Decreti attuativi della riforma dell’O.P.: il volontariato sia coinvolto nelle consultazioni di Ornella Favero (Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia) Ristretti Orizzonti, 12 novembre 2017 “Ritengo il ruolo del volontariato nelle carceri italiane un elemento decisivo”*: sono sue parole, ministro Orlando, se lo pensa davvero ci faccia leggere i testi dei decreti attuativi della riforma penitenziaria e ne discuta anche con noi. Gentile ministro Orlando, sono stati da poco consegnati al Garante Nazionale i primi testi dei decreti attuativi della riforma dell’Ordinamento penitenziario e abbiamo letto che è sua intenzione convocare i sindacati della Polizia penitenziaria per discutere i contenuti di questi decreti. Non sappiamo come stiano davvero le cose, sappiamo però che bisogna correre per non rischiare di buttare via tutto il lavoro fatto, ma non vogliamo certo farle perdere tempo. Le scriviamo per dirle che ci sembra importante che il Volontariato sia coinvolto almeno in una rapida “consultazione”, scriviamo “almeno” perché avremmo voluto esserlo anche nelle Commissioni che stanno scrivendo i decreti attuativi della Riforma, per la semplice ragione che riteniamo che le nostre associazioni abbiano un ruolo fondamentale in tutte le fasi dell’esecuzione penale, e che in questi anni il Volontariato abbia accumulato un patrimonio di conoscenze dirette, “sul campo”, che sarebbero utili anche ai giuristi e agli esperti che stanno lavorando nelle Commissioni. Gentile Ministro, tante volte nelle sue relazioni di fronte alle autorità europee l’abbiamo sentita lodare la straordinaria presenza del Volontariato nelle carceri italiane, il suo ruolo propulsivo, la sua capacità di costruire percorsi di accompagnamento delle persone detenute, dal carcere al reinserimento nella società, l’abbiamo sentita, nel suo messaggio al Premio Castelli il 6 ottobre scorso nella Casa di reclusione di Padova, dire: “C’è moltissimo da fare e la spinta delle Istituzioni, dell’associazionismo, del volontariato è preziosa affinché l’amministrazione penitenziaria avverta appieno il cambiamento in atto e sia confortata da un sostegno sociale indispensabile affinché i cambiamenti si realizzino nel più breve tempo possibile”. Ecco, il Volontariato può contribuire con forza al cambiamento necessario nelle carceri, e può anche, con il suo apporto di energie, di risorse, di idee, arginare il rischio di un nuovo degrado, legato a un pericoloso ritorno del sovraffollamento, per questo è importante che conosca i testi dei decreti attuativi della riforma, che ne discuta, che dia il proprio apporto critico, che si senta valorizzato e realmente apprezzato, e non piuttosto usato nelle situazioni di emergenza. Grazie dell’attenzione, la nostra speranza è che lei accolga la nostra richiesta e ci incontri poi per ascoltare le nostre osservazioni sui testi dei decreti attuativi della riforma. *Dal messaggio del ministro Orlando al premio Castelli, Casa di reclusione di Padova, 6 ottobre 2017 “Ma quale bavaglio!”. Soro difende legge sulle intercettazioni di Giulia Merlo Il Dubbio, 12 novembre 2017 Botta e risposta a distanza sulle intercettazioni tra il garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soro, e il segretario della Fnsi (Federazione nazionale stampa italiana) Raffaele Lorusso. Soro, rispondendo alle domande durante un convegno sul nuovo regolamento europeo sulla protezione dei dati personali a Cagliari, ha detto di apprezzare il decreto voluto dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, “che nel complesso va nella direzione da noi auspicata da anni, cioè di limitare l’abuso di informazioni che vengono raccolte per una finalità che è quella di accertamento dei reati e non per offrire informazioni ai giornalisti”. E proprio su questo punto ha liquidato le preoccupazioni dei giornalisti che hanno urlato al bavaglio: “L’istituto dell’intercettazione non è stato pensato per i giornalisti, ma per il magistrato inquirente. I giornalisti hanno mille strumenti e il diritto di pubblicare tutto quello di cui vengono a conoscenza, ma le intercettazioni non sono state ideate per loro. Purtroppo c’è stato un abuso per cui adesso anche una modesta misura di cautela viene interpretata come un bavaglio, è un’enorme sciocchezza”. Proprio quest’ultimo inciso ha creato frizioni con l’Fnsi. “È singolare che il presidente dell’Autorità garante della privacy definisca sciocchezze quelle che in realtà sono principi più volte stabiliti dalla Cedu in tema di pubblicazione di notizie coperte da segreto. Se avesse letto le sentenze, avrebbe facilmente dedotto che l’introduzione di una pena detentiva fino a tre anni a carico di chiunque, giornalisti compresi, dovesse rendere pubbliche notizie contenute in atti d’indagine considerati irrilevanti, rappresenta una forma di bavaglio per i giornalisti”, è la piccata replica di Lorusso, contrario all’ipotesi per un giornalista di incorrere nella fattispecie penale di concorso in rivelazione di atti coperti da segreto, nel caso di pubblicazione di intercettazioni ritenute dalla magistratura non di interesse per l’indagine e quindi custodite nell’archivio riservato del pm. “La Corte - ha proseguito Lorusso - ha ribadito che il giornalista è tenuto a pubblicare tutte le notizie di interesse generale e di rilevanza sociale, anche se coperte da segreto, perché esiste il diritto dei cittadini ad essere informati. È vero che le intercettazioni sono materiale investigativo non a disposizione della stampa, ma quello che Soro dimentica è che non è compito del giornalista mantenere il segreto sulle notizie. Tale obbligo grava semmai su chi per dovere d’ufficio deve custodire quegli atti e la violazione non può in nessun caso essere addebitata ai giornalisti”. Immediata la risposta di Soro, che ha rispedito al mittente le critiche: “Lorusso si documenti, non ho mai espresso apprezzamento per alcuna nuova fattispecie penale volta a sanzionare la diffusione di conversazioni, contenute in atti d’indagine, ritenute irrilevanti ai fini del procedimento. Il mio apprezzamento era rivolto alle misure di cautela introdotte dal decreto per limitare l’ingresso, nel fascicolo processuale, di conversazioni ritenute irrilevanti, in particolare se contenenti dati sensibili”. Il Garante chiama in causa anche il diritto dei cittadini alla privacy, sottolineando come “il criterio cui deve attenersi il giornalista resterà, anche dopo il decreto, quello dell’interesse pubblico della notizia e dell’essenzialità dell’informazione, ma nel rispetto della dignità della persona”. Un dibattito, quello intorno alla pubblicabilità delle intercettazioni, che è destinato a dividere e che ha assunto nuovi connotati con l’introduzione dell’archivio riservato del pm, in cui confluiscono quelle ritenute non rilevanti. Proprio questo elemento, che copre col segreto gli ascolti irrilevanti, riaccende il confronto pubblico sul bilanciamento dei diritti in campo: la privacy dei cittadini, il diritto all’informazione e la tutela delle indagini. Stalking, da martedì non si potrà evitare il processo con un assegno di Alessandro Simeone* La Repubblica, 12 novembre 2017 Martedì la commissione Giustizia alla Camera dovrebbe votare l’emendamento per eliminare il reato di stalking da quelli estinguibili se il colpevole ha “riparato” le conseguenze dell’illecito, ovvero pagando un risarcimento. Come a Torino dove uno stalker ha evitato il processo con 1.500 euro. Martedì la commissione Giustizia alla Camera dovrebbe approvare l’esclusione stalking dai reati estinguibili attraverso un risarcimento votando l’emendamento presentato dall’on. Mara Carfagna e sostenuto anche dai deputati del PD. La Senatrice Francesca Puglisi, da sempre in prima linea contro la violenza di genere, ha anche proposto - sotto forma di emendamento alla legge per la tutela degli orfani - che il Giudice non possa prosciogliere l’imputato di stalking che paga il risarcimento, senza il consenso espresso della vittima. Seguendo la tendenza a limitare la possibilità del cittadino di andare in Tribunali, a Giugno di quest’anno era stato introdotto un nuovo articolo al codice penale (162 ter) in base al quale, per tutti i reati proseguibili a querela di parte non rimettibile, il Giudice non condanna il colpevole se costui ha “riparato” le conseguenze dell’illecito, pagando un risarcimento o restituendo “il maltolto”; e la vittima ha solamente il diritto di essere ascoltata. perché è il Giudice a valutare se la condotta del colpevole è stata effettivamente “riparatoria” e il risarcimento è congruo. Ma la prassi in Italia non ricalca gli Stati Uniti e anzi, quando si tratta di “monetizzare” le sofferenze, fisiche e psicologiche, patite come conseguenza di un reato, le cifre non sono in alcun modo paragonabili a quelle americane. Introdotto nel 2009, in Italia, il reato di stalking (dal verbo to stalk, “camminare furtivamente”) si riferisce a colui che mediante comportamenti molesti, appostamenti, pedinamenti, telefonate, sms, intrusioni nella vita privata, causa uno stato di perdurante ansia alla persona oggetto delle sue morbose attenzioni, oppure gli incute timore o lo induce a modificare le proprie abitudini di vita, è punito con il carcere da 6 mesi a 4 anni. La pena è aumentata se la vittima è il coniuge, anche se