confine, un tempo in cui affiora in mezzo a una sottile e pomposa patina di civiltà, il prima che non ha tempo, quello in cui non eravamo che fiere di una specie spaventata - ed efferata come nessun’altra al mondo. Da anni, più di un decennio, viviamo dentro questo mondo scosso, dal confine indebolito, il mar Mediterraneo, lo stesso solcato dalla zattera di Ulisse, ridotto a cimitero di corpi mai onorati, di recente ci siamo ritrovati di fronte divieti: è vietato - ci dicono in varie forme - dare cibo o rispetto o cura a chi ha bisogno, a chi è straniero. Così, senza volerlo (ci piacerebbe pensare di vivere in un tempo che non pretende tanto), ci ritroviamo richiamati alla responsabilità di Antigone, a farci carico di rispettare, costi quel che deve, quelle leggi semplici; c’è chi già lo fa, penso a Baobab Experience, per esempio; ma in Italia e in Europa, sono tanti.