La verità sull’aumento di paga ai detenuti Il Mattino di Padova, 13 novembre 2017 Lavoro in carcere: è vero che i detenuti guadagnano più degli agenti di polizia penitenziaria? Lo Stato aumenta a mille euro lo stipendio dei detenuti. E i disoccupati? Questi sono alcuni dei titoli di articoli di quotidiani, pubblicati di recente, che riguardano l’aumento delle retribuzioni per il lavoro delle persone detenute dipendenti dall’Amministrazione. Ma come stanno davvero le cose? Dal 1993 le “mercedi” dei detenuti che lavorano per l’Amministrazione erano ferme. Eppure la legge parla chiaro: “Le mercedi per ciascuna categoria di lavoranti sono equitativamente stabilite in relazione alla quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato, alla organizzazione e al tipo del lavoro del detenuto in misura non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro”. (Art. 22 O.P.). Quando, di recente, il Ministero ha deciso di rispettare finalmente la legge, adeguando le mercedi al costo della vita, si è scatenato un inferno di notizie parziali, false, ridicole perfino nella loro distanza dalla verità. Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone e profondo conoscitore della realtà carceraria, ha spiegato bene come stanno le cose: “A chi, politico o sindacalista, si indigna della rivalutazione della misera retribuzione, che per pudicizia il legislatore chiama mercede, concessa ai detenuti per le loro altrettanto poche e misere ore di lavoro dequalificato che svolgono all’interno di un carcere, mi sentirei di rispondere così: era più o meno dai tempi della lira che non c’era un adeguamento della mercede ai costi della vita. Nel frattempo è successo di tutto. a) L’adeguamento è il frutto di un lungo contenzioso con le Corti italiane ed europee; b) il lavoro se non è retribuito allora è forzato e i lavori forzati sono un retaggio di un passato autoritario. c) l’attuale media oraria lavorativa di un detenuto è di un paio di ore al giorno. Per cui tolti i soldi del mantenimento per il vitto e l’alloggio (anche in Italia sono dovuti e di recente sono pure aumentati) e dei risarcimenti vari al detenuto resta poco. Ora resterà poco più di poco. Altro che mille euro al mese”. Ecco un po’ di informazioni e testimonianze per farsi un’idea di come stanno davvero le cose. Lo “scandaloso” aumento dei salari dei detenuti Ancora una volta siamo chiamati a ribattere ad un fuoco di fila di menzogne che ha come obiettivo gli “incomprensibili” privilegi di cui godono i detenuti nel nostro Paese. L’occasione è l’aumento dei salario corrisposto ai detenuti che lavorano per l’amministrazione penitenziaria durante la carcerazione. È stata fatta una tardiva rivalutazione di questi compensi fermi da parecchi anni, lo Stato era evidentemente stanco di perdere contenziosi con detenuti che chiedevano di essere pagati per il loro lavoro in modo equo. Così ha provveduto a riconoscere un diritto, quello del compenso equo per prestazione svolta, riconosciuto ad ogni lavoratore in un paese che si definisce civile. È triste che di fronte all’opinione pubblica venga fatto un confronto senza senso per distorcere la percezione di un problema reale. Un sindacalista della Polizia penitenziaria ha denunciato la disparità di trattamento tra i lavoratori in divisa e i detenuti, a suo avviso chiaramente a favore di questi ultimi. Intanto bisogna dire che i lavoratori detenuti che lavorano stabilmente per l’amministrazione sono una minoranza, ancora meno quelli che svolgono un orario pieno di sei ore giornaliere con un giorno alla settimana di riposo. La maggior parte sono impegnati in lavori da due, tre ore giornaliere. Se si riesce a svolgere una mansione di addetto alle pulizie del reparto oppure di portavitto, impieghi che durano un mese o due, nell’arco di un anno, si viene inseriti di diritto nella lista dei detenuti fortunati. Il numero di ore limitato e il compenso orario esiguo fanno sì che il mese successivo questi lavoratori si trovano nel libretto importi di molto inferiori ai 200 €. Ma è un importo lordo, in quanto una parte viene sottratta per il “mantenimento carcere” (perché in carcere vitto e alloggio si pagano), un valore da poco raddoppiato, circa 110 € mensili, una parte viene inserita nel fondo vincolato, che assicura una certa quantità di denaro da consegnare al detenuto al momento della scarcerazione. Una scelta finalizzata ad evitare di vedere ritornare in società una persona senza un euro in tasca dopo aver lavorato in carcere. Dopo queste decurtazioni automatiche resta ben poco di disponibile a questi “fortunati” lavoratori per mantenersi. Va ricordato che con quanto passa di vitto l’amministrazione, del valore di meno di quattro euro al giorno per i tre pasti, spesso si resta con dei buchi nello stomaco, soprattutto d’inverno quando questo luogo diventa una ghiacciaia. Acquistare del cibo più che uno sfizio diventa una necessità. Osservando i listini dell’elenco dei beni acquistabili salta subito all’occhio che la scelta è limitata e i prezzi certo non convenienti. Se la persona detenuta non lavora, i problemi di mantenimento devono essere risolti da fonti esterne, quindi dalle famiglie. Queste, soprattutto per gli stranieri, sono spesso lontane, e questo rende la loro vita ancora più complicata proprio per la cronica carenza di lavoro. Esiste poi una quota di detenuti di cui si parla poco che è quella dei padri di famiglia con ancora moglie e figli a carico. Per loro lavorare è indispensabile per essere di sostentamento dei familiari all’esterno. Ad una normativa particolarmente restrittiva in tema di affetti si somma una difficoltà a trovare un impiego dietro alle sbarre per alleviare la pesante condizione, non solo economica, in cui si dibatte il resto della famiglia. Dare la possibilità di lavorare ai detenuti è uno dei principali interventi che comportano una diminuzione della recidiva una volta terminata la pena. È quindi il caso di incrementarla, con equi compensi, anche per intervenire positivamente in quel problema di sicurezza sempre più percepito come importante dalla popolazione esterna. Andrea D. Ai detenuti che lavorano 1000 euro al mese? Attraverso questa falsa notizia, diversi esponenti politici e giornalisti poco informati hanno cercato consenso nell’opinione pubblica attaccando i detenuti che fino ad oggi hanno lavorato per cifre irrisorie, anche 35 euro al mese. Voglio ricordare il primo dei principi fondamentali della Costituzione della Repubblica italiana: “L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Ovviamente per avere un quadro della situazione più limpido dovremmo analizzare punto per punto tutti gli impieghi che l’amministrazione offre ai detenuti, ma mi voglio limitare a fare qualche esempio. Ci sono due tipi di lavoro in carcere, uno è quello fisso, cioè, una volta assunto il detenuto lavorerà fino alla scarcerazione salvo imprevisti (trasferimenti, sanzioni disciplinari ecc.), questi detenuti, “fortunati” ricevono circa 450/500 euro al mese. L’altro lavoro che offre l’amministrazione penitenziaria è quello a rotazione, che di fatto dà la possibilità ai detenuti di guadagnare uno “stipendio” per due mesi, ma dopo li tiene fermi per i successivi sei mesi. Voglio soffermarmi però sul motivo principale per cui tanti detenuti aspirano ad un posto di lavoro fisso: il sostegno economico alle proprie famiglie. È risaputo che l’unica fonte di sostegno per i detenuti che non lavorano sono le famiglie, quindi un detenuto per potersi permettere di acquistare una qualsiasi cosa deve per forza pesare sui propri cari, ma nella maggioranza dei casi tante famiglie sono già di per sé disagiate e fanno fatica ad arrivare a fine mese, figuriamoci se possono affrontare le spese di un familiare in carcere che solo per effettuare i colloqui costa 400 euro al mese - minimo - talvolta i famigliari non possono neppure andare a fare un colloquio proprio per la mancanza di disponibilità economica, quindi spesso una mamma, un padre si deve accontentare di sentire il figlio per 10 minuti alla settimana al telefono - fermo restando che il figlio abbia la possibilità economica per permettersi di telefonare tutte le settimane. Tantissime persone versano in condizioni familiari di grande difficoltà, con padri e madri che non hanno la possibilità di pagarsi la benzina e l’autostrada, quindi io credo che si dovrebbe pensare a questo, un detenuto non è solo il reato che ha commesso, ma un figlio, un padre, un fratello; e se sta scontando la sua pena non dovrebbe essere costretto a farlo pesare sulla sua famiglia, è per questo che cerca di ottenere un posto di lavoro fisso che gli consenta di sopravvivere dignitosamente e soprattutto di aiutare i suoi cari. Posso assicurare che la maggior parte dei detenuti che guadagna uno stipendio dignitoso, ne spedisce a loro buona parte. Giuliano Napoli Quando il lavoro rende liberi. Il reinserimento dei detenuti passa anche dall’occupazione di Sabrina Iadarola Italia Oggi, 13 novembre 2017 Il lavoro come forma di sostentamento, come forma di integrazione sociale oppure il lavoro che dà semplicemente un senso al tempo? C’è una realtà spesso poco raccontata (e poco conosciuta), in cui i tre aspetti si sovrappongono e coesistono, più che in altre situazioni: il carcere. In Italia, secondo i dati ufficiali del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nel 2016 i detenuti lavoratori sono stati 16.251, di cui 15.370 uomini e 881 donne (anche se in quota percentuale rispetto alle presenze in carcere, le donne lavoranti risultano essere più degli uomini, 38,56% contro 29,35%). Il ruolo fondamentale del lavoro, sancito dall’art. 1 della Costituzione, viene ribadito con riferimento ai detenuti dall’art. 27, comma 3, dove si prevede come finalità della pena quella di attuare la rieducazione del condannato, in vista del suo rientro nella società. Attraverso il lavoro (e non solo) si dà modo ai detenuti di ampliare le proprie competenze professionali avendo così maggiori opportunità di inserirsi nella società una volta liberi, limitando il rischio di recidiva. L’importanza del lavoro nel processo rieducativo dell’individuo recluso ha trovato poi ulteriori specificazioni prima nella legge 354/1975 sull’ordinamento penitenziario (che parla di diritto-dovere al lavoro retribuito e privo di carattere afflittivo, da garantire al maggior numero di detenuti con condanna definitiva, con modalità di svolgimento il più possibile analoghe a quelle utilizzate all’esterno del carcere, in modo da renderlo realmente funzionale al reinserimento). E poi nella legge 193/2000, c.d. legge Smuraglia, che ha introdotto nell’ordinamento strumenti e azioni (inclusi sgravi fi scali e contributivi per le imprese che assumono detenuti) per favorire la creazione e la gestione del lavoro di persone in esecuzione penale, dentro e fuori il carcere. Nel XIII Rapporto sulle condizioni di detenzione a cura dell’Osservatorio dell’associazione Antigone, autorizzata dal 1998 dal Ministero della giustizia a visitare gli oltre 200 gli istituti penitenziari italiani, si apprende qualcosa in più circa retribuzioni, orari di lavoro e mansioni svolte. Gli orari di lavoro spesso sono inferiori alle 8 ore e sono previsti dei turni, per permettere di lavorare a un maggior numero di detenuti. I dati sul reddito percepito dai detenuti lavoranti sono difficili da reperire, ma è possibile almeno farsi un’idea dello stipendio annuo di un detenuto lavorante. Nel 2014 ad esempio i 12.226 detenuti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria hanno avuto a disposizione 88.975.281 euro per le mercedi, ottenendo in media stipendi pari a 7.300 euro lordi all’anno. Sebbene si tratti di cifre modeste, attraverso l’attività lavorativa retribuita il detenuto ha modo di provvedere al sostentamento proprio e della famiglia, di acquisire competenze e di aumentare la fiducia nelle proprie capacità, obiettivi importanti che dovrebbero aiutarlo a cambiare stile di vita dopo la detenzione. C’è poi un altro dato significativo, ovvero la distribuzione dei lavoranti negli istituti di pena per Regione, che evidenzia una non equilibrata distribuzione delle possibilità di lavorare tra le carceri nazionali, con una percentuale che oscilla tra il 45% di lavoranti nelle carceri sarde e il 21,5% in Friuli-Venezia Giulia. In Lazio i detenuti lavoranti sono 1.340, ma costituiscono solo il 21,94% dei presenti. Proprio per le scarse possibilità di lavoro disponibile, spesso i detenuti lavorano a rotazione, per cui per una stessa mansione si alternano più persone, ciascuna delle quali lavora per un periodo di tempo breve, con un part-time verticale, nel rispetto delle graduatorie. Alcuni detenuti (13.480, tra cui 733 donne) lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria: da chi svolge servizi d’istituto o servizi extra-murari in art. 21 a chi cura la manutenzione ordinaria del fabbricato oppure è impiegato nelle lavorazioni e nelle colonie agricole. Manutentore, addetto alla refezione (cuochi e porta-vitto), barbiere, addetto alla lavanderia sono le fi gure professionali più comuni. Per lo svolgimento di alcune attività sono necessarie particolari competenze, o, perlomeno che siano alfabetizzati, come nel caso dei lavoranti dell’ufficio conti correnti, del sopravvitto, dei bibliotecari. In alcuni istituti, la presenza di spazi da adibire a laboratori attrezzati e i finanziamenti (pubblici e privati) permettono di attivare anche lavorazioni più simili a quelle industriali e artigianali esistenti all’esterno del carcere. In particolare, vengono prodotti beni commissionati dall’amministrazione penitenziaria (mobilio per le carceri, tessuti, lenzuola), la cui realizzazione è affidata ai detenuti. Solo di rado le lavorazioni sono commissionate da privati, dato che i prezzi dei prodotti realizzati non sono competitivi rispetto a quelli di mercato. Alcuni detenuti lavorano in attività agricole, soprattutto in Sardegna e Toscana. Le lavorazioni che richiedono particolari competenze tecniche invece si concentrano negli istituti del Nord, dove i detenuti assemblano componenti elettronici e meccanici (tra Belluno, Padova, Treviso), svolgono attività di call center (Lombardia e Veneto), operano in servizi di data-entry e dematerializzazione documenti (soprattutto nel carcere milanese di Opera). Altri detenuti ancora lavorano in pasticcerie, panifici e pizzerie all’interno degli istituti, per la maggior parte gestiti da soggetti esterni. Infine ci sono detenuti che lavorano al trattamento rifiuti (74 posti di lavoro, concentrati negli istituti di Secondigliano e Rebibbia). Per fare una sintesi, se è vero