separato o divorziato, un minore o un diversamente abile; perché possa esservi un processo, tranne i casi più gravi (ad esempio se vi sono stati anche lesioni gravi, violenza sessuale o altri reati) è però necessario che la vittima presenti una querela e che poi non la ritiri. Sin da subito si era acceso un dibattito per capire se la nuova norma si applicasse o meno a questo reato. Anche se la diatriba è stata risolta, in un certo senso, dal Tribunale di Torino a ottobre di quest’anno quando un uomo ha evitato il processo per aver molestato continuamente una donna per quasi due mesi, grazie al versamento di 1.500 euro. Nonostante le proteste della vittima. Martedì si voterà l’emendamento. E salvo ribaltoni dell’ultimo minuto, non sarà più possibile evitare il processo per il reato di stalking firmando assegno. *Membro del Comitato Scientifico de “Il Familiarista”, di Giuffrè Editore “Equo compenso agli avvocati nel decreto fiscale”, ecco l’emendamento di Pd e governo di Errico Novi Il Dubbio, 12 novembre 2017 Nel “pre-esame” delle norme da inserire nel collegato alla Manovra, è emersa “piena sintonia” tra commissione Bilancio e ministri competenti sull’emendamento che propone di includere le misure a tutela della professione forense. Lunedì il voto. “La buona politica alla fine manterrà gli impegni”. Il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin l’ha ripetuto spesso, in queste settimane. Anche dopo la decisione con cui a fine ottobre la commissione Bilancio del Senato aveva escluso dalla Manovra le norme sull’equo compenso. Fiducia ben riposta, evidentemente: giovedì il relatore del decreto fiscale, il senatore del Pd Silvio Lai, ha presentato d’intesa con il governo un emendamento che inserisce proprio nel collegato alla Manovra le stesse norme sull’equo compenso approvate alcuni giorni fa dalla commissione Giustizia di Montecitorio, nel corso dell’esame del ddl ordinario sulla materia. L’intero pacchetto di misure da inserire nel dl fisco è stato oggetto, nelle ultime ore, di approfondito confronto fra i vertici della “Bilancio” del Senato e i ministri competenti. Dopo il via libera con cui l’altro ieri la commissione si è pronunciata sulla nuova rottamazione delle cartelle esattoriali, nella seduta pomeridiana di lunedì si passerà a votare gli altri emendamenti, compreso quello sulle prestazioni legali. E da quanto emerge, c’è piena sintonia tra maggioranza e esecutivo sulla scelta di tenere le misure a tutela degli avvocati all’interno del decreto collegato alla Manovra. A pochi giorni dal voto con cui era stato escluso dalla legge di bilancio, il provvedimento viene riproposto dunque nella stessa commissione, stavolta nella legge di conversione del dl fiscale, destinata a ottenere il via libera dell’aula del Senato già venerdì della prossima settimana. Un passaggio importante con cui governo e maggioranza dimostrano attenzione e rigore su un segnale atteso da tutta l’avvocatura. L’emendamento di Lai propone di integrare la legge professionale del 2012 con un articolo 13 bis in 11 commi, che riproduce fedelmente il testo approvato dalla seconda commissione di Montecitorio alcuni giorni fa. Scelta dal senso politico chiaro: alla Camera, su quella stesura delle norme, si è registrata infatti una convergenza davvero ampia tra le forze politiche. Il sostegno del mondo forense alla linea del Cnf - Rispetto allo squilibrio maturato in questi anni tra professione legale e “committenti forti”, l’equo compenso è un segnale di svolta: non a caso come tale è stato accolto nei giorni scorsi dalle più importanti componenti del mondo forense, che hanno espresso sostegno alla linea del Cnf. E proprio il presidente Mascherin, nel corso dell’Agorà degli Ordini riunita mercoledì presso la sede istituzionale dell’avvocatura, ha tenuto a ricordare “gli interventi, che ho apprezzato moltissimo, di Cassa forense, Unione Camere civili, Agi e Aiga: tutti hanno mostrato coesione attorno alla battaglia per l’equo compenso”. Sempre mercoledì si erano schierati in modo netto, a favore del provvedimento, anche gli Ordini e le Unioni territoriali forensi. Nel dl fisco anche l’eliminazione delle polizze obbligatorie - Un altro emendamento, proposto sempre dal Pd, a firma Lumia e altri, prevede di eliminare l’obbligo per l’avvocato di assicurare contro gli infortuni se stesso e i suoi dipendenti che hanno già copertura Inail, e vengono in ogni caso escluse sanzioni civilistiche. Nei giorni scorsi, sul punto, il ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva risposto positivamente alla lettera con cui Mascherin chiedeva di rivedere l’obbligo assicurativo. Con l’emendamento al decreto fiscale, l’esecutivo e la maggioranza mostrano dunque di voler dare seguito anche a questo secondo impegno assunto nei confronti dell’avvocatura. Boschi: giustizia riparativa esclusa per lo stalking - Il tempo stringe e il collegato alla Manovra si prepara a ricevere l’imprimatur della commissione Bilancio. Giovedì come detto diverse modifiche sono state depositate direttamente dal governo, oltre che dal relatore Lai. Tra queste, le integrazioni al Codice antimafia sollecitate dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella all’atto di promulgare la relativa legge. Nel decreto fiscale troverà spazio dunque anche l’adeguamento a quelle norme europee che in materia di misure di prevenzione prevedono di reprimere le condotte corruttive dei vertici delle società. Una modifica proposta direttamente dalla sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio Maria Elena Boschi stabilisce di escludere il reato di stalking dal novero di quelli estinguibili con condotte riparatorie. “Lo stalking non può essere considerato alla stregua di altri reati”, aveva scritto due giorni fa Boschi in un post su Facebook con cui annunciava la proposta di modifica, “non è un reato come un altro per tutte quelle donne che ogni giorno hanno paura di uscire di casa e la cui dignità è stata lesa in profondità per il resto della vita”. Ieri è arrivata anche la valutazione favorevole della ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli che, in un’intervista a Radio 1 Rai, si è detta “totalmente d’accordo: bisogna tornare all’impianto precedente, non si può cancellare il reato di stalking solo con il risarcimento economico”, secondo Fedeli, “anche perché, se non si cambiasse quella norma con l’emendamento giusto proposto dalla sottosegretaria Boschi, rientrerebbero purtroppo molte denunce. Se estingui quel reato solo con un pagamento economico”, ha sostenuto la responsabile dell’Istruzione, “le donne fanno molta più fatica a denunciare chi lo commette”. Sardegna: il Garante visita le carceri isolane “troppi detenuti non sardi” La Nuova Sardegna, 12 novembre 2017 Mauro Palma: “Preoccupante anche la carenza di direttori, costretti a occuparsi di più istituti”. Gli Istituti di pena le sezioni di alta sicurezza e di detenzione speciale ex 41 bis,i reparti femminili, le strutture sanitarie, le camere di sicurezza delle Polizie, l’Istituto penale minorile e la Rems: questi i luoghi visitati dal Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà in Sardegna. “La forte presenza di detenuti non sardi - sottolinea il Garante, Mauro Palma - è certamente uno dei nodi problematici emersi, con ricadute sui rapporti con le famiglie”. Si è inoltre evidenziata “la preoccupante carenza di direttori, costretti a coprire più istituti di detenzione con conseguenze sia sulla propria condizioni di lavoro, sia sul rapporto con le persone ristrette”. Manca inoltre, a livello regionale, “una struttura assistenziale intensiva interna in grado di rispondere alle esigenze terapeutiche di maggiore gravità dei detenuti di alta sicurezza”. Il Garante nazionale, nel corso della visita in Sardegna, iniziata il 3 novembre e conclusasi oggi 11 novembre, ha avuto modo di confrontarsi con il Presidente del Consiglio regionale Gianfranco Ganau con cui è stata anche condivisa la necessità di provvedere quanto prima alla nomina del Garante regionale delle persone private della libertà. La visita ha riguardato le sezioni di alta sicurezza degli istituti di Sassari-Bancali, Nuoro, Oristano--Massama e Cagliari--Uta, quelle per i reati di terrorismo, in particolare in questo momento di matrice islamista degli Istituti di Sassari e Nuoro (dove c’è l’unico reparto di questo tipo per donne) e la sezione di detenzione speciale ex articolo 41 bis di Sassari--Bancali. Oltre a una visita completa al carcere di Nuoro, le altre sezioni visitate in questi istituti hanno riguardato la detenzione femminile, l’isolamento e le aree sanitarie, con particolare attenzione alla detenzione di soggetti con disagio mentale. La visita ha anche coinvolto la REMS sarda di Capoterra, l’istituto penale minorile di Quartucciu, le Questure di Nuoro e di Cagliari e i Comandi provinciali dei Carabinieri di Sassari e Cagliari. Milano: detenuti sospetti terroristi, è record di espulsi di Gianni Santucci Corriere della Sera, 12 novembre 2017 Storia di Hassam, entrato a San Vittore come detenuto comune e allontanato da “radicalizzato”. Ahmed Hassam Rakha è uno spacciatore egiziano uscito di cella come “detenuto a rischio di proselitismo e radicalizzazione violenta”, e rimpatriato. Rakha “aiuta” a capire le dinamiche della maggiore arma di prevenzione