Decreti attuativi della riforma dell’O.P.: il volontariato sia coinvolto nelle consultazioni di Ornella Favero (Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia) Ristretti Orizzonti, 11 novembre 2017 “Ritengo il ruolo del volontariato nelle carceri italiane un elemento decisivo”*: sono sue parole, ministro Orlando, se lo pensa davvero ci faccia leggere i testi dei decreti attuativi della riforma penitenziaria e ne discuta anche con noi. Gentile ministro Orlando, sono stati da poco consegnati al Garante Nazionale i primi testi dei decreti attuativi della riforma dell’Ordinamento penitenziario e abbiamo letto che è sua intenzione convocare i sindacati della Polizia penitenziaria per discutere i contenuti di questi decreti. Non sappiamo come stiano davvero le cose, sappiamo però che bisogna correre per non rischiare di buttare via tutto il lavoro fatto, ma non vogliamo certo farle perdere tempo. Le scriviamo per dirle che ci sembra importante che il Volontariato sia coinvolto almeno in una rapida “consultazione”, scriviamo “almeno” perché avremmo voluto esserlo anche nelle Commissioni che stanno scrivendo i decreti attuativi della Riforma, per la semplice ragione che riteniamo che le nostre associazioni abbiano un ruolo fondamentale in tutte le fasi dell’esecuzione penale, e che in questi anni il Volontariato abbia accumulato un patrimonio di conoscenze dirette, “sul campo”, che sarebbero utili anche ai giuristi e agli esperti che stanno lavorando nelle Commissioni. Gentile Ministro, tante volte nelle sue relazioni di fronte alle autorità europee l’abbiamo sentita lodare la straordinaria presenza del Volontariato nelle carceri italiane, il suo ruolo propulsivo, la sua capacità di costruire percorsi di accompagnamento delle persone detenute, dal carcere al reinserimento nella società, l’abbiamo sentita, nel suo messaggio al Premio Castelli il 6 ottobre scorso nella Casa di reclusione di Padova, dire: “C’è moltissimo da fare e la spinta delle Istituzioni, dell’associazionismo, del volontariato è preziosa affinché l’amministrazione penitenziaria avverta appieno il cambiamento in atto e sia confortata da un sostegno sociale indispensabile affinché i cambiamenti si realizzino nel più breve tempo possibile”. Ecco, il Volontariato può contribuire con forza al cambiamento necessario nelle carceri, e può anche, con il suo apporto di energie, di risorse, di idee, arginare il rischio di un nuovo degrado, legato a un pericoloso ritorno del sovraffollamento, per questo è importante che conosca i testi dei decreti attuativi della riforma, che ne discuta, che dia il proprio apporto critico, che si senta valorizzato e realmente apprezzato, e non piuttosto usato nelle situazioni di emergenza. Grazie dell’attenzione, la nostra speranza è che lei accolga la nostra richiesta e ci incontri poi per ascoltare le nostre osservazioni sui testi dei decreti attuativi della riforma. *Dal messaggio del ministro Orlando al premio Castelli, Casa di reclusione di Padova, 6 ottobre 2017 “Più fondi per rendere operativa la riforma penitenziaria” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 novembre 2017 La Senatrice Maria Mussini, del Gruppo Misto, ha presentato un emendamento alla manovra. si attende la fine dell’iter dei decreti legislativi che dovranno avere l’approvazione definitiva del consiglio dei ministri. Ieri sono scaduti i termini per la presentazione degli emendamenti della legge di Bilancio. Nel testo c’è anche l’articolo 44 che prevede un fondo per l’attuazione della riforma del processo penale e dell’ordinamento penitenziario. Un fondo, istituito presso il ministero della Giustizia, che stanzia una dotazione di 10 milioni di euro per l’anno 2018, di 20 milioni per l’anno 2019 e di 30 milioni a decorrere dall’anno 2020, da destinare con decreti del ministero dell’Economia all’attuazione, appunto, della legge approvata il 23 giugno scorso in materia di riforma del processo penale e dell’ordinamento penitenziario. La senatrice Maria Mussini (vicepresidente del gruppo Misto) ritiene che le dotazioni siano insufficienti e non correttamente distribuite da