quindi che lavorare è un diritto-dovere per i detenuti definitivi ed un ottimo (potenziale) strumento di integrazione, ad oggi è anche un privilegio che riguarda solo tre detenuti su dieci. Una serie storica (1991-2016) del Ministero della giustizia mostra infatti che negli ultimi 25 anni i detenuti lavoranti sono scesi dal 34,46% al 29,73%. Perché oltre alle scarse disponibilità di lavoro, risultano favoriti i detenuti che hanno pene più lunghe o che hanno la “fortuna” di finire in un carcere anziché in un altro o di lavorare per privati (che offrono l’unica reale possibilità di reinserimento lavorativo post detenzione). A conferma che, anche se la legge nasce sotto una buona stella e con le migliori intenzioni, non è detto che questo basti. “Freedhome”, una vetrina per i prodotti made in carcere di Sabrina Iadarola Italia Oggi, 13 novembre 2017 Un anno fa nasceva a Torino “Freedhome”. Uno spazio che profuma di voglia di libertà, poiché nello store si concentra tutto l’impegno e il frutto del lavoro svolto in carcere dai detenuti di 40 istituti penitenziari italiani. Grazie alla collaborazione tra Amministrazione penitenziaria, Comune di Torino, le cooperative sparse in tutta Italia, e il contributo della Garante dei detenuti di Torino Monica Cristina Gallo, presso Freedhome è possibile acquistare: lo zafferano lavorato nel carcere di Trento, il pecorino proveniente dalle Colonie penali agricole della Sardegna, la birra alla canapa del carcere di Ancona, il feltro lavorato in quello di Catania. Un’ampia gamma di prodotti enogastronomici e artigianali che ha catturato l’attenzione di visitatori, italiani e non, a caccia delle ultime novità e sensibili all’idea di un cadeaux originale, buono e anche solidale. Caso isolato? Certo che no. Le produzioni “made in carcere” spaziano attraverso tessuti e creazioni artigianali e iniziative dai colori e le forme più disparate. Solo per citare qualche esempio, ci sono gli abiti cuciti dalle detenute di Lecce (sotto la guida di Luciana Delle Donne) o di Milano (con la Sartoria San Vittore che ripara anche le toghe dei giudici). Ci sono le biciclette che rivivono una seconda vita grazie alla CicloOfficina Sociale “Il Cerchio” di Venezia o il profumo del “Caffè Galeotto” torrefatto a Rebibbia. Birra Vale la Pena è un progetto di inclusione cofinanziato dal Ministero dell’università e ricerca e dal Ministero della giustizia e realizzato da Semi di Libertà Onlus che coinvolge detenuti ammessi al lavoro esterno, provenienti dal carcere romano di Rebibbia, che vengono formati ed avviati all’inclusione professionale nella filiera della birra. Le loro birre sprigionano profumi, ed uomini. Si tratta di prodotti di qualità e di “valori”. Come quelli prodotti alla Dozza di Bologna, dove alcuni detenuti sono stati assunti dall’azienda salentina “Liberiamo i sapori”, che ha aperto il primo caseificio all’interno del carcere di Bologna. Nel carcere di Padova la pasticceria Giotto produce ogni giorno dal 2005 panettoni, colombe, veneziane, biscotti. I ragazzi dell’Istituto per minori Nisida a Napoli realizzano il biscotto portafortuna a forma di corno “ciortino”, da “ciorta” (in napoletano significa sorte, fortuna). Tutti i prodotti “made in carcere” non sono destinati alla grande distribuzione, ma il Ministero della giustizia offre una vetrina on line per conoscere le creazioni dei detenuti e dove acquistarli. L’azienda Giacinto Callipo Conserve Alimentari ha appena rinnovato per il secondo anno la collaborazione con il Penitenziario di Vibo Valentia. Sette nuovi detenuti sono stati assunti per due mesi dall’azienda con il compito di confezionare, all’interno del carcere, 10 mila confezioni regalo, contenenti un assortimento dei pregiati prodotti Callipo che saranno in vendita per le prossime festività natalizie. Ci sono poi iniziative che nascono nella ristorazione. InGalera è il primo ristorante italiano realizzato in un carcere, aperto al pubblico sia a pranzo che di sera. Vi lavorano i detenuti del carcere di Bollate, seguiti da uno chef e un maître professionisti. I carcerati, regolarmente assunti, hanno la possibilità di riappropriarsi o apprendere la cultura del lavoro, attraverso un percorso di formazione professionale e responsabilizzazione, entrando a contatto diretto con il mondo del lavoro e la società “oltre le mura”. Ma l’integrazione “dietro le sbarre” passa anche attraverso progetti educativi che puntano allo sport come ha raccontato la regista Enza Negroni nel docu-film “La prima meta” o attraverso corsi di giornalismo, come quelli che svolge Giorgio Poidomani al carcere di Rebibbia. Dal progetto stanno emergendo detenuti-scrittori e storie di vita che acquistano la dignità di libro (e un posto nello scaffale delle librerie italiane), grazie alla collana della casa editrice Aliberti “Il paese senza cielo”. Un’integrazione bilaterale, che offre a chi è dentro la possibilità di uscire idealmente dalle mura del carcere e confrontarsi con il mondo esterno. E a noi che siamo fuori di capire qualcosa in più di cosa accade dentro un carcere. Per comprendere magari, come si legge nel libro del detenuto Federico Mollo Mondo parallelo, che il carcere può essere anche una risorsa. D’altronde, per citare le sue parole “rimediare agli errori commessi con il lavoro, può portare solo buoni frutti”. Radicali in sciopero della fame per i decreti sulla riforma dell’Ordinamento penitenziario basilicatanet.it, 13 novembre 2017 Maurizio Bolognetti, membro della Presidenza del Prntt e Consigliere dell’Associazione Coscioni ha iniziato uno sciopero della fame l’11 novembre. “Cinque giorni di digiuno nonviolento, di digiuno di dialogo, per chiedere che in questo nostro benedetto Paese, patria del Diritto Romano, le Istituzioni rispettino la loro propria legalità, il Dettato costituzionale e le Convenzioni internazionali a tutela dei Diritti umani. Centoventi ore di sciopero della fame - sottolinea Bolognetti - per chiedere, per dirla con Marco Pannella, che il nostro Stato interrompa la flagranza di reato contro i Diritti umani e la Costituzione repubblicana. Cinque giorni di digiuno, a sostegno delle mie compagne Rita Bernardini e Deborah Cianfanelli, per chiedere al Ministro Orlando di rispettare la parola data e gli impegni assunti. Ora, subito, occorre che si approvino i decreti legislativi relativi alla riforma dell’ordinamento penitenziario. Occorre che il nostro Paese rispetti quell’art. 27 della Costituzione nel quale si afferma che le pene “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Nell’Italia Stato canaglia, Stato criminale sul piano tecnico-giuridico, occorre quotidianamente battersi per onorare la Legge, il Diritto, lo Stato di diritto, il Diritto a poter conoscere per deliberare. Nei Palazzi del Potere, coloro che possono e sono chiamati a decidere e che dovrebbero onorare la Legge, farebbero bene a rileggere di tanto in tanto quel che scriveva oltre due secoli fa Cesare Beccaria: “Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile. Il fine non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. E ancora: “Parma un assurdo che le leggi che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio”. Parafrasando Beccaria si potrebbe dire che in Italia da troppo tempo stiamo assassinando la Costituzione e lo Stato di diritto. Vale per le violazioni dell’art. 27 della Costituzione, ma anche per quell’art.32 negato in luoghi dove inquinatori seriali avvelenano impunemente acqua, terra e aria. Vale per carceri assurte a luoghi di tortura per detenuti e Agenti di Polizia penitenziaria e vale per chi giustamente si definisce un avvelenato di Stato. Io sto con Rita Bernardini e Deborah Cianfanelli. Io sto con Marco Cappato che difende la dignità della vita, consentendo a un uomo di poter scegliere come e quando porre fine alle sue sofferenze, rompendo le catene di uno Stato che pretende di decidere per noi”. 41bis. Uno Stato forte non ammette eccezioni al rispetto della Costituzione di Patrizio Gonnella L’Espresso, 13 novembre 2017 Nel panorama asfittico della politica italiana da qualche settimana a giorni alterni si è aperto un dibattito intorno al 41-bis secondo comma dell’ordinamento penitenziario. La discussione pubblica è stata originata da una circolare dell’amministrazione penitenziaria (Dap) che ha risistemato i contenuti di un regime carcerario estremamente duro nonché più volte messo sotto esame giurisdizionale per i rischi di degenerazione verso trattamenti disumani e degradanti. La circolare è stata messa sotto accusa da chi (alcuni parlamentari del M5S), nel nome della lotta alla mafia, ha affermato che sarebbe in corso il tentativo del Governo di smantellare il 41-bis, desumendo tale esito non solo dalla circolare ma anche dall’ipotetico ridimensionamento del Gruppo Operativo Mobile (Gom) della Polizia Penitenziaria e dal tentativo legislativo di superamento dell’ergastolo ostativo. Anche la presidente della Commissione antimafia Rosi Bindi ha sollevato dubbi intorno alle nuove disposizioni del Dap. L’oggetto di cui si discute è una circolare di una cinquantina di pagine che, come ogni provvedimento amministrativo, non potendo cambiare la legge in base al principio della gerarchia delle fonti del diritto, si limita a risistemare l’esistente con interpretazioni che, tra restrizioni e allargamenti, di fatto lascia il regime sostanzialmente inalterato, con tutte le sue contraddizioni e vessazioni inutili. Tra queste ultime c’è quella relativa alla compressione ingiustificata del diritto all’informazione. I detenuti sottoposti al regime 41-bis non potranno ad esempio acquistare Il Manifesto o l’Avvenire mentre potranno informarsi leggendo altri quotidiani. Che senso ha questa proibizione? Va ricordato che il 41-bis secondo comma è stato introdotto dalla legge 356 del 1992. Inizialmente prevedeva un regime detentivo a carattere temporaneo, avendo una data di scadenza pari a tre anni. L’applicazione del secondo comma dell’articolo è stata prorogata diverse volte nel corso del decennio seguente (nel 1995, nel 1999, nel 2000 e nel 2001), finché con la legge n. 279 del 2002 il regime divenne stabile. Era previsto come temporaneo per evitare censure di illegittimità costituzionale. In questo periodo di tempo la Corte Costituzionale è stata chiamata a esprimersi molteplici volte sull’articolo 41-bis secondo comma e ha dovuto porre limiti all’esondazione di potere nelle mani dell’amministrazione della giustizia, al fine di far rispettare gli articoli 13 e 27 della Carta Costituzionale. La circolare è dunque semplice risistemazione della normativa esistente, senza particolari passi in avanti verso un regime che sarebbe stato auspicabile ridimensionare nella modalità eccessivamente rigide di esecuzione. Più che altro la circolare mira a omogenizzare le pratiche. Troppe volte accade che si assiste a trattamenti troppo diversificati da carcere a carcere. Il DAP ricorda ciò che la legge già prevede affinché l’Italia non sia messa sotto accusa dagli organismi giudiziari e diplomatici internazionali. Fortunatamente gli Stati, almeno quelli democratici, non possono fare proprio come gli pare. Infine alcune osservazioni a margine. 1) L’articolo 27 della Costituzione nel prevedere che ‘Le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del reo’ non ammette eccezioni. Nel nome della difesa della Costituzione si sono creati comitati ad hoc che hanno visto la partecipazione di molti tra coloro che oggi vorrebbero invece ridurre la portata dell’articolo 27, vissuto pretestuosamente e ingiustamente come un ostacolo e non come un obbligo. 2) Siamo in attesa dei decreti legislativi che dovrebbero dare finalmente d piena attuazione alla riforma dell’ordinamento penitenziario. Se non dovesse esserci un superamento dell’ergastolo ostativo ci troveremmo di fronte a un’occasione sprecata. L’ergastolo senza prospettiva di rilascio rischia inoltre la censura da parte della Corte europea dei diritti umani. È del tutto sacrosanto ogni ridimensionamento della portata repressiva dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario che inseguendo pericolosi automatismi trasforma la pena in mera retribuzione e vendetta. 3) La lotta alla mafia si fa prima di tutto nei quartieri, nella società. Si fa ovviamente anche con la Polizia e con l’investigazione mai dimenticando che la forza dello Stato è nel suo essere ontologicamente diverso da chi deve perseguire. Lo Stato democratico forte non ha paura di un detenuto fino a impedirgli di abbracciare un figlio. 4) Chi per legge interna e internazionale ha poteri di monitoraggio, garanzia e ispezione delle prigioni nel nome della prevenzione della tortura e del rispetto dei diritti delle persone private della libertà, deve poterli esercitare senza restrizione alcuna. Altrimenti come ci potremmo mai opporre a quei paesi non democratici che non vogliono intralci su come trattano i loro detenuti “pericolosi”? 