del terrorismo: in meno di tre anni le espulsioni di fiancheggiatori sono state 224; quasi un quarto viveva in Lombardia e la maggioranza a Milano. Branca: “Più prevenzione”. Ahmed Hassam Rakha, 31 anni, egiziano, è entrato a San Vittore il 15 giugno 2015 perché spacciava cocaina. Ed è uscito dal carcere di Bollate, tre giorni fa, come “detenuto a rischio di proselitismo e radicalizzazione violenta”. Scortato a Malpensa dalla polizia, è stato imbarcato su un volo diretto al Cairo. La storia di Hassam Rakha, che il Corriere può ricostruire in esclusiva in tutti i suoi passaggi, è emblematica per un paio di aspetti. Da una parte, mostra la parabola di un pusher che si avvicina all’Islam radicale in carcere; dall’altra, permette di capire come funzionano gli ingranaggi della più importante arma di prevenzione del terrorismo messa in campo dall’Italia negli ultimi tre anni: il rimpatrio dei “soggetti a rischio”. Il sistema - Un sistema che a Milano ha raggiunto la sua massima potenzialità. Per spiegare come funziona, prima di raccontare la storia di Hassam Rakha, bisogna aggiornare il quadro sulle espulsioni. Il primo canale è quello dei rimpatri “decretati” direttamente dal ministero degli Interni “per motivi di sicurezza dello Stato”: in quest’ambito, in tutta Italia, le espulsioni di “fiancheggiatori” o sostenitori del terrorismo sono state 66 nel 2015, 66 nel 2016 e 92 nel 2017. In totale, 224 in meno di tre anni: quasi un quarto degli espulsi (48) vivevano in Lombardia e la maggioranza (22) a Milano, prima città in Italia per islamisti allontanati. Poi ci sono le espulsioni della Questura. Si tratta di persone che rispondono a due requisiti chiave: non sono in regola con i documenti e hanno un profilo di “pericolosità sociale” (molti hanno precedenti penali). L’Ufficio immigrazione della Questura di Milano ha in assoluto la più alta efficienza nella gestione di queste pratiche: 296 rimpatri nel 2015, saliti a 762 nel 2016 e arrivati a 823 a settembre 2017 (ultimo dato ufficiale, a oggi dovrebbero essere più di mille). Sotto sorveglianza - Sono 365 i reclusi attenzionati: 165 hanno condanne per reati di terrorismo internazionale. Numeri superiori al totale delle espulsioni fatte in tutto il resto d’Italia. Solo in una porzione ridotta di questi casi la “pericolosità sociale” ha a che fare col terrorismo, ma almeno una dozzina tra i quasi mille espulsi del 2017 rientra nel rischio radicalizzazione. E tra questi c’era Hassam Rakha, in Italia da dieci anni. “Terzo livello” - Il ragazzo egiziano viene arrestato a metà 2015 e, in primo grado, viene condannato a tre anni e quattro mesi. Sentenza confermata in Appello (marzo 2016) e poi in Cassazione (novembre 2016). Fino al momento dell’arresto l’uomo, che aveva anche vissuto nel palazzo di viale Bligny 42, noto in passato come base di piccolo spaccio, non era mai stato neppure sfiorato da indagini o sospetti dell’antiterrorismo. Quando entra a San Vittore, e viene chiamato in Tribunale per la prima condanna, è semplicemente un “detenuto comune”. Col passare dei mesi, però, si sviluppano due percorsi paralleli. Da una parte, il magistrato di sorveglianza (a maggio 2017) ordina la sua espulsione come “pena alternativa alla detenzione”. Un provvedimento al quale il detenuto fa opposizione. In parallelo però, in carcere, il nome di Hassam. Rakha entra nel radar del Nucleo investigativo centrale della Polizia penitenziaria, che si occupa di monitorare la radicalizzazione. Stando all’ultimo rapporto del ministero della Giustizia, a fine 2016 nei penitenziari italiani c’erano 165 detenuti di “primo livello” (condannati per reati di terrorismo internazionale), 76 di “secondo livello” (che hanno manifestato in forma esplicita adesione all’ideologia jihadista) e 124 di “terzo livello” (segnalati e sotto osservazione perché a rischio estremismo religioso). A metà 2017 il pusher egiziano viene inserito in quest’ultimo gruppo. E poco dopo, fine ottobre 2017, la sua opposizione al rimpatrio viene bocciata. A questo punto i due percorsi si incrociano. Dieci giorni fa il carcere di Bollate trasmette dunque i documenti su un “soggetto” che può essere espulso come “detenuto comune”, ma che nel frattempo è entrato in un’area di radicalismo religioso in carcere. Il fascicolo torna così all’Ufficio immigrazione della Questura. Che in un paio di giorni organizza il rimpatrio. La regia dell’espulsione è l’ultima fase della strategia di prevenzione del terrorismo. Milano: “in carcere più prevenzione e cultura per evitare derive fanatiche” di Gianni Santucci Corriere della Sera, 12 novembre 2017 Branca: il rischio è autentico e il monitoraggio da solo non basta. Paolo Branca, islamista, docente e ricercatore presso l’Università Cattolica, è membro del comitato scientifico della Fondazione Oasis, della Società di studi sul Medio Oriente e del Comitato per l’Islam italiano. “Entrare a lavorare in carcere non è semplice. Ho iniziato a provare dieci anni fa, quando ancora non c’era questo tipo di problema, e non ci sono mai riuscito”. Qualcosa è cambiato? “Ultimamente, in questi anni di minaccia Isis, sono riuscito a entrare, comunque a livello estemporaneo e volontario, quattro volte al Beccaria, nei venerdì di Ramadan, abbiamo anche fatto pregare i ragazzi che lo hanno chiesto, due volte con un egiziano altre due con un marocchino. E poi ho visitato tre volte San Vittore, con un’associazione di ispirazione cattolica; abbiamo visto e discusso alcuni film”. Qual è il risultato di queste sue “visite”? “Un problema esiste, e lo sappiamo anche al di là di quel che ho potuto vedere. Il rischio di radicalizzazione nei penitenziari è autentico”. Le istituzioni fanno una corretta valutazione del problema? “La percezione del tema, in una fase di emergenza, sta crescendo. E ora qualcosa di più si riesce a fare rispetto a dieci anni fa, ma siamo lontani da un intervento continuativo e sistematico che una questione del genere meriterebbe”. Nelle carceri si fa però da tempo un monitoraggio continuo sulla radicalizzazione. Non è sufficiente? “Questo lavoro è una parte, rientra nell’approccio diretto orientato alla sicurezza. Se una persona ha attitudini o potenziali derive verso il terrorismo mi sembra ragionevole che sia seguito, e che si possa arrivare a un’espulsione come prevenzione. Ma non può essere solo questo”. Cosa manca allora? “Facciamo un esempio: la “legge D’Ambruoso” è passata alla Camera e prevede almeno 10 milioni di euro l’anno per attività di anti radicalizzazione nelle scuole e nelle carceri. Aspettiamo l’approvazione al Senato. La prevenzione andrebbe fatta in modo adeguato, ma finora non è avvenuto”. Mancano le risorse o la volontà? “Non so... tempo fa una circolare chiedeva alle università di segnalare persone che conoscevano la lingua araba per lavorare come volontari nelle carceri. La contraddizione mi sembra macroscopica: se siamo di fronte a un’emergenza, il lavoro non può essere delegato al volontariato”. Perché il carcere diventa luogo di radicalizzazione? “È un luogo di deprivazione, quando si finisce in carcere in qualche modo il progetto di migrazione è fallito, e quindi qualcuno può attaccarsi alla religione. Non è detto che ciò avvenga sempre e solo in modo sbagliato; in qualche caso la trasformazione può assumere un aspetto più ideologico, o antagonista/vendicativo. Spesso certi detenuti si vedono vittime di un sistema internazionale che non permette lo sviluppo dei loro Paesi d’origine, di una differenza di trattamento anche in Europa. Tutto ciò può essere una molla”. Che lavoro bisogna fare? “Propongo di insistere sull’aspetto culturale, questi detenuti devono sentire di appartenere a una grande civiltà, che è quella islamica; bisognerebbe restituire dignità e orgoglio, molti sono analfabeti o di scarsa scolarizzazione nei Paesi di origine. Come detenuti e come arabi/musulmani all’interno delle carceri vivono una doppia emarginazione, e questo può contribuire alla radicalizzazione”. Il recupero di identità basterebbe? “Servirebbe anche far vedere la possibilità, quando usciranno, di poter contribuire allo sviluppo; dovremmo far concepire loro un possibile sbocco, sono persone che parlano due lingue, conoscono due Paesi, hanno attraversato il mare e potrebbero avere un ruolo”. Avellino: penalisti in sciopero da domani a martedì 21 di Alessandra Montalbetti Il Mattino, 12 novembre 2017 La protesta per il mancato rispetto del calendario delle udienze. Nuova astensione degli avvocati penalisti irpini. Ad indirla il direttivo della Camera Penale Irpina, presieduta dall’avvocato Giuseppe Saccone. Gli avvocati penalisti del foro di Avellino non prenderanno parte alle udienze da domani al 21 novembre. Otto giorni di astensione, per segnalare - come si legge nella delibera dello scorso 10 ottobre emessa dell’organo esecutivo del locale organismo di rappresentanza dell’avvocatura penale - la diffusa e costante disapplicazione delle disposizioni ordinarie contenute nel protocollo d’intesa per la gestione delle udienze penali da tempo sottoscritto dalla Camera Penale Irpina e dai magistrati del settore penale, nella persona dell’allora presidente del tribunale Michele Rescigno. Durante gli otto giorni in cui gli avvocati penalisti del foro di Avellino, si asterranno dal celebrare le udienze penali, saranno comunque