Il carcere raccontato agli studenti con la campagna “A scuola di libertà” di Francesca Valente Redattore Sociale, 14 novembre 2017 Quinta edizione per la campagna di educazione alla legalità che fa riflettere i ragazzi su come si arriva a commettere reati, i comportamenti a rischio, la voglia di trasgredire; promossa dalla Conferenza nazionale volontariato e giustizia lo scorso anno ha coinvolto 15mila studenti e mille volontari. Parte il 15 novembre “A Scuola di Libertà: le scuole imparano a conoscere il carcere”, la campagna nazionale che mira a creare iniziative, momenti di riflessione e incontri per scoprire e mettere a confronto il sistema carcere con gli studenti. Giunta alla quinta edizione, la campagna è sostenuta da tutte le associazioni che in Italia si occupano di carcere ed è promossa dalla Conferenza nazionale Volontariato e Giustizia alla quale aderiscono 8 enti e 19 conferenze regionali e che vede impegnati quotidianamente oltre 8 mila volontari in esperienze di volontariato fuori e dentro gli istituti penitenziari. Le associazioni aderenti e attive sulle carceri del territorio si mettono a disposizione degli insegnanti più sensibili per costruire percorsi di educazione alla legalità in classe, partendo dalle testimonianze vive dei volontari, dei familiari e degli ex detenuti ed utilizzando un linguaggio oggettivo ma anche partecipato. L’intento è quello di far incontrare due mondi paralleli, per riflettere insieme sul confine ancora molto sottile di trasgressione e illegalità, comportamenti a rischio e sulla violenza. Nell’ultimo anno sono stati coinvolti oltre 15 mila studenti e più di mille volontari in tutta Italia. Saranno definiti progetti specifici e filoni tematici con la partecipazione di più interlocutori, anche esterni (altre associazioni e volontari, docenti, collaboratori, ospiti), per approfondire il tema da più punti di vista. Quello scelto per questa quinta edizione è “Tra passione e indifferenza: passioni che ti svuotano la vita, passioni che te la riempiono”. Si toccheranno argomenti quali i comportamenti a rischio, la voglia di trasgredire, come si arriva a commettere reati, le pene, le differenze tra carcere per adulti e carcere minorile, la vita detentiva. Oltre agli incontri in classe, le scuole potranno ricevere gratuitamente giornali, dvd e manifesti prodotti per la campagna. Le scuole, i docenti e gli studenti che volessero aderire all’iniziativa a partire dalla seconda metà del mese di novembre possono contattare le Conferenze regionali, i cui recapiti sono riportati al seguente link: www.volontariatogiustizia.it/banner.asp?ID=24 Riforma penitenziaria, a Palazzo Chigi i primi decreti attuativi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 novembre 2017 Rita Bernardini e Deborah Cianfanelli confermano di voler continuare lo sciopero della fame. Approdati a Palazzo Chigi i primi decreti attuativi per l’approvazione dell’ordinamento penitenziario. Con una nota, l’Ufficio Legislativo del ministero della Giustizia ha fatto sapere di aver inviato a Palazzo Chigi i primi decreti legislativi previsti nell’ambito della riforma del sistema penale, decreti che hanno già ricevuto nei giorni scorsi il parere del Garante nazionale per i detenuti Mauro Palma. Nel contempo sono stati inviati al Garante, per il previsto parere, gli schemi di decreti legislativi riguardanti la giustizia riparativa e l’ordinamento penitenziario minorile. Appena ricevuto il parere, anche questi decreti saranno prontamente trasmessi a Palazzo Chigi. Prima dell’approvazione definitiva del Consiglio dei ministri, i testi saranno sottoposti, in un incontro, dal ministro Orlando alle organizzazioni sindacali. I primi decreti, quindi, dovranno passare al vaglio del Consiglio dei ministri - ancora non sono all’ordine del giorno - per dare l’ok e trasmetterli alle commissioni Giustizia del Senato e della Camera. Ci sarà, quindi, un ulteriore parere, e - come ha annunciato il ministero - saranno sottoposti alla visione dei sindacati di polizia, per poi ritrasmetterli al Consiglio che non dovrà fare altro che dare l’approvazione definitiva. Un corsa contro il tempo visto che siamo quasi a fine legislatura. Proprio per sollecitare la fine dell’iter dei decreti, continua lo sciopero della fame - oramai al 30esimo giorno - intrapreso da Rita Bernardini della presidenza del Partito radicale e da Deborah Cianfanelli, presidente del Comitato radicale per la Giustizia “Pietro Calamandrei”. La stessa Bernardini ha confermato di voler continuare l’azione non violenta in attesa che i decreti vengano messi all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri. Riforma delle carceri: lite tra i penalisti di Napoli e il Sottosegretario Migliore di Viviana Lanza Il Mattino, 14 novembre 2017 Il tono è stato severo, la replica dura. Il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore ha bacchettato l’intervento del presidente della Camera penale di Napoli, Attilio Belloni. “Sfiora la calunnia” ha affermato il rappresentante del governo. L’occasione è statala giornata della legalità della pena in cui è stata presentata la guida aggiornata su diritti e doveri dei detenuti. I temi dibattuti sono stati quelli della situazione nelle carceri, dell’esecuzione penale e della riforma dell’ordinamento penitenziario, la cosiddetta “riforma Orlando”. È stato Belloni il primo a prendere la parola, elencando dati sul sovraffollamento secondo cui in Campania si registrano 1.142 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare, con Poggioreale a quota 2.219 a fronte di 1.637 e il boom di detenuti in attesa di giudizio, e soprattutto in attesa di un processo di primo grado, e di indennizzi per ingiusta detenzione (300 a Napoli con una spesa complessiva di 4 milioni di euro). “È di nuovo emergenza e mi preoccupa - ha aggiunto l’avvocato Belloni - il ritardo con il quale il Ministero sta redigendo i decreti attuativi della riforma Orlando. Non vorrei che fosse un ritardo finalizzato alla scadenza della delega e spero che il sottosegretario ci assicuri che così non è”. E ha segnalato le criticità in tema di esecuzione penale: “Dovrebbe essere il terreno principale sul quale investire” ha detto, elencando le disfunzioni del Tribunale di Sorveglianza di Napoli dove “per assumere un’informazione ai terminali, nonostante il presidente Pangia si attivi in tutti i modi per la soluzione dei problemi, facciamo un’ora e mezza di fila per sapere se è stata presa una decisione, e la prima udienza viene normalmente rinviata perché non ci sono le informazioni”. I penalisti in platea hanno annuito con un applauso, il presidente del Tribunale di Sorveglianza Adriana Pangia ha confermato parlando di “disfunzioni, fascicoli che non si trovano, attese per avere notizie, la mancanza di un front-office” e assicurando che “è allo studio un programma per consentire ai difensori interessati di verificare le notizie estensibili”. Poi è arrivata la dura replica del sottosegretario alla Giustizia: “L’avvocato è disinformato, gli do qualche informazione in più - ha ribadito Migliore - Ciò che è stato fatto dal punto di vista normativo ed economico non ha precedenti negli ultimi trent’anni”. Migliore ha sottolineato gli interventi normativi, “sono provvedimenti strutturali e non spot”: la messa alla prova, l’approvazione del nuovo ordinamento penitenziario a completamento di una riforma che risale al 1975, l’aumento della paga dei lavoratori in detenzione, le ulteriori 900 assunzioni nella polizia penitenziaria, il potenziamento allo studio di assistenti sociali e psicologi. “Sfiora la calunnia - ha ribadito, parlando dell’intervento del rappresentante dei penalisti - nel dire che c’è l’intento volontario di ritardare l’attuazione dei decreti. I decreti di delega ci sono, una parte consistente dei decreti ha già il concerto del garante nazionale ed è ora all’approvazione del Consiglio dei ministri e altri decreti saranno consegnati di qui a qualche giorno. Il nostro intento - ha concluso il sottosegretario ponendo l’accento sul lavoro delle commissioni - è di accelerare i tempi, non abbiamo interesse di attendere passivamente la conclusione della legislatura”. Alla dura replica del sottosegretario alla Giustizia, la camera penale di Napoli ha risposto con un comunicato: “Il tono è inaccettabile. La Camera Penale - si legge - rivendicando il proprio ruolo di garante in difesa dei detenuti, invita per l’ennesima volta il ministero della Giustizia ad adottare ogni provvedimento utile alla risoluzione delle annose e ormai croniche problematiche legate all’esecuzione penale fornendo al Tribunale di Sorveglianza di Napoli i mezzi e le risorse necessari”. Nessuno dei relatori ha negato i problemi legati a sovraffollamento e al rispetto dei diritti in carcere. Tutti hanno lodato l’iniziativa della guida che, tradotta in cinque lingue e distribuita nelle carceri, illustrale regole e le tutele previste nella vita dietro le sbarre. L’opera è stata dedicata alla memoria di Adriana Tocco, la garante per i diritti dei detenuti deceduta nei mesi scorsi. La sua eredità è stata raccolta da Samuele Ciambriello intervenuto al dibattito assieme ai rappresentanti de “Il Carcere Possibile Onlus” presieduto dall’avvocato Sergio Schlitzer e della Commissione studio che ha lavorato alla guida, presieduta da Monica Mirante, magistrato di Sorveglianza, e composta dagli avvocati Elena Cimmino, Sabina Coppola, Angelo Mastrocola e Carla Maruzzelli. Sono intervenuti, inoltre, l’avvocato Salvatore Impradice per l’Ordine degli Avvocati, l’avvocato Riccardo Polidoro per l’Osservatorio carcere delle Camere penali e componente di una delle Commissioni al lavoro per il Ministero, Rita Bernardini dei Radicali, il dirigente del Dap Domenico Schiattone. 41bis, il vetro divisorio nei colloqui con i minori di 12 anni non c’è dal 1998 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 novembre 2017 Lo ha chiarito la Sottosegretaria Chiavaroli rispondendo a un’interpellanza del M5S sulla Circolare Dap. “Nuova Circolare 41bis e smantellamento Gom, ennesimo regalo alla mafia!”. Così venerdì scorso ha scritto - tramite l’immaginetta studiata per essere virale - il deputato grillino Vittorio Ferraresi sulla sua pagina Facebook annunciando una interpellanza urgente al ministro della Giustizia. Detto, fatto. I parlamentari del M5S delle commissioni Giustizia e Antimafia, hanno presentato, sempre nella mattinata di venerdì, l’interpellanza attraverso i portavoce Giulia Sarti e lo stesso Vittorio Ferraresi. Un’interpellanza per provare a chiarire i punti che messi in fila disegnano, secondo i grillini, un vero e proprio smantellamento silenzioso del carcere duro. Punti che più volte sulle pagine de Il Dubbio sono stati sviscerati per far chiarire che non sono nuovi, ma sono stati semplicemente ribaditi nella recente circolare affinché le regole si uniformassero per tutti gli Istituti che ospitano il 41bis. Tra i vari argomenti propagandati dai detrattori della circolare come se fosse una novità, uno riguarda la “caduta del vetro divisorio per i bambini minori di 12 anni”. A dare una riposta netta su questo punto è stato il governo durante la seduta della Camera: la “caduta” del vetro divisorio c’è fin dal 1998. Ma andiamo con ordine. La circolare, insomma, non è proprio piaciuta al Movimento Cinque Stelle, perché - dice la deputata Sarti nell’interpellanza “di fatto allarga le maglie per i mafiosi detenuti: gli avvocati possono consegnare atti processuali su supporto informatico, ma nessuno ha tenuto conto che potrebbero diventare un mezzo per comunicare ordini all’esterno. Il Garante nazionale dei detenuti svolgerà colloqui riservati, disposizione che va contro la legge dato che non c’è nessuna norma dell’ordinamento penitenziario che possa permettere questa situazione. Sui garanti locali, regionali e comunali, non c’è chiarezza se possano effettuare visite o colloqui riservati dato che si parla di “incontri”, con tutti i rischi che ne derivano. La circolare allenta anche i controlli sulle telefonate, giornali e denaro, senza che vi sia un parere vincolante della Direzione distrettuale antimafia. Si prevede l’eliminazione del vetro divisorio nei colloqui con un minore, affermando il principio che i figli possano abbracciare i padri, con rischio di usare i figli per inviare “pizzini”. Sarebbe da sottolineare che i padri potrebbero fare scelte diverse, piuttosto che quella di delinquere se vogliono abbracciare i propri figli. La circolare introdotta oltremodo non ha avuto nessun passaggio in commissione Antimafia nonostante un anno e mezzo di lavori preparatori e d’interlocuzioni tra Dap, ministero della Giustizia e Garante dei detenuti. Di fatto quello che si sta creando è un indebolimento del 41bis, a danno dei cittadini e della sicurezza dello Stato”. La deputata Sarti, nella conclusione dell’interpellanza, insiste sul ruolo del Garante nazionale dei detenuti: “Viene in qualche modo modificata questa circolare, soltanto per permettere al Garante nazionale dei detenuti di avere ancora, fra virgolette, più potere di colloquio con i detenuti al 41 bis”. Eppure, anche in questo caso, non c’è nessuna novità. Il Garante Mauro Palma, infatti, ha replicato pubblicamente per ribadire che “il Garante nazionale ha da sempre accesso a colloqui riservati con tutte le persone private della libertà. Ciò sulla base della legge del 9 novembre 2012 di ratifica del Protocollo Opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti, fatto a New York il 12 dicembre del 2002”. Sempre Mauro Palma ricorda che il Garante nazionale, infatti, è stato designato dal governo italiano quale organismo nazionale per la prevenzione (National Preventive Mechanism - Npm) ai sensi della suddetta legge, nomina ratificata dalla Missione permanente in Italia delle Nazioni unite il 24 febbraio del 2014. In forza di tale ratifica il Garante nazionale ha poteri e obblighi previsti dagli