5) I corpi speciali di Polizia, e nel caso in questione i GOM, non vanno trascinati in questo dibattito. Ogni strumentalizzazione è pura demagogia. È il Parlamento che deve decidere come trattare i propri detenuti. Ci sono Paesi democratici e sicuri dove non solo non esistono corpi speciali di Polizia penitenziaria ma dove l’intera sicurezza nelle carceri è affidata a personale non in divisa. Bisogna aver visto affermava Piero Calamandrei nel mettere sotto inchiesta le carceri italiane nel secondo dopoguerra. L’Italia di recente è stata condannata a Strasburgo per la tortura consumata nelle prigioni di Bolzaneto e Asti. Uno Stato forte è uno Stato che non ammette eccezioni al diritto ella esigibilità dei diritti. Se la vita al “carcere duro” alla fine non sembra poi cosi dura di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2017 Dura la vita al carcere duro: ciabatte, caffè, biscotti e... bicarbonato. “Le prescrizioni - scrive Santi Consolo, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nella circolare 3676/6126 firmata con il direttore generale Calogero Roberto Piscitello il 1° ottobre sull’organizzazione del circuito detentivo speciale - non sono volte a punire e non devono determinare un’ulteriore afflizione, aggiuntiva alla pena già comminata, per i soggetti”. Un principio costituzionale rivisitato, con uno sguardo rivolto ai diversi sistemi penitenziari europei, che la circolare declina in 41 fittissime pagine, che spaziano dal contatto dei detenuti tra loro e la comunità esterna, minori compresi, ai doveri dei direttori degli istituti, ai controlli (rigorosamente non invasivi), all’affettività con i propri cari e alla riservatezza con i legali. La vita di Totò Riina - tanto per ricordare il più famoso tra i circa 500 detenuti ristretti al carcere duro - non deve essere così dura a leggere le disposizioni che lo Stato, da poco più di un mese, è tenuto a riservargli. Rancio ottimo e abbondante - Il rancio è ottimo e abbondante. No, non quello servito dall’amministrazione penitenziaria ma il sopravvitto che, lui come tutti gli altri, possono acquistare con il cosiddetto “modello 72”. Basta una “X” su un apposito spazio per scegliere come rendere più golosa la giornata tra 60 generi alimentari, 11 tipi di bevande e 20 tipi di frutta e verdure. Vino, caffè, biscotti e bicarbonato compresi. Con una tisana (ammessa in elenco), si dorme meglio. Il Sole-24 Ore c’è - Semplici gesti di una vita domestica che si possono svolgere stando in ciabatte di plastica (niente sabot, legno o sughero), passandosi tra le labbra uno stuzzicadenti (ammesso tra i 51 casalinghi in lista), fumando una sigaretta (tra le 19 marche previste), guardando la tv (compreso Rai Yoyo e Rai Gulp che sono canali tematici per bambini) o leggendo un giornale (tra le 53 testate incluse). Il Sole-24 Ore c’è. Libero, tanto per citarne uno, no. Sia chiaro: tutti acquisti possibili e valutati dalla direzione, a meno che “non si tratti di beni di carattere voluttuario e/o tali da manifestare una posizione di potere e supremazia del detenuto/internato”. Comunque - con una sorta di garanzia rimborsati o soddisfatti - se il Riina di turno dovesse scoprire che le merendine ordinate sono difformi dalla sua “comanda”, può rispedirle al mittente. Atti giudiziari e pc - La cassa a disposizione, prescrive la circolare, è abbastanza capiente: 500 euro al mese ma non oltre 150 euro a settimana, ai quali aggiungere 100 euro per spedire la corrispondenza. I farmaci sono extra budget. Il pc non è consentito ma il detenuto può consultare su supporti informatici, previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria e comunque sotto controllo, il materiale giudiziario voluminoso (articolo 14.1). I controlli in ingresso ed in uscita sono devoluti ad un esperto informatico (laddove c’è) ma appare quantomeno improbabile verificare il contenuto di atti processuali particolarmente corposi e i cui contenuti sono sconosciuti a chi effettua i controlli. Tra le righe può essere introdotto qualunque messaggio o addirittura atti aggiuntivi. Inoltre la circolare prevede che, quando il detenuto al 41-bis consegna gli atti processuali al difensore, deve essere applicata la norma sulla corrispondenza riservata per motivi difensivi, vale a dire che deve essere garantita l’assenza di lettura degli atti. In altre parole: nessuno può leggere il materiale in uscita. A colloquio controlli ferrei (anche di tipo audiovisivo) ma il contatto con figli e nipoti sotto i 12 anni non si può negare e dunque niente vetri divisori. Va sottolineato che, solitamente, i controlli sui minori non sono mai invasivi e non hanno quell’incisività che contraddistingue le verifiche sugli adulti. Una telefonata allunga la vita e così ne è prevista una al mese (registrata, se lo chiede l’autorità giudiziaria e se non si effettua il colloquio), mentre i colloqui con i difensori sono faccia a faccia, senza limiti di durata e frequenza. Qualcuno non ci sta - La questione del 41-bis è molto complessa e, da ultimo venerdì scorso, 10 novembre, i parlamentari del M5S delle commissioni Giustizia e Antimafia, hanno presentato un’interpellanza urgente al ministro della Giustizia Andrea Orlando, attraverso i portavoce Giulia Sarti e Vittorio Ferraresi. Un’interpellanza per provare a chiarire i troppi punti che messi in fila disegnano, secondo i grillini, un vero e proprio smantellamento silenzioso del carcere duro. La circolare non è proprio piaciuta al Movimento, perché “di fatto allarga le maglie per i mafiosi detenuti: gli avvocati possono consegnare atti processuali su supporto informatico, ma nessuno ha tenuto conto che potrebbero diventare un mezzo per comunicare ordini all’esterno. Il garante nazionale dei detenuti svolgerà colloqui riservati, disposizione che va contro la legge dato che non c’è nessuna norma dell’ordinamento penitenziario che possa permettere questa situazione. Sui garanti locali, regionali e comunali, non c’è chiarezza se possano effettuare visite o colloqui riservati dato che si parla di “incontri”, con tutti i rischi che ne derivano. La circolare allenta anche i controlli sulle telefonate, giornali e denaro, senza che vi sia un parere vincolante della Direzione distrettuale antimafia. Si prevede l’eliminazione del vetro divisorio nei colloqui con un minore, affermando il principio che i figli possano abbracciare i padri, con rischio di usare i figli per inviare “pizzini”. Sarebbe da sottolineare che i padri potrebbero fare scelte diverse, piuttosto che quella di delinquere se vogliono abbracciare i propri figli. La circolare introdotta oltremodo non ha avuto nessun passaggio in commissione Antimafia nonostante un anno e mezzo di lavori preparatori e di interlocuzioni tra Dap, ministero della Giustizia e Garante dei detenuti. Di fatto quello che si sta creando è un indebolimento del 41 bis, a danno dei cittadini e della sicurezza dello Stato”. Il Gom impoverito - Il Movimento 5 stelle solleva anche la questione del Gruppo operativo mobile (Gom), preposto principalmente alla sorveglianza dei detenuti al 41bis e dei terroristi. All’aumento di compiti è corrisposta, al contrario, una diminuzione di organico e di risorse economiche e l’eliminazione della figura del “funzionario delegato” che permetteva una gestione autonoma delle risorse, che invece è stata data al nucleo scorte. Le unità del Gom sono diminuite da 619 a 593 negli ultimi sette anni, nonostante la previsione di 821 unità che era stata stabilita, ora ridotta all’obiettivo delle 620 unità “senza capire che ne servirebbero 200 in più per garantire controlli seri”, dicono i 5stelle. Altre note dolenti - La circolare contiene, a parte quelle evidenziate dai parlamentari del M5S, altre criticità che dovranno essere giudicate alla prova dei fatti. Sulla socialità la circolare (articolo 3.1) non vieta ma limita gli incontri “tra i vertici delle medesime famiglie, di gruppi alleati e di gruppi o clan contrapposti”. Invece l’articolo 11 sulle attività comuni sembrerebbe non porre particolari limitazioni alle attività (biblioteca, palestra, sala hobby). Salta all’occhio anche il fatto che la circolare (articolo 23.1) consente il ricorso, pur con mille cautele da parte della direzione carceraria e del dipartimento, ai medici di fiducia indicati dal detenuto, il quale potrebbe essere invece tranquillamente seguito dai medici della Asl/sanità penitenziaria, che possono acquisire tutta la documentazione sanitaria del mondo dai medici di fiducia del detenuto stesso. Curiosità - L’articolo 16 prevede che ai colloqui sono ammessi i familiari entro il terzo grado di parentela o affini. Ebbene, tra i parenti di primo grado ci sono genitori e figli ma, curiosamente, non compare il coniuge o il convivente. La risposta del Governo - La Sottosegretaria di Stato per la Giustizia Federica Chiavaroli ha risposto subito all’interpellanza, chiarendo che al fine di evitare disparità di trattamento sul piano applicativo e allo scopo di armonizzare e di rendere coerenti prassi esecutive difformi, è stata elaborata una nuova ed unitaria circolare generale, tenuto conto dei pareri del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo e del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute. Chiavaroli ha affermato che “il parere della Direzione distrettuale antimafia nella gestione del peculio, dei giornali e delle conversazioni telefoniche viene richiesto per garantire un’istruttoria più approfondita e più attenta. Il parere, tuttavia, non è vincolante, non essendo attribuita dalla legge all’autorità giudiziaria la competenza nelle citate materie. Lo scambio di materiale giuridico tra difensore e detenuto, sia esso in formato cartaceo o elettronico e che, comunque, viene sottoposto a controllo, avviene con le modalità previste dal codice di procedura penale a garanzia del diritto di difesa costituzionalmente tutelato. I supporti informatici vengono consentiti solo su espressa autorizzazione delle competenti autorità giudiziarie, che dovranno certificare che il materiale non è consultabile in formato cartaceo. Il colloquio visivo senza vetro divisorio con i figli minori di anni dodici è una previsione introdotta sin dal 1998 in attuazione della sentenza della Corte costituzionale n. 376 del 1997. Anche tali colloqui, comunque, sono sottoposti a videoregistrazione ed ascolto, come previsto dalla normativa vigente. L’attività del Garante nazionale dei diritti dei detenuti è regolata dalla Convenzione di New York del 18 dicembre 2002, ratificata con la legge 9 novembre 2012, n. 195, e il Garante, in quanto organismo di monitoraggio indipendente, è autorizzato ad accedere senza limitazione alcuna all’interno delle sezioni 41-bis incontrando detenuti ed internati e potendo svolgere con essi incontri riservati senza limiti di tempo”. Per quanto riguarda il Gruppo operativo mobile “sono stati programmati interventi di rafforzamento strutturale. L’organico specifico del Gom sarà, infatti, portato a 620 unità”. La replica - Come prevede il regolamento, Ferraresi ha replicato. “Non ci sembra logico, per esempio - ha detto il parlamentare - che un’amministrazione debba fare fronte con i propri soldi, con il proprio denaro, a presìdi ortopedici o a vari oggetti descritti nella circolare, quando i detenuti normali vivono una situazione di assoluto tracollo, di assoluta inesistenza di principi rieducativi e in condizioni di tortura. Non è possibile garantire ai boss mafiosi, che sono la figura più importante di contrasto allo Stato, di sostituzione della mafia allo Stato, dei presìdi del genere. Allora, prima ci occupiamo del benessere generale di tutti detenuti, perché tutti i detenuti vivono delle situazioni incredibili ammassati nelle celle, alle stazioni di polizia penitenziaria, alle mense e ai gabbiotti, dove vivono praticamente rinchiusi gli agenti, e poi magari ai presìdi ortopedici per i 41-bis (...) Oppure, in merito al peculio, alla gestione del denaro, dell’invio del denaro all’esterno o dell’invio del denaro al detenuto: lo sa che molti, nelle nostre carceri, mantengono un predominio assoluto con i pacchi di sigarette Marlboro, con il sopravvitto, con l’invio del denaro all’esterno? E, secondo lei, la Dda non deve esprimere un parere vincolante sulla gestione del denaro ai mafiosi, cioè praticamente il primo punto di contrasto alla mafia? Il primo punto su cui Borsellino e Falcone hanno dato la vita, oltre all’ergastolo ostativo, era la gestione dei soldi e la Dda non deve poter esprimere un parere vincolante sulla gestione dei soldi? Rimango veramente senza parole”. Ferraresi va oltre: “Non capisco perché gli si si debbano dare dei supporti informatici, delle chiavette, con dispositivi addirittura, c’è scritto nella circolare, Kindle, degli Ipad. Viene dato questo supporto a un boss mafioso: con tutte le truffe informatiche che già a fatica riusciamo a controllare nel nostro Paese, figuriamoci cosa riusciranno ad imboscare dentro questi dispositivi informatici, cosa riusciranno a fare. In merito al vetro divisorio non c’è scritto da nessuna parte che non deve essere garantito, perché la Corte europea dei diritti umani e la Corte costituzionale dicono che deve essere favorito ovviamente il contatto e lo scambio con parenti e familiari, ma dice anche che, per motivi di sicurezza, va assolutamente lasciato lo Stato libero di intervenire con strumenti che possano impedire lo scambio di informazioni e il pericolo di sicurezza per la nazione. Nessuno dice che non devono avere rapporti, ma, quando si parla di vetro divisorio, si parla di un contatto che, in tutti questi anni, come abbiamo visto dalle indagini che nascono, consente il passaggio di pizzini, di comunicazioni dall’esterno all’interno. Lei crede, se sono riusciti a corrompere alcuni agenti, che alcuni figli non possano essere utilizzati per lo scambio di informazioni?”. Giustizia sul territorio. Sportelli in Piemonte, Liguria e Toscana di Marzia Paolucci Italia Oggi, 13 novembre 2017 Entro fine anno i test del ministero per avvicinarsi ai cittadini. Dagli uffici Relazioni con il pubblico a sportelli polifunzionali di prossimità per fare rete tra cittadino, tribunale e comune. Partirà entro la fine di quest’anno in via sperimentale in tre regioni, Piemonte, Liguria e Toscana, il progetto che punta a creare una rete di sportelli al servizio del cittadino per avvicinarlo alla giustizia anche in territori fortemente disagiati, a forte criticità sociale e in aree urbane densamente popolate. Presentato poco più di un mese fa dal ministro della Giustizia Andrea Orlando e destinato ad estendersi al resto del paese, porta con sé l’idea di una giustizia territoriale intesa, descrive on- line il Consiglio superiore della magistratura, come “presenza sul territorio di punti di contatto e accesso al sistema giudiziario”. “Dopo la riforma della geografi a giudiziaria, vogliamo costruire un modello di sportelli per una giustizia più vicina al cittadino”, ha esordito Orlando nel corso della presentazione del 3 ottobre scorso a Roma, presso il ministero. “Non vi è nessuna controtendenza rispetto alla riforma della geografi a giudiziaria”, ha detto, “io sono a favore di un’ulteriore razionalizzazione della presenza di uffici giudiziari e gli sportelli sono un presupposto per andare avanti in questa direzione”. Il nuovo progetto prevede la creazione di sportelli, con personale proveniente dagli enti locali che si occuperà di orientare e informare i cittadini sui procedimenti, dare supporto ad atti che non contemplino l’intervento di avvocati, informare il pubblico sullo stato dei procedimenti civili, ricevere comunicazioni e notifiche di cancelleria e depositare telematicamente, in nome e per conto dei cittadini, atti giudiziari. In particolare, le loro attività potranno comprendere azioni di orientamento, informazione, diffusione e promozione di materiale informativo sugli istituti di protezione giuridica previste dalla legge come tutele e amministrazioni di sostegno, consegna della modulistica in vigore presso il tribunale di riferimento, supporto per la predisposizione di istanze, raccolta e verifica degli allegati, raccolta e deposito presso le cancellerie di tribunale delle istanze compilate, supporto per la compilazione dei rendiconti periodici di amministrazione di sostegno e tutele. Agli stessi sportelli, si potrà contare sull’aiuto