trattati i processi con detenuti, sempre che gli stessi imputati non decidano personalmente di aderire all’astensione. L’astensione, inoltre, vuole accendere i riflettori sul ritardato inizio di alcune udienze penali. Altro punto dolente, secondo la locale Camera penale, risiede nella mancata disapplicazione, ad opera di alcuni magistrati del tribunale di Avellino del protocollo d’intesa sottoscritto tra l’organo di rappresentanza dei penalisti di Avellino e la magistratura giudicante, teso a regolamentare le procedure di liquidazione del patrocinio a spese dello Stato. Intanto lunedì prossimo, primo giorno di astensione dalle udienze penali, presso la sede della Camera Penale, al secondo piano del palazzo di Giustizia di Avellino, si terrà un’assemblea degli iscritti, anche al fine di valutare ulteriori iniziative. Difatti, la Camera Penale Irpina chiede che venga “garantita la costante applicazione delle disposizioni ordinatorie contenute nei protocolli d’intesa”. Una protesta, quella dell’avvocatura penalista irpina che potrebbe essere proclamata con cadenza mensile, nel massimo della durata e nel rispetto delle tempistiche previste dalla normativa sull’autoregolamentazione dell’astensione degli avvocati. Intanto nel mese di novembre è prevista un’ulteriore iniziativa di protesta da parte di una specifica categoria di addetti ai lavori. Dal 21 al 25 a non prendere parte alle udienze saranno tutti componenti della magistratura onoraria, giudici di pace, giudici onorari di tribunale e vice-procuratori onorari, sia nel settore civile che penale. In questo caso alla base dell’astensione, come si legge in un comunicato del 6 novembre scorso, la riforma della magistratura onoraria, mal digerita dai diretti interessati. Roma: Erri De Luca fa lezione scrittura in carcere di Maria Cristina Fraddosio Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2017 Amore e animali, i racconti dei detenuti: “Io parlo di un cane nato per amare”. Si è svolto martedì presso la sezione maschile di Rebibbia l’incontro tra Erri De Luca e i detenuti aspiranti scrittori. In collegamento streaming, per la VII edizione del premio letterario Goliarda Sapienza, anche la sezione femminile e i penitenziari di Saluzzo e Santa Maria Capua Vetere. Tre, quattro per banco. Ciascuno con il proprio computer e le dispense su cui seguire. Si sono incontrate almeno due generazioni nella sala colloqui del carcere di Rebibbia. Il più giovane avrà avuto vent’anni. Il più anziano, oltre i sessanta. Eugenio è stato il primo a intervenire. Voleva assicurarsi un parere favorevole sul finale del suo racconto. Il suo colpo di scena sarà ambientato in carcere. Dall’altra parte del monitor, altre classi. Le aspiranti scrittrici della sezione femminile di Rebibbia, i detenuti di Saluzzo e quelli di Santa Maria Capua Vetere. La prima ora è trascorsa leggendo, in compagnia di Cinzia Tani connessa dalla postazione dell’università eCampus. Jane Austen, Edgar Allan Poe, Dante Alighieri, Herman Melville, Pirandello. Ce n’era per tutti. A turno dai vari penitenziari i detenuti leggevano i primi capoversi dei grandi della letteratura. A Saluzzo c’è già uno scrittore. Antonio ha creato un personaggio che si chiama León. Le sue avventure sono prossime alla pubblicazione. Per il premio gli toccherà inventare una storia nuova. Dopo poco, nella sala lunga, stretta e gelida del penitenziario, l’ospite d’eccezione che tutti attendevano con ansia ha preso la parola. Dai racconti materni alla contemplazione della natura. Erri De Luca a Rebibbia ha spalancato finestre su mondi remoti e fantastici, lasciando gli aspiranti scrittori esterrefatti e inchiodati ad ascoltarlo fino all’ultima sillaba. La vita di un pesce che si è figurato a 11 anni e la paura di continuare a pensare da pesce anche a racconto finito. Le mura sottili di tufo della sua Napoli, che trasudano storie anche quando non ha intenzione di origliarle. E ancora la bellezza della lingua italiana, descritta come “un bacino alluvionale in cui sono confluiti i dialetti”. “Mi insulto in napoletano” ha detto, descrivendo il rapporto con la lingua d’origine. Tra i ricordi è emerso anche quello di un suo amico detenuto a lungo, Sante Notarnicola. Obbligato a scegliere un solo libro da tenere con sé in cella, “Sante si tenne stretto il vocabolario della lingua italiana”. La sua non è una lezione tradizionale, ma un viaggio attraverso i luoghi e gli affetti più cari. “Non sono un maestro di niente” - precisa - “non ho nemmeno il titolo, ho studiato poco”. Gli anni trascorsi da operaio affiorano più volte. Pensieri, idee fluivano incessanti mentre lavorava senza che, però, sentisse l’esigenza di annotarli. “Prima o poi mi torneranno in mente” si diceva. E l’umanità delle sue parole ha fatto breccia tra gli ascoltatori. Erri De Luca ha scelto volontariamente di tenere l’incontro in carcere. Avrebbe potuto beneficiare della novità di questa VII edizione del premio Goliarda Sapienza, che consiste in un corso online di scrittura creativa. Invece ha preferito esserci, lasciando tutti immobili ad ascoltarlo. Il suo amore per la montagna, la predilezione per la fisicità piuttosto che per l’astrazione, il ruolo delle donne nella sua produzione letteraria hanno tenuto alta l’attenzione. Preziosi i suggerimenti, che in parecchi si sono affrettati ad annotare: “Non mi capita di avere blocchi, quando mi scappa di scrivere lo faccio”. E ancora: “Sono diventato uno che scrive storie perché le ho sentite e quell’orecchio che le sentiva, poi, le vedeva pure”. Al termine della sua testimonianza, gli aspiranti scrittori hanno manifestato numerose curiosità. Anzitutto più d’uno, sulla scorta della vita del pesce, ha avanzato l’idea di scegliere per protagonista del proprio racconto un animale. Un bassotto, per l’esattezza, una detenuta. Per un altro, invece, un cucciolo di cane che darà anche il titolo all’elaborato: “Nato per amare”, come ha detto di sentirsi lui stesso. Non sono mancate le domande. L’amore è stato tra i primi oggetti di interesse del reparto femminile. E, ancora, cosa fare quando la realtà che si vive non piace. In questi tre mesi e mezzo di tempo, i sessanta partecipanti avranno modo di continuare a interrogarsi e a scandagliare il proprio vissuto per cercare ispirazione. Saranno venti gli elaborati selezionati per la pubblicazione del volume “Racconti dal carcere” e uno il vincitore, per la prima volta ospite alla Fiera del Libro di Torino. Ma ciò che davvero conta è quel che avviene nel tempo di mezzo. “La scrittura” - ha dichiarato De Luca - “è stato il modo con cui mi sono tenuto compagnia”. E al termine dell’incontro, piuttosto che ciascuno solo imprigionato nel proprio presente, si stava come i tifosi di Umberto Saba: “Pochi intirizziti, uniti”. “Un manipolo sparuto, che si riscaldava di se stesso”. “Fine pena: ora”, di Elvio Fassone. Caro giudice. Caro ergastolano di Paolo Giordano La Lettura, 12 novembre 2017 Trent’anni fa Elvio Fassone condannò Salvatore a rimanere in carcere a vita. Da allora il magistrato e il detenuto dialogano per lettera. Il loro carteggio speciale, diventato il libro “Fine pena: ora”, è stato trasformato in un testo teatrale. Questa è la storia di come Paolo Giordano, autore dello spettacolo, ha dato una voce, un registro, un tempo ai due protagonisti. Al termine di un maxi-processo estenuante, un giudice condanna all’ergastolo un imputato di nemmeno trent’anni, di nome Salvatore. La sera stessa, in uno slancio di umanità che lo spinge oltre i confini del suo ruolo istituzionale, gli scrive una lettera. Insieme alla lettera manda a Salvatore un libro, come se là dentro si trovasse la chiave per sopravvivere al futuro che lui stesso ha decretato leggendo la sentenza. Il ragazzo, invece di mandarlo al diavolo, risponde alla lettera. Comincia così un carteggio destinato a durare per il resto della vita, e che continua ancora oggi. È all’incirca tutto quello che sapevo della storia di Elvio Fassone e Salvatore quando l’incarico di portarla a teatro mi è stato proposto. Un breve resoconto telefonico, nulla di più. Eppure ho accettato subito. Quello spunto narrativo, che sapevo reale, è stato sufficiente a riempirmi la testa con le sue implicazioni struggenti, domande delle quali ogni narratore è sempre alla ricerca: qual è il fine della giustizia? che rilevanza ha in esso il pentimento? quanto incide l’attenuante della giovinezza? e quali contraddizioni si celano dietro l’espressione “pena perpetua”? Ancora: che cos’è un’educazione? Chi sono davvero un padre e un figlio? Soltanto in un secondo momento ho letto il libro di Fassone dove ho trovato riproposti, seppure spesso taciuti con riserbo, gli stessi dubbi. L’ho letto una, due, tre volte per intero, e non so quante altre a pezzi, all’inizio lasciandomi solo trasportare, poi prendendo appunti, infine selezionando fra quegli appunti. Scrivere consiste per lo più nel risolvere problemi. E via via che la vicenda raccontata da Fassone mi passava sottopelle, individuavo con maggiore chiarezza quali sarebbero state le difficoltà di una drammaturgia tratta da Fine pena: ora. In un certo senso posso dire adesso che il testo teatrale è costruito innanzitutto a partire da quelle difficoltà - dalle difficoltà e insieme dalla volontà ferrea di mantenere intatto il nucleo della storia di