articoli dal 17 al 23 del Protocollo stesso, che in base alla ratifica è legge dello Stato, ed esercita la sua funzione in maniera indipendente e cooperativa con le istituzioni dello Stato. “Fin dalla sua nascita, il Garante nazionale ha svolto le sue funzioni anche nell’ambito delle sezioni di detenzione speciale ex 41 bis, adempiendo in tal modo il proprio mandato, nel pieno rispetto delle leggi. Alla luce di ciò, la circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria sul regime di 41 bis ha semplicemente recepito quanto già in essere. Pertanto ogni polemica su tale funzione appare infondata”, conclude Mauro Palma. La sottosegretaria alla Giustizia Federica Chiavaroli ha risposto subito all’interpellanza chiarendo che “la recente circolare, come peraltro evidenziato dalla competente articolazione ministeriale, non ha apportato sostanziali modifiche rispetto alle disposizioni vigenti, bensì ha inteso introdurre disposizioni dettate dall’esigenza di adeguamento uniforme alla giurisprudenza della magistratura di sorveglianza. Proprio l’uniformità che la circolare in questione ha lo scopo di assicurare contribuisce a scongiurare il pericolo, paventato da- gli onorevoli interpellanti, di situazioni di supremazia di alcuni detenuti”. La sottosegretaria ha anche sgomberato dal campo gli equivochi sulla “caduta del vetro divisorio” presentato come se fosse una novità introdotta dalla circolare. “Il colloquio visivo senza vetro divisorio con i figli minori di anni dodici è una previsione introdotta sin dal 1998 in attuazione della sentenza della Corte costituzionale n. 376 del 1997. Anche tali colloqui, comunque, sono sottoposti a videoregistrazione ed ascolto, come previsto dalla normativa vigente”. Per quanto riguarda l’omesso passaggio di valutazione della circolare alla Commissione antimafia, ci pensò a rispondere già il capo del Dap Santi Consolo durante l’audizione della commissione. Alla Bindi rispose che “prima di emanare una circolare io la mando al capo di gabinetto del ministero. Le posso promettere che se c’è una richiesta e la valutiamo positivamente come modifica, la trasmetteremo al gabinetto del ministro, che valuterà a chi trasmettere la circolare”. Sì, perché il Dap ha il solo potere di emanare una circolare amministrativa ed è un organo dell’esecutivo. La Commissione invece risponde al Parlamento e non ha l’obbligo di essere sentita tutte le volte che si scrivono decreti ministeriali o circolari. Il passaggio naturale della circolare sul 41 bis, infatti, è stato tra il Dap, il ministro della Giustizia e il procuratore nazionale dell’antimafia Lavorare in carcere, un’esperienza positiva ma poco diffusa Tempi, 14 novembre 2017 Imparare un mestiere dietro le sbarre offre risultati positivi sotto diversi aspetti. Ma la situazione italiana non è buona. Qualche numero. Tempi è sempre stato molto attento alla drammatica situazione dei nostri detenuti e alle problematiche del mondo penitenziario italiano (leggi: sovraffollamento). Una delle esperienze più positive per il reinserimento dei carcerati nella nostra società è quella dei “detenuti-lavoratori”. I lettori di Tempi conoscono la vicenda della cooperativa Giotto che opera a Padova, ma significative sono anche altre esperienze che si svolgono in altre carceri: lavorando, il detenuto riacquista stima nelle proprie capacità, ha l’occasione di imparare un mestiere, guadagna qualcosa. La recidiva, nei casi di carcerati che abbiano lavorato dietro le sbarre, si abbassa drasticamente. Insomma, un modello che andrebbe incentivato. Ma la realtà, purtroppo, non racconta questo. Sull’edizione odierna del quotidiano Italia Oggi si riportano i numeri del XIII Rapporto sulle condizioni di detenzione a cura dell’Osservatorio dell’associazione Antigone. “I dati sul reddito percepito dai detenuti lavoranti - scrive il quotidiano - sono difficili da reperire, ma è possibile almeno farsi un’idea dello stipendio annuo di un detenuto lavorante. Nel 2014 ad esempio i 12.226 detenuti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria hanno avuto a disposizione 88.975.281 euro per le mercedi, ottenendo in media stipendi pari a 7.300 euro lordi all’anno. Sebbene si tratti di cifre modeste, attraverso l’attività lavorativa retribuita il detenuto ha modo di provvedere al sostentamento proprio e della famiglia, di acquisire competenze e di aumentare la fiducia nelle proprie capacità, obiettivi importanti che dovrebbero aiutarlo a cambiare stile di vita dopo la detenzione”. Esistono inoltre grandi discrepanze tra le regioni italiane (“con una percentuale che oscilla tra il 45% di lavoranti nelle carceri sarde e il 21,5% in Friuli-Venezia Giulia”) e una grande difficoltà a interagire coi privati (“solo di rado le lavorazioni sono commissionate da privati, dato che i prezzi dei prodotti realizzati non sono competitivi rispetto a quelli di mercato”). Insomma, più luci che ombre: “Una serie storica (1991-2016) del Ministero della giustizia mostra infatti che negli ultimi 25 anni i detenuti lavoranti sono scesi dal 34,46% al 29,73%. Perché oltre alle scarse disponibilità di lavoro, risultano favoriti i detenuti che hanno pene più lunghe o che hanno la “fortuna” di finire in un carcere anziché in un altro o di lavorare per privati (che offrono l’unica reale possibilità di reinserimento lavorativo post detenzione)”. Oggi le principali agenzie di stampa sono le Procure di Nicola Quatrano* Il Dubbio, 14 novembre 2017 Non è certo per questo che ho deciso di firmare la richiesta di referendum sulla separazione delle carriere, per quanto anche quel “pare brutto” presenti qualche pericolo. Mi ha convinto il fatto che lo slogan della magistratura associata, il ritornello di sempre che la carriera deve restare unica per “mantenere il Pm nella cultura della giurisdizione”, è ingannevole come certe pubblicità un po’ spregiudicate. Io penso, al contrario, che l’unicità della carriera rischi invece di trascinare anche il giudice nella cultura del Pm, e che quest’ultima stia di fatto acquisendo caratteri sempre più autonomi dalla “pura” giurisdizione. Non è dunque solo la questione un po’ astratta, per quanto decisiva, di parità tra accusa e difesa. Faccio un esempio. Di recente, è dovuto intervenire il legislatore per sanzionare di nullità le ordinanze di custodia cautelare prive di una “autonoma valutazione”. Alcuni Gip (non tutti, per fortuna) avevano infatti preso l’abitudine di “esercitare la giurisdizione”, semplicemente copiando e incollando (speriamo dopo averla letta) la richiesta del Pm, che era a sua volta un copia- incolla della informativa della Polizia Giudiziaria. E finiva che la stessa informativa diventasse, come per incanto, anche ordinanza del Riesame, e poi sentenza di condanna e via di seguito… fino al passaggio in giudicato. Di questo passo, il giudice sarebbe diventato superfluo! In termini più generali, poi, credo che la questione delle carriere debba partire da una constatazione di fondo: esistono profonde differenze tra Pm e giudice, che rendono il primo un esponente “ibrido” della giurisdizione. Sul piano strutturale, per esempio, mentre il giudice decide in assoluta solitudine, il pubblico ministero è parte di una organizzazione gerarchica dotata di formidabili mezzi, rappresenta un apparato che, come tutti gli apparati, ha le sue logiche e i suoi interessi, non per forza coincidenti con quelli della giurisdizione. Vi sono anche strutture semiautonome come le Dda, che sono collegate tra loro e con la Dna nazionale, e lavorano a stretto contatto coi vari corpi investigativi speciali. Non può dimenticarsi, inoltre, che le Procure stanno anche progressivamente assumendo un ruolo e un rilievo sempre più schiettamente politici. Le indagini e i loro tempi, certo, ma anche il fatto che esse costituiscono oggi la principale agenzia di stampa del Paese. E non tanto per l’anomalia delle fughe di notizie, quanto per le ordinarie conferenze stampa che seguono ogni operazione. Sono queste oramai a riempire i giornali, a condannare e assolvere al posto delle sentenze, talvolta a fare e disfare governi, perfino a dettare in qualche modo l’agenda politica del Paese. Il secondo aspetto della diversità col giudice è di tipo “ideologico”. I Pm interpretano sempre più il loro ruolo in termini di “lotta” e di “guerra” (alle mafie, al terrorismo, alla criminalità) e, come tali, diventano spesso vedette mediatiche, idoli dei partiti e dei gruppi che a questi valori si ispirano. Ma questi sono concetti che devono (o dovrebbero) essere totalmente estranei alla cultura del giudice, cui compete di condannare o assolvere l’imputato (chiunque esso sia) senza pregiudizi e solo sulla base delle prove in atti. Bisognerà un giorno affrontare il tema della “politicità” senza responsabilità politica delle Procure (sommessamente credo che il Procuratore debba essere eletto dal popolo). Intanto, occorre adottare le cautele da subito possibili per tutelare la libertà del giudice dalla eccessiva vicinanza con un Pm così forte e intriso di “politicità”. Separare le carriere deve servire allora a evitare, per esempio, che il giudice tenda a fidarsi più del Pm che dell’avvocato perché si tratta di un collega, perché ha la medesima formazione, partecipa ai suoi stessi convegni, milita nella stessa corrente. E soprattutto evitare che le logiche “ibride” delle Procure entrino di diritto nel Csm dei giudici, possano decidere della loro carriera, valutarne la professionalità, promuoverli o sanzionarli disciplinarmente. Evitare infine che questo tipo di Pm possa andare in Cassazione e contribuire, con la sua cultura e la sua ideologia, alla formazione di quella giurisprudenza cui il giudice deve tendenzialmente uniformarsi. Poche e semplici ragioni, niente più che l’essenza della separazione e dell’equilibrio tra poteri, troppo importanti, però, perché possano essere sacrificati agli interessi di una corporazione. *Magistrato del Tribunale di Napoli L’equo compenso torna per gli avvocati, professionisti divisi di Federica Micardi Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2017 L’equo compenso per i professionisti potrebbe avere un chance grazie al Dl fiscale. Nel decreto, con un emendamento, è stato riproposto l’equo compenso per gli avvocati. Il Consiglio nazionale dei commercialisti si dice favorevole alla sua approvazione, anche se riguarda un solo Ordine. “Se passasse - dichiara il consigliere delegato ai compensi e alla deontologia Giorgio Luchetta - sarebbe più facile estenderla anche a tutti gli altri soggetti ordinistici, svolgendo un ruolo di apripista”. Di diverso avviso il Cup - Comitato unitario delle professioni - e la Rpt - Rete delle professioni tecniche, che chiedono che l’equo compenso venga esteso a tutte le professioni ordinistiche e non. “Non si possono creare livelli diversi di tutele tra lavoratori autonomi che hanno le medesime esigenze e gli stessi diritti”, si legge in un comunicato congiunto diramato ieri. Secondo Cup e Rpt, “i professionisti devono essere tutti tutelati soprattutto da una pubblica amministrazione che addirittura, in qualche caso, ritiene possibile pretendere prestazioni professionali ad un euro, istituendo l’economia dell’immaginario”. In questo senso, Cup e Rpt citano il Consiglio di Stato (sentenza 4614 del 3 ottobre). A riportare la Pubblica amministrazione nel dibattito sull’equo compenso è anche il presidente della commissione Lavoro del Senato, Maurizio Sacconi, che auspica “l’introduzione dell’equo compenso delle prestazioni professionali a partire dai contraenti “forti” come le pubbliche amministrazioni”; di contro, l’emendamento pro-avvocati nel Dl fiscale, quando parla della necessità di un equo compenso, lo fa in merito a banche, assicurazioni e “grandi imprese”. Cup e Rpt stanno organizzando una grande manifestazione a Roma per il 30 novembre, lo slogan scelto è “L’equo compenso è un diritto” (domani alle 11.30 ci sarà al teatro Brancaccio di Roma la conferenza stampa di presentazione della manifestazione). Per l’equo compenso si è già manifestato a Roma il 14 maggio; allora gli organizzatori furono gli Ordini di Roma di avvocati, ingegneri, architetti e medici e l’ordine degli avvocati di Napoli. Che l’equo compenso sia un tema molto sentito dai professionisti lo dimostra anche l’adesione alla petizione lanciata il 13 ottobre scorso su change.org. L’idea è partita dalla base e ha coinvolto associazioni ed enti di diverse categorie professionali; ad oggi la petizione ha raccolto 25.846 firme (alle 19,15 di ieri). Se è stata una Br, allora è legittimo perseguitarla? di Paolo Persichetti Il Dubbio, 14 novembre 2017 Nadia Lioce protesta per le restrizioni del 41bis e viene denunciata. Può sembrar strano ma anche da una cella d’isolamento del 41 bis è possibile fare molto rumore. È quanto sostengono i responsabili del Reparto operativo mobile della sezione 41bis del carcere di l’Aquila in una denuncia presentata contro Nadia Lioce e da cui sono scaturite le accuse di “disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone e oltraggio a pubblico ufficiale”. Il processo davanti al Tribunale del capoluogo abruzzese entrerà nel vivo il prossimo 24 novembre. Rinchiusa in regime di 41bis ormai dal lontano 2005, dopo la condanna all’ergastolo ostativo per gli attentati mortali del 1999 e del 2002 contro i consulenti governativi Massimo D’Antona e Marco Biagi, rivendicati da un piccolo gruppo che aveva ripreso una vecchia sigla brigatista, le Brpcc, Nadia Lioce ha assistito nel tempo ad una progressiva restrizione del regime detentivo a cui è sottoposta, in particolare per quanto attiene alla possibilità di aver con sé fogli, quaderni, libri e riviste. Nel 2011 è stato introdotto il divieto di ricevere libri e riviste dall’esterno, impedimento confermato anche nell’ultimo provvedimento del Dap: il “decalogo” che ha uniformato a livello nazionale il trattamento dei detenuti in 41bis. Se negli ultimi tempi