un punto di vista temporale. Per questo motivo ha presentato un emendamento che chiede di aumentare la dotazione del fondo il primo anno. “Non esistono riforme a costo zero - ha detto la senatrice Mussini durante il suo intervento - e non sostenere economicamente i prossimi decreti delegati significa affossarne i contenuti prima ancora che vedano la luce”. La senatrice ha ribadito la necessità della riforma, soprattutto in luce del fatto che “la situazione delle carceri nel nostro paese è grave e che è stata oggetto di significative censure e condanne”. Sempre Mussini ha sottolineato: “A ciò aggiungiamo che i provvedimenti di questa legislatura orientati a risolvere il sovraffollamento carcerario con l’aumento delle misure alternative hanno avuto un effetto limitato con conseguenze onerose: la decompressione degli istituti penitenziari - ha continuato la Mussini - è stata temporanea e in compenso l’esecuzione penale esterna non è stata affatto supportata da un adeguamento del personale ad essa dedicato e neppure con la necessaria formazione e preparazione di tutti gli interlocutori, compresi quelli che sul territorio e fuori dall’amministrazione penitenziaria sarebbero chiamati a dare un loro contributo significativo”. La senatrice ha ricordato anche le deleghe consegnate con la legge 103/ 2017 che dovranno dare risposte al tema del superamento effettivo degli ex Opg e al potenziamento della tutela della salute mentale in carcere. Soprattutto per questo servono più soldi, perché - ha spiegato sempre la Mussini - “è un fatto che la sola costituzione delle articolazioni per la salute mentale in carcere sarà molto più onerosa della ridicola cifra messa a bilancio”. Nel frattempo però è ancora in corso l’iter per l’approvazione dei decreti attuativi per la riforma dell’ordinamento penitenziario. Come già riferito, la settimana scorsa i primi decreti attuativi sono stati inviati al Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma che li ha prontamente visionati e rimandati al ministro ponendo delle indicazioni di necessarie integrazioni e modifiche a singoli articoli. I decreti elaborati devono però ancora passare al vaglio del Consiglio dei ministri per dare l’ok e trasmetterli alle commissioni Giustizia del Senato e della Camera dei deputati. Poi saranno loro a dare un ulteriore parere e ritrasmetterlo al Consiglio che non dovrà altro che dare l’approvazione definitiva. Una corsa, quindi, contro il tempo visto siamo quasi a fine legislatura e agli inizi di una campagna elettorale che farà leva soprattutto sul tema sicurezza. Proprio per sollecitare la fine dell’iter dei decreti, continua lo sciopero della fame - oramai al 27esimo giorno - intrapreso da Rita Bernardini della presidenza del Partito radicale e da Deborah Cianfanelli, presidente del Comitato radicale per la Giustizia “Pietro Calamandrei”. Ricordiamo, ancora una volta, che Il provvedimento definitivamente approvato il 14 giugno dalla Camera, e intitolato “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario”, contiene un’ampia delega al governo per la riforma dell’ordinamento penitenziario. La parte più importante dei decreti è stata elaborata e riguarda i temi della sanità penitenziaria, della semplificazione dei procedimenti, giurisdizionali e non, dell’eliminazione di automatismi e preclusioni per l’accesso, da parte di detenuti e internati, ai benefici penitenziari, del rafforzamento dei diritti dei detenuti e internati e del lavoro penitenziario. Un secondo obiettivo perseguito dal legislatore è una profonda riforma dell’esecuzione intramuraria della pena detentiva. A questo fine, il provvedimento contiene un lungo elenco di criteri relativi all’incremento delle opportunità di lavoro, alla valorizzazione del volontariato, al mantenimento delle relazioni familiari anche attraverso l’utilizzo di collegamenti via Skype, al riordino della medicina penitenziaria, all’agevolazione dell’integrazione dei detenuti stranieri, alla tutela delle donne e, nello specifico, delle detenute madri, al rafforzamento della libertà di culto. Nelle direttive per i decreti c’è anche il