Salvatore e del magistrato, che era stata capace di conquistarmi nel tempo di una telefonata. L’asimmetria fra i protagonisti è stata la prima delle preoccupazioni. Mi era chiaro che Fine pena: ora dovesse essere un dialogo, con entrambi i protagonisti sulla scena, un rapporto il più possibile paritario. Ma, se il libro offriva una disamina accurata della vicenda processuale e carceraria di Salvatore, così come della sua personalità e delle sue sofferenze private, il giudice non vi era davvero presente in quanto personaggio. La sua era una voce accorata, tormentata alle volte, ma € € pur sempre incorporea. Il bisogno del giudice, il suo dispiacere segreto, così essenziali per far respirare ogni personaggio, andavano immaginati, probabilmente inventati. È stata questa la prima necessaria licenza, l’oggetto della sola conversazione “di presenza”, come direbbe Salvatore, che ho avuto con Elvio Fassone. D’altra parte, c’era una zona irraggiungibile in Salvatore stesso. Non riguardava tanto le sue origini o il suo passato criminoso, né il presente del carcere, bensì il suo linguaggio. Nel libro compaiono alcune frasi pronunciate o scritte da lui, ma molte altre sono mediate dal giudice. Ho compreso che nel complesso non mi sarebbero state sufficienti a penetrare il suo modo così speciale di esprimersi. Potevo imporgli una voce, certo, ma sarebbe stato giusto? Proprio come il magistrato, anche l’autore di quelle frasi era vivo, sebbene non avessi la possibilità di incontrarlo. Così ho pensato di ripartire dalle lettere. Con un atto di fiducia Fassone mi ha consegnato quelle che aveva ricevuto, tutte, trent’anni di lettere, la metà esatta di una vita epistolare. Sono uscito da casa sua reggendo un sacco pieno. Le ho lette in ordine cronologico, una decina al giorno, destreggiandomi nella calligrafia faticosa e nelle formule di cortesia - “Caro Presidente, spero di trovarla bene e lo stesso posso dirle di me...” -, finché sono stato in grado di anticipare molte delle espressioni, finché ho sentito nelle orecchie quel ritmo a metà fra il parlato e una scrittura formale e ossequiosa. Il Salvatore in scena parla spesso come il Salvatore delle lettere, in quel registro privato che esiste soltanto fra lui e il giudice. Trent’anni di lettere. Ed ecco l’ultima questione: il tempo, che a teatro è sempre un nemico. Come far scorrere trent’anni in poco più di sessanta minuti? Dopo avere scandito le date nelle quali si svolgeva il rapporto a distanza fra i due protagonisti, ho fatto del mio meglio, stesura dopo stesura, per eliminare quella struttura sottostante, per nasconderla, confonderla. A teatro Salvatore e il suo giudice si parlano “fuori dal tempo”, o per meglio dire, come “dimentichi del tempo”. Vivono in un qui e ora, ma possono tornare ad abitare improvvisamente il passato. Sono fantasmi in grado di attraversare non solo i muri del carcere, ma anche gli anni. Fantasmi, sì, perché ognuno è lo spettro immateriale evocato dall’altro. Si trovano entrambi nella stessa stanza, sullo stesso palcoscenico, eppure sono costantemente separati, il giudice nella propria casa e Salvatore dentro la sua cella, insieme e tuttavia da soli - proprio come accade anche a noi ogni volta che scriviamo una lettera a qualcuno. “La strada verso est”, di Philippe Sands. Diritto e affetti nelle aule di Norimberga recensione di Raul Calzoni Il Manifesto, 12 novembre 2017 Tra finzione e saggio, l’intreccio dei fatti storici, politici e giuridici che hanno scandito le ore più buie della storia europea: il “Viaggio verso est” dell’avvocato Philippe Sands, da Guanda. Nato dalla penna di un professore universitario di diritto, nonché direttore del “Centre on International Courts and Tribunals” dello University College di Londra, “La strada verso est” (traduzione di Isabella C. Blum, Guanda, pp. 448, euro 29,00) di Philippe Sands non è semplicemente un riuscito romanzo attorno ai crimini contro l’umanità e al genocidio del popolo ebraico durante il nazismo, ma sin dal suo incipit è centrato sulla professione dell’autore, e si muove dunque fra la finzione e il saggio, con corredo di un ampio apparato di note e un indice dei nomi. Sulle tracce dei giuristi - La sua forma è perciò quella ibrida della docufiction storico-narrativa: si apre nel 2010, quando l’inglese di origine ebraica Sands viene invitato in Ucraina a tenere una conferenza sui crimini di massa e sul processo di Norimberga, avviando l’autore a quella strada verso l’est dell’Europa che darà il titolo al suo libro, e gli fornirà l’occasione per confrontarsi con il più importante processo del Secolo breve, grazie al quale non soltanto è nato il diritto internazionale, ma si è arrivati per la prima volta alle formule di “crimine contro l’umanità” e di “genocidio”. L’attenzione di Sands per le origini di questi capi d’accusa lo porta sulle tracce dei due giuristi che, dopo avere studiato entrambi a Leopoli senza mai conoscersi, li avevano formulati nel tentativo di definire la portata di una possibile imputazione giuridica contro i nazisti per lo sterminio del popolo ebraico: “per Lauterpacht se l’uccisione fa parte di un piano sistematico, allora è un crimine contro l’umanità. Per Lemkin, il punto cruciale è invece il genocidio, cioè l’uccisione di molti con l’intenzione di distruggere il gruppo di appartenenza”. Dopo essersi addentrato nella storia europea del trentennio compreso fra la fine della Grande guerra e la conclusione del secondo conflitto mondiale, decenni di cui Sands restituisce uno spaccato storico-giuridico dominato dal principio di esclusione, che culmina nel 1935 con le leggi razziali contro la popolazione ebraica, l’autore ci riporta a Norimberga, connotata nel suo libro come il luogo dell’abbrivio e della condanna di quella “soluzione finale della questione ebraica”, la cui definizione risale al verbale della conferenza di Wannsee del gennaio 1942 redatto da Adolf Eichmann, imputato nel celebre processo del 1961 a Gerusalemme di cui La banalità del male di Hannah Arendt resta il resoconto più lucido. Norimberga è dunque anche il luogo verso il quale Sands viaggia dall’est dell’Ucraina, intrecciando i fatti storici, politici e giuridici che hanno scandito le ore più buie della storia europea alla propria esperienza personale di accademico e avvocato; ma soprattutto al ricordo delle sue origini ebraiche. Fino a portarci nell’aula del Tribunale penale internazionale di cui è membro, e dove si svolgono alcuni dei più terribili casi giudiziari contemporanei contro l’umanità, per esempio quelli consumati durante le guerre nell’ex Jugoslavia e in Ruanda, oppure nel carcere di Guantánamo. Se non fosse per l’affondo nella dimensione intima e autobiografica che costituisce il basso continuo della narrazione, il libro di Sands potrebbe essere letto come un saggio di storia e persino di filosofia del diritto attorno all’evoluzione dei concetti di “genocidio” e “crimine contro l’umanità”. Ma l’interesse di Sands per il processo di Norimberga e per la storia del diritto che lo ha preceduto e seguìto non deriva solo dalle sue ricerche accademiche. Egli è infatti mosso anche dalla volontà di sondare il passato della propria famiglia, e soprattutto penetrare il silenzio che avvolge la persecuzione subìta da suo nonno, Leon Buchholz. Ed è in queste pagine che l’avvocato Sands abbandona la lingua degli atti giudiziari e del diritto per adottare quella degli affetti, lasciando che il suo stringente saggismo ceda il passo a una prosa introspettiva e vibrante di nostalgia. Suo nonno Leon era un ebreo galiziano sopravvissuto alla barbarie nazista, che aveva taciuto le privazioni e il dolore subiti, in particolare fra il 1939 e il 1945, quando l’avvocato Hans Frank era governatore della Polonia. Il figlio di Leon e quello di Frank - Nel tentativo di ricostruire la storia di suo nonno, Sands non esita a porre in discussione i provvedimenti adottati dal più celebre giurista nazista, condannato e impiccato a Norimberga. Proprio alla città tedesca approda infine La strada verso est quando nel 2014 Sands entra nell’aula del celebre processo contro l’umanità accompagnato dal figlio di Hans Frank, che non esita a condannare il comportamento del padre e, anzi, sostiene come per crimini simili sarebbe accettabile ancora oggi la pena di morte. Nelle pagine in cui si racconta l’incontro fra il nipote dell’ebreo Leon e il figlio dell’avvocato nazista Frank a Norimberga sembra di tornare al tempo del processo contro i kapò nazisti, come se ancora oggi gli spiriti dei perseguitati e dei loro aguzzini si fronteggiassero nelle sale del tribunale tedesco, dibattendo di un crimine, la Shoah, che trascende ogni velleità di circoscriverlo con il linguaggio e definirlo (anche) giuridicamente. Questa politica è lontana dai problemi reali del paese di Mauro Magatti Corriere della Sera, 12 novembre 2017 Senza un cambio di rotta, l’ottimismo della classe dirigente sulla crescita rischia solo di creare rabbia soprattutto tra le generazioni più colpite dal declino. Nonostante i buoni risultati economici di questi ultimi anni, in Italia una famiglia su due non riesce ad accedere a un livello di benessere sufficiente per non essere costretta a rinunce nelle cure mediche, nello studio, nel numero di figli. Viceversa, solo una minoranza (il 30% del totale) ha