nella compilazione della modulistica per atti di straordinaria amministrazione, raccolta e deposito delle istanze per la straordinaria amministrazione e consulenza di avvocati volontari per casi complessi inerenti agli istituti di protezione giuridica. Per il budget finanziario in conto al nuovo servizio, si prevede l’utilizzo di una parte di risorse comunitarie, in particolare risorse comprese nei 120 milioni di euro gestiti dall’organismo intermedio del ministero della Giustizia attraverso il Programma operativo nazionale Governance 2014-2020. Il servizio sarà integrato con quelli già presenti sul territorio, dalla sanità ai servizi sociali, con la possibilità di stringere accordi con soggetti del Terzo settore, ordini professionali, società civile e università. Le tre regioni in cui partirà la fase di sperimentazione sono state scelte dal ministero perché già impegnate in esperienze di servizi correlati alla giustizia. La seconda fase partirà nel 2018, con la diffusione in tutta Italia sulla base di interventi concordati con le regioni. Il tentativo di Orlando sarà quello di prendere ad esempio le best practice già esistenti sparse sul territorio nazionale che hanno rinnovato il rapporto tra cittadino e tribunale. È il caso del territorio della provincia di Monza e Brianza ma anche dei tribunali di Torino, Genova e Vicenza dove sono stati istituiti sportelli di prossimità, frutto di accordi formali tra i comuni e il Tribunale. È qui che il cittadino può richiedere una semplice informazione o utilizzare lo sportello per il deposito del ricorso evitando di recarsi in tribunale ma molto più frequentemente si tratta di uno spazio di accoglienza e ascolto delle problematiche delle famiglie in tutti quei momenti legati a situazioni di fragilità: tutele, curatele e amministrazioni di sostegno. Il tribunale di Monza ha in tutto sette sportelli che vi fanno capo, cinque dei quali ubicati presso i comuni capofila degli ambiti territoriali della Provincia di Monza e Brianza e due nelle aree dalla Provincia di Milano. Un altro esempio recente di sportelli informativi sono quelli della rete Doge-Domiciliarità Genova nata a settembre scorso. Si tratta di un servizio accreditato dal Comune nel capoluogo ligure per garantire servizi di assistenza domiciliare e personale a persone e famiglie entro un certo limite di reddito annuo. Ingiusta detenzione. Lettera dell’On. Pezzopane a Mattarella, per risarcimento a Petrilli abruzzoweb.it, 13 novembre 2017 Un adeguato risarcimento per chi, come Giulio Petrilli, ha subìto un’ingiusta detenzione. Questo l’appello che lancia la senatrice Stefania Pezzopane, in una lettera inviata al Capo dello Stato, Sergio Mattarella, affinché si possa arrivare ad una soluzione per il caso dell’aquilano Giulio Petrilli e più in generale sul tema del risarcimento per ingiusta detenzione. “Avevo assunto questo impegno con Giulio, mio amico da anni, dopo il sit-in davanti a Montecitorio lo scorso mese di settembre, a cui ho preso parte insieme ad altri parlamentari, a giuristi e a giornalisti. Tempo fa - ricorda la senatrice - avevo anche inviato un appello al Ministro della Giustizia Andrea Orlando, per chiedere di intervenire sul tema”. “Quella di Giulio Petrilli è una storia particolare e triste - si legge nella nota inviata a Mattarella - Giulio Petrilli venne arrestato all’età di venti anni, nel pieno della giovinezza. Impegnato a sinistra con il Pdup Manifesto, studente universitario, venne prelevato alla vigilia di Natale del 1980 e detenuto per sei anni con l’accusa di partecipazione a banda armata Prima Linea. Un’accusa che prevedeva anche la detenzione nei carceri speciali e sotto regime articolo 90, più duro dell’attuale 41 bis. I giudici d’appello del Tribunale di Milano, dopo sei anni, lo scagionarono completamente con la sentenza emessa l’otto marzo 1986 e l’assoluzione fu confermata dalla Corte di Cassazione il 25 luglio del 1989. Dopo questa durissima esperienza, Giulio ha riannodato per quanto possibile i fili della sua vita, ma non ha dimenticato l’ingiustizia subita e si è sempre impegnato per avere un equo risarcimento. Parliamo di una vita, senza giovinezza, dove nessun indennizzo lenirà le ferite, ma lo stesso sarebbe stato doveroso da parte dello Stato”. “Giulio Petrilli - viene spiegato - ha percorso tutte le strade giudiziarie possibili per vedersi riconosciuto questo diritto. Tuttavia tutte le istanze sono state respinte, in virtù del primo comma dell’articolo 314 del Codice Penale, che esclude il risarcimento in caso di dolo e colpa grave dell’imputato. Nel caso di specie, le “cattive frequentazioni” di Petrilli avrebbero tratto in inganno gli inquirenti”. “A mio avviso - prosegue la nota - questo comma, che introduce un giudizio morale contiene elementi di anticostituzionalità e pertanto andrebbe sottoposto al giudizio della Consulta. La privazione per ingiusta libertà deve essere risarcita. Per Enzo Tortora fu commesso lo stesso errore. Mi rivolgo a lei, Egregio Presidente, consapevole della Sua sensibilità e della Sua attenzione sul tema dei diritti, affinché si possa arrivare ad una soluzione e si possa restituire a Giulio, e ai tanti come lui che hanno subìto un’ingiustizia, una vita dignitosa”. Marco Dimitri: “noi Bambini di Satana eravamo solo degli idioti” di Simona Filetto Libero, 13 novembre 2017 Marco Dimitri ha 54 anni, non fa più sedute spiritiche ed è un informatico: “cercavo emozioni forti, ma ho capito che dietro le religioni c’è il nulla”. Dalle sette sataniche alla creazione grafica di videogiochi in 3D. Protagonista dell’insolito passaggio è Marco Dimitri, 54 anni, ex guardia giurata, fondatore alla fine degli anni 80 della discussa associazione bolognese Bambini di Satana. Dopo essersi dichiarato “satanista pagano”, ha iniziato a organizzare rituali in Emilia Romagna. Il gruppo costituito per lo più da giovanissimi, per anni ha celebrato i suoi rituali in vecchi casolari diroccati e nei boschi, fino al drammatico epilogo in carcere. Oggi il leader dell’associazione, che si ridefinisce “satanista di tipo razionalista”, ha messo in soffitta libri salomonici, piattini da far girare e candelabri, per darsi all’informatica; lavora anche come detective, collaborando con agenzie investigative e si occupa di crimini informatici. Questo esile, misterioso, androgeno, eterno ragazzino, che per diversi anni è stato al centro delle cronache italiane e di inchieste della magistratura bolognese, racconta ora di aver chiuso per sempre il capitolo spirituale e metafisico, per dedicarsi al razionalismo, per lottare contro il complottismo, la new age e tutte le religioni. Nel 2012 Dimitri si era anche candidato alle elezioni politiche nella lista alla Camera per la circoscrizione per il Lazio con Democrazia Atea. Un partito che annoverava tra le sue fila anche l’astrofisica Margherita Hack. Oggi continua comunque a portare avanti la sua associazione sempre sotto il nome di Satana, che ancora richiama numerosi iscritti dall’Italia e dall’estero attraverso la rete. “Ora organizziamo incontri soltanto un paio di volte all’anno - confida - l’ultimo per esempio si è svolto a Bolzano pochi mesi fa. Ma tutta l’attività dell’associazione si svolge per la maggior parte sul web”. Marco, appassionato di internet e scienze delle comunicazioni, ha un compagno di nome Andrea con cui da circa dieci anni condivide una casa nel cuore di Bologna, e col quale ci preannuncia le imminenti nozze. Dopo aver fondato nel 1982 i Bambini di Satana, si era trovato catapultato al centro di uno scandalo molto più grande di lui. Tra il 1989 e il 1992 i carabinieri si mettono sulle sue tracce attraverso diversi infiltrati e nello stesso anno avviene un’irruzione nel cesenate, a Savignano, durante un raduno. L’inchiesta si conclude con un’archiviazione, ma Dimitri perde il suo impiego di guardia giurata e deve vivere solo con la sua attività di mago. L’associazione non frutta soldi. L’iscrizione è a titolo gratuito e lui porta i suoi sostenitori dall’iniziale trentina a oltre duecento nel 1994. In parallelo proseguono però le indagini sulle sue attività occulte. Il 24 gennaio 1996 i carabinieri lo arrestano assieme a Gennaro Luongo e Piergiorgio Bonora, i vertici dell’associazione Bambini di Satana. Sono accusati di aver narcotizzato e stuprato Elisabetta Dozza, ex fidanzata di Luongo, durante una messa nera. Vengono anche accusati di pedofilia. Ne nasce un caso che esplode in tutta Italia, salvo concludersi con l’assoluzione degli imputati perché il fatto non sussiste. La vicenda giudiziaria si chiude il 20 luglio 2004, con il risarcimento stabilito dalla Corte d’Appello di Bologna per il periodo di ingiusta detenzione, durato 400 giorni di centomila euro per Marco Dimitri. “L’arresto mi ha cambiato la vita - ammette ma non la voglia di sperimentare nuove strade. Ora mi dedico al razionale, col passare del tempo ho preso una direzione più logico-scientifica e ho abbandonato la metafisica”. “Non so se sono stato sacrificato - aggiunge - perché avverso alla religione cattolica. Sta di fatto che un ruolo lo deve pur avere avuto contro di me. In più Bologna, in quel periodo, era una città ancora sbigottita dall’aver scoperto che la banda della Uno Bianca era composta, quasi per intero, da agenti di polizia e il processo per quest’altra gravissima storia era già in corso. Il clima non era e dei migliori”. “Cosa mi ha spinto all’epoca a scegliere il satanismo? Ero un adolescente irrequieto. Sono rimasto orfano a 14 anni. Cercavo risposte nella società ma non le trovavo e sono stato attratto dal bello dell’irrazionale, dal metafisico. Da qui la ricerca di Satana, come tramite per raggiungere ed ottenere il potere. Eravamo ragazzini. Pensavamo di trovare la vita facile attraverso una sorta di patto col diavolo e poi ci abbiamo giocato sopra”. Nel giro di un anno l’associazione Bambini di Satana era diventa un fenomeno da seguire, da analizzare. Dimitri veniva chiamato nei diversi programmi televisivi dell’epoca, spaziando dal talk show di Maurizio Costanzo a quello di Barbara D’Urso. Il suo nome era spesso sui giornali. “Il titolo all’associazione è stato dato proprio dai giornalisti - aggiunge Dimitri - e sono stati loro a chiamarci Bambini di Satana. Ho colto l’idea, perché ho capito che quel nome era d’impatto e avrebbe fatto parlare di noi. Così è stato”. Il leader della setta bolognese, che forse non a caso ha scelto nei suoi numeri telefonici un finale con “666”, il simbolo del diavolo, oggi confida con estrema naturalezza e con un po’ di ironia, di aver sfruttato il mistero dell’occulto per attirare attenzioni su di se. “La verità è che eravamo un gruppo di idioti in cerca di emozioni forti. Sperimentavamo delle cose, ma alla fine abbiamo capito che non portavano a nulla. I tavolini non si muovevano, dalle malattie non si guariva e i piattini non giravano. In pratica, abbiamo capito che Satana non esiste”. Anche se “una sperimentazione era stata necessaria per non racchiudere tutto in un contesto di opinione personale. Oggi possiamo dire che non esiste nulla di metafisico e spirituale”. Ma per molti anni invece Dimitri, il filone Satana l’ha perseguito. “Ho studiato Thelema e la volontà come dominazione del mondo. Ho portato avanti Satana come teoria d’antitesi. Ora mi interessa far capire a tutti l’importanza dell’informazione”. Come trovava gli associati dei Bambini di Satana? “Non li sceglievo io, mi sceglievano loro”. Quale connessione c’è tra satanismo e sessualità? “Nessuna, la sessualità fa parte della vita. E faceva parte di alcuni riti tantrici che facevamo. Sia ben chiaro, per me certe cose sono oggi un libro chiuso e va sempre messo in conto che all’epoca eravamo tutti ragazzini desiderosi di evocare e di provare tutto. Il carcere è stato un momento difficile da superare, perché abbiamo dovuto difenderci da accuse totalmente infondate. La ragazza che ci ha denunciato per stupro ha cambiato più volte versioni, date e dettagli. Quando focalizzava un evento e un orario, dimostravamo ogni volta di essere altrove. Alla fine per fortuna la verità è emersa”. Molti altri bolognesi, per dare spessore al “mostro Dimitri” furono inglobati nell’inchiesta. “Anche loro si sono rivelati innocenti - prosegue Dimitri - ma, nel contempo i loro nomi echeggiavano sui media. Questa brutta esperienza ha rafforzato la mia idea che dietro alle religioni c’è il nulla, eppure ci portano alle guerre”. Oggi il satanista bolognese ha trasformato la sua passione per l’informatica in un lavoro. “Per il resto faccio una vita normale, anche se qualcuno mi deve spiegare cos’è la normalità. Penso che ogni battaglia, se nobile o ritenuta tale, vada portata avanti senza rimpianti. Le battaglie muovono il mondo. Si, lo rifarei”. Ovviamente senza far nessun patto col diavolo. La confisca si allarga ai patrimoni di parenti, società e consorzi di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2017 L’applicazione di una misura di prevenzione richiede una condotta abitudinaria - non occasionale né sporadica - tale da fare ritenere che il soggetto sia pericoloso socialmente e, come tale: • assoggettabile a forme di controllo dirette a prevenire la commissione di ulteriori delitti; • aggredibile sul versante patrimoniale, con riferimento ai beni illecitamente acquisiti nella manifestazione della pericolosità. In tale contesto è necessario un rigoroso accertamento sull’esistenza dei presupposti di applicabilità della misura nei confronti della persona che vive, anche in parte, col provento dei delitti. La giurisprudenza - Di recente la Suprema corte (sentenza 40552/2017) ha confermato la confisca di prevenzione di alcuni immobili e conti correnti di un contribuente e del suo coniuge ritenuto responsabile fra l’altro di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di false fatture, nonostante il procedimento penale non fosse stato ancora oggetto di sentenza definitiva. I giudici di merito avevano ritenuto sussistente la “pericolosità” dell’imputato in quanto “orientato stabilmente alla consumazione dei traffici di reato e a vivere, anche in parte, con i proventi di detti reati”. Nella circostanza la Cassazione ha considerato irrilevante ai fini della confisca sia l’incensuratezza del soggetto indagato, sia la sua estraneità a contesti mafiosi. È stato poi precisato che non rileva neanche lo svolgimento di un’attività professionale ulteriore e lecita, essendo sufficiente che un soggetto si sia dedicato in modo sistematico e professionale ad attività delinquenziali, realizzando ingenti evasioni fiscali. Gli spazi della confisca - Da evidenziare che in questi casi l’oggetto