riconoscimento del diritto all’affettività. Testo, in realtà, già elaborato durante gli Stati generali per l’esecuzione penale. Per garantire questo diritto - finora non riconosciuto - ci vogliono le cosiddette “love rooms”, tecnicamente si chiamano “spazi per la cura degli affetti”, che metterebbero fine alla “pena di fatto” accessoria consistente nella negazione della sessualità dei detenuti. Ma sorge un problema strutturale: mancano le risorse per dotare le prigioni delle “love rooms”. Un motivo in più per aumentare le dotazioni per poi mettere in pratica la riforma dell’ordinamento penitenziario. Interpellanza M5S al ministro Orlando: “chi sta smantellando il 41bis e perché?” il Velino, 11 novembre 2017 “Si ragioni sul limitare il numero di persone da sottoporre al 41-bis. Questa gravissima affermazione è stata resa da Santi Consolo direttore del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Il motivo alla base di queste parole è che non ci sono carceri adeguate per la restrizione al 41bis dei mafiosi più pericolosi e quindi invece di costruire nuove sezioni, si chiede di non applicare il regime del carcere duro ai criminali più pericolosi in Italia. Ma la questione del 41bis è molto più articolata, ed ha necessitato di un’interpellanza per chiarire i troppi punti che messi in fila disegnano un vero e proprio smantellamento silenzioso del carcere duro in Italia. La prima gravità riguarda il Gom, il Gruppo Operativo Mobile che è preposto proprio alla sorveglianza e tutti gli altri servizi per i detenuti al 41bis. Recentemente, però, si è aggiunta anche la sorveglianza dei terroristi detenuti nelle nostre carceri. All’aumento di compiti è corrisposta una diminuzione di organico, una diminuzione di risorse economiche assolutamente non giustificata con l’eliminazione della figura del “funzionario delegato” che permetteva una gestione autonoma delle risorse, che invece è stata data al nucleo scorte. Le unità del Gom sono diminuite da 619 a 593 negli ultimi sette anni, nonostante la previsione di 821 unità che era stata stabilita, ora ridotta all’obiettivo delle 620 unità senza capire che ne servirebbero 200 in più per garantire controlli seri. A questa situazione la nuova circolare varata il 2 ottobre. Una circolare che di fatto allarga le maglie per i mafiosi detenuti: gli avvocati possono consegnare atti processuali su supporto informatico, ma nessuno ha tenuto conto che potrebbero diventare un mezzo per comunicare ordini all’esterno. Il Garante nazionale dei detenuti svolgerà colloqui riservati, disposizione che va contro la legge dato che non c’è nessuna norma dell’ordinamento penitenziario che possa permettere questa situazione. Sui garanti locali, regionali e comunali, non c’è chiarezza se possano effettuare visite o colloqui riservati dato che si parla di “incontri”, con tutti i rischi che ne derivano. La Circolare allenta anche i controlli sulle telefonate, giornali e denaro, senza che vi sia un parere vincolante della Direzione Distrettuale Antimafia. Si prevede l’eliminazione del vetro divisorio nei colloqui con un minore, affermando il principio che i figli possano abbracciare i padri, con rischio di usare i figli per inviare “pizzini”. Sarebbe da sottolineare che i padri potrebbero fare scelte diverse, piuttosto che quella di delinquere se vogliono abbracciare i propri figli. La circolare introdotta oltremodo non ha avuto nessun passaggio in commissione Antimafia nonostante un anno e mezzo di lavori preparatori e di interlocuzioni tra Dap, Ministero della Giustizia e Garante dei detenuti. Di fatto quello che si sta creando è un indebolimento del 41 bis, a danno dei cittadini e della sicurezza dello Stato”. I parlamentari M5S delle commissioni Giustizia e Antimafia, hanno presentato un’interpellanza al ministro Orlando, attraverso i portavoce Giulia Sarti e Vittorio Ferraresi che sottolineano la gravità della situazione. “Gli Stati Generali voluti da Orlando vogliono superare l’ergastolo ostativo, presidio di sicurezza per i cittadini e lo Stato, già questo la dice lunga sulle reali intenzioni di combattere le mafie in questo Paese - continuano i parlamentari M5S. Inoltre, dobbiamo preoccuparci di un materasso ortopedico mentre le celle dei detenuti comuni sono delle vere e proprie gabbie sovraffollate. Sono molto più furbi i boss delle intenzioni di questo Governo e delle forze messe in campo. È vergognoso che non si acceleri la costruzione della nuova sezione a Cagliari e non ci sia un piano carcerario per i 41bis, visto che l’art.2 della circolare prevede carceri dedicate proprio a questi detenuti. La realtà dei fatti è che la risposta del ministero di Giustizia è avvilente piuttosto che insufficiente. Siamo gli unici che si stanno rendendo conto di quanto sta accadendo: stanno dando campo libero alle mafie. Non è un’esagerazione, siamo fortemente preoccupati e sembra che a nessuno interessi. C’è un disegno articolato di smantellamento del 41bis, che sembra provenire da molto lontano, dagli anni del “papello di Riina”. Da una parte non abbiamo ancora nessuna risposta sui mandanti esterni delle stragi, ma diamo permessi di necessità a pioggia ai mafiosi con le pronunce della magistratura di sorveglianza, d’altra parte le carceri sono sovraffollate, gli agenti della polizia penitenziaria allo stremo, mezzi e strutture che cadono a pezzi eppure ci sono le necessità e i diritti dei boss da garantire. I diritti devono essere garantiti nel rispetto della legge, dei cittadini e della sicurezza dello Stato, un concetto che non sembra stare a cuore a questo Governo. Noi non dimentichiamo i tentativi di concedere sconti di pena e benefici penitenziari ai detenuti mafiosi da parte dei governi Letta-Renzi. Li abbiamo fermati, ma il loro progetto di smantellamento del 41 bis sta andando avanti. Loro stanno cercando di favorire le mafie nelle carceri, noi continueremo ad opporci per non permetterglielo”. “Uniformità, non allargamento”. Il Sottosegretario Ferri sulle novità del 41bis di Maria Trozzi quiquotidiano.it, 11 novembre 2017 Il sottosegretario Cosimo Ferri interviene al VI Seminario di criminologia nel convegno “41bis, efficacia e limiti: certezza della pena e tutela della memoria delle vittime del dovere”. Si comincia con i saluti del sindaco di Sulmona, Annamaria Casini: “Il detenuto deve essere rieducato e non rilegato”. Poi Antonio Servedio, comandante provinciale dei Carabinieri dell’Aquila e il prefetto, Giuseppe Linardi che tiene a sottolineare che l’Italia è l’unico Paese in cui non si sono consumati attentati, di matrice islamica, terroristici. Segno che le forze dell’ordine stanno lavorando bene? Così dichiara il prefetto, ma di vittime italiane non mancano negli Stati colpiti duramente dai recenti attentati. Poi l’organizzatore della 2 giorni di evento, Mauro Nardella, caporale di polizia penitenziaria e sindacalista, che conclude il suo intervento, accompagnato dall’arpeggio di una chitarra classica, con un incitamento: “Non ci fermerà un naso rotto”. Riferendosi all’aggressione ai danni del giornalista, Daniele Piervincenzi, ad Ostia vittima di Roberto Spada, arrestato ieri con l’accusa di violenza privata aggravata dal metodo mafioso. Illuminante intervento di Emanuela Piantadosi, dell’associazione Vittime del dovere. Ha perso il padre, maresciallo dei carabinieri, ucciso da un detenuto in permesso premio. Arriva il sottosegretario mentre la presidente Piantadosi mette in evidenza l’eccesso di: “visibilità degli assassini dei nostri familiari.. non è questione di vendetta... vorrei ricordare il figlio di Totò Riina invitato a presentare il suo libro a Porta a porta. Poi, le continue richieste di sconti di pena fatte. Riina richiama il diritto ad una morte dignitosa. Vogliamo rilanciare una riflessione sulla legge 103 del 23 giugno 2017 e sulla Circolare del 2 ottobre della polizia penitenziaria che ammorbidisce il regime detentivo del 41 bis. Chiamato il carcere duro, il 41 bis è stato introdotto nel 1975 per contenere le rivolte negli istituti di pena e dal 1992 applicato anche agli appartenenti a Cosa nostra per isolare i capi e impedire loro di continuare a impartire ordini. “Leoluca Bagarella dal carcere dell’Aquila nel 2002 fece un appello pubblici per