una situazione economica così solida da potersi pagare i servizi che ormai sono in larga parte privatizzati, accantonando anche qualche risparmio. Sono i risultati di una ricerca sullo stato del welfare italiano appena pubblicata e presentata in questi giorni alla Camera dei Deputati (Osservatorio sul bilancio di welfare delle famiglie italiane). Pensionati che vivacchiano con una pensione che a stento raggiunge la soglia della decenza; famiglie monogenitoriali che si arrabattano per tenere insieme i pezzi di una vita complicata; nuclei famigliari che si sono arrischiati ad avere più di due figli e ne soppor-tano i costi; giovani (o meno giovani, specie se donne) che non riescono a uscire da una condizione di precarietà. Insomma la platea degli scontenti in Italia (e non solo) non accenna a ridursi. Confermando ciò che sapevamo già: l’erosione del ceto medio in questi anni prosegue implacabile. Insieme a questa prima considerazione, c’è un secondo punto messo in luce dalla ricerca. L’indebolimento della famiglia e delle sue reti di relazione (e di protezione) ha ormai cambiato il panorama sociale del nostro Paese: ben il 40% dei nuclei è oggi costituito da monogenitori, vedovi, separati, single. Una schiera di individui soli che devono gestire autonomamente i problemi che la vita prima o poi riserva a tutti. Con conseguenze rilevanti sul profilo economi-co e demografico. C’è da chiedersi se la politica riesca ad avere una percezione corretta di questa realtà e delle reali condizioni di vita della gran parte della popolazione. Per molti aspetti, si direbbe di no. Almeno a giudicare dalle reiterate dichiarazioni di ottimismo che in questi mesi hanno salutato il ritorno ad un quadro macroeconomico positivo. Sentire le dichiarazioni dei politici che insistono nel dire che le cose vanno meglio non fa altro che irritare chi invece constata che la propria condizione resta grama. Al fondo c’è la fatica a riconoscere che il tempo è cambiato. Oggi le difficoltà individuali - non più anestetizzate dall’immagina-rio di una crescita illimitata - stagnano nel vissuto quotidiano, alimentando quel risentimento che affiora ormai senza più alcun freno inibitore. Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che, nelle nuove condizioni, la ripresa del Pil porta, solo lentamente, benefici limitati. Di fronte al dato evidente che il lavoro che si viene a creare è più precario, che la ricchezza si concentra sempre più nelle mani di pochi oligopolisti e che le grandi imprese e i ricchi possono facilmente evitare di pa-gare le tasse (come dimostrano ancora una volta le notizie sui paradisi fiscali di questi giorni), il popolo chiede di essere protetto. Semplicemente perché non crede più alla favola che tutto sia destinato ad aggiustarsi. Per questo la questione dei migranti diventa così esplosiva. Di fronte ai problemi che assillano la vita quotidiana, almeno c’è qualcuno contro cui prendersela e su cui scaricare la rabbia che si ha in corpo. Di fronte a tutto questo, il ceto politico (al di là delle cose buone che pure in questi anni sono state fatte) non riesce a dettare l’agenda. Incapace di capire che la crisi della globalizzazione apre un enorme spazio politico che, se non sarà occupato, si riempirà da solo. Il problema è che abbiamo accumulato un grave ritardo e che, nonostante le tante eccellenze di cui il Paese per fortuna ancora dispone, non siamo ancora riusciti a invertire il declino ben visibile se si guardano le ultime 3 generazioni: quella del dopoguerra che era riuscita a creare ricchezza; quella del baby boom che l’ha consumata; e infine quella dei Millennials che rischiano di essere sacrificati per le colpe dei padri. Nonostante i passi compiuti, l’Italia conti-nua a muoversi su un sentiero molto stretto. Con il nostro livello di debito, basta uno spiffero perché un raffreddore si trasformi in polmonite. E d’altra parte, la situazione sociale è, come constatato, tutt’altro che risolta. In questa situazione è giusto chiedere ai partiti che si apprestano a cominciare una lunga campagna elettorale di dire chiaramente come pensano di risolvere il rebus che abbiamo davanti: interrompere il decalage intergenerazionale riattivando la crescita senza far finta di non sapere che ciò non basterà per placare il grido di rabbia che sale da ampie parti del corpo sociale; soprattutto se non si metterà mano a quelle riforme strutturali che il Paese aspetta da anni (e che, cambiando assetti consolidati, sono sempre, in certa misura, dolorose). Sarebbe già tantissimo avere il coraggio di dire la verità al Paese. Forse un atto di parresia potrebbe coagulare le tante forze positive e costruttive che ancora esistono nel Paese. Il racconto di Roma Capitale delle povertà dove cresce la classe dei “working poors” di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 12 novembre 2017 Rapporto Caritas. Città dell’abbandono, atroce bellezza per nulla grande, vasta periferia, geografica e dell’anima. La crisi assedia centro e periferie. Crescono le dipendenze: droga alcol e azzardo. 9,8 per cento è la disoccupazione registrata in città. In dieci anni, dopo i finti fasti veltroniani, è aumentata del 2,6%. Era al 7,2%. 130 mila alloggi sfitti nella città delle “case senza gente e della gente senza casa”. Quello immobiliare è un mercato spietato che genera precarietà e sfratti. 7,8 miliardi di euro è il giro di affari nel Lazio, ma in gran parte romano. Crescono le ludopatie e le richieste di cure psichiatriche mentre servizi sono tagliati. È nata una “classe” di nuovi poveri, cresciuta nelle periferie e nelle classi meno abbienti, come pure nella classe media. Si tratta di una condizione sociale, economica e psicologica trasversale determinata dall’austerità dei tagli alla spesa sociale, ai trasporti, dalla precarietà di massa e dall’abbandono dei servizi che scaricano sulle famiglie costi intollerabili. La capitale di questa nuova “classe” è Roma. Capitale di un paese impoverito, impaurito e risentito e, in sé, città dell’esclusione che si manifesta in maniera imprevedibile. Quello che colpisce nel rapporto della Caritas, presentato ieri all’università Lateranense, è il racconto del “barbonismo domestico”, persone che vivono nell’abbandono più totale anche se possiedono una casa e non sono esposti allo sfacelo di uno sfratto violento, magari con la forza pubblico e il pignoramento dei beni. Non esiste più solo la povertà economica “tradizionale”, quella visibile dei senza dimora, ma anche quella dei “working poors” che pagano un affitto, lavorano o hanno lavorato e che non arrivano a fine mese e, anzi, “non hanno di che vivere”. Dopo i finti fasti veltroniani, e le successive compensazioni urbanistiche, si è alzato il sipario di una crisi a lungo messa sotto il tappeto da speculatori di ogni genere. In dieci anni la disoccupazione è passata dal 7,2% al 9,8%, mentre la povertà ha raggiunto il centro città, unendola alle periferie. Roma, città dell’abbandono, atroce bellezza per nulla grande perché è impietosa con chi abita la periferia, geografica e dell’anima. Perché il deserto nasce anche da abitudini compulsive che si rispecchiano nelle dipendenze da droga, alcol e gioco di azzardo. Da quando le consolari si sono riempiti di casinò, luoghi che si sono installati stabilmente anche in quartieri centralissimi, ad esempio Trastevere, il gioco d’azzardo movimenta un volume di affari calcolato in 7,8 miliardi di euro. Il dato si riferisce al Lazio, ma è probabile che Roma abbia dato un contributo decisivo. Com’è decisivo il numero delle persone, in prevalenza maschi oltre i 40 anni, con un titolo di studio medio-basso, che si rivolgono ai servizi per le dipendenze (SerD). In questa città della solitudine e dell’incomunicabilità, alla Caritas risulta che quasi il 50% degli studenti tra i 14 e i 19 anni ha giocato d’azzardo nello scorso anno scolastico. Lì dove hanno chiuso i biliardi, dove si andava quando si faceva “X” a scuola, oggi crescono le “macchinette”. Le periferie della solitudine qui non hanno confini. È così ovunque e anche a Roma dove si sente tutta quella enorme “fatica di essere se stessi” che già una quindicina di anni fa Alain Ehrenberg raccontava a proposito del protagonista del nostro tempo: il soggetto performativo e compulsivo, oscillante da depressione e entusiasmo, oggi chiamato anche “uomo indebitato”. C’è un’annotazione nel rapporto “la povertà a Roma” sull’aumento delle persone affette da “disturbo mentale”: 68.217 nel Lazio. A Roma si registra una crescita della domanda di cure psichiatriche a elevata complessità mentre i tagli al sistema sanitario nazionale continuano, creando un’offerta impoverita e disomogenea tra municipio e municipio. La capitale della povertà è anche una città di “case senza gente e di gente senza casa”. La visione di un sindaco e storico dell’arte come Giulio Carlo Argan ha avuto un valore profetico. Questa immensa città, tra le prime per estensione in Europa, è ancora così: una landa di 130 mila alloggi sfitti. L’emergenza casa è stata urlata in ogni modo dai movimenti per il diritto all’abitare in questi anni. Vilipesi, repressi, perseguitati con il “Daspo”, sono loro che affrontano il dramma di 5 mila persone che non hanno altra strada che vivere in occupazione e di altre 30 mila che vivono in emergenza. Perché la povertà