del sequestro e della confisca è più ampio rispetto a quello che potrebbe essere operato nel corso di un procedimento penale per reati tributari. Infatti la confisca per equivalente (e quindi il preventivo sequestro), scatta nel momento in cui vi è la condanna definitiva per un delitto tributario per il quale non è stato estinto il relativo debito tributario e riguarda esclusivamente i beni legittimamente posseduti o nella disponibilità del reo, di valore corrispondente a quello del prezzo o del profitto del reato. Nel caso invece della confisca di prevenzione la misura può riguardare una vasta platea di soggetti: oltre al proposto, per espressa previsione legislativa, vi rientrano anche il coniuge, i figli, i genitori, i fratelli e rispettivi coniugi e i conviventi nell’ultimo quinquennio, oltre che le persone giuridiche, società, consorzi o associazioni del cui patrimonio gli stessi soggetti dispongono, anche in parte, direttamente o indirettamente. Da ricordare, infine, che le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere richieste e applicate disgiuntamente. Le misure di prevenzione patrimoniali possono essere disposte anche in caso di morte del soggetto proposto per la loro applicazione. Nel caso la morte sopraggiunga nel corso del procedimento, esso prosegue nei confronti degli eredi o comunque degli aventi causa. L’evasione grave e “abituale” giustifica il sequestro dei beni di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2017 Il contrasto alle forme di evasione fiscale più gravi può avvenire anche attraverso l’applicazione della normativa antimafia e quindi delle relative misure di prevenzione. È quanto emerge dalle ultime attività operative della Gdf e di alcune procure, ma, soprattutto dal più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo la quale non vi è alcuna causa ostativa ad applicare le misure di prevenzione anche patrimoniali (sequestro e confisca) previste dalla normativa cosiddetta “antimafia” alle forme più gravi di evasione fiscale. A nulla rileva che gli interessati non siano neanche indirettamente collegati con associazioni criminali: l’aspetto determinante per la giustificazione di tali misure è infatti la “pericolosità sociale” (intesa come attitudine a commettere reato). Misure di prevenzione - Il procedimento di prevenzione ha ad oggetto l’accertamento della pericolosità del soggetto, caratterizzata da comportamenti, non definiti tassativamente, ma che lasciano intravedere una situazione “probabile” circa la commissione di reati. Lo scopo quindi è proprio la prevenzione di tale commissione da parte di soggetti “socialmente pericolosi”: è richiesto di conseguenza un fondamento probatorio più basso rispetto a quello imposto per l’affermazione della responsabilità in sede penale. In tale contesto, oltre alle misure di prevenzione personali, il Dlgs 159/2011, il cosiddetto Codice antimafia, recentemente modificato dalla legge 161/2017 prevede anche misure di prevenzione patrimoniali (sequestro e confisca). I soggetti pericolosi - La normativa (articoli 1 e 4 del Dlgs 159/2011) considera soggetti socialmente pericolosi, non solo gli indiziati di appartenere ad associazioni criminali o dediti alla commissione di gravi reati ma anche, più genericamente, coloro i quali possono ritenersi sulla base di elementi di fatto: • abitualmente dediti a traffici delittuosi; • che vivono abitualmente, anche in parte, alla luce della condotta e del tenore di vita, con i proventi di attività delittuose. L’evasore fiscale - Secondo una prassi operativa sempre più frequente avallata dalla giurisprudenza di legittimità, nel caso in cui non si sia in presenza di una condotta episodica di evasione fiscale costituente delitto (si pensi a emissione fatture false, dichiarazione infedele, eccetera), ma di ripetute vicende che rappresentano una condotta di vita abitudinaria da cui la persona trae sostentamento, potrebbe ricorrere una ipotesi di pericolosità sociale con la conseguente applicazione della misura di prevenzione. Si tratterebbe infatti di una persona abitualmente dedita a traffici delittuosi e/o che vive abitualmente anche in parte con i proventi di attività delittuose. Occorre quindi provare sulla base di elementi di fatto che il soggetto mantenga uno stile di vita alimentato da proventi di attività delittuose (di natura fiscale) non isolate ma abituali, pur se connessi ad una attività economica astrattamente lecita. La procedura - Il tribunale, con decreto motivato, ordina, anche d’ufficio, il sequestro dei beni della persona nei cui confronti è iniziato il procedimento e dei quali risulta poter disporre, direttamente o indirettamente: • quando il loro valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato all’attività economica svolta; • oppure quando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. La confisca dei beni in sequestro è disposta invece: • quando il soggetto nei cui confronti è instaurato il procedimento non possa giustificare la legittima provenienza dei beni di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica; • quando i beni risultano essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Truffa, l’età senile della vittima è sempre da considerare come aggravante di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2017 Corte d’appello di Trento - Sezione penale - Sentenza 22 maggio 2017 n. 108. Nelle ipotesi di truffa in casa ai danni di anziani, l’età senile delle vittime è sempre indicativa della condizione di minorata difesa delle stesse. La circostanza aggravante prevista dall’articolo 61 n. 5 del Cp richiede, infatti, ai fini della sua configurabilità, che vi sia una particolare vulnerabilità delle persone, della quale il reo possa trarre consapevolmente vantaggio. Ad affermarlo è la Corte d’appello di Trento con la sentenza 108/2017. I fatti - Protagonista della vicenda è un uomo, incaricato della dimostrazione e vendita di apparecchi rilevatori di gas, il quale si era recato presso le abitazioni di due anziani convincendo questi ultimi, anche facendo leva sulla presunta obbligatorietà prevista dalla legge, all’acquisto e all’installazione di tali congegni. A seguito della denuncia di uno dei soggetti raggirati, l’uomo veniva tratto a giudizio per rispondere del delitto di truffa aggravata dalla minorata difesa delle vittime, nonché condannato in primo grado. A questo punto, la difesa cercava di attenuare il trattamento sanzionatorio inflitto all’imputato contestando l’applicabilità nella fattispecie della circostanza aggravante di cui all’articolo 61 n. 5 del Cp. Il giudice di primo grado, infatti, aveva ritenuto sussistente l’aggravante sulla sola base dell’età di 68 anni della persona offesa, non tenendo conto “della sua lucidità al momento di riferire i fatti in dibattimento”. Per la difesa, cioè, ciò che fa scattare l’aggravante non è l’età in sé considerata, bensì la scarsa lucidità o incapacità a orientarsi da parte della vittima, che nella fattispecie non sussisteva. La decisione - La Corte d’appello, tuttavia, non condivide l’assunto difensivo ritenendo che, ai fini della configurabilità dell’aggravante in esame, l’anzianità della persona offesa è un aspetto determinante, senza il quale, probabilmente, lo stesso reato non sarebbe stato consumato. Per i giudici, infatti, la condotta dell’imputato “non avrebbe avuto le medesime capacità di riuscita con riguardo alla ipotetica percezione e reattività di una persona più giovane, considerato che è stata certamente agevolata dalla scarsa lucidità e dalla sostanziale incapacità di orientarsi da parte delle vittime nella comprensione degli avvenimenti secondo criteri di normalità”. E, in particolare, la capacità delle stesse persone offese di riferire lucidamente la vicenda anche nel corso del dibattimento “non appare incompatibile con un deficitario approccio critico alla realtà al momento della consumazione del reato”. Tempio Pausania: la Uil-Pa denuncia “carcere al freddo e privo di acqua calda” cagliaripad.it, 13 novembre 2017 “Con l’arrivo della prima ondata di freddo, nessuno si è accertato del funzionamento degli impianti di riscaldamento e delle caldaie”. Lo denuncia il sindacato Uil. “Il personale è costretto a lavarsi con l’acqua gelida nel freddo delle camere di una caserma Agenti già fatiscente ed invivibile”. Non va meglio nelle sezioni detentive dove le condizioni climatiche hanno indotto i detenuti a protestare nelle sezioni gelide. A pochi giorni dalla visita del garante nazionale dei detenuti l’Amministrazione ha dimostrato che, scampato il pericolo, continua la mancanza di prevenzione ed attenzione nei confronti “del mondo carcere”. “Tali episodi - dichiara il segretario territoriale della provincia di Sassari della Uil della Polizia Penitenziaria Stefano Musino - oltre a rendere invivibili le condizioni lavorative hanno scatenato delle proteste da parte dei detenuti. Tali eventi critici ricadono sul personale di Polizia Penitenziaria che deve gestire le situazioni senza nessuna possibilità di risolvere le anomalie. Queste carenze strutturali si sommano alle difficili condizioni lavorative del personale, privo di un Direttore in pianta stabile e di un Comandante del ruolo Commissari che possa sostituire il titolare, assente per legittimi motivi. Lo stesso identico problema si è verificato lo scorso anno, questo a nostro giudizio rappresenta un vero e proprio disinteresse sulle condizioni lavorative del personale e delle condizioni detentive. Stiamo denunciando condizioni invivibili paradossalmente nei nuovi Istituti concepiti per fornire ogni comfort grazie alla tecnologia. Abbiamo inviato una nota al Capo del Dipartimento bypassando il Provveditore viste le pessime relazioni sindacali in regione e la mancanza di interventi alle problematiche denunciate dalla Uil”. Vibo Valentia: crolla una finestra blindata, ferita una agente di Polizia penitenziaria di Gianluca Prestia Quotidiano del Sud, 13 novembre 2017 “La situazione di degrado e di pericolo per l’incolumità degli operatori che si registra negli istituti penitenziari del Paese è davvero inaccettabile e giunta a un punto di non ritorno se non si avvia immediatamente un piano di manutenzione straordinaria delle strutture”. È quanto dichiara Angelo Urso, Segretario Generale della Uil-pa Polizia Penitenziaria nel denunciare un episodio avvenuto presso la casa circondariale di Vibo Valentia: “Sabato pomeriggio un’anta metallica di una grande e pesante finestra blindata ha ceduto sulle cerniere (forse non idonee a sostenere il peso di una finestra blindata) ed ha investito una donna della Polizia penitenziaria che, immediatamente soccorsa, è dovuta ricorrere alle cure dell’ospedale. Solo per un caso fortuito e per la prontezza di riflessi della malcapitata si è evitata la tragedia. Allo stato attuale, varcare la soglia delle carceri è quasi come attraversare un campo minato, e non solo per le continue e crescenti aggressioni subite dal personale a opera dei detenuti”. Urso ricorda le numerose denunce fatte dal sindacato nel corso degli anni ma rimaste inascoltate circa il degrado, la pericolosità e l’insalubrità dei luoghi di lavoro della Polizia Penitenziaria: “L’amministrazione penitenziaria nella stragrande maggioranza dei casi nulla di tangibile ha fatto per risolvere i problemi. E non si tratta solo della mancata applicazione della normativa in tema di salubrità e sicurezza dei luoghi di lavoro, ma di vera e propria incuria per le condizioni in cui costringe a operare i propri dipendenti confermandosi il peggior datore di lavoro della nazione”. “Pure per questo - conclude il Segretario Generale della Uil-Pa della Polizia Penitenziaria - oltre a consultare i nostri legali per l’avvio di eventuali iniziative giudiziarie, se del caso anche in sede penale, daremo presto luogo ad atti di “disobbedienza civile” rendendo fruibili, pure in assenza di autorizzazioni, le immagini dei luoghi di lavoro della Polizia Penitenziaria (che non siano sensibili ai fini della sicurezza e nel rispetto della privacy)”. Roma: “Destini incrociati”; tre giorni di spettacoli, video e laboratori dedicati al carcere di Teresa Valiani Redattore Sociale, 13 novembre 2017 Ricca di eventi e appuntamenti, la quarta edizione si snoda tra il teatro Palladium dell’università Roma Tre, il carcere di Rebibbia, la biblioteca Hub Culturale Moby Dick della Regione Lazio e il Dams. In programma anche un convegno per tracciare un bilancio e promuovere nuove prospettive per la scena penitenziaria italiana. Tre giornate di spettacoli, conferenze, proiezioni, video e laboratori per entrare nel mondo del carcere da un osservatorio privilegiato: la sala di un teatro. Dal 15 al 17 novembre il teatro Palladium dell’Ateneo Roma Tre ospiterà la quarta edizione della rassegna nazionale di teatro in carcere “Destini incrociati”, progetto ministeriale riconosciuto e finanziato dal ministero dei Beni e delle Attività Culturali, e un convegno di studi per tracciare un bilancio sull’attività svolta negli ultimi anni e promuovere nuove prospettive per la scena penitenziaria italiana. Al centro dell’evento, la collaborazione tra il dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’università Roma Tre, il Coordinamento nazionale Teatro in carcere, il ministero dei Beni e delle Attività Culturali e il ministero della Giustizia/dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. “L’intento - spiegano gli organizzatori - è quello di creare, anche a partire dai luoghi in cui si svolgeranno gli eventi (il Teatro Palladium, il carcere di Rebibbia femminile, la biblioteca Hub Culturale Moby Dick della Regione Lazio, il Dams dell’università Roma Tre), un ponte tra il carcere e la società esterna che riveli l’altra immagine di questi universi: tanto diversi eppure così uguali quando la prospettiva dalla quale li si osserva è quella teatrale”. “L’iniziativa di Roma - spiega il presidente del Coordinamento nazionale Teatro in carcere, Vito Minoia - oltre a costituire un ulteriore occasione di riflessione e di confronto dopo quelle di Firenze, Pesaro e Genova degli ultimi anni, sarà utile per tracciare un bilancio sul lavoro promosso dal Coordinamento, riflettendo sul ruolo del teatro in carcere nell’ambito della prossima riforma penitenziaria e della vita sociale e culturale del nostro Paese. La diversità di queste esperienze rispetto al teatro istituzionalizzato appare come una condizione genetica che ci consente di delineare un ambito di lavoro teatrale, con una forte connotazione artistica e al tempo stesso educativa e inclusiva: una zona pratica della scena contemporanea ricca di implicazioni sociali e civili. Tra