le condizioni materiali di detenzione della Lioce hanno subito un adeguamento (cella singola di normale grandezza, sufficientemente luminosa, areata e riscaldata; un passeggio grande e attrezzato), le restrizioni hanno preso di mira la possibilità di leggere, studiare, pensare, scrivere. Un’ora di colloquio mensile con vetro e non più di 15-18 ore annue di confronto con i propri avvocati, sono il tempo di conversazione disponibile che la detenuta riesce a consumare nell’arco di quattro stagioni, poco più di 24 ore di parola per un silenzio lungo 364 giorni. Nell’ultimo decennio - ha ricordato il senatore Luigi Manconi, in una interpellanza presentata il 10 giugno del 2015 - la sottrazione del materiale cartaceo conservabile nelle celle della sezione femminile 41bis presso il carcere dell’Aquila, è passato da 30 a 3 riviste, da 20 a 3 quaderni, agli atti giudiziari dell’ultimo anno, a un solo dizionario. In ottemperanza a questo giro di vite, il 13 aprile 2015 Nadia Lioce - ha denunciato sempre Manconi - si è vista sottrarre l’immediata disponibilità del materiale cartaceo in suo possesso (atti giudiziari, lettere, un quaderno, una rivista e articoli di giornale) trasferito in locali adibiti a magazzino e accessibili solo a giorni alterni in giorni feriali. Nel corso della stessa giornata la detenuta indirizzava al direttore dell’Istituto un reclamo per la restituzione del materiale che le era stato sottratto. Copia veniva inviata anche al magistrato di sorveglianza e allo stesso senatore Manconi perché potesse effettuare l’azione di sindacato ispettivo. La sottrazione del materiale cartaceo era stata anticipata tempo prima dal sequestro dell’elastico di una normale cartellina porta- documenti e di buste di carta ricavate da fogli di quotidiani incollati, utilizzate per archiviare corrispondenza e atti giudiziari. Circostanza confermata il 22 ottobre 2015 nella deposizione resa davanti al pm dal Commissario capo della Casa circondariale de l’Aquila: “Con la detenuta Lioce ha avuto inizio un attrito dovuto inizialmente al fatto che la stessa ha accumulato un notevole quantitativo di documenti all’interno della propria cella, fatto che rendeva difficoltoso effettuare le ordinarie perquisizioni”. Da quel momento - ha aggiunto - ogni ulteriore oggetto ritirato alla detenuta è divenuto un motivo di contrasto e protesta, come è stato per una banale laccetto porta occhiali che la detenuta aveva ricavato con una striscia di tessuto. Manufatto non consentito dal regolamento e il cui sequestro ha provocato ulteriori tensioni con la reclusa. Un crescendo che di volta in volta si è focalizzato su oggetti banali e insignificanti. In questo modo, in appena tre mesi sono stati elevati nei confronti della Lioce 70 provvedimenti disciplinari, come hanno denunciato in occasione della udienza del 15 settembre scorso i suoi legali, Caterina Calia, Ludovica Formoso e Carla Serra, che fanno anche notare come la permanenza di questo regime detentivo ultra-restrittivo non abbia più fondamento in assenza di quell’organizzazione esterna, smantellata nel 2003, in cui la Lioce militava. Dopo aver constatato che le normali vie di ricorso legale non avevano sortito alcun effetto, Nadia Lioce ha inscenato, dal marzo al settembre 2015, la battitura della porta blindata al termine di ogni perquisizione, suscitando da sola tanto di quel baccano da essere trascinata a processo. “Come ormai da tempo accade - scriveva in un rapporto del 4 settembre 2015 l’agente scelto del Reparto operativo mobile che assieme ad una collega aveva eseguito la perquisizione - in risposta a tali controlli, alle ore 8.45 circa, iniziava a protestare battendo una bottiglietta di plastica contro il cancello della propria camera detentiva fino alle ore 9.15 circa”. Un atteggiamento ritenuto “strumentale”, dal vice Ispettore del Gom che in un altro rapporto ricorreva a questo inusitato neologismo per censurarne il comportamento chiedendo che la segnalazione venisse inviata alla locale autorità giudiziaria. Altrove le proteste della Lioce venivano qualificate come manifestazione “della sua indole rivoluzionaria”, suscettibile di sanzioni disciplinari come l’applicazione della misura dell’isolamento punitivo (14 bis Op). Come se non bastasse, è venuta la richiesta di disporre “previo accertamento e quantificazione del danno, da eseguirsi a cura dell’addetto alla m. o. f. (manutenzione ordinaria fabbricati)”, un “provvedimento di addebito a titolo di risarcimento per i danni rilevabili sul cancello della camera detentiva di assegnazione”, provocati dalla percussione di una bottiglietta di plastica sulle pesanti porte di ferro blindato. Extracomunitari, trattenimento nel Cie invalido senza contraddittorio di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 13 novembre 2017 n. 26803. Va annullato il provvedimento del giudice che convalida il trattenimento nel Cie di un cittadino extracomunitario qualora il migrante non abbia partecipato all’udienza. Né l’essere sottoposto ad un semplice trattamento di profilassi - in questo caso “anti-scabbia” - può costituire un valido motivo per negarne la partecipazione. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza del 13 novembre 2017 n. 26803, accogliendo il ricorso di un nigeriano e cassando il decreto del giudice di pace di Bari che invece aveva convalidato la permanenza forzosa nel centro di identificazione ed espulsione disposta dal questore di Taranto. I giudici di Piazza Cavour, ricorda la decisione, avevano affermato (ordinanza n. 12709 del 2016) con riguardo al procedimento giurisdizionale relativo alla “proroga del trattenimento” presso un Cie di uno straniero, già sottoposto al primo segmento temporale previsto dalla legge, che vanno applicate le stesse garanzie del contraddittorio, consistenti nella partecipazione necessaria del difensore e nell’audizione dell’interessato, previste per il procedimento di convalida della prima frazione temporale del trattenimento, “tenuto conto che un’opposta lettura delle norme sarebbe in contrasto con gli artt. 3 e 24 Costituzione”. Inoltre, con riguardo ai migranti che per ragioni sanitarie siano sottoposti a trattamenti di profilassi, in assenza di pericoli per la salute pubblica, la Suprema Corte (ordinanze nn. 10743 e 11468 del 2017) ha escluso l’esistenza di un “legittimo impedimento del trattenuto a comparire all’udienza di convalida”. Per cui il fatto che il difensore abbia eccepito la violazione del diritto di difesa dello straniero che chiede di essere sentito in sede di convalida “costituisce eccezione rilevante e fondata che deve impedire al Giudice, in ragione della ingiustificata assenza dell’interessato all’udienza di convalida, di procedere alla sua celebrazione e alla pronuncia del provvedimento di convalida impugnato” che, dunque, conclude sul punto, “perciò solo, si rivela irritualmente dato e quindi deve essere cassato”. Da qui l’affermazione del principio di diritto secondo cui “in tema di procedimento di convalida del trattenimento dello straniero nel centro di identificazione ed espulsione (ai sensi degli articoli 14 deI D.Lgs n. 25 del 2008), le garanzie del contraddittorio, consistenti nella partecipazione necessaria del difensore e nell’audizione dell’interessato, per il procedimento di convalida del trattenimento, trovano applicazione senza che sia necessaria la richiesta dell’interessato di essere sentito”. “Pertanto - prosegue la decisione -, costituisce eccezione rilevante e fondata quella sollevata dal difensore del trattenuto il quale alleghi la violazione del diritto di difesa dello straniero che, pur chiedendolo, non venga accompagnato davanti al giudice della convalida in ragione di trattamenti di semplice profilassi (nella specie: anti-scabbia), che non costituiscano pericoli per la salute pubblica”. Guida in stato di ebbrezza: la confisca del veicolo non è prevista tra le ipotesi di sanzioni di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2017 Corte di Cassazione - Sezione IV -Sentenza 12 ottobre 2017 n. 46969. I Giudici della IV sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 46969 del 12 ottobre 2017 hanno ritenuto che per la violazione dell’articolo 186 lettera b) del codice della strada non può essere applicata, in quanto non prevista, la sanzione amministrativa accessoria della confisca del veicolo utilizzato dal conducente in stato di ebbrezza alcolica. Il fatto - I Giudici del Tribunale di Alessandria in accoglimento della richiesta di un automobilista di applicazione nei suoi confronti della pena di mesi due e venti giorni di arresto e di euro 2.500 di ammenda in relazione al reato contravvenzionale contestato di cui all’articolo 186, secondo comma, lettera b) e 2-bis del codice della strada disponevano, nel contempo, la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per la durata di un anno e la confisca del veicolo. In relazione alle sanzioni amministrative accessorie della sospensione della patente e della confisca del veicolo per il reato contravvenzionale di cui all’articolo 186, commi secondo e 2-bis, lettera b), del codice della strada ricorre in Cassazione l’automobilista lamentando violazione di legge e carenza di motivazione. La decisione della Corte - Gli Ermellini annullano la sentenza impugnata limitatamente al punto concernente la applicazione della sanzione amministrativa accessoria della confisca del veicolo. A giudizio della la Corte i giudici del Tribunale hanno correntemente determinato la misura della durata della sospensione, raddoppiando la sanzione minima prevista dalla disposizione legislativa e commisurandola ai profili fattuali della condotta ed, in particolare, al grado del tasso alcolemico riscontrato. Infatti, in tema di guida in stato di ebbrezza, il raddoppio delle sanzioni da applicarsi in caso di provocato incidente stradale, si riferisce non solo a quelle penali, ma anche alla sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida. Di contra hanno ritenuto fondato il secondo motivo di ricorso, la sanzione amministrativa accessoria della confisca del veicolo, disposta dal Giudice di merito, in quanto non prevista tra le ipotesi di sanzioni di cui all’articolo 186, lettera b), del codice della strada. Evasione fiscale minima non punibile di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2017 Sì alla non punibilità per particolare tenuità del fatto anche in caso di reati tributari, se l’evasione sfora di poco la soglia di rilevanza penale. La Corte di cassazione, con la sentenza 51597/2017, accoglie il ricorso di un contribuente contro la decisione del Tribunale della libertà, di respingere la sua richiesta di annullamento del sequestro preventivo di somme, considerate profitto illecito del reato di omesso versamento delle ritenute certificate. La difesa aveva chiesto l’applicazione dell’articolo 131-bis del Codice penale sulla particolare tenuità del fatto, giocandosi la carta del lieve danno all’erario visto che il tetto di rilevanza penale, fissato dal legislatore in 150mila euro, era stato sforato solo per 369 euro. Secondo il ricorrente, il no del Tribunale era contraddittorio, perché, pur ammettendo che lo “sforamento” era stato minimo, negava che si potesse parlare di danno lieve. La difesa ricorda ai giudici che le stesse Sezioni unite (sentenza 13681/2016), pronunciandosi sulla guida in stato di ebbrezza, hanno affermato la possibilità di applicare l’articolo 131-bis anche alle fattispecie che prevedono soglie di punibilità, aprendo così la strada all’estensione del principio anche a quelle in cui sono presenti le cosiddette soglie quantitative di punibilità, come nella quasi totalità dei reati tributari. Per la Cassazione, è esatto che la causa di non punibilità vale anche per i reati tributari, ed è altrettanto vero che questa non può essere negata, come avvenuto nel caso esaminato, solo sulla base del peso dato ai beni giuridici tutelati dalle norme anti-evasione. Il giudice non può negare il “beneficio” senza esaminare in concreto la gravità della lesione e senza tenere conto che la soglia, come nello specifico, “costituisce il confine della insussistenza rectius irrilevanza a fini penali del danno provocato all’Erario con il mancato versamento di quanto dovuto”. La Suprema corte ricorda la sentenza 13218/2016 con la quale era stato negato il 131-bis, in un caso di omesso versamento Iva, perché la soglia fissata dal legislatore era stata superata di circa 20mila euro. In quell’occasione la Cassazione aveva affermato il principio secondo cui la norma sulla non punibilità può scattare solo quando lo scostamento dal “tetto”, è veramente minimo in considerazione del fatto che “il grado di offensività che dà luogo al reato è già stato valutato dal legislatore nel determinare la soglia di rilevanza penale”. Partendo da questi presupposti i giudici della terza sezione penale accolgono il ricorso e rinviano al Tribunale della libertà perché si esprima nuovamente sull’articolo 131-bis. Questa volta facendo una valutazione complessa che tenga conto delle indicazioni fornite dal giudice di legittimità. Pubblica fede e reati: la categoria degli atti “fidefacenti” Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2017 Reati contro la fede pubblica - Relazioni di servizio dei pubblici ufficiali - Atti pubblici fidefacenti - Querela di falso. Le “relazioni di servizio” redatte e sottoscritte da ufficiali e agenti di P.S. sono atti pubblici fidefacenti poiché con esse il pubblico ufficiale attesta, nell’esercizio delle sue funzioni, una data attività da lui espletata ovvero che determinate circostanze sono accadute sotto la sua diretta percezione e/o vengono da lui stesso evocate. Pertanto, il verbale di sopralluogo dei Vigili Urbani, come la successiva relazione di servizio, sono assistiti da fede privilegiata in quanto dotati di una special potestà documentatrice in virtù della quale l’atto assume una presunzione di verità assoluta, ossia di massima certezza eliminabile solo con l’accoglimento della querela di falso o con sentenza penale. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 2 novembre 2017 n. 50082. Reati contro la fede pubblica - Delitti - Falsità in atti - In atti pubblici - Reato ex articolo 479 c.p.- Atti pubblici fidefacienti ex articolo 476, comma 2, c.p.- Requisiti - Fattispecie. In tema di reato di falso ideologico in atto pubblico, affinché sia configurabile la circostanza aggravante prevista dall’articolo476, comma 2, c.p., sono documenti dotati di fede privilegiata solo quelli emessi dal pubblico ufficiale investito di una speciale potestà documentatrice, attribuita da una legge o da norme regolamentari, anche interne, ovvero desumibili dal sistema, in forza della quale l’atto assume una presunzione di verità assoluta, ossia di massima certezza eliminabile solo con l’accoglimento della querela di falso o con sentenza penale. (In applicazione di tale principio, la Corte ha escluso la sussistenza dell’aggravante in relazione alla firma apposta per ricevuta da un primario ospedaliero sulle bolle relative a fittizie attività di trasporto e consegna al suo reparto di materiale sanitario, ritenendo irrilevante che l’incompetenza del predetto primario non fosse stata mai rilevata da parte degli uffici ordinariamente preposti e che la stessa si fosse affermata in virtù di una mera prassi interna all’ente ospedaliero). • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 18 luglio 2017 n. 35219. Prove - Prova documentale - Registro di cancelleria mod. 16 - Registro obbligatorio - Atti pubblico fidefaciente - Esclusione - Ragioni. I registri di cancelleria previsti dal D.M. n. 334 del 1989, poiché per espressa previsione dell’art.icolo2, comma terzo, di tale decreto sono “tenuti in luogo non accessibile al pubblico” e “possono essere consultati solo dal personale autorizzato”, non sono atti pubblici fidefacienti del loro contenuto, attesa la valenza meramente interna e l’assenza di carattere di pubblicità. (Fattispecie relativa ad erronea annotazione sul Registro mod. 16 della data di rinvio di un’udienza, invece correttamente indicata nel verbale di udienza, in cui la S.C. ha escluso che potesse configurarsi la nullità ex articolo 178 c.p.p.). • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 31 agosto 2016 n. 35864 Reati contro la fede pubblica - Falsità in atti pubblici - Atti fidefacienti - Requisiti - Fattispecie. In tema di falso ideologico in atto pubblico aggravato ex articolo 476, secondo comma, cod. pen., sono documenti dotati di fede privilegiata quelli che riportano fatti avvenuti alla presenza del pubblico ufficiale o da questi accertati o rilevati. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso la natura fidefaciente di un verbale di colloquio - avuto dall’imputato con l’unica aspirante a ricoprire un posto di dirigente medico, nell’ambito di un procedimento di cui era stato incaricato - nella parte in cui egli aveva attestato, contrariamente al vero, l’insussistenza di cause di incompatibilità con la candidata, nonostante si trattasse della propria moglie). • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 23 settembre 2016 n. 39682 Reati contro la fede pubblica - Delitti - Falsità in atti - In atti pubblici - Atti fidefacienti - Requisiti - Fattispecie. In tema di falso ideologico in atto pubblico aggravato ex articolo 476, comma secondo, cod. pen., sono documenti dotati di fede privilegiata quelli che, emessi da pubblico ufficiale autorizzato dalla legge, da regolamenti oppure dall’ordinamento interno della P.A. ad attribuire all’atto pubblica fede, attestino quanto da lui fatto e rilevato o avvenuto in sua presenza. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso la natura fidefaciente del libro giornale della procedura fallimentare, in quanto destinato solo a riportare le registrazioni delle singole operazioni effettuate nel corso della gestione tratte dalla documentazione ad esse inerente). • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 16 aprile 2015 n. 15951. Campania: il Tar regionale boccia il disciplinare del bando per il vitto dei detenuti di Fabio Postiglione Corriere del Mezzogiorno, 14 novembre 2017 “No” al nuovo disciplinare dopo il ricorso di due aziende escluse dalla gara. Il Tar della Campania ha bocciato, cancellandolo, il piano di ministero della Giustizia e Dap di somministrare cibo gourmet ai detenuti reclusi nelle carceri della Campania. Pietanze raffinate e “bilanciate” con il giusto apporto di ingredienti nutrienti ma soprattutto scelti con cura e con il rispetto obbligatorio dei criteri di “tipicità e territorialità”. Il nuovo disciplinare della discordia è stato stoppato (per ora) con un provvedimento deciso dai giudici amministrativi dopo un ricorso presentato da due delle ditte escluse dalla gara ma che per anni si sono occupate delle mense dei penitenziari. Erano state tagliate nettamente fuori per le nuove e stringenti regole che pretendeva il Ministero e che hanno scatenato un vespaio di polemiche fino alla decisione di due giorni fa di cancellare, in via temporanea, il provvedimento emesso dall’autorità amministrativa. Al centro del contendere il menù da “stella Michelin” che era stato imposto dal disciplinare del bando di gara che il ministero della Giustizia aveva stilato e chiuso pochissime settimane fa per il triennio 2018-2021, per la regione Campania (anche se il provvedimento è per tutti gli istituti di pena d’Italia) ad un costo per il vitto dei quindici penitenziari regionali di quasi trentacinque milioni di euro all’anno. E gli esempi sono tantissimi e scritti nero su bianco nelle regole per partecipare alla gara. Frutta e verdura di produzione biologica. Ortaggi rigorosamente freschi e di stagione in ogni giorno dell’anno. Pasta, riso e formaggi con certificazioni “Dop”, “Igp” e “Stg”. Il pane fresco, prodotto da forni che usano farine naturali - recitava il bando -, deve arrivare puntuale alla mensa a mezzogiorno, carne e pesce devono provenire da allevamenti certificati e bio-sostenibili. E come spuntino si dovevano servire due banane al giorno che però dovevano essere acquistate dai circuiti del commercio equo e solidale. E non solo, perché era ben precisato che gli stessi standard di altissima qualità dovevano esserci anche per “patate, polenta, pomodori e prodotti trasformati, formaggio, latte uht, yogurt, uova, olio extravergine devono provenire per almeno il 40% espresso in percentuale di peso sul totale, da produzione biologica in accordo con i regolamenti, per almeno il 20% espresso in percentuale di peso sul totale, da sistemi di produzione integrata”. Le uova, ad esempio, devono provenire da allevamenti all’aperto mentre i “prodotti ortofrutticoli devono essere stagionali, rispettando i calendari di stagionalità”. Per prodotti di stagione si intendono i prodotti coltivati in pieno campo. Abruzzo: Garante dei detenuti; bando da rifare, ma si rischia di andare oltre le elezioni di Gioia Chiostri infomedianews.it, 14 novembre 2017 Si torna a discutere, anche in questa sede, della figura del Garante dei Detenuti, ruolo cardine per la vita da allontanare dalla morte all’interno delle carceri dell’Abruzzo. Secondo il dettato della prima legge istitutiva del Garante, risalente al 2011, esso è eletto dal Consiglio regionale ed opera in un regime di piena autonomia. Il governatore D’Alfonso - avverte il presidente di “Antigone Abruzzo”, l’avvocato Salvatore Braghini - ha avuto un atteggiamento prevaricatore, perché sin dalle prime sedute ha subito imposto un nome, chiudendo, così, ogni possibilità di dialogo ed interrompendo anche le votazioni che si stavano già facendo, quando ha visto che il nome che lui proponeva non veniva nominato attraverso la votazione della maggioranza dei 2/3 tra i consiglieri, così come indicato dalla Legge istitutiva della figura. In realtà - aggiunge Braghini - il Consiglio regionale, nell’essenza dei Capigruppo, aveva ascoltato anche altri cinque candidati, in varie sedute, ma su questo punto il presidente della Giunta è stato a dir poco irremovibile. La modalità di abbassamento del Quorum utile per eleggere il Garante, ritengo che vada nella direzione di agevolare questa candidatura e, secondo noi partecipanti che abbiamo proposto di rieffettuare il bando, non è un metodo democratico, quindi contestiamo questa operazione del procedere, perché, innanzitutto, ribadisco che l’Organo di Giunta non dovrebbe mai interferire su una scelta che è una prerogativa del Consiglio regionale e i consiglieri dovrebbero esprimere liberamente il proprio voto in base ai semplici curriculum”. Padova: “in carcere condizioni disumane e carenze igieniche”, ricorso alla Cedu di Antonio Andreotti Corriere Veneto, 14 novembre 2017 La denuncia dei detenuti del Due Palazzi alla Corte europea dei diritti. Solo cinque docce ogni 50 detenuti. Circa 100 ospiti del carcere “Due Palazzi” di Padova stanno patendo “condizioni di trattamento disumano” e gravi carenze igienico-sanitarie”. È quanto hanno segnalato i carcerati del sesto blocco, lati A e B, in una lettera indirizzata nei giorni scorsi all’ufficio di sorveglianza di Padova, alla Procura patavina, ai carabinieri del Nas, al Provveditorato padovano, alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, al garante dei diritti dei detenuti e per conoscenza al Ministero della Giustizia. La missiva denuncia la mancanza di acqua calda da nei locali adibiti a docce. Non avendo la possibilità di lavarsi, i firmatari della lettera denunciano “la concreta possibilità del diffondersi di malattie infettive” con rischi per la salute dato che molti di loro sono anziani, cardiopatici. I locali delle docce del blocco 6 del “Due Palazzi”, poi, sono “da anni lasciati nel degrado”. Mancano i rubinetti, gli scarichi non funzionano bene e così cadono pezzi di piastrelle ed intonaco. “Non chiediamo l’acqua calda in cella come previsto dalle norme europee, ma pretendiamo di avere la possibilità di fare almeno una doccia calda al giorno come previsto dall’ordinamento penitenziario”, chiedono i firmatari della lettera. Poi, l’affondo contro l’amministrazione penitenziaria che chiede “di seguire determinate regole comportamentali ma che non adempie al rispetto delle leggi ormai da anni”. Per ora non ci sono state proteste al Due Palazzi, chiudono i firmatari, ma evidentemente la misura ormai è colma. La questione delle condizioni di vita al Due Palazzi torna quindi a farsi sentire con vigore. Nel 2014 un detenuto albanese condannato a sei anni e recluso nel carcere padovano è stato risarcito dallo Stato italiano con 4.808 euro. Fu quella la prima applicazione a livello nazionale del decreto che colpisce la cosiddetta “detenzione inumana” così come imposto dalle normative europee. Il recluso albanese avrebbe dovuto avere a disposizione tre metri quadrati, avendone invece 2,85 essendo con altri due detenuti. Nel luglio 2016, poi, la Corte Costituzionale ha chiarito che anche un ergastolano ha diritto ad ottenere un ristoro per il periodo di detenzione scontato in condizioni ritenute contrarie al senso di umanità. Salerno: la vicenda di un malato psichiatrico, tra servizi carenti e la via del carcere Il Mattino, 14 novembre 2017 Da un lato le leggi, dall’altro le difficoltà nella loro applicazione. Se poi si parla di malati psichiatrici, tutto diventa ancora più complicato. La storia di un giovane salernitano in attesa di un posto all’interno di una Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) rappresenta la punta dell’iceberg di una tragedia già annunciata all’indomani della chiusura dell’ospedale psichiatrico. Una storia che vede ora un duro braccio di ferro tra la procura e il gip che dovrebbe accogliere la richiesta del sostituto procuratore Roberto Penna e consentire all’uomo di essere “ospitato” nella sezione detentiva del carcere di Fuorni. Al centro dei cavilli burocratici, una famiglia impaurita dagli atteggiamenti dell’uomo, finiti sotto la lente di ingrandimento della procura di Salerno proprio per i maltrattamenti a cui sottoponeva i suoi genitori. Delle ventiquattro Rems presenti in tutta Italia, poco più di una a regione, nessuna ha posto. L’uomo, dopo che il gip ha bocciato la richiesta di arresto del pm in quanto la perizia psichiatrica lo aveva riconosciuto infermo di mente (e questi vanno curati e non reclusi per la legge), è stato ricoverato presso la Quiete dove per due volte è evaso tornando a casa dei genitori e minacciandoli di nuovo. Ora c’è per lui una nuova richiesta di sistemazione presso la sezione psichiatrica dell’istituto penitenziario cittadino dove vi è una sezione dedicata proprio ai malati di mente. Ma la legge, su questo punto è chiara: possono finire in cella soltanto quanti hanno una seminfermità mentale. Per gli altri ci sono le strutture dedicate. Si attende ora la nuova decisione del giudice per le indagini preliminari. Intanto c’è una famiglia che rischia ogni giorno, una struttura sanitaria che non ha gli standard delle Rems e un soggetto che necessita di cure specifiche. E tutto ciò accade in una città dove, in passato, ha dovuto fare i conti con un altro soggetto malato di mente e diventato cannibale: uccise e mangiò la mamma anziana. La legge prevede che in ciascuna Rems possano essere sistemati soltanto venti degenti eppure sta accadendo in tutta Italia che detenuti che manifestano comportamenti disturbanti, etichettati come psichiatrici, e poi mandati in Rems occupando posti che dovrebbero essere di altri. Queste strutture, in pratica, sono messe in crisi dall’invio inappropriato di persone che dovrebbero essere trattate in altro modo. Ma parliamo di numeri: per 596 ospiti delle Rems in Italia - cifra che corrisponde alla loro capienza massima - ce ne sono 289 in lista di attesa per entrare. Di questi, 205 sono però destinatari di misure provvisorie (l’analogo della custodia cautelare in