è anche generata dal capitale più aggressivo, e vetusto, che ci sia: quello palazzinaro che specula su una vita in cerca di casa. Un mercato spietato impedisce di creare un’offerta abitativa e affitti accessibili. Gli esclusi si ritrovano nelle occupazioni con famiglie immigrate e italiani senza casa mentre in città c’è uno sfratto per morosità incolpevole (cioè manca il salario per pagare spese e affitto) ogni 279 abitanti. La media nazionale è uno sfratto ogni 419 abitanti. Solo nel 2016 sono state sfrattate con la polizia 3.215 famiglie. Davanti a questo scempio, restano i movimenti e i sindacati degli inquilini. Da soli, contro tutti, inascoltati. E, in ultima istanza, i centri di ricovero della Caritas, o di Sant’Egidio. Qui i senza tetto sono 7.500 ma stime ufficiose parlano di stime fino a16 mila persone. Il doppio. Che rabbia, questa capitale povera in una nazione ipocrita. Oggi le destre speculano sull’odio anti-immigrati, ma i dati Caritas raccontano tutt’altro: i richiedenti asilo sono 4.063, e il sistema Sprar e Cas in affanno, ma gli stranieri sono il 13,1%, e il 44% di loro sono europei, un valore inferiore a Milano o Firenze. Roma, capitale della povertà dove vittima è anche la verità. Migranti. Ospite in un Centro di accoglienza dà fuoco alla stanza, un gestore gli spara di Raffaele Sardo La Repubblica, 12 novembre 2017 Il 19enne è grave. L’aggressore, 43 anni, italiano, è stato fermato dai carabinieri. Un cittadino del Gambia, Bobb Alagiee di 18 anni è stato ferito ieri sera a Gricignano di Aversa. Il ragazzo è ospite del Centro Temporaneo di Accoglienza “La Vela”, ubicato in via Leonardo da Vinci. Ed è qui che è stato ferito da uno dei soci della struttura dei soci della struttura, il 43enne Carmine Della Gatta, che è stato fermato dai carabinieri. Il giovane è stato trasportato d’urgenza all’ospedale di Aversa da un’ambulanza del 118. La vittima nelle ore precedenti aveva dato fuoco, per protesta, alla sua stanza, causando l’evacuazione di altri migranti alloggiati nello stabile. Circostanza che, secondo i carabinieri di Marcianise, avrebbe provocato la reazione dell’aggressore. Il giovane ora si trova in prognosi riservata nell’ospedale Cardarelli di Napoli. Prima dell’arrivo dei vigili del fuoco, corso per domare l’incendio, Della Gatta è intervenuto e ha affrontato il 19enne; c’è stata una lite durante la quale Della Gatta ha estratto una calibro 38 e ha sparato, colpendo due volte alla bocca il gambiano. Poi è scappato in auto con un’altra persona facendo perdere le tracce. Dopo qualche ora però si è presentato ai carabinieri, che nel frattempo lo avevano identificato grazie a dei testimoni; il 43enne ha ammesso le proprie responsabilità ed è stato fermato per tentato omicidio. La successiva perquisizione nell’abitazione del fermato da parte dei carabinieri, ha permesso di rinvenire e sottoporre a sequestro 4 fucili e 2 pistole tutti legalmente detenuti. Serve più cannabis terapeutica, stanziati più di 2 milioni per le serre di Michele Bocci La Repubblica, 12 novembre 2017 A far mancare la marijuana è stato soprattutto l’aumento del numero di pazienti entrati in trattamento da quando è iniziata la produzione nazionale. La cannabis terapeutica prodotta in Italia non basta più e il ministero alla Salute stanzia 2 milioni e 300 mila euro per aumentare il numero delle serre e così triplicare la produzione dell’istituto farmaceutico militare di Firenze ma anche per aumentare le importazioni dall’Olanda. La misura è contenuta in un emendamento al Decreto fiscale presentato dal Governo. Sono ormai mesi che nel nostro Paese, in particolare in certe Regioni, ci sono grosse difficoltà a reperire la cannabis terapeutica, tanto che il ministero parla di “conclamata carenza della sostanza, destinata ad aggravarsi ulteriormente nel quarto trimestre del 2017 e nel primo del 2018”. A far mancare la marijuana è stato soprattutto l’aumento del numero di pazienti entrati in trattamento da quando è iniziata la produzione nazionale nello stabilimento militare e sono contestualmente state scritte le linee guida con le indicazioni che permettono di avere il farmaco gratuitamente per certe patologie. Ormai decine di migliaia di persone usano la cannabis per i sintomi delle loro malattie, soprattutto quelli legati alla spasticità e al dolore. A Firenze nel 2017, il primo anno in cui si è iniziato a viaggiare a pieno regime produttivo, alla fine si arriverà a 100 chili di fiori, che vengono utilizzati dai malati in forma di decotto o consumati con gli inalatori. Non bastano, tanto che molte Regioni continuano ad ordinare la cannabis anche in Olanda. Ma pure i Paesi Bassi sono in difficoltà a stare dietro a tutti gli ordini, che talvolta saltano. E così si moltiplicano le proteste di persone che non trovano il loro farmaco. “Con tale disposizione si provvede - è scritto nella relazione illustrativa del provvedimento - ad affermare, anche con norma primaria, la necessità della garanzia dell’approvvigionamento di cannabis, che costituisce un obiettivo indefettibile per la prosecuzione delle terapie, a beneficio finale dei pazienti”. Il ministero della Salute, che insieme a quello della Difesa aveva deciso di coinvolgere l’Istituto farmaceutico militare, stanzia soldi per rinforzare la produzione e anche per importare. I 2,3 milioni di euro sono infatti divisi un due tranche. La prima, di 1,6 milioni, servirà a costruire nuove serre e anche a iniziare la coltivazione di altre tipologie di cannabis, con principi attivi differenti da quella uscita fino ad ora dallo stabilimento. Con l’investimento i chili prodotti in un anno dovrebbero triplicare, cioè salire a 300. Gli altri 700 milioni di euro serviranno inoltre a importare dall’estero altri 100 chili che entreranno direttamente all’Istituto farmaceutico militare dove saranno trattati, dosati e spediti alle farmacie pubbliche e provate. Spagna. A Barcellona 750mila in piazza per la liberazione dei “detenuti politici” Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2017 Circa 750 mila persone hanno partecipato a Barcellona alla grande marcia per la liberazione dei “detenuti politici”, secondo la polizia urbana. La manifestazione si è snodata su 3,3 km. Secondo la polizia, 350 mila persone avevano partecipato all’ultima manifestazione unionista (oltre 1 milione per gli organizzatori) e 700 mila all’ultima marcia indipendentista. La manifestazione è stata convocata da Anc e Omnium, le due grandi organizzazioni indipendentiste della società civile, per chiedere che vengano rimessi in libertà gli otto membri del Govern e i due leader indipendentisti detenuti per ordine della giudice spagnola Carmen Lamela. Intanto è atteso per domenica il premier spagnolo Mariano Rajoy che darà il via alla campagna del Pp per le elezioni catalane del 21 dicembre. Elezioni convocate da Rajoy per decidere il commissariamento e la destituzione del Govern della regione ribelle. Nella sua prima visita in Catalogna dall’attivazione dell’art. 155 della costituzione, Rajoy parteciperà a un comizio con il capolista del Pp Xavier Garcia Albiol. Si candiderà alle elezioni il Vicepresident catalano Oriol Junqueras, detenuto a Madrid con altri 7 membri del Govern di Carles Puigdemont sarà il capolista dei repubblicani di sinistra di Erc. Ad annunciarlo la segretaria del partito Marta Rovira. Erc, che secondo i sondaggi dovrebbe vincere le elezioni con il 30% circa, presenterà anche i ministri in carcere Raul Romeva, Dolors Bassa e Carles Mondò, e in esilio a Bruxelles Toni Comin e Meritxell Serret. In una intervista a Sky News da Bruxelles ripresa dalla stampa catalana il presidente deposto della Catalogna Carles Puigdemont ha dichiarato che “Essere trattato come un criminale, un trafficante di droga, un pedofilo o un serial killer: questo è un abuso. Questa non è politica, è usare i tribunali per fare politica”, ha aggiunto Puigdemont spiegando di “non essere un ribelle” ma di aver “solo voluto applicare quello che il mio parlamento ha deciso”. Spagna. “I processi andranno fino in fondo. Finora mai concessi indulti a politici” di Andrea Nicastro Corriere della Sera, 12 novembre 2017 Il ministro della Giustizia spagnolo Catalá: “Il Belgio alla fine ci consegnerà Puigdemont”. Se c’è una poltrona scomoda oggi in Europa è quella del ministro della Giustizia del governo spagnolo Rafael Catalá. Tra le sua mani passa l’alta tensione che corre tra politica e magistratura spagnole, ormai in corto circuito. Sette “assessori” regionali catalani sono in prigione e si dicono “prigionieri politici”. Altri quattro più lo stesso “presidente” catalano Carles Puigdemont sono “in esilio” in Belgio e denunciano il “violento accanimento della Giustizia” spagnola contro gli indipendentisti. I sei componenti della presidenza dell’assemblea catalana sono rinviati a giudizio e solo 150 mila euro di cauzione hanno evitato la cella alla “presidenta” Carme Forcadell. A peggiorare il clima, tutti questi politici incarcerati, indagati o ricercati potrebbero essere rieletti nel Parlament di Barcellona il 21 dicembre. Così si riproporrebbe il conflitto tra due cardini della democrazia: da una parte la sovranità popolare, dall’altra l’imperio della Legge. Democrazia contro Giustizia. Ministro Catalá, un paradosso imbarazzante. “Non c’è dubbio che siamo difronte