gli altri spicca il dato della sensibile diminuzione della recidiva in chi fa teatro in carcere, che si riduce dal 65 al 6 per cento”. Il progetto è inserito tra le attività che l’università Roma Tre porta avanti nell’ambito della “Terza Missione”, fa seguito al Festival “Made in Jail. Carcere & Cultura”, diretto da Valentina Venturini, docente di Storia del Teatro, ed è parte del Protocollo d’intesa tra Roma Tre, Dap e Coordinamento nazionale. Anche in questa rassegna agli spettacoli si alterneranno conferenze, mostre e dimostrazioni di lavoro. “Verrà in questo modo restituito - sottolinea una nota dell’organizzazione - un panorama ampio delle nuove esperienze drammaturgiche sperimentate da registi e autori professionisti che da anni lavorano sul campo. Assisteremo a spettacoli nati dalle narrazioni e dalle biografie di detenuti, spesso direttamente coinvolti anche nel processo di scrittura e allestimento, come “L’infanzia dell’alta sicurezza” scritto e diretto da Mimmo Sorrentino: sul palcoscenico otto detenute della casa di reclusione femminile di Vigevano, condannate per reati associativi, mettono a nudo la loro esistenza e il loro dolore (15 novembre alle 21.00)”. Il programma. Saranno rappresentati spettacoli frutto della reinterpretazione di testi classici e di repertorio: “La favola bella” con la regia di Grazia Isoardi presentato dalla compagnia Voci Erranti, con i detenuti del carcere di Saluzzo (17 novembre alle 21.00); “Amleta se lei è pazza allora sono pazza anch’io”, rivisitazione al femminile dell’opera shakespeariana, con la compagnia Le donne del Muro Alto del femminile di Rebibbia, diretta da Francesca Tricarico (16 novembre alle 10.30, Rebibbia, accesso consentito con autorizzazione). Il 15 novembre in scena la compagnia SineNOmine#, con i detenuti della Casa di reclusione di Spoleto, dalle 17.00, “Sorveglianza Speciale 82/diciassettesimi Ar” regia di Giorgio Flamini, mentre il 16 novembre sarà la volta dello spettacolo “Fortezza” della compagnia AdDentro, con i detenuti del carcere di Civitavecchia, dalle 18.00, regia di Ludovica Andò. Il 17 novembre “Studio per un finale”, regia di Livia Gionfrida, compagnia “Metropopolare”, con i detenuti della Casa circondariale di Prato, dalle 17.00. La rassegna ospiterà il 16 novembre, alle 20.30, Giovanna Marini che presenta lo spettacolo-concerto ‘Fogli volanti’ con il Coro Inni e Canti di Lotta della Scuola Popolare di musica di Testaccio diretto da Sandra Cotronei. Una storia d’Italia cantata e vista dalla parte di chi, dal basso, è stato protagonista di un percorso partecipativo e democratico. Non mancherà una sezione interamente dedicata alla proiezione di video, selezionati e scelti dalla direzione artistica dell’intera rassegna composta da Ivana Conte, Vito Minoia, Valeria Ottolenghi, Gianfranco Pedullà e Valentina Venturini. Parte integrante del progetto saranno i laboratori di accompagnamento alla visione degli spettacoli destinati a detenuti e spettatori, curati da Agita, e quelli di critica teatrale per gli studenti universitari del Dams, curati dall’Associazione nazionale dei Critici di teatro con la collaborazione del Teatro di Roma. Concludono la rassegna il convegno di studi a cura dell’Università Roma Tre e del Garante dei Diritti dei detenuti del Lazio, dedicato al futuro del teatro in carcere “Dagli Stati generali alla riforma penitenziaria. Prospettive per il teatro in carcere” (17 novembre dalle 9.30) e la conferenza, tenuta da Franco Ruffini, accademico e storico del teatro “Teatro e Carcere. Una contraddizione in termini”, 17 novembre dalle 18.30. Durante la rassegna il foyer del Teatro Palladium ospiterà la mostra “Prigionie (in)visibili, il teatro di Samuel Beckett e il mondo contemporaneo”, curata dallo studioso giapponese Yosuke Taki. (Teresa Valiani) Firenze: “Misfit!”, una storia di collaborazione tra studenti e carcerati attraverso il teatro reportcult.it, 13 novembre 2017 L’arte e il teatro come strumenti capaci di unire, di avvicinare mondi diversi, di favorire il riscatto sociale, di creare rapporti di amicizia e collaborazione. Un progetto significativo in tal senso è quello promosso ormai da sette anni dagli studenti di un liceo fiorentino e dal Teatro del Carcere di Sollicciano. Al Liceo Artistico di Porta Romana e Sesto Fiorentino, essere “misfit” è una caratteristica importante che racchiude anche il senso artistico dell’originalità e della diversità. Per questo abbiamo organizzato un evento speciale per raccontare una storia originale, nata sette anni fa, con i laboratori di inclusione, dove studenti speciali sono affiancati da studenti delle varie discipline scolastiche. Il 18 novembre 2017 è la giornata che dedichiamo a presentare, agli studenti che frequentano adesso il liceo e a tutti i cittadini, questa storia unica. Tutta la giornata sarà improntata sul racconto attraverso una mostra di oggetti, modelli, foto, quadri ed elaborati vari degli studenti che nel corso degli ultimi sette anni sono stati partecipi di questa attività insieme alla Compagnia di Sollicciano. L’evento, preparato con cura in tutti i particolari, vuole rappresentare l’avventura sia collaborativa che di amicizia tra il Teatro del Carcere di Sollicciano e il Liceo Artistico di Porta Romana di Firenze. La giornata è articolata in due diversi momenti. Al mattino è previsto un meeting dove gli studenti incontreranno in Aula Magna la regista Elisa Taddei, il videomaker Corrado Ravazzini, lo scenografo Francesco Givone, la costumista Roselì Pereira, l’attore Maurizio Panarese, Elisabetta Bronzi, referente progetto scuola carcere, Daria Ganassini, direttore creativo dei laboratori speciali e Gloria Romoli, docente che ha curato con gli studenti la realizzazione dei ritratti e della mostra fotografica. Agli studenti sarà spiegato questo progetto e il percorso formativo durante questi sette anni di laboratori. Il pomeriggio, alle 17.30, l’Aula Magna sarà aperta al pubblico e alla cittadinanza, dove insieme alla regista Elisa Taddei, all’attore Maurizio Panarese e al video maker Corrado Ravazzini tutti potranno conoscere la storia dei laboratori di inclusione e visionare i lavori realizzati dagli studenti per la realizzazione dei costumi, scenografie e linea grafica delle locandine e manifesti per gli spettacoli teatrali. Saranno presenti il Dirigente Scolastico del Liceo Artistico di Porta Romana e Sesto Fiorentino Laura Lozzi e il Dirigente Scolastico dell’Istituto Statale di Istruzione Superiore Russel Newton Anna Maria Addabbo, i docenti Francesca Sestini della sezione Grafica Pubblicitaria, Fabio Lotti per Oreficeria, Silvia Vanni per Arti Grafiche, Claudio Pini per Multimediale, Gloria Romoli per fotografia, Elisabetta Bronzi referente dei progetti, e Daria Ganassini direttore creativo dei laboratori speciali. Per l’occasione saranno presenti anche le studentesse e gli studenti che nel corso degli anni hanno realizzato i vari progetti. Alle ore 18.30, accolti dalle note musicali di Gere, ex studente del Liceo, sarà inaugurata la Mostra nella Gipsoteca, che resterà aperta per una settimana dalle 10 alle 17.30, sabato escluso. Trani (Bat): Madonna di Fatima, il secondo incontro nel carcere femminile di Giovanni Ronco traniviva.it, 13 novembre 2017 Stavolta è toccato alle donne carcerate, nella sede di piazza Plebiscito, l’onore di ricevere in visita la statua della Madonna di Fatima col parroco padre Carlo Diaferia ed un gruppo di parrocchiani - collaboratori. Padre Carlo stavolta ha puntato l’attenzione sul concetto “d’essere mamma” da parte di Maria, così come anche le detenute sono mamme, pur con tutte le difficoltà vissute. Un momento ed una riflessione che hanno suscitato forte emozione da parte delle donne presenti all’incontro. Anche questa volta, così come nella precedente visita alla sezione uomini, non è mancata la presenza del cappellano del carcere tranese, don Raffaele Sarno, sempre impegnato in prima linea, ricordiamo l’incarico per la responsabilità con la Caritas, nella difesa dei diritti degli ultimi. È stato ricordato da padre Carlo che anche i tre pastorelli di Fatima, Giacinta Francesco e Lucia vissero l’esperienza del carcere; altro motivo d’identificazione tra l’esperienza di Fatima e gli uomini e le donne incontrate presso la Casa Circondariale. Portati con l’inganno a Cova d’Iria dal sindaco del luogo con la scusa di assistere all’apparizione della Madonna, i tre pastorelli furono arrestati e condotti per una notte in carcere. Qui i tre fanciulli, dopo un momento di timore, non si persero d’animo e pur minacciati di essere buttati in una pentola d’olio bollente, imperterriti cominciarono a recitare il Rosario e ottennero la libertà, con gli altri detenuti spinti da quel momento alla preghiera. In quel mese di aprile, quando avvenne l’episodio, l’apparizione, non avvenuta come di consueto il 13, per l’infida presenza del sindaco che aveva cattive intenzioni, si verificò il 19. Un altro appuntamento che sottolinea come la serie degli eventi organizzati per il Centenario delle apparizioni di Fatima non hanno solo un carattere celebrativo, ma anche una valenza sociale, volta ad aprire i cuori. Molti detenuti infatti, dopo le visite della Madonna di Fatima, si sono accostati con più frequenza alla Messa e alla preghiera. Un bel segnale. Napoli: “Il Re Ride”, l’opera sarà presentata nel carcere di Secondigliano di Francesco Carluccio anteprima24.it, 13 novembre 2017 Sarà presentato ai detenuti la mattina di martedì prossimo nel carcere di Secondigliano, a Napoli, e mercoledì alle 21, al Teatro Tram (Piazza Dante), “Il Re Ride”, scritto e diretto da Luisa Guarro, con Francesco Campanile, Luca Di Tommaso e Giorgio Pinto, luci di Paco Summonte, realizzazione costumi di Federica Del Gaudio. Lo spettacolo è stato selezionato dal Festival Internazionale di teatro che si terrà al Drama Theatre di Ryazan, in Russia, dal 20 al 26 novembre. Si tratta, come spiega Luisa Guarro, di “una riflessione sul potere in forma di prosa e nera clownerie. È una favola, accompagnata da musiche di Tom Waits e Nick Cave e ha per protagonisti dei clown: uomini in quanto tali, pallidi perché destinati alla morte, con segni evidenti sul viso, della passata infanzia e delle emozioni più remote”. “La nostra favola è una rilettura della leggenda campana dell’uccello grifone, storia di un fratricidio per il potere”. Bologna: “Dustur”, in un docu-film la sfida dell’integrazione nel carcere della Dozza bolognatoday.it, 13 novembre 2017 All’interno della rassegna “Fedi in gioco” promossa da Acec, la Sala della Comunità Bristol, il 13 Novembre alle ore 21.00 proietterà Dustur. In questo documentario il regista romano Marco Santarelli ha scelto di raccontare la sfida dell’integrazione raccontando un corso sulla Costituzione frequentato da un gruppo di detenuti nordafricani nella Casa circondariale Dozza di Bologna. Nel 2015, nell’arco di alcuni mesi, il carcere ha aperto le porte a esperti di islam, docenti universitari, mediatori culturali che si sono seduti al fianco dei detenuti per rileggere i diritti e i doveri sanciti dalla Costituzione italiana attraverso lo sguardo del mondo arabo e la lingua araba stessa, per terminare con la stesura di una nuova Carta costituzionale scritta dai detenuti stessi. Il corso è stato coordinato da fratel Ignazio De Francesco, monaco della Piccola famiglia dell’Annunziata - la comunità di Monte Sole fondata da don Giuseppe Dossetti, esperto di spiritualità islamica. Parallelamente alle lezioni per i detenuti all’interno del carcere Dozza, il documentario segue la storia fuori dal carcere di un giovane marocchino che sta aspettando il fine pena e si impegna per ricostruirsi una vita in Italia all’interno della legalità. Sarà proprio lui insieme a Bernardino Cocchianella ad accompagnare il momento di riflessione successivo alla proiezione”. Torino. “Amor Y Anarquía”. Sole e Baleno, questo film non s’ha da fare di Massimo Novelli Il Fatto Quotidiano, 13 novembre 2017 Storia argentina, senza tango e milonga. Storia italiana di gioventù, utopia e prigione. Una storia dove la “nostra mente è porosa per l’oblio; io stesso sto deformando e perdendo, sotto la tragica erosione degli anni, i tratti di Beatriz”. Qui Beatriz si chiama “Sole”. Il film “Amor Y Anarquía”, che si sta girando in Piemonte tra le contestazioni degli anarchici, opera della regista Agustina Macri, figlia del presidente dell’Argentina Mauricio Macri, parla infatti di una Maria Soledad Rosas detta “Sole”. Anche lei argentina e discendente di Juan Manuel de Rosas, che nei primi decenni del 1800 fu governatore di Buenos Aires. “Sole” si uccise a 24 anni, l’11 luglio del 1998, in una comunità di Benevagienna (Cuneo), dove si trovava agli arresti domiciliari. Era accusata dalla Procura della Repubblica di Torino di avere preso parte ad alcune azioni di cosiddetto ecoterrorismo, atti di sabotaggio in Valle di Susa, assieme ad altri squatter e militanti libertari. Uno di loro era Edoardo Massari detto “Baleno”, 35 anni, compagno di Maria Soledad Rosas, che, messo in prigione per quei fatti, ai quali poi risultò estraneo come la ragazza, si era tolto la vita nel marzo di quell’anno nel carcere torinese delle Vallette. Tra i due suicidi c’erano state veementi manifestazioni da parte degli anarchici, scontri di piazza, aggressioni a giornalisti. “Sole” e “Baleno” sono diventati un simbolo del movimento squatter, e ritenuti vittime sacrificali, quasi come Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, di un complotto giudiziario e istituzionale. Con le proteste di queste settimane contro le riprese a Torino del film della Macri, tratto dal libro Amor y Anarchìa dello scrittore Martin Caparròs (l’Einaudi lo pubblicherà in Italia agli inizi del 2018), la vicenda ritorna alla ribalta. E sembra replicare, nell’intreccio di deformazione e di oblio, di sentimentalismo e di timori, quanto scriveva per l’appunto Borges, un altro figlio dell’Argentina. Gli antagonisti, i contestatori del film, che hanno costretto la Macri - a quanto pare - a spostare la lavorazione lontano da Torino, sostengono del resto che ripropone “in maniera distorta la storia dei nostri compagni e di chi quei giorni convulsi li ha vissuti sulla propria pelle”. Una brutta storia, quella di “Sole” e di “Baleno”. Un maledetto imbroglio. È la storia, in questo caso, di una ragazza che, prima di uccidersi come la Beatriz di Borges senza sentimentalismo e timori, scrive in un biglietto: “Non sopporto più la reclusione. Non conosco altra maniera di essere libera”. Di famiglia benestante, era partita per l’Italia nel giugno del 1997 con un’amica, per vivere