carcere). Allo stesso modo, su 596 ospiti delle Rems ben 215 sono “provvisori”. Una deriva rispetto alle intenzioni originarie delle Rems che rischia di farle saltare, facendo rientrare dalla finestra la logica degli ex-Opg. Agrigento: linee telefoniche in tilt e mancanza di acqua calda, alta tensione in carcere agrigentonotizie.it, 14 novembre 2017 Secondo quanto riferisce la Cisl, in una recente aggressione sono rimasti coinvolti tre poliziotti, un ispettore capo e due assistenti capo. È alta la tensione al carcere Petrusa di Agrigento. Le linee telefoniche sono in tilt da una settimana a causa di un guasto e manca l’acqua calda, disservizi che hanno esasperato gli animi dei detenuti. Secondo quanto riferisce la segreteria interprovinciale Agrigento-Caltanissetta-Enna della Federazione nazionale sicurezza Cisl, in una recente aggressione sono rimasti coinvolti tre poliziotti, un ispettore capo e due assistenti capo costretti a ricorrere alle cure dei sanitari dell’ospedale civile di Agrigento. “A noi che rappresentiamo i poliziotti penitenziari - fanno sapere dal sindacato - il compito di lanciare un allarme che lungi dal volere presagire chissà quali disastri vuole porre l’attenzione su una questione molto seria. Una serie di disfunzioni prime fra tutte la mancata possibilità offerta ai reclusi di potere intrattenere conversazioni telefoniche con i propri cari a causa di un guasto alle linee che dura da circa una settimana che ha completamente isolato il penitenziario e la mancanza di acqua calda di fatto stanno facendo impennare l’asticella delle intolleranze da parte dei detenuti che gioco forza vede coinvolti i nostri colleghi. “La questione è grave sotto ogni profilo - aggiungono - e la domanda che ricorre in questi casi è: cosa bisogna attendere per intervenire con rapidità ed efficienza prima che succeda il fattaccio? È assurdo che un intervento tecnico per ripristinare le linee telefoniche di una comunità come quella del penitenziario debba attendere i tempi di una normale richiesta come se si trattasse di una normale utenza domestica cosi come è altrettanto inaudito e intollerabile che un intera popolazione detenuta venga lasciata senza acqua calda”. Taranto: Cisl-Fp; nel carcere condizioni di lavoro impossibili anche per i “civili” Quotidiano di Puglia, 14 novembre 2017 Anche il persone civile in servizio nella casa circondariale di Taranto ha denunciato in un’assemblea condizioni di lavoro non più sopportabili. Si è fatta portavoce della denuncia la Cisl-Fp. “In un atmosfera carica di profonda tensione, si è svolta l’assemblea dei lavoratori civili del carcere “C. Magli” di Taranto”. A evidenziarlo per la segreteria territoriale Cisl-Fp, è Massimo Ferri. “I racconti dei dipendenti, pieni di intensità emotiva, rabbia ma anche di solidarietà, hanno ancora di più contribuito a descrivere condizioni di lavoro surreali che impongono l’assunzione di provvedimenti non più rinviabili. Le condizioni di lavoro della sede di Taranto sono, in verità, ben note e sono state già oggetto di incontri ma, evidentemente, le ragioni alla base del disagio sono troppo radicate. Impietosi i numeri: a fronte di una capacità di 306 detenuti ve ne sono stabilmente circa 530 a cui non è certo possibile garantire condizioni di vita, di assistenza o di attività volte al recupero sociale, con i soli tre funzionari di fatto esistenti dell’area educativa, quando ne erano previsti 9 e ne occorrerebbero 16 in rapporto ai detenuti esistenti”. Scrive ancora Ferri: “Appare allora incomprensibile l’improprio coinvolgimento dei pochi educatori alla campagna di prevenzione dei suicidi solo per obbedire alle “disposizioni delle superiori autorità”, in un gioco che, partendo dai livelli più alti dell’amministrazione, ognuno cerca di rifuggire dalle proprie responsabilità scaricandole man mano sui livelli più bassi, così come sembra inspiegabile l’ennesima sottrazione di personale amministrativo dall’area educativa, anche se medesime ed altrettanto sofferte sono le criticità in tutte le altre aree. Ma un organico insufficiente, ritmi e carichi di lavoro impossibili, un’organizzazione lacunosa e giornalmente improvvisata, richiederebbero un’amministrazione che stimolasse la partecipazione motivata dei lavoratori, dando loro fiducia, creando condizioni di lavoro serene e pronta a sostenere i dipendenti, soprattutto quando viene loro richiesto un impegno straordinario. Siamo invece di fronte ad un’amministrazione distante che ha rinunciato al dialogo, con i dipendenti che hanno il timore che qualsiasi comportamento, anche il più naturale, possa essere severamente ripreso, lavoratori abbandonati a se stessi, lasciati soli a fronteggiare responsabilità, spesso improprie, di una popolazione carceraria di proporzioni smisurate. La situazione straordinaria che sta pregiudicando gravemente la salute dei dipendenti richiede provvedimenti ed iniziative straordinarie, anche per i livelli dell’amministrazione da coinvolgere, per i quali la scrivente segreteria territoriale ed i lavoratori richiedono l’intervento del coordinamento nazionale della Cisl-Fp”. Vibo Valentia: Callipo ingaggia i detenuti per le confezioni di Natale di Monica Zunino La Repubblica, 14 novembre 2017 Secondo anno di collaborazione con il carcere per l’azienda calabrese di conserve, nota per il tonno in scatola. Sette detenuti del carcere di Vibo Valentia prepareranno 10 mila confezioni regalo per la Callipo, in vendita nelle feste di Natale. L’azienda calabrese di conserve, nota per il tonno in scatola, ha rinnovato la collaborazione avviata lo scorso anno e sposta temporaneamente un pezzetto di attività dallo stabilimento al carcere. I detenuti lavoreranno per la Giacinto Callipo Conserve Alimentari, assunti a tempo determinato, per due mesi, e si occuperanno appunto del confezionamento delle latte regalo con i prodotti dell’azienda. L’operazione, che punta al reinserimento, era partita nel 2016 come un esperimento, proprio con i pacchi regalo natalizi e adesso fa il bis con l’ambizione di farla diventare modello di riferimento anche per altre aziende in un territorio difficile e dove il tasso di disoccupazione nel 2016 è arrivato al 58,7%. A insegnare ai sette detenuti le tecniche di confezionamento delle latte con i prodotti ha provveduto il personale dell’azienda, dopo una formazione specifica in tema di sicurezza. “Crediamo molto in questo progetto di formazione e lavoro con i detenuti: l’anno scorso è stato accolto con impegno ed entusiasmo e quindi non potevamo che replicare la collaborazione con il penitenziario di Vibo Valentia. Vogliamo trasmettere un messaggio di speranza e di fiducia in un futuro migliore per i detenuti, in un’ottica di reinserimento sociale, per dare loro una seconda possibilità e ci auguriamo che possa diventare una catena virtuosa con il contributo di altre aziende del territorio” dice l’amministratore unico Filippo Callipo. L’azienda, con una storia di oltre cento anni, è arrivata alla quinta generazione e punta a trasmettere il messaggio di fare impresa nel rispetto delle regole: di recente è stata inserita dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato nell’elenco delle aziende nazionali con rating di legalità. Lo stabilimento produttivo si trova a Maierato (Vibo Valentia). Trento: gli appunti dietro le sbarre diventano un recital Di Carmine Ragozzino Il Dolomiti, 14 novembre 2017 Domani sera al Liceo Rosmini di Trento si concretizza in uno spettacolo tra parole, musica e immagini il lavoro del professor Amedeo Savoia con i detenuti della casa circondariale di Trento. I testi scritti dai carcerati sono il cuore di una proposta multimediale che non darà giudizi ma testimonierà come “le persone sono diverse dai loro reati”. Erano, o sono, dietro le sbarre. Erano, o sono, studenti. A scuola dentro un carcere, il carcere di Trento. Allievi che cercano - studiando - un tempo “diverso”. Un tempo in cui liberare il pensiero. Almeno il pensiero. Quegli studenti - i detenuti che da quattro anni partecipano al progetto didattico coordinato dal Liceo Rosmini - sono stati invitati a scrivere. A raccontare. A raccontarsi. Una fatica. Un impegno. Per qualcuno certamente un imbarazzo. Per altri certamente una gioia. Quelle note - note che non sono “a margine” di una condizione del tutto particolare - sono state raccolte da Amedeo Savoia. Lui è un docente che ha lavorato a lungo in carcere. E che oggi insegna al liceo Da Vinci. Quegli appunti - frammenti di vite che non si conoscono e delle quali i più non vogliono sapere - sono diventate un recital. Uno spettacolo che debutterà domani, mercoledì sera, alle 20.45, all’aula magna del liceo Rosmini per poi essere replicato la mattina dopo davanti agli studenti di quella scuola. Un recital non è e non può essere la fotocopia di un’esperienza, seppur ricca di stimoli e di insegnamenti. Un recital è la rielaborazione di un’esperienza professionale e umana. Una rielaborazione che vuole comunicare un messaggio, più messaggi, usando diversi linguaggi. E nel recital “Dalla viva voce” le parole si alterneranno dunque alla musica e alle immagini. Parole, musica e immagini che Savoia ha utilizzato, collaborando con un musicista compositore, senza tuttavia deviare dalla missione che si è posto nell’ideare questo lavoro. La missione del rispetto. Il rispetto che si deve a chi anche da dentro un carcere ha voglia ed bisogno di esprimere il suo “privato” e in qualche caso anche il suo “pubblico”. Ma rispetto - spiega Amedeo Savoia - vuol dire rivendicare un concetto tanto semplice e chiaro quanto difficilmente accettato, specie in questo tempo dominato da paure vere o artefatte per meschini obiettivi politici. Il concetto - la filosofia del recital - è che “la persona è diversa dal suo reato”. La persona è persona. Anche quando sbaglia e quando poi paga giustamente paga i suo debito. Amedeo Savoia ha selezionato, quindi, gli appunti autobiografici di alcuni detenuti di Trento. In particolare di un carcerato trentino e di due stranieri. Quegli scritti sono testimonianze utili a riflettere. Accenni di vita, non diari né saggi. Sono ricordi, immagini, fatti, contesti. Non sono letteratura. Sono semplicemente realtà. Ma è una realtà che la società in perenne difesa tende ad ignorare. A rimuovere Gli scritti dal carcere non sono cronaca carceraria. Non rivangano misfatti, né processi. Svelano, semmai, personalità sconosciute. Persone che scrivendo affermano la propria presenza, la propria dignità. Il professor Savoia riproporrà gli scritti lasciando fuori dalla porta - fuori dal palco - ogni tentativo di giudizio. “Non spetta a me, non spetta a chi ha scelto il mestiere di insegnare, il giudicare. È affare della giustizia. Ma sentivo che spettava a me amplificare quelle voci. Senza pretese. Ma con l’ammirazione di chi si ha imparato che per i detenuti scrivere è in qualche sperimentare anche un po’ di libertà”. Libertà di guardarsi dentro. Libertà di “buttar fuori” storie, impressioni, emozioni. Nel recital, tuttavia, ci sarà anche la cronaca. La cronaca nera, fatti locali e fatti nazionali. Una cronaca commentata - quella sì- dall’insulsaggine che invade i “social” dopo ogni episodio. I “social” dell’asocialità che trasformano ogni cretino in un giudice di tutto, tanto feroce quanto improvvisato. E nel recital ci saranno anche i rimandi culturali, le riflessioni di alcuni autori che da Beccaria in poi hanno provato a non chiudere gli occhi su certe disfunzioni educative della detenzione. La musiche punteggeranno le letture del recital. Le suonerà il rivano Nicola Straffellini. Mauro Savoia ha curato gli inserti grafici e multimediali. Domenico Tavernini s’è occupato della scena. Lo spettacolo “Dalla viva voce” ha un prima e merita di avere anche un dopo. Si tratta, infatti, della proposta che chiude un anno di lavoro sulle tematiche carcerarie. Un lavoro svolto dentro e fuori le scuole con un’opera di sensibilizzazione che si è servita di diversi registri. Compreso quello, importante, dell’emozione. Nel corso del progetto, infatti, 15 classi delle scuole superiori trentine hanno ascoltato le narrazioni delle persone detenute di “Ristretti Orizzonti” nel carcere Due Palazzi di Padova. Alcuni ex detenuti, invece, hanno partecipato a un laboratorio di scrittura autobiografica e in seguito hanno avuto modo di proporre la loro testimonianza in eventi pubblici e scolastici. Il progetto intende dare il proprio contributo a una migliore interazione fra la cittadinanza e l’ambiente carcerario. “La qualità dei percorsi rieducativi (e dunque una maggiore sicurezza di tutti) e la tutela dei diritti in un carcere - si legge nella presentazione del recital - dipende in buona misura dal coinvolgimento del territorio in cui è collocato: in termini di conoscenza, formazione, assistenza, opportunità di lavoro, ma anche di crescita umana e civile”. Per la recente associazione “Dalla Viva voce” lo spettacolo sarà un importante momento di promozione. Il sodalizio è infatti nato per favorire il reinserimento nella società di persone che hanno avuto esperienze di carcere. L’hanno promossa persone che in carcere hanno lavorato a vario titolo e ex detenuti. Il progetto dello spettacolo è promosso dal Gioco degli Specchi e dall’associazione Dalla Viva Voce, in collaborazione con l’Associazione di musica contemporanea Quadrivium ed è stato finanziato della Fondazione Cassa Rurale di Trento. Padova: il Papa scrive ai detenuti del carcere Due Palazzi di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 14 novembre 2017 Francesco risponde alla lettera del coro dei carcerati: “Vi saluto e vi ringrazio di cuore, ricordatevi di pregare per me”. Alla fine della consueta prova del lunedì del coro Due Palazzi, nell’auditorium del settore scuola con i manifesti di vecchi film dipinti sulle pareti, Armand David, 40 anni, detenuto-pasticciere, tira fuori dalla tasca una busta. E la apre. “Ci ha risposto, si è