e un’anomalia giuridico-democratica, ma bisogna accettarla. Purtroppo nelle stesse settimane coincidono un’elezione e un processo penale. Se i cittadini decideranno di votare degli indagati, questi saranno legittimamente eletti e magari uno di loro potrebbe anche diventare presidente. Infatti fino a che non ci sarà una sentenza, gli indagati conservano i loro diritti politici. Sono le regole, è la democrazia. E noi la difendiamo. Allo stesso modo, però, il voto non ferma i processi e se si arrivasse a una condanna, anche chi è stato eletto democraticamente dovrà dimettersi”. Video-comizi dal carcere non sono una bella pubblicità per i valori europei. “Ciascun detenuto ha un certo tempo di accesso a Internet e alle reti sociali a seconda del tipo di reato, se è in detenzione preventiva o se sta scontando la pena. Non si devono fare differenze: se ne hanno diritto faranno anche i video-comizi”. L’accusa parla di sedizione e ribellione. Non sono concetti fuori luogo per un conflitto che è politico? “Quelle parole suonano antiche anche a me, ma se è grave ammazzare qualcuno, lo è anche tentare di sovvertire con la forza le leggi e l’ordine sui quali basiamo la nostra convivenza”. Perché parla di forza? Le manifestazioni indipendentiste sono state pacifiche. “Non sono d’accordo. Il movimento secessionista è stato violento: gli edifici e le vetrine degli unionisti sono stati vandalizzati, i cortei davanti al ministero di Giustizia hanno usato violenza e una mia funzionaria ha dovuto uscire dal tetto dell’”assessorato” all’Economia di Barcellona perché all’ingresso c’era chi non le permetteva di andarsene. Situazioni di violenza sono state alimentate eccome”. Questo vorrebbe dire accettare l’accusa di ribellione che prevede 30 anni di carcere. Non è troppo? “C’è una denuncia in tal senso della Procura generale. Non compete a me giudicare”. Crede che l’azione della polizia nel giorno del referendum sia stata proporzionata? “Non mi sono piaciute le immagini, ma cosa potevano fare? La elezioni erano illegali, persone che proteggevano le urne dovevano essere spostate. La polizia è stata professionale. Ci sono state denunce e la magistratura indaga. Se ci sono stati eccessi emergeranno”. Quando il Belgio consegnerà alla Spagna l’ex president Puigdemont? “Il mandato d’arresto europeo nasce dalla fiducia dei Paesi Ue nella democraticità dei rispettivi sistemi giudiziari. È un procedimento con ricorsi e appelli che si esauriscono normalmente. Svizzera. Nel carcere preventivo il rischio è la collusione di Stefano Laffranchini* caffe.ch, 12 novembre 2017 Il dibattito dopo la morte di un detenuto in cella. Qualche settimana fa è venuto a mancare un detenuto in carcerazione preventiva. Un avvenimento che - tengo a sottolineare - non ha mancato di colpire profondamente il personale di custodia. Su questo fatto si è sviluppato un dibattito. Sul Caffè è stata pubblicata una settimana fa l’opinione dell’avvocato Tuto Rossi, che tuttavia propone una lettura delle condizioni presso la Farera che non corrisponde alla realtà. Mi preme quindi prendere la parola in mezzo a tante cose scritte per fare un po’ di ordine e chiarezza. Per farlo, parto dalla durata della carcerazione preventiva. Una permanenza in cella di 22 o 23 ore al giorno non è affatto, in Svizzera, una peculiarità del nostro cantone. Tale condizione è data fondamentalmente dal rischio di collusione: ogni singolo interlocutore del prevenuto (così vengono definiti i detenuti in carcerazione preventiva) potrebbe infatti diventare una complicazione per le indagini delle autorità inquirenti. Non dimentichiamo che in un carcere giudiziario vi è un alto turn-over: le persone possono essere scarcerate in ogni momento o beneficiare di regimi meno restrittivi che consentono di tessere molteplici contatti, diventando in tal modo potenziali “veicoli” verso l’esterno dei messaggi degli altri detenuti. Una vera peculiarità del nostro cantone è invece il tempo medio passato in regime di carcerazione preventiva, che si assesta tra i 50 e i 60 giorni, quindi nettamente inferiore a quanto non avvenga altrove. Contrariamente a quanto asserito dall’autore dell’opinione, l’autorità di esecuzione non è rimasta a guardare: consci del fatto che una tale restrizione della libertà si può giustificare solo per un periodo ristretto di tempo, sono state attuate misure organizzative per aumentare, non appena le indagini lo permettono, il tempo passato dal detenuto fuori cella, sia per il “passeggio”, sia per i contatti telefonici e i colloqui. Oggi sono inoltre in corso lavori per dotare la Farera di due sale per mantenere la forma fisica dei prevenuti collocati da più tempo nel carcere. Dopo questa premessa tengo anche a soffermarmi sugli avvenimenti che si sono susseguiti nelle ore successive al decesso del prevenuto, proprio perché su un tragico episodio non è opportuno speculare. Già nel corso della mattinata di quel mercoledì abbiamo attuato tutte le misure necessarie per sostenere gli agenti di custodia che hanno soccorso il prevenuto trovato privo di sensi nella sua cella. Agenti di custodia che sono spesso definiti - come avvenuto sette giorni fa sulle colonne di questo settimanale - “secondini”, quasi a voler ridurre l’importanza di questa funzione. In questo senso, mi preme rassicurare sul fatto che il personale del penitenziario allaccia rapporti umani con i prevenuti, incarnando il difficilissimo ruolo di chi fa rispettare le regole, ma dimostra vicinanza e sensibilità nei momenti difficili. La perdita di una persona che lo Stato ci affida lascia dentro sensazioni di impotenza, rabbia e tristezza. Esprimere paragoni tra il vissuto del personale di custodia e le tristi emozioni che hanno dovuto vivere i congiunti della vittima, oltre ad essere un esercizio sterile, lascia intendere che gli agenti di custodia abbiano vissuto questa perdita con freddezza. Bisogna poi ricordare l’importante lavoro del personale dell’Ufficio dell’assistenza riabilitativa, che ha preso a carico i familiari della vittima. Il penitenziario cantonale è una struttura di privazione della libertà dello Stato e per questo la massima trasparenza è dovuto a tutti i cittadini. Ma come responsabile di questa struttura non tollero che in una vicenda mesta - come quella di un decesso - si speculi e si informi in maniera distorta e non veritiera. Le condizioni del carcere vengono vagliate da una commissione parlamentare e situazioni di disagio come quelle narrate non sono emerse, proprio perché forse frutto dell’immaginazione di taluni. Il dialogo e la trasparenza sono le basi della gestione del penitenziario cantonale. Pertanto - a mezzo stampa affinché il messaggio arrivi con le stesse modalità a chi ha saputo solo puntare il dito contro le istituzioni - invito ufficialmente gli autori di tali prese di posizione in futuro a non farsi problemi a contattarmi per avere risposte ai loro quesiti, così da evitare i poco eleganti commenti ma soprattutto dei grossolani errori. *Direttore delle strutture carcerarie del Canton Ticino Il Libano in crisi e i venti di guerra tra Hezbollah e Israele di Davide Frattini Corriere della Sera, 12 novembre 2017 L’aereo di Saad Hariri è atterrato vuoto giovedì scorso all’aeroporto di Beirut. Il primo ministro (come ancora lo considerano i libanesi) è rimasto in Arabia Saudita, quei sedili senza passeggero hanno riportato a casa le paure dei quindici anni di guerra civile. Quando tra il 1975 e il 1990 il Libano è diventato la striscia più importante sulla mappa del Risiko sanguinoso giocato dalle potenze mediorientali. Vicini ingombranti che tornano a sfidarsi sulla costa del Mediterraneo, l’ultima volta hanno lasciato solo macerie. Gettate in mare e ripulite anche grazie ai soldi sauditi che hanno finanziato le ruspe e le imprese proprio della famiglia Hariri. Saad proclama (ma il Washington Post rivela che il discorso di dimissioni sarebbe stato dettato dai principi del Golfo) di non voler far la fine del padre, massacrato da un’autobomba il 14 febbraio del 2005. I sauditi assicurano i diplomatici occidentali di averlo trattenuto per proteggerlo, i libanesi (anche i compagni di partito) pretendono sia rimandato a casa, lo considerano un prigioniero politico. Ostaggio dello scontro che Mohammed bin Salman, il principe ereditario, è convinto di poter vincere: quello tra l’Arabia Saudita e l’Iran, tra i sunniti e gli sciiti, per la supremazia nella regione. Il giovane leader, 32 anni, spera che il lavoro sporco glielo facciano gli israeliani, anche se con loro non ha relazioni diplomatiche ufficiali (ma sempre più obiettivi comuni). La tensione innalzata dal caso Hariri (sarebbe la strategia) potrebbe spingere Hezbollah, che dell’Iran è il braccio armato e politico più potente in Libano, ad attaccare Israele. O il premier Netanyahu potrebbe vedere l’opportunità di far arretrare con un intervento l’espansione degli ayatollah sul confine nord. Un gioco pericoloso che ha spinto Dan Shapiro (fino a pochi mesi fa ambasciatore americano a Tel Aviv) ad avvertire il governo israeliano con un intervento su Haaretz: “Non si lasci manovrare dai sauditi in un conflitto prematuro, la decisione va presa al momento più giusto per combattere”. Anche per altri analisti la prossima guerra tra Israele ed Hezbollah è solo questione di quando.