lontano dalla famiglia e dal padre, con il quale era in conflitto. Giunta a Torino, frequenta gli ambienti libertari e dei centri sociali, conoscendo Massari. Amore, anarchia, vita libera nei “posti occupati”. Fino a quando Maria Soledad, che non si era mai occupata di politica, si trova coinvolta in uno dei tanti misteri della Valle di Susa, quella vallata alle porte di Torino, che, oltre alle vicende dell’alta velocità, o Tav, da mezzo secolo è crocevia di interessi mafiosi, trame neo- fasciste, servizi segreti più o meno deviati, residui di terrorismo rosso e nero. Tra l’agosto del 1996 e il gennaio del 1998 in Valle di Susa si verificano alcuni atti di sabotaggio contro centraline elettriche, trivelle, impianti dell’autostrada del Frejus. della Telecom, di Omnitel, e un ripetitore Mediaset. Sono rivendicati dal più che fantomatico gruppo dei Lupi Grigi, davvero strana coincidenza, nel nome, con il gruppo della mafia turca coinvolto nel tentato omicidio di Papa Giovanni Paolo II. Le indagini, tuttavia, si indirizzano verso le frange anarchiche, un classico della storia italiana. Nel marzo del 1998 scattano gli arresti: in cella finiscono Silvano Pellissero, un singolare ribelle valsusino, dalle idee piuttosto contraddittorie, e poi Massari e “Sole”. I tre si erano incontrati nell’ex obitorio occupato del vecchio manicomio di Collegno. L’inchiesta per terrorismo ha un grande risalto sui mass media, tanto che gli anarchici parlano di “opera di demonizzazione degli squatter torinesi”. Il dramma è vicino. Il 26 marzo il Tribunale respinge le loro istanze di scarcerazione perché “esistono forti contiguità fra i tre indagati e gli autori degli attentati”. All’alba del 28 marzo “Baleno” viene trovato agonizzante, impiccato con le lenzuola alla sua branda, nella cella del carcere delle Vallette. L’11 luglio è la volta di “Sole”. In una lettera, dopo la morte di Massari, aveva detto: “Compagni, la rabbia mi domina in questo momento. Io ho sempre pensato che ognuno è responsabile di quello che fa, però questa volta ci sono dei colpevoli e voglio dire a voce molto alta chi sono stati quelli che hanno ucciso Edo: lo Stato, i giudici, i magistrati, il giornalismo, il T.A.V., la Polizia, il carcere, tutte le leggi, le regole e tutta quella società serva che accetta questo sistema”. Nel 2002 la Corte di Cassazione stabilisce che quella di Pellissero, “Sole” e “Baleno”, non era “un’associazione terroristica”, bensì si trattava “di tre persone che al massimo si erano macchiate di reati comuni”. Cadute le ipotesi di reato più gravi, le finalità eversive e terroristiche, la Corte d’Appello di Torino riduce la pena di Pellissero a tre anni e 10 mesi. Il resto è la “tragica erosione degli anni”. I diritti umani funzionano se rispecchiano la realtà di Alberto Mingardi La Stampa, 13 novembre 2017 Nel suo ultimo libro Ignatieff va al di là dell’astrattezza della morale globale: i valori nascono in situazioni concrete. Dall’America di Trump all’Austria di Kurz, oggi in politica vince chi sa giocare con la retorica del conflitto. Il mondo globalizzato ci pare pericolosissimo. Ci sentiamo insicuri, le migrazioni minacciano la nostra identità, il terrorismo ci sorprende a due passi da casa. Michael Ignatieff, Presidente della Central European University, quindici anni fa scriveva Una ragionevole apologia dei diritti umani (Feltrinelli). Lo storico canadese pensava fosse saggio definire un insieme di “diritti” accettabili da tutte le culture. Se è difficile convenire su cosa sia il bene, è possibile invece “essere d’accordo su ciò che è insopportabilmente e indiscutibilmente sbagliato”. Esportare la democrazia Non era poi così facile. In pochi oggi si arrischiano a credere che si possa “globalizzare” una certa idea di giustizia. “Gli studiosi attribuiscono il fallimento di un’etica globalizzata agli egoismi nazionali. Tuttavia il problema è più profondo. Nella maggior parte delle democrazie i cittadini ritengono che i propri interessi, democraticamente individuati, debbano prevalere sugli interessi dei popoli di altri paesi”. “Esportare” i diritti umani ed “esportare” la democrazia sembravano essere la stessa cosa. Invece le libere elezioni rinvigoriscono la logica del “noi contro voi”. La regola della maggioranza sorregge i nazionalismi, non li ostacola. Perciò in The Ordinary Virtues. Moral Order in a Divided World (Harvard University Press, 2017, pp. 272, € 25) Ignatieff ha voluto cambiare punto d’osservazione. Per cercare di capire “come agiscono effettivamente le persone comuni provenienti da culture diverse quando si confrontano su questioni specifiche relative a principi morali” ha visitato Jackson Heights a New York e il Myanmar, le favelas di Rio de Janeiro e Fukushima, Zama Zama (una baraccopoli alle porte di Pretoria), Sarajevo, Los Angeles. Nessuna di queste realtà è modellata su un progetto di comunità plurale e cosmopolita, nelle quali gruppi diversi promuovono il “minimo comune denominatore” dei diritti umani. In Myanmar Aung San Sui Kyi rifiuta di condannare la persecuzione della minoranza Rohingya (poverissimi e musulmani) come “pulizia etnica”. In Sud Africa l’African National Congress non è stata capace di costruire un’economia abbastanza solida da offrire opportunità a milioni di africani. A quasi trent’anni dalla fine dell’apartheid, resta più facile incolpare della miseria il “privilegio dei bianchi” (meno del 10% della popolazione) che ragionare sui problemi della transizione. Tolleranza pratica Esistono però luoghi dove “la tolleranza non è un valore universale, ma semplicemente una pratica sociale quotidiana”. In un grande conglomerato come Los Angeles, comunità diverse convivono grazie a un “sistema operativo etico”. “Le virtù della fiducia e della tolleranza inter-etnica dipendono dal buon funzionamento delle istituzioni: che la polizia e i tribunali producano un’eguaglianza, sia pure grossolana, davanti alla legge, che i politici mantengano una distribuzione ragionevolmente equa di favoritismi verso tutti i gruppi, che le opportunità di carriera rimangano aperte”. Perciò, i bassi salari degli immigrati non rappresentano un’ingiustizia: appaiono come il primo gradino di una scala che ognuno può salire. Proprio i neo-statunitensi sono protagonisti di una “esperienza di individuazione: le donne diventano quelle che portano i soldi a casa, i figli lasciano l’autorità della famiglia per la disciplina della scuola, i patriarchi perdono parte della loro autorità quando vanno a lavorare in fabbrica”. The Ordinary Virtue è un viaggio affascinante non nel migliore dei mondi possibili, ma in quello che c’è. Nei Balcani, un dialogo con una traduttrice bosniaca suggerisce all’autore che “finché la gente non generalizza, finché termini come nazione o fede, parole come noi e loro, non gli entrano in testa, finché si parla solo di te e di me, le persone possono vivere insieme, fianco a fianco, differenza accanto a differenza”. Ma che le differenze di nazione e di fede vengano magicamente deposte, come nell’Imagine di John Lennon, è assai improbabile. Persino negli Stati Uniti, “quando l’immigrazione è cresciuta, l’effetto è stato quello di rafforzare l’endogamia razziale”. Si può invece sperare in qualche cosa di diverso. In quella “pratica”, più che teoria, della tolleranza che nasce semplicemente dall’avere un pochino bisogno gli uni degli altri, anche se apparteniamo a diverse etnie e ci capiamo più che altro a gesti. È altamente probabile che preferiremmo continuare a vivere con chi ci assomiglia: la curiosità per l’altro, il gusto della differenza, sono abitudini culturali di pochi e sarebbe sbagliato pretenderle dalle persone “ordinarie”. Le virtù ordinarie hanno a che fare con lo stare in coda in ospedale senza sorpassarsi a vicenda, con la cortesia del buongiorno e buonasera che il negoziante riserva ai suoi clienti quale che sia il colore della loro pelle. Possiamo fare la fila assieme, anche se preghiamo dei che non abitano lo stesso olimpo. L’auto-interesse. È un rispetto che non ci viene dalla filosofia, ma dalla realtà dei commerci, dal trovarsi l’uno fianco all’altro nei bazaar, dallo sperare che le forze dell’ordine sorveglino le nostre rispettive bancarelle. La potenza dell’auto-interesse per costruire la convivenza resta un po’ troppo in ombra nel libro di Ignatieff. Ma rimane vero che l’ottimismo dei piccoli passi è fatto di virtù ordinarie, e di speranze che non richiedano atti di eroismo. L’ex presidente di Facebook: “i social sfruttano le debolezze psicologiche delle persone” di Luca Angelini Corriere della Sera, 13 novembre 2017 Sean Parker, l’hacker che ha fondato Napster e ha lavorato con Zuckerberg, fa mea culpa: “Solo dio sa cosa fanno queste piattaforme al cervello dei nostri bambini”. “Quando un network cresce fino a un miliardo o due miliardi di persone, cambia letteralmente la tua relazione con la società, con gli altri. Probabilmente interferisce in modo misterioso con la produttività in strani modi. Solo dio sa cosa stia facendo ai cervelli dei nostri bambini”. Non, non è lo sfogo di un apocalittico tecnofobico. Sono parole di Sean Parker, l’hacker che a vent’anni fondò Napster e a 25 fu il primo presidente di Facebook (prima di esserne cacciato per una vicenda di cocaina). Quello che ha messo insieme l’idea di Mark Zuckerberg e i soldi di Peter Thiel (e che nel film The Social Network è interpretato da Justin Timberlake). Uno che, come ricorda in Move fast and break things Jonathan Taplin (che gli imputa non senza qualche ragione la distruzione dell’industria musicale nella quale lo stesso Taplin lavorava) pensa che sia “la tecnologia e non l’economia o il governo la vera forza trainante dietro i grandi cambiamenti sociali”. Per questo fa una certa impressione leggere, come riporta su Axios Mike Allen, che l’ha intervistato a Filadelfia, che il “nuovo” Parker, quello che presiede il Parker Institute for Cancer Immunotherapy, si proclama “una specie di obiettore di coscienza” in fatto di social media. Parker dice che i social, e Facebook prima di tutti, sono partiti da una domanda: “Come faccio a consumare la maggior parte possibile del vostro tempo e della vostra attenzione cosciente? E hanno perciò “sfruttato una vulnerabilità nella psicologia umana”, ossia il bisogno di riconoscimento sociale (“proprio la cosa che si sarebbe inventato un hacker come me”), e che lui stesso, Mark Zuckerberg e Kevin Systrom di Instagram “ne eravamo del tutto coscienti, ma l’abbiamo fatto comunque”. Come? “Dandovi ogni tanto un po’ di dopamina, perché qualcuno mette “mi piace” o commenta una foto, un post o qualcos’altro”. Quanto sia sincera l’autocritica di Parker (che è ancora nel board di Spotify) è da vedere. Ma sembra conscio di segnare un cambio di rotta, tanto che, tra il serio e il faceto, dice a Allen: “Credo che Mark Zuckerberg adesso bloccherà il mio account”. “Noi torturati nelle prigioni libiche”. I racconti dei reduci dal lager dei migranti di Alessandra Ziniti La Repubblica, 13 novembre 2017 “Era una grande stanza alla quale si accedeva attraverso un’unica porta, due finestre e un solo bagno per più di cinquecento persone. Ci alzavamo in piedi, poi ci sedevamo, uno con le spalle sulle gambe dell’altro, in fila, rannicchiati. Ogni giorno, a turno, chi veniva chiamato doveva alzarsi e veniva torturato davanti a tutti mentre uno dei carcerieri scattava foto e telefonava ai familiari e faceva sentire loro in diretta le urla strazianti per poi chiedere il riscatto per la liberazione”. Eccola la foto che, per la prima volta, porta fuori dal Ghetto di Sabha, incubo e terrore di ogni migrante che entra in Libia, tutto l’orrore delle violenze che vengono inflitte dai feroci miliziani al comando del misterioso “generale Alì”. Il capo dei trafficanti al quale ora, grazie anche alle coraggiose testimonianze di sette delle vittime del campo di prigionia riuscite poi ad arrivare in Italia, la Dda di Palermo sta dando la caccia. “Riuscire anche solo ad individuare il generale Alì in Libia, è un’impresa - dicono i sostituti procuratori Geri Ferrara e Giorgia Spiri - contiamo molto sulla collaborazione dei nostri servizi di sicurezza”. La foto consegnata agli inquirenti da uno dei migranti sopravvissuti a mesi di detenzione è il punto di partenza della caccia all’uomo coordinata dal procuratore aggiunto Marzia Sabella. Hamed Bakayoko, uno dei migranti che nei mesi scorsi hanno riconosciuto in un centro di accoglienza in Italia due dei loro carcerieri ora arrestati e sotto processo - è fermo nel suo cammino di collaborazione con la giustizia italiana. “Nel mio paese ho studiato legge - dice - e una volta arrivato a Lampedusa, sapendo che la tortura è condannata universalmente, sono stato io a fare la prima denuncia alla polizia”. Impossibile, per chi era in quello stanzone, dimenticare la scena ritratta in quella foto. “Quando volevano picchiarci ci riunivano tutti quanti, poi prendevano la persona che volevano torturare e iniziavano il pestaggio. Questo ragazzo, disperato con le mani tra i capelli, aveva cercato di scappare, è stato ripreso ed è stato picchiato violentemente e poi è morto”. Il dominus incontrastato del ghetto degli orrori è dunque il generale Alì che adesso ha finalmente anche un volto. Isaac Yallai, nigeriano, lo descrive così: “È arabo, ha i capelli molto lunghi e cammina come se avesse avuto un incidente, piegato in avanti. Non so che età abbia, non è sicuramente giovane, non vecchissimo”. Alì vive in una villa sulla collina che guarda il ghetto, una vera e propria fortezza al limite del deserto difesa da filo spinato e miliziani armati di kalashnikov. I prigionieri sono stipati in quattro sezioni, tre per gli uomini e una per le donne, torturati fino allo sfinimento, costretti a chiedere alle famiglie riscatti fino a cinquemila euro per tornare in libertà. Qualcuno, come Efods Idehen, si è salvato così: “Stavo molto male, gli ho detto che non avrei potuto continuare a rimanere in quel posto, loro mi hanno coperto con delle lenzuola e mi hanno buttato nell’immondizia”. Qualcun altro è stato costretto ad assistere all’omicidio del fratello e a chiamare in viva voce i genitori per chiedere altri soldi implorando di pagare il riscatto almeno per la sua liberazione. “Quel ragazzo aveva solo 16 anni, lo hanno legato sia mani che piedi e hanno cominciato a picchiarlo violentemente fino a quando non è morto e poi lo hanno buttato fuori dalla finestra. Poi hanno fatto chiamare il fratello per parlare con la madre chiedendo altri soldi”. C’è un orrore indelebile negli occhi di questi coraggiosi sette migranti sopravvissuti che, con fermezza, hanno ripetuto i loro tremendi racconti in aula a Palermo, a porte chiuse, di fronte a due dei loro carnefici, tra cui quello soprannominato “Rambo”, un vero e proprio gigante che gli agenti di polizia penitenziaria sono costretti a sedare per gestire le sue continue esplosioni di rabbia in carcere e che hanno riconosciuto in un drammatico incidente probatorio. Era lui, in particolare, il carceriere che sottoponeva le donne a stupri e violenze. “Le ragazze - racconta Hamed Bakayoko - non avevano scelta. Non avevano accesso al cibo e l’unico modo per poter mangiare era “dormire” con lui”. Le più “fortunate” venivano scelte da Alì in persona, portate fuori dal campo e costrette a rapporti sessuali negli alberghi di Sabha, poi “vendute” come prostitute. Si muore picchiati fino allo sfinimento ma a centinaia, soprattutto donne e bambini, entrati nel ghetto e non “riscattati” muoiono di fame. Efods ne ha visti tanti: “Ci davano soltanto due cucchiai di pasta al giorno, quindi c’erano persone che morivano di stenti”. Migranti. La strage delle nigeriane, 24 corpi senza nome. Il Gip: “viaggi disumani” di Dario Del Porto La Repubblica, 13 novembre 2017 Nelle bare ci sono 24 cadaveri ancora senza nome. L’unico segno di riconoscimento è un cartellino con un numero progressivo. Sette giorni sono trascorsi, dalla strage delle ragazze nel Mediterraneo, e i contorni del dramma delle giovanissime nigeriane inghiottite dal mare durante la traversata dalla Libia all’Italia si fanno più nitidi. Solo in due sono state riconosciute, nell’obitorio di Salerno, dal marito e dal fratello, che si sono sciolti in un pianto dignitoso, pur fra tanta disperazione. Le altre, dunque, si erano messe in viaggio da sole, oppure chi era insieme a loro non ce l’ha fatta. Dall’autopsia non sono emersi segni di violenza sulle salme sbarcate domenica scorsa a Salerno dalla nave militare spagnola Cantabria insieme a 401 migranti sopravvissuti a quattro diversi naufragi. In qualche caso però le cicatrici sui corpi c’erano eccome. Segni di frustate, probabilmente. Non recenti, però, ma risalenti nel tempo e non riconducibili al viaggio sul gommone affondato. Due aspettavano un bambino. Una da un mese e mezzo, l’altra da tre. Molte erano infibulate. Sono tutte morte per annegamento, in un solo caso la vittima ha subito anche un’emorragia, verosimilmente a causa di una caduta. Per accertare l’età bisognerà aspettare altri esami, ma le prime verifiche hanno confermato che avevano fra i 15 e i 25 anni. Chi le ha viste, assicura che erano “ragazze bellissime”, nonostante le sofferenze. E dovevano avere anche una grande voglia di vivere, se è vero che una di loro indossava una maglietta colorata con scritto “I’m super happy”, sono super felice. “Mi vergogno che, nel 2017, ci siano ancora donne trattate in questo modo e persone costrette a viaggi allucinanti per sfuggire alla guerra e alla violenza - dice il professor Antonello Crisci, che guida l’equipe medico legale - come italiano invece sono orgoglioso di appartenere a un popolo accogliente, in prima linea in operazioni umanitarie che hanno lo scopo di restituire dignità e giustizia a queste persone così sfortunate”. La squadra mobile diretta da Lorena Antonia Cicciotti e la Procura di Salerno guidata da Corrado Lembo, affiancato dal procuratore aggiunto Luca Masini, indagano sulle circostanze del naufragio. In cella, con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione, ci sono un libico e un egiziano sospettati di essere gli scafisti di uno dei due gommoni soccorsi dalla nave Cantabria, quello che trasportava almeno 150 migranti e tre delle nigeriane morte. Nessun elemento invece è ancora emerso sul gommone che sul quale viaggiavano le altre 23 ragazze che hanno perso la vita. Le indagini, scrive il giudice Emiliana Ascoli nell’ordinanza che ha convalidato il fermo, hanno fatto emergere “la gravità della situazione” che si è verificata in quei giorni nelle acque al largo del canale di Sicilia e “lo stato disumano con il quale i migranti erano stati costretti a viaggiare, così da perdere la vita”. Il giudice ricorda che risultano ancora dispersi dei diversi naufragi: “Una decina, fra i quali anche bambini, caduti in mare”, e forse addirittura “abbandonati per scelta di coloro che guidavano la nave”. Le testimonianze raccolte dagli investigatori hanno consentito di ricostruire le tappe del viaggio del gommone. I migranti sono partiti da un porto vicino a Tripoli la notte fra giovedì 2 e venerdì 3 novembre. Uomini, donne e bambini sono stati caricati a bordo dopo essere stati privati “di ogni bene, senza cibo né acqua” e solo un giubbino. Per partire, hanno pagato mille dinari “a un agente libico”. Sulla barca non c’erano gli organizzatori del traffico, che hanno invece consegnato denaro agli scafisti. L’obiettivo “era arrivare in acque internazionali per essere soccorsi e raggiungere l’Italia”. Uno degli scafisti aveva un telefono “con una grossa antenna”, verosimilmente un satellitare, con il quale parlava in inglese. Il cellulare è stato poi gettato in mare all’arrivo dei soccorsi, quando uno dei conducenti del gommone avrebbe chiesto a un altro di “scambiare il giubbino” per non farsi identificare. I due indagati non hanno risposto al gip, prima del fermo hanno respinto tutte le accuse. La difesa (l’avvocato Alfredo Pellecchia) prepara ricorso al Riesame. La prossima settimana saranno celebrati i funerali delle 26 nigeriane. È attesa la presenza del ministro Minniti. Un funerale con gli onori di Stato, per quelle ragazze ancora senza nome, il corpo segnato dalle cicatrici, che nonostante tutto si sforzavano di essere felici, mentre attraversavano il mare sognando l’Italia. Migranti. Ad Atene, tra i “prigionieri” di piazza Syntagma di Cosimo Caridi Il Fatto Quotidiano, 13 novembre 2017 Nella capitale ellenica tra i migranti bloccati dalla chiusura delle frontiere europee i cuochi baschi che cucinano gratis per i profughi. Disegna perché non sa scrivere. Mohamed ha nove anni e non è mai stato scolarizzato. Nato a Homs, in Siria, ha imparato a camminare sotto le bombe. Subito dopo, con il fratello maggiore e i genitori, ha lasciato il paese. Dove è tua mamma? “In quella tenda. Dorme, è stanca”. E papà? “In Germania”. Fatima, la madre di Mohamed, sta facendo lo sciopero della fame. Sono 13 giorni oggi. Vuole raggiungere il marito a Stoccarda. Non si vedono da oltre due anni. “Eravamo in un campo in Turchia - racconta la donna, mentre rassetta due coperte, unico arredo della sua tenda - mio marito è andato avanti. Ha attraversato il mare e poi i Balcani. Quando è arrivato in Germania ci ha chiesto di raggiungerlo”. Il resto è cronaca. Nel marzo 2016 la cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha chiuso la rotta balcanica. Almeno 100 mila persone rimangono intrappolate tra i confini alle porte d’Europa. Di questi, oltre 62 mila sono tutt’ora in Grecia. Mohamed è uno di loro. In piazza Syntagma, ad Atene, sul marmo antistante al parlamento ellenico, 15 famiglie siriane hanno piazzato le loro tende. Ci sono donne e bambini in quantità, ad accompagnarli uno sparuto gruppo di uomini. Il primo novembre hanno appeso uno striscione nero a caratteri bianchi: “Sciopero della fame. Ricongiungete le nostre famiglie ora!”. Su un cartellone, ogni mattina, annotano da quanti giorni va avanti la protesta. “I tedeschi ci hanno diviso dai nostri cari - spiega Ibrahim, trentenne designato portavoce della comunità - abbiamo aspettato e seguito le procedure, ma non abbiamo ottenuto nient’altro che un pasto e un materasso”. I richiedenti asilo sono stati sparpagliati in decine di centri in tutta la Grecia. I campi sono quanto di meglio lo Stato possa fornirgli. Ma Atene non ha fondi per pagare le pensioni, quindi per chi fugge dalla guerra c’è poco, sovente nulla. Il programma dell’Unione Europa per ricollocare i profughi si è rivelato un buco nell’acqua. Gli stati membri, secondo quanto deciso da Bruxelles, avrebbero dovuto accogliere 160 mila profughi che si trovavano già in Grecia e in Italia. Prima il gruppo di Visegrad, e poi tanti altri, si sono sfilati e a oggi solo 13.622 sono le procedure registrate, di cui 9.960 sono andate a buon fine, meno del 7 per cento. Le isole vicine alla Turchia, trasformate in hotspot per volere dell’Europarlamento, sono diventate carceri per i profughi. La convivenza forzata tra locali e migranti risulta ogni giorno più difficile. La disoccupazione ellenica rimane sopra il 22 per cento e quindici cittadini su 100 vivono sotto la soglia della povertà. Alba Dorata, il partito xenofobo greco, terza forza del parlamento, capitalizza il malcontento. Si moltiplicano le aggressioni degli attivisti di estrema destra a richiedenti asilo, e volontari che li suppor- tano, l’ultima mercoledì scorso nella capitale. Le foto del viso insanguinato di Evgenia Kouniaki sono state diffuse su Facebook. Kouniaki è la legale di un pescatore egiziano testimone di un pestaggio, sempre a opera di Alba Dorata. Mentre andava dalla polizia è stata avvicinata da una decina di uomini che le hanno rotto naso e occhiali. In piazza Vittoria, a pochi passi da dove è avvenuta l’aggressione, s’incrociano squallore ed eccellenza. Il piccolo parco è diventato negli anni della crisi il crocevia di spaccio e prostituzione, anche minorile. Qui i migranti che hanno perso la speranza toccano il punto più basso dell’Europa. C’è chi traffica l’eroina gialla e chi si vende per pochi euro. Soldi che, con ogni possibilità, pensa di reinvestire in un trafficante di uomini che lo aiuti ad attraversare i muri costruiti lungo la penisola balcanica. Ed è proprio in piazza Vittoria che viene distribuito il miglior pasto gratuito per i rifugiati. I paesi baschi sono la regione del mondo con il maggior numero di ristoranti stellati. La cultura culinaria affonda nelle origini di Euskal Herria e ha creato eccellenze come le società gastronomiche. Club privati, a cui l’iscrizione passa di padre in figlio, dove gli uomini si tramandano le ricette della tradizione. “Zaporeak è l’associazione creata dai cuochi delle società gastronomiche - spiega Josi Etxeberria mentre controlla la cottura di quattro pentoloni - questa situazione è oramai incancrenita, non la possiamo risolvere noi, ma bisogna limitare il degrado”. Josi e i suoi hanno trasformato uno scantinato nella cucina di un ristorante. Una decina di volontari affettano, impiattano e imbustano. “Dobbiamo dare qualcosa di qualità a chi vive nella precarietà assoluta - continua Josi - c’è un legame tra cibo e dignità. Mangiare non è solo sfamarsi”. Rimpatriare i richiedenti asilo afgani? Domani il voto del parlamento norvegese di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 novembre 2017 Domani il parlamento della Norvegia esprimerà il voto su una mozione che chiede la sospensione temporanea dei rimpatri dei richiedenti asilo afgani. Sembra incredibile, ma secondo Eurostat la Norvegia ha rimpatriato in Afghanistan 760 persone nel 2016 e 172 nei primi sei mesi del 2017. A confrontare questi numeri con quelli diffusi da Unama (la Missione Onu per l’Afghanistan), si comprende perché i richiedenti asilo afgani attendano il voto di domani con trepidazione e angoscia: nel 2016 in Afghanistan sono state uccise o ferite 11.418 persone, mentre nella prima metà del 2017 le vittime civili sono state 5243. I responsabili degli attacchi sono stati, nella maggior parte dei casi, i talebani e lo Stato islamico. Dallo scorso anno, dunque, nonostante le vittime civili non siano mai state così numerose, il governo norvegese ha rimpatriato quasi un migliaio di afgani condannandoli a un futuro di paura e incertezza e al rischio di subire violazioni dei diritti umani. Alcuni giorni fa la ministra dell’Immigrazione, Sylvi Listhaug, ha dichiarato che lei stessa non si recherebbe in Afghanistan perché è un paese troppo pericoloso. Perché allora dovrebbe esserci mandata Taibeh, si chiedono i suoi compagni di scuola? Taibeh Abbasi, 18 anni, è nata in Iran da genitori afgani. Non ha hai visto l’Afghanistan. La sua famiglia è arrivata in Norvegia dall’Iran nel 2012. Taibeh ha confidato di essere terrorizzata da quanto potrebbe accaderle se venisse mandata a Kabul, la più pericolosa delle province afgane dove le violazioni dei diritti umani sono assai diffuse. I suoi compagni di scuola si sono mobilitati per impedire il suo rinvio in Afghanistan e Amnesty International sta appoggiando la loro nobile campagna. Il principio giuridicamente vincolante del non rimpatrio (non-refoulement) significa che i paesi europei non possono trasferire una persona in un paese dove corra il rischio di subire gravi violazioni dei diritti umani. Rimandare i richiedenti asilo in Afghanistan, dove la violenza è in aumento, è una violazione del diritto internazionale. Sarebbe bene che il parlamento norvegese se ne ricordasse al momento del voto. Per Taibeh e per le decine di migliaia di Taibeh in altri paesi europei che vivono nel terrore che un giorno un funzionario dello stato bussi alla porta di casa per cambiare la loro vita per sempre. Afghanistan. Ong denuncia “pessime condizioni nelle carceri, nonostante gli investimenti” Giornale del Popolo, 13 novembre 2017 Nonostante i molti milioni di dollari investiti, la condizione delle tre principali prigioni afghane (Kabul, Baghlan e Wardak) “è ancora a livelli inaccettabili e tale da violare seriamente i diritti di base dei detenuti”. È quanto emerge da un rapporto diffuso oggi dalla Ong Integrity Watch Afghanistan. Le principali carenze evidenziate riguardano i servizi sanitari, la mancanza di acqua potabile e di cibo decente, l’assenza di elettricità e l’insufficiente accesso dei detenuti all’aria aperta. In una conferenza stampa Sayed Ikram Afzali, direttore esecutivo della Ong, ha sostenuto che “corruzione e truffe sono i principali fattori che spiegano le condizioni insufficienti delle infrastrutture carcerarie e la loro cattiva gestione”. Afzali ha aggiunto che “c’è un alto rischio di corruzione nella costruzione delle strutture carcerarie. E le compagnie appaltatrici, i responsabili dei controlli per conto degli Usa e i funzionari del governo afghano sono i responsabili chiave della corruzione e delle truffe nelle prigioni di Pol-i-Charki, Baghlan e Wardak”. Il rapporto rivela inoltre che accanto ai servizi non disponibili nelle carceri, nonostante fossero previsti dai contratti assegnati, “il 28% di quelli esistenti funzionano male. E questo fa sì che sia “motivo di grande preoccupazione il modo in cui il governo afghano gestisce le sue prigioni, perché pur essendo a conoscenza dei problemi, non fa nulla per risolverli”.