messo alla scrivania e ha voluto scriverci a mano la sua risposta!” annuncia senza grancassa ma con il sorriso a risucchiargli l’intera faccia. Il cartoncino è color bianco-crema, ha il timbro papale, è rivolto al coro Due Palazzi di Padova, è scritto con la stilografica ed è firmato “fraternamente, Francesco”. Dove per Francesco è da intendersi il papa. Papa Francesco. E se ci invitasse a Roma? Tutti intorno ad Armand: la lettera compitata ad alta voce e il coro (composto da un numero variabile tra i 20 e i 30 detenuti e volontari esterni) che si lancia in iperbolici sogni di andare a cantare in sala Nervi a Roma per Francesco, perché no magari il 17 dicembre quando compirà 80 anni, oppure di averlo al Due Palazzi di Padova e via volando con Pindaro. La vicenda ha inizio un mese fa e ruota attorno ad Armand David, in carcere da 12 anni e con altri otto da scontare. Mamma greca e papà albanese, parla cinque lingue e si diverte con i dialetti italiani, triestino in testa. Sei anni fa ha incontrato don Marco Pozza, 38 anni, che del carcere è il cappellano, e che conduce su Tv2000 il programma “Padre nostro”, ogni puntata introdotta da Francesco in persona. Un incontro decisivo, l’inizio di un cammino di fede: Armand nel 2013 in Duomo riceve il battesimo, studia, approfondisce, gode di permessi e li trascorre in seminario o in vescovado con Claudio. Dove per Claudio è da intendersi il vescovo. Già nel novembre 2016, 27 detenuti assieme a don Pozza andarono in udienza da papa Francesco e Armand, che di penna e di lingua è assai sciolto, gli lesse un suo messaggio. Due settimane fa, il secondo incontro col pontefice sempre tramite don Pozza ma con venti minuti di un papale tu per tu. Insomma, quasi amici. Armand, specializzato in creme e cioccolate alla cooperativa Giotto, è uno dei componenti del coro Due Palazzi. E qui una rapida digressione canora. Cinque anni fa i Coristi per Caso, associazione padovana, si mossero per portare l’esperienza corale, il fare gruppo attorno e attraverso la musica, all’interno della casa di pena Due Palazzi (600 detenuti) come attività legata al Cpia (Centro provinciale istruzione adulti) ovvero alla scuola del carcere: ci riuscirono, grazie a una docente interna, Daniela Lucchesi diventata poi corista. Poi è nata anche una collaborazione con il laboratorio teatrale gestito da Cinzia Zanellato. Un foglio mal strappato. Un mese fa, durante una prova, Armand comunica di essere in partenza alla volta di Roma con don Pozza per partecipare alla trasmissione su Tv2000 e chissà, “magari ci scappa un incontro con Francesco”: in fretta e furia, su un foglio mal strappato da un brutto blocco ché altro non c’era, i coristi, tra i quali parecchi musulmani, scrivono una lettera da portare al Papa. Così, un saluto senza pretese. “Caro Francesco, siamo il coro Due Palazzi di Padova. Vogliamo portarti il nostro pensiero assieme alla speranza un giorno di venire a cantare per te. Ti ringraziamo per quello che sei e per quello che fai. Ti mandiamo un caro saluto e un abbraccio”. E l’incontro c’è stato: “Ero nello studio del Papa” racconta Armand “prima con don Pozza e poi soli io e lui. Abbiamo anche pregato per mia mamma che sta male. Poi ho tirato fuori la lettera del nostro coro e gliela ho letta; lui si è seduto al tavolo, ha preso carta e penna e ha risposto”. Vi ringrazio per ciò che fate. Calligrafia chiara, lettere rotonde, aperte: “Al coro Due Palazzi di Padova. Ringrazio la lettera che mi avete mandato. E voglio ringraziarvi per quello che fate”, seguono righe sul senso della presenza esterna in carcere e poi il saluto: “Pregherò per voi e voi non dimenticatevi di pregare per me. Fraternamente, Francesco”. Una ventata di fibrillante e incredula curiosità quando, alla fine della corale prova a ritmo di canti popolari dal mondo, Armand legge la papale missiva in risposta a quella lettera su uno straccio di foglio ma con il cuore spiegato. “È stata un’emozione grande” racconta Giulia Prete, 35 anni, per il secondo anno direttrice del coro, “Il carcere è il luogo dell’imprevisto e dell’indeterminato: tenere assieme un gruppo per cantare è una grande sfida. E una soddisfazione: il gruppo si è affiatato e stiamo facendo un bel lavoro”. Dai 20 agli 80 anni. Volontari compresi (pensionati, imprenditori, liberi professionisti, commercianti e via), l’età dei componenti del coro oscilla dai 20 agli 80 anni: una notevole escursione anagrafica che arricchisce di umanità e confronto un insieme di persone, in teoria le più diverse, in pratica alla pari nel condividere una passione che diventa un percorso. “Cantare con persone detenute, confrontarsi con questo mondo, libera la possibilità della nostra mente di aprire mente e cuore” aggiunge Raffaella Servello, 60 anni, psicologa e corista. E Loredana Drago 70 anni, ex prof, da sempre impegnata nel sociale: “Pensare che il Papa abbia scritto a noi, proprio a noi, mi emoziona tanto. E darà bei frutti”. San Gimignano (Si): detenuti protagonisti a Visionaria Film Festival 2017 sienafree.it, 14 novembre 2017 Dal 16 al 18 novembre a San Gimignano, quaranta corti in gara, ospiti d’eccezione e eventi speciali per raccontare la “zona grigia” dell’esistenza umana. “Con i tuoi occhi” è il cortometraggio realizzato con i detenuti della Casa di reclusione di Ranza che aprirà la 24esima edizione di Visionaria Film Festival 2017, il Festival Internazionale del Cortometraggio promosso dall’Associazione Visionaria con la direzione artistica di Giuseppe Gori Savellini e il contributo del Comune di San Gimignano. Tre giorni di proiezioni, mostre, incontri e incursioni digitali in programma dal 16 al 18 novembre a San Gimignano. La zona grigia. Il punto di vista “neutro” al di là la dicotomia bianco/nero che ingabbia ogni aspetto della vita, è lo sguardo attraverso il quale quest’anno Visionaria Film Festival vuole raccontare il mondo e le sue sfumature, utilizzando la lente del cinema - con 40 corti in gara - ma anche quella della video-arte, del teatro e della tecnologia audiovisiva. La XXIV edizione della rassegna sarà, infatti, all’insegna di una prospettiva nuova che indaga le zone grigie dell’esistenza umana, che ritroviamo nel carcere di Ranza raccontato nella performance teatrale che apre il festival e nel corto a cura di Empatheatre di cui sono protagonisti gli stessi detenuti; nelle “terre di confine” quali le rotte che dall’Asia e dal Medio Oriente portano in Europa, straordinariamente descritte da Paolo Martino nel suo bellissimo film; nei “luoghi di transito” come la Via Francigena riletta da Lara Carpinelli e Ludovica Mantovan, le filmaker in residenza con “Visioni in Movimento” (www.visionaria.eu) Il programma. Visionaria Film Festival 2017 apre i battenti giovedì 16 novembre alle 18.00 al Teatro dei Leggieri a San Gimignano con l’inaugurazione della sezione “Visionart”. In mostra per tutta la durata del festival le opere di video arte in concorso. A seguire è prevista la performance della Compagnia per Ranza diretta da Alessandro J. Bianchi e la proiezione del cortometraggio “Con i tuoi occhi” realizzato nella Casa di Reclusione da Empatheatre. La serata si concluderà con la visione della prima selezione di corti in gara nella sezione Competizione Internazionale e con la visione di “Nora” il corto di Giustino De Michele alla presenza dell’autrice e protagonista Cristina Toccafondi. Nella seconda giornata di festival - venerdì 17 novembre - dopo la proiezione dei corti in gara che saranno votati anche dal pubblico, è prevista la visione del film “Terra di transito” alla presenza del regista Paolo Martino (ore 22.00). Sabato 18 novembre dalle 15.00 tutti i cortometraggi saranno proiettati in loop e subito dopo (ore 18,30) l’incontro dal titolo “Riflessioni sul tema del neutro” con Maurizio Boldrini che presenta il libro di Cristina Addis “L’isola che non c’è - Sulla Costa Smeralda o di un’utopia capitalista”. La giornata conclusiva del festival è ricca di sorprese. Visionaria si chiude, infatti, con un evento speciale che, con l’aiuto del pubblico in sala, trasforma la platea del teatro in uno schermo virtuale. Una dimostrazione di grande impatto che fa parte del progetto “Human Screen” ed è realizzata in collaborazione con il Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Siena (ore 21.00). Segue la proiezione dei corti finalisti (che i presenti potranno votare) e l’assegnazione dei premi del pubblico e della giuria composta dal regista Matteo Oleotto, dall’attrice Rossana Mortara, da Giulio Kirchmayr (responsabile Corto86 del Premio Mattador di Trieste), da Maria Cristina Addis (semiologa) e dal regista Paolo Martino. Un premio speciale poi per il 2017 sarà quello dei detenuti del carcere di Ranza, uno dei premi sarà assegnato da loro dopo una proiezione speciale tra le mura del carcere. Chiude il festival il finale della prima edizione del progetto “Visioni in Movimento” che ha impegnato Visionaria durante l’estate: una scuola di cinema itinerante per artisti in residenza e durante il festival saranno proiettati i due film realizzati da Lara Carpinelli e Ludovica Mantovan durante la loro residenza artistica itinerante sulla Francigena e prodotti da Visionaria e Premio Mattador in collaborazione con la casa di produzione Kiné. Visionaria Film Festival 2017 è un evento organizzato e prodotto dall’Associazione Visionaria con la direzione artistica di Giuseppe Gori Savellini in collaborazione e con il contributo del Comune di San Gimignano. Grazie all’aiuto di Culture Attive, Kiné, Ristorante il Feudo, Premio internazionale per la sceneggiatura Mattador, Università di Siena-Santa Chiara Lab, Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Siena, Casa di Reclusione di San Gimignano. Salerno: “Cella Zero”, al Teatro Delle Arti tra spettacolo e riflessione di Claudia Bonasi Il Mattino, 14 novembre 2017 Un biglietto per l’inferno, di andata e ritorno, per raccontare cosa succedeva nella Cella Zero. È la storia, vera, di Pietro Ioia, già detenuto a Poggioreale, oggi presidente dell’associazione ex carcerati che si batte per il loro reinserimento nel sociale, che il protagonista della vicenda racconta interpretando però questa volta non il ruolo della vittima, ma quello dell’aguzzino. “La Cella Zero” andrà in scena domani, ore 21, al Teatro delle Arti di Salerno, preceduto da un dibattito sul tema “Le maschere della violenza”, con interventi di Ioia, di Vincenzo Borrelli, regista e adattatore del testo, del procuratore Erminio Rinaldi, dell’assessore regionale Chiara Marciani, del consigliere regionale Maria Ricchiuti, del componente della Consulta femminile della Regione Maria Rosaria Meo. L’iniziativa, su un tema arduo come il bullismo, è di Arcoscenico in collaborazione con l’Unicef. Lo spettacolo, i cui testi sono a cura di Antonio Mocciola e Pietro Ioia, è un viaggio nell’incubo vissuto da un ragazzo napoletano - interpretato da Ivan Boragine - che trascorre 22 anni della propria esistenza in carcere e, ormai cinquantenne, dopo avere scontato la pena, trova la forza di raccontare le violenze e le ingiustizie sofferte in quel luogo innominabile, senza numero, i cui muri sono testimoni di crudeltà e sopraffazione. Per lo spettatore, quella stessa cella diventa il non luogo della paura, un perimetro claustrofobico da cui non si può fuggire, che tutti i detenuti conoscono ma di cui non si può parlare. “L’idea è venuta al giornalista napoletano Mocciola, che con Ioia ha deciso di affidare a me la regia. Come si fa a non appassionarsi ad una storia del genere? Io che del teatro sociale ne ho fatto parte della mia vita, ho trovato doveroso e affascinante sposare questa causa ed abbracciare questa denuncia - spiega Borrelli Volevamo raccontare l’orrore della Cella Zero che tutto fa tranne che rieducare. Ioia racconta del Gom, il gruppo operativo mobile, che agiva nelle carceri armato e mascherato, spaventando a morte i detenuti, alcuni dei quali si sono anche suicidati. Le vessazioni erano sia fisiche che psicologiche: la vista di un cappio nella cella, i cani che ti azzannano, le minacce. Una situazione di paura soffocante che ho cercato di rendere in scena lasciando intuire ciò che accadeva più che mostrarlo apertamente. A giorni dovrebbe uscire anche il libro di Ioia su questa vicenda. Di certo per lui è stato durissimo non solo raccontare cosa gli è accaduto, ma anche rappresentarlo in scena”. Ferrara: pallavolo in carcere, “porte aperte” allo sport per i detenuti estense.com, 14 novembre 2017 Continuano i progetti Uisp in via Arginone. “Vincono tutti i partecipanti per l’entusiasmo”. Sabato 11 novembre, presso la casa circondariale di Ferrara, si è svolta una partita di pallavolo a cui hanno partecipato un gruppo di detenuti e una delegazione composta da giocatori della squadra amatoriale di Castello d’Argile e altri pallavolisti di Ferrara. L’evento, che si ripete 5-6 volte l’anno, fa parte dell’attività pallavolistica condotta dall’istruttore Michele Testoni con un gruppo di una ventina di ragazzi che si allena in carcere una volta alla settimana. L’incontro è durato dalle 13.30 alle 15 e, dopo alcuni set in cui le squadre esterna e interna si sono fronteggiate, sono stati svolti altri set con squadre miste. Come precisa Testoni “lo spirito è stato più quello dell’incontro che dello scontro e la vittoria va assegnata a tutti i partecipanti per la presenza e l’entusiasmo profusi”. L’evento, organizzato da Uisp Ferrara, rientra nelle attività del progetto “Le porte aperte”, coordinato da Davide Guietti (Uisp). L’attività motoria in carcere è resa possibile da un protocollo d’intesa a livello nazionale fra Uisp e il Ministero della Giustizia e a livello locale grazie ad una convenzione con il Comune di Ferrara avviata nel 2003 e rinnovata in questi anni. E, soprattutto, grazie all’impegno costante della Migranti. Vittime (quali contano di più?) di Alberto Leiss Il Manifesto, 14 novembre 2017 Ricordo l’enorme impressione che mi fece forse il primo grave incidente in mare legato ai nuovi flussi di migranti verso il nostro e gli altri paesi europei. Allora “l’invasione” ci minacciava dalla vicinissima Albania. Il 28 marzo 1997 una motovedetta della marina militare italiana in un’azione di contrasto speronò la motovedetta albanese Katër i Radës (Quattro in Rada). La nave era carica di circa 120 profughi in fuga dall’Albania in rivolta, affondò, e morirono 81 persone di cui si riuscì a recuperare il corpo e, si stima, tra 27 e 24 persone mai ritrovate. I superstiti furono 34. Pensai allora che di ognuna di queste vittime avrebbe dovuto essere raccontata con profonda passione e conoscenza l’intera vita. Le loro biografie non dovevano perdersi nell’oblio, ma fondare una memoria contro il rischio della violenza, spinta dalla paura dello straniero, del diverso, dell’altro che bussa alla porta chiedendo aiuto. Quelle vecchie emozioni sono riapparse leggendo in questi giorni qualcosa di simile riferito ai corpi - quasi tutti ancora senza nome - delle 26 giovani donne nigeriane raccolti in mare e sbarcati da una nave spagnola a Salerno. Ormai facciamo fatica a vivere i sentimenti adeguati di dolore, di sdegno, di rabbia, per la quantità di violenza che non riusciamo a arginare, che forse indirettamente contribuiamo a esercitare, né siamo capaci di tradurre queste reazioni in parole, in gesti adeguati. Colpisce la logica gerarchica con cui le informazioni sulle vittime vengono confezionate e offerte al pubblico, catalizzando o meno l’attenzione di chi fa politica, riflette, analizza. Se un seguace dell’Isis falcia otto ciclisti con un suv a Manhattan le prime, seconde e terze pagine dei nostri quotidiani si riempiono di articoli e di immagini, attivano una catena di riferimenti che conducono all’attacco alle Twin Towers del 2001, agli altri attentati nelle città europee. Ma se un’autobomba - si tratta dunque di un fenomeno terroristico simile - uccide più di 300 persone a Mogadiscio, l’eccidio stenta a conquistare un titolo in prima pagina. A malapena qualcuno di noi si incuriosisce sulle cause e le dinamiche che sconvolgono un paese tanto distante (ma anch’esso in realtà vicino alla nostra storia, con il suo periodo di aggressività coloniale). Gli sbarchi forse diminuiscono, grazie alle spregiudicate iniziative del governo italiano, ma pochi giorni fa, di nuovo, una cinquantina di migranti sono affogati vicino a noi, con una inquietante tensione tra una imbarcazione della guardia costiera libica e una nave delle Ong. Però serve a poco notare che lungo il 2016 i morti nel Mediterraneo sono stati più di 5.000, quasi il doppio delle 2.603 vittime degli attacchi aerei su New York. E da quanti anni si ripete questo massacro? Quanti anni durerà ancora? Qual è il modo giusto di reagire a una tale forma di terrore? Chomsky sollevò la questione delle vittime “non meritevoli di considerazione” già molti anni fa (nel libro La fabbrica del consenso). Oggi questo interrogativo mi sembra più urgente perché le dinamiche della violenza ci sono così vicine. E ci confondono. L’attentato terrorista assomiglia sempre di più a un “banale” incidente stradale (ma non bisognerebbe chiedersi quanto senso abbia accettare tante morti per un poco sensato sistema di mobilità?). Mentre la mente dell’attentatore “radicalizzato” assomiglia a quella del normale “pazzo” che fa una strage in chiesa dopo aver litigato con la suocera. Per non dire che noi stessi - in quanto maschi - ci scopriamo improvvisamente persecutori di vittime che si ribellano come mai prima d’ora. Il Garante della privacy Ue: “sulla protezione dei dati l’Europa è leader” di Carola Frediani La Stampa, 14 novembre 2017 La data retention a sei anni? Non rientra nell’approccio europeo. Gli accordi con gli Usa? Poche garanzie sulla sorveglianza. A colloquio con Giovanni Buttarelli. Sono anni intensi per chi si occupa di protezione dei dati e di privacy in Europa. Nel maggio 2016 entrava in vigore il nuovo Regolamento europeo in materia di protezione dei dati personali (Gdpr), che diventerà definitivamente applicabile nei Paesi membri dal 25 maggio 2018 e che dovrebbe irrobustire la difesa delle informazioni personali conservate da aziende e pubbliche amministrazioni. Anche se queste sembrano ancora indietro nella capacità di adeguarsi. Inoltre sempre nel 2016, anche sull’onda lunga delle rivelazioni di Edward Snowden sui programmi di sorveglianza di massa americani, la Commissione Ue e il governo Usa rinegoziavano un accordo sui meccanismi di trasmissione dei dati dei cittadini europei negli Usa: il precedente Safe Harbor veniva dunque sostituito dal Privacy Shield. Ora proprio a ottobre la Commissione ha presentato un primo rapporto di valutazione del funzionamento di tali meccanismi. Il verdetto suona diplomatico: dice che l’accordo sembrerebbe funzionare, anche se necessitano miglioramenti. Nel mentre, sempre nel dicembre 2016, e per la seconda volta a distanza di due anni, la Corte di Giustizia dell’Unione europea si pronunciava contro la raccolta di massa, indifferenziata, di traffico telefonico e telematico da parte dei governi, la cosiddetta data retention. Tema che in Italia è diventato particolarmente caldo visto che il Parlamento ha da poco approvato proprio una estensione a sei anni dei tempi di conservazione di questi dati. In questo contesto abbiamo rivolto alcune domande a Giovanni Buttarelli, magistrato italiano e dal 2014 Garante europeo della protezione dei dati (GEPD), che nei giorni scorsi si trovava a Milano per partecipare a un convegno organizzato da Deloitte su come le aziende si stanno preparando agli obblighi previsti dal nuovo Regolamento Ue. Partiamo proprio dal Regolamento, in vista della sua piena applicazione attesa per maggio. Cosa cambia dal punto di vista dei cittadini? Quali sono i vantaggi rispetto a prima? “Vorrei partire da un aneddoto. A un evento all’università di Leuven (Belgio) è stato presentato uno studio su come i dati relativi alla dislocazione dei nostri apparecchi, che di fatto ormai sono delle protesi mobili dei nostri corpi, siano scambiati 5398 volte nel giro di 14 giorni. Ma non solo tra quei pochi operatori principali che usiamo via cellulare, bensì attraverso una serie di misteriosi partner che vengono a beneficiare di informazioni granulari sulla nostra vita privata. E tutto ciò senza che noi ne abbiano consapevolezza, o solo perché abbiamo ceduto per comodità alle app l’accesso ai nostri contatti, dislocazioni, microfono. Ecco il fenomeno appena descritto è esattamente quello che il Regolamento vuole modificare, non per ridurre l’innovazione, ma perché non tutto ciò che è tecnicamente fattibile è anche eticamente sostenibile. In pratica vogliamo cambiare le regole per chi da remoto fa business in Europa, magari attraverso succursali, chiedendo che i dati siano trattati in base alle regole e alle garanzie europee”. E su una pubblica amministrazione o un’azienda quanto incide? L’obbligo di notifica in caso di violazione dei dati entro 72 ore e le sanzioni previste verranno applicati in modo efficace? “La protezione dei dati diventa seria. E le sanzioni sono molto rigorose, prevedendo fino al 4 per cento del fatturato globale annuo. Ma anche l’obbligo di valutazione dei rischi dovrà essere personalizzato, e andrà oltre un semplice documento programmatico sulla sicurezza. In pratica si chiede di prendere precauzioni prima, non di aspettare. La riforma dà anche più poteri alle Autorità garanti dei vari Paesi, anche se quella italiana ne aveva già di più”. Sul fronte dell’accordo con gli Usa sul trasferimento dei dati di cittadini europei, il Privacy Shield, come è andata la prima valutazione? Certamente le aziende statunitensi si stanno certificando. Ma da parte dell’accesso ai dati del governo Usa che garanzie abbiamo? “Il Privacy Shield aumenta le garanzie sul piano commerciale, fa dei passi in avanti, ma non è stato considerato soddisfacente dalle Autorità garanti. Esportare dati negli Usa resta un’eccezione perché quel sistema non è adeguato. La revisione dell’accordo ha rivelato che molte delle misure previste sono state prese all’ultimo momento. Forse per l’amministrazione Trump il Privacy Shield non era prioritario, ma pacta sunt servanda. Diciamo che abbiamo più rassicurazioni sul piano commerciale che su quello della sorveglianza del fatto che questi dati siano usati in maniera proporzionata e necessaria”. E cosa può fare l’Europa dunque? Che ruolo può avere a questo punto? “Soffriamo un forte divario internazionale sul fronte dei big data. Ma nello stesso tempo siamo leader sul piano dei valori e delle regole. E sul tema privacy e protezione dei dati possiamo fare da avanguardia, anche dal punto di vista dello sviluppo di professionalità specifiche”. In questa visione di leadership sui valori, che ne pensa della decisione dell’Italia di estendere la data retention a 6 anni? È conforme al diritto europeo? “Da magistrato capisco che la giustizia abbia molte difficoltà e ostacoli oggi, e che gli organi investigativi debbano essere equipaggiati per fare indagini. Come garante europeo non commento la scelta del Parlamento italiano. Posso fare delle osservazioni da notaio in merito alle regole europee: e queste dicono che non è possibile fare data retention su tutti, in modo non selettivo, senza indicare fenomeni specifici o categorie di persone sotto indagine. La Corte di giustizia europea ha detto che non si può più raccogliere qualsiasi cosa che riguardi tutti solo per avercelo “nel caso”. Questo è un tipo di approccio che non fa parte del sistema giuridico europeo. E la scelta dell’Italia ha molto sorpreso Bruxelles, c’è molta attenzione da parte del Parlamento Ue. Teniamo presente che un Paese come la Germania ha previsto un tempo di data retention che al massimo arriva a 10 settimane. Oltre al fatto che la Corte europea aveva annullato una direttiva che prevedeva un massimo di due anni”. In Italia in questo momento c’è anche un dibattito su come regolamentare l’utilizzo nelle indagini di strumenti investigativi invasivi come i captatori informatici o trojan. Che ne pensa? “Come magistrato e garante penso che questi strumenti si possano usare, considerato anche il fatto che invece sulla crittografia dobbiamo tenere una linea ferma, ovvero dobbiamo pretendere che i sistemi di cifratura non vengano “rotti” perché ne sarebbe danneggiata la sicurezza delle informazioni. Nel caso dei captatori il problema riguarda soprattutto i dettagli del loro utilizzo. Perché senza una particolare selettività si può andare oltre lo scopo da perseguire. Bisogna stare attenti a cosa si prende, bisogna essere molto selettivi”. Egitto. Giulio Regeni e l’interesse nazionale di Riccardo Noury* Il Manifesto, 14 novembre 2017 La “verità” di Alfano e al-Sisi. Se mai per le istituzioni italiane ne abbia fatto davvero e sinceramente parte, Giulio è uscito dall’interesse nazionale. Resta, e non è affatto poco, nell’interesse delle innumerevoli persone che chiedono verità. Non quella dei governi italiano e egiziano ma la verità storica e politica. Da 22 mesi le parole “ricerca” e “verità” sono sinonimo di Giulio Regeni: da quel 25 gennaio 2016, quando Giulio venne sequestrato al Cairo per essere sottoposto a giorni di sparizione e torture mortali. La “ricerca” era esattamente ciò che Giulio stava facendo nella capitale egiziana. La “verità” è esattamente quella che chiedono milioni di persone e centinaia di enti locali e luoghi di cultura in Italia. Ma giovedì scorso quelle due parole sono state incredibilmente associate ad Abdel Fattah al-Sisi. A descrivere il presidente egiziano come “interlocutore appassionato nella ricerca della verità” è stato il nostro ministro degli Esteri Angelino Alfano. Due mesi fa, a settembre, nell’ambito della retorica usata per giustificare il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo, lo stesso Alfano aveva definito l’Egitto “partner ineludibile”. Il 7 febbraio 2016, quattro giorni dopo il ritrovamento del corpo martoriato di Giulio, sempre Alfano aveva dichiarato: “È stato un pugno allo stomaco, e il respiro non è ancora pienamente tornato. Abbiamo potuto vedere gli esiti dell’autopsia, è qualcosa di inumano, una violenza animalesca (…) Riportare a galla la verità vuol dire anche evitare che altre vite siano spezzate in questo modo (…) Quella morte fa onore all’intera Italia, è il sacrificio di un ragazzo che cercava la verità”. Da allora il respiro è “pienamente tornato”, altre vite sono state “spezzate in questo modo” e “riportare a galla la verità” è diventato meno importante. E comunque, tranquilli, a cercarla in modo “appassionato” è il presidente egiziano al-Sisi. Come siamo arrivati a un punto così basso? Ce lo ha ricordato lo stesso al-Sisi, pochi giorni fa, quando ha fatto riferimento all’immediato riconoscimento politico del governo italiano - oltre a impegnativi attestati di stima personale dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi - dopo il suo colpo di stato del luglio 2013. Nonostante fosse subito scattata la repressione (con centinaia di morti nelle strade, arresti di massa ma anche imprigionamenti selettivi di attivisti, difensori dei diritti umani e giornalisti), quel rapporto privilegiato l’Italia ha proseguito ad averlo, autorizzando per mesi e mesi l’invio alle forze di sicurezza egiziane di armi e materiali per la sorveglianza. Le sparizioni e le torture, più che quotidiane, sono state ignorate fino a quando a venire sequestrato e torturato non è stato uno dei tanti “Giulio egiziani” ma Giulio l’italiano. Giulio Regeni. Da allora, piuttosto che ricercare appassionatamente la verità, le autorità egiziane hanno portato avanti una strategia di ricostruzioni ridicole e offensive, depistaggi - uno dei quali peraltro costato la vita a cinque innocenti nella tragica messinscena del “vassoio d’argento” intorno alla Pasqua del 2016 - e ritardi indecenti. Il richiamo temporaneo dell’ambasciatore, ad aprile dello scorso anno, è stata l’unica decisione assunta dal governo. Ma dopo un anno un’ossessiva campagna politica e mediatica - che si è avvalsa delle opinioni di ex ambasciatori, ex presidenti di Ong, giornalisti e parlamentari, spesso tramite articoli-fotocopia - ha dato il segnale che le relazioni diplomatiche sarebbero state normalizzate di lì a breve. Quella campagna, ipocritamente, poneva Giulio al centro degli interessi nazionali dell’Italia: la ripresa delle relazioni diplomatiche avrebbe favorito, si diceva, proprio la ricerca della verità. Sappiamo bene, tre mesi dopo la decisione di rimandare l’ambasciatore in Egitto e due mesi dopo il suo ritorno, come stanno andando le cose. Di tutto si è ripreso a parlare (turismo, immigrazione, terrorismo, rapporti economici) meno che di Giulio. La situazione dei diritti umani al Cairo è ulteriormente precipitata, con la sparizione dell’avvocato Ibrahim Metwally e i tentativi di chiusura della Commissione egiziana per i diritti e le libertà e, da ultimo, con la conferma della condanna a cinque anni per l’attivista rivoluzionario Alaa Abdel Fattah. Nel frattempo, una doverosa richiesta di rogatoria internazionale per acquisire informazioni utili alle indagini della procura di Roma è diventata il pretesto per la ripresa della latente campagna contro la “perfida Cambridge”. Avranno da nascondere qualcosa?, ha sollecitamente twittato Matteo Renzi, di cui non si ricordano in 22 mesi tweet altrettanto solleciti per chiedere se qualcosa da nascondere l’avessero per caso al Cairo. Nella capitale egiziana ha ripreso vigore il teorema Fratellanza musulmana - Cambridge - Giulio Regeni, in quella italiana la “pista Cambridge” ha ridato fiato alle trombe del complotto. Se non si riesce a prendersela con l’Egitto resta sempre una Cambridge su cui puntare il dito. Ieri, alla vigilia del secondo mese dal rientro dell’ambasciatore italiano al Cairo, Amnesty International è tornata a chiedere al governo quali “passi avanti”, garantiti sempre dal ministro Alfano nell’arsura ferragostana in cui annunciò la piena ripresa delle relazioni diplomatiche tra Italia ed Egitto, siano stati pretesi e ottenuti nella ricerca della verità per Giulio. Abbiamo anche chiesto che fine abbia fatto la figura tecnica per le indagini da affiancare all’ambasciatore, di cui non c’è traccia nei documenti ufficiali e nelle interviste ai rappresentanti del nostro governo. Abbiamo chiesto infine che risposta sia stata data all’arrogante convocazione del nostro ambasciatore e di altri quattro suoi colleghi, colpevoli di una “inaccettabile ingerenza”, ossia aver espresso preoccupazione per la perdurante detenzione di Metwally. Se mai per le istituzioni italiane ne abbia fatto davvero e sinceramente parte, Giulio Regeni è uscito dall’interesse nazionale. Resta, e non è affatto poco, nell’interesse delle innumerevoli persone che chiedono verità. O meglio che chiedono che la verità storica e politica che conosciamo - e che ha portato già da subito a definire quello di Giulio “un delitto di Stato” - sia ammessa anche dalle autorità egiziane. Pensano, quelle persone, che pretendere la verità per un cittadino italiano vittima di un delitto di Stato all’estero sia precisamente un interesse nazionale. Non so se la morte di Giulio abbia fatto “onore” all’Italia intera. Ma orrore sì, sicuramente. *portavoce di Amnesty Italia Francia. Rischio suicidio per Salah Abdeslam: ammorbidito l’isolamento interris.it, 14 novembre 2017 Rimossa la lastra che impediva al terrorista dell’Isis di guardare fuori dalla sua cella. Le autorità giudiziarie francesi hanno deciso di ammorbidire la condizioni di detenzione di Salah Abdeslam, unico superstite degli attacchi del 13 novembre a Parigi. Nelle more del processo, in programma non prima di fine 2019 o 2020, c’è infatti il timore che il terrorista possa decidere di togliersi la vita in carcere. Salah si trovava in condizioni di totale isolamento, privato di ogni contatto anche sonoro o visivo con l’esterno, ma ora è stato deciso di rimuovere almeno il pannello in plexiglass che oscurava la vista la finestra della sua cella di 10 metri quadrati. Rimosso anche il vetro che lo separava dai visitatori in parlatorio. Secondo Le Figaro, il jihadista con la bocca cucita. Maniaco dell’igiene, passa intere giornate a pulire la cella, addirittura gli alimenti. In prigione ha ricevuto le lettere di alcuni sostenitori anonimi, a cui in alcuni casi ha risposto. Le misure di sorveglianza, invece restano invariate. Filmato dalla videosorveglianza 24 ore su 24 e sorvegliato da sei agenti penitenziari, l’ormai trentenne Abdeslam è l’unico detenuto di Francia ad essere oggetto di una tale misura, con quattro celle destinate a lui soltanto. La sua, una di ricambio in caso di danneggiamenti, una terza con un vogatore e una quarta come posto di sorveglianza. L’ora d’aria, la fa invece in uno spazio isolato, tenuto a distanza dagli altri detenuti. Abdeslam dispone di un tappeto da preghiera e di una copia del Corano. Dal 18 dicembre verrà processato a Bruxelles per gli spari contro gli agenti di polizia nel marzo 2016 pochi giorni prima della sua cattura. Le autorità di Belgio e Francia stanno ultimando le trattative per il suo temporaneo (e blindatissimo) trasferimento a Bruxelles. Salah è colpevole della sparatoria nei pressi del Café Bonne Bière e della pizzeria Casa Nostra, in Rue de la Fontaine au Roi da cui dopo scappò in macchina assieme ad altri due terroristi. Il 20 novembre è stato accertato un avvistamento nei pressi di Bruxelles e un cambio di look per mascherare la sua identità e depistare le indagini. Il 18 marzo 2016 viene infine ferito ad una gamba ed arrestato a Molenbeek con un’operazione della polizia all’interno dell’appartamento dove era nascosto insieme ad altri terroristi da più di quattro mesi. Messico. Faide, narcos e anfetamine. Così Ciudad Juárez ritorna capitale dei femminicidi di Guido Olimpio Corriere della Sera, 14 novembre 2017 Le Conversazioni EsterE sono nate per parlare di Esteri. E per ricordare Maria Grazia Cutuli. Il nostro pullmino è partito a giugno da Londra in direzione Parigi, tra Brexit e Macron; si è spostato a Berlino per riflettere sul potere infinito di Angela Merkel; è passato da Roma a Tripoli discutendo di migranti; lo abbiamo infine lasciato tra Washington e Mosca a caccia di fantasmi da guerra fredda. Siamo così arrivate a novembre e a quella data - il 19 - che ci riporta tutti in Afghanistan dove nel 2001 l’inviata del Corriere della Sera venne assassinata con altri tre colleghi. Per noi delle Conversazioni, novembre è il più importante dei mesi. Consegneremo il Premio Cutuli 2017 a Jenan Moussa, una reporter che ci ha colpito per il suo incrocio di passione e competenza. E nel frattempo ci incontreremo lungo i confini che segnano il nostro tempo. Dal 15 al 19 novembre discuteremo di fake news e di nucleare, di Turchia e Catalogna, di Medio Oriente, di Messico. Andremo là dove la terra brucia, come Maria Grazia amava fare, armata soltanto del desiderio di raccontare le persone e le retrovie delle notizie. Saranno con noi scrittori e analisti, italiani e stranieri. A moderare ritroverete assieme alle nostre giornaliste le colleghe di Foglio, Fondazione Oasis, Radio Popolare e Studio. Un gruppo che, da un’idea del Corriere, ha messo in comune professionalità e conoscenze per costruire una riflessione aperta alle idee e alle storie. È un viaggio che continua, state con noi. Partiamo dalla conta delle vittime. Un indice crudo. A Ciudad Juárez, Messico, ci sono stati solo quest’anno 625 omicidi, un aumento pericoloso rispetto ai 470 dell’intero 2016. E tra le vittime ci sono una settantina di donne. Dato che ricorda periodi ancora peggiori, quelli che hanno trasformato la città al confine con gli Usa come un campo letale, la capitale del femminicidio. Madri, figlie, ragazze a volte stritolate dalle faide, ma spesso rapite e fatte sparire da predatori meno scontati e insospettabili, killer vicini o venuti da lontano, magari da oltre frontiera. Con la località diventata un terreno di caccia di assassini rimasti spesso impuniti. Finale, però, che non sorprende visto che la legge qui è sempre in ritardo, battuta sul tempo e per efficacia da chi spara. Sempre le statistiche avvertono che sono 142 le donne scomparse nel 2017 e pochi sperano di rivederle in vita. L’ondata di violenza nello stato di Chihuahua è legata alla narco-guerra che si combatte in altre regioni messicane. Gli esperti spiegano che la lotta si è inasprita per una serie di fattori, alcuni comuni al conflitto generale che oppone i gangster su molti fronti, altri più contingenti e connessi all’ambiente di Ciudad Juarez e dintorni. Intanto l’organizzazione di Sinaloa, priva del Chapo finito in prigione negli Usa, e ora in mano ai suoi successori per nulla compatti, prova a tenere duro. Il suo piano è di rilanciare la vendita di anfetamine nella zona: sembra che non potendo produrle localmente, le fabbrichi in Sonora, quindi le faccia arrivare con una rete di corrieri. Un sistema che porterebbe alcuni carichi a passare negli Usa (via Arizona), per poi rientrare in area messicana. Contro questa iniziativa si sono mosse le bande regionali, in particolare i membri de La Línea. Per lungo tempo braccio armato del cartello di Juarez, ora il gruppo agirebbe in modo più autonomo, tanto che si parla della nascita di una nuova entità. Da qui, gli scontri a fuoco e gli agguati, una costante per l’intero quadrante che guarda verso il Texas, tradizionale sbocco per i prodotti e punto d’appoggio per clan che si occupano dello smercio. Nella battaglia si sono inseriti - e di nuovo questo è un dato generale - i sicari di Jalisco Nueva Generación, il network criminale in netta ascesa a livello nazionale, determinato a prendere il posto di Sinaloa, suo rivale diretto. È una realtà composita, dove i piccoli boss sono convinti di poter sfruttare le spaccature nelle famiglie tradizionali mentre i leader vogliono ribadire il loro potere e conquistarne altro. A metà ottobre un commando del Barrio Azteca, affiliato a Juarez, ha attaccato un consultorio per tossicodipendenti a Chihuahua: 15 le persone fucilate. Sembra che gli uccisi fossero vicini al gruppo rivale dei Mexicles. Incursione preceduta da una serie di attacchi a locali pubblici, bar e ristoranti del capoluogo. Il modus operandi non è proprio inedito. I massacri servono a marcare il territorio, punire gli eventuali spacciatori non allineati, stoppare infiltrazioni di altre associazioni mafiose. E numerosi centri di assistenza sono finiti sotto il fuoco dei kalashnikov. Episodi dove l’innocente e il colluso rischiano di trovarsi sulla stessa linea di tiro, anche se c’è la tendenza ufficiale a definire tutto come dei regolamenti di conti. Versioni veloci fornite anche per spiegare le imboscate contro i giornalisti, caduti a decine. I reporter fanno semplicemente il loro mestiere, con grande coraggio e senza protezione. Anzi, spesso sono isolati. I padrini e le autorità corrotte non gradiscono, dunque si affidano ai proiettili per spegnere per sempre voci sgradite. Come quella di Luciano Rivera, freddato in un bar a Playas de Rosarito, il 31 luglio. Pochi giorni fa la polizia, in collaborazione con la Difesa, ha arrestato il presunto responsabile dell’esecuzione: Josè Hernandez, detto Bruno, membro del cartello di Sinaloa e una valanga di precedenti. Australia. Sistema a radio-frequenza per tracciare i movimenti dei detenuti nelle carceri di Francesco Martini movimento5stelle.it, 14 novembre 2017 È utilizzato all’interno di un progetto che prevede la costruzione di un penitenziario, la sperimentazione di chip a radiofrequenza negli abiti dei detenuti per localizzarli e tenere traccia di ogni loro movimento. La Alanco Technologies Inc, sviluppatrice del sistema di tracking di detenuti e polizia penitenziaria chiamato Tsi Prism Rfid, ha sviluppato per l’Australian Capital Territory (ACT) un progetto per la costruzione di una nuova prigione multilivello a 375 camere, che è già stata inaugurata a Canberra nella seconda metà del 2006. Questo è il passo iniziale del progetto dell’ACT che intende incrementare il mercato dell’identificazione a radio frequenza in tutto il territorio australiano. Robert Kauffman, capo esecutivo di Alanco ha commentato: “Il contratto con l’ACT è il nostro terzo progetto in quest’ultimo mese (dopo quelli in Olanda ed in Malesia) e ci permette di comprendere l’effettivo valore del sistema Tsi Pirsm, che intende rendere più sicure le prigioni con una riduzione dei costi operativi. In pratica questo sistema sfrutta la radio-frequenza per tracciare i movimenti dei detenuti, permettendo una migliore gestione del personale, maggior controllo, quindi aumento della sicurezza all’interno delle carceri che lo utilizzano”. Questa novità Rfid utilizza, per la propria gestione, un software proprietario ed hardware brevettato: un vero e proprio insieme di tecnologie pronte per essere applicate in molti altri penitenziari nel mondo. Va sottolineato come il sistema Tsi Prism viene già utilizzato in alcune carceri negli Stati Uniti (precisamente nel Michigan, California, Illinois ed Ohio) ma è stato introdotto in strutture già esistenti e non, come nel caso di Canberra, inserito all’interno di un progetto completamente nuovo, realizzando un edificio, celle e tutto il resto gestite completamente dal sistema Rfid per il controllo dei detenuti. Il sistema consente di gestire aperture e chiusure delle celle, la chiamata di detenuti, avvisi generali ed il controllo movimenti dei detenuti da remoto, consentendo agli agenti di non esporsi e di monitorare tutte le attività da una sala regia. Accorgimenti tecnologici che consentirebbero un notevole risparmio di personale, una maggiore sicurezza ed una attività di controllo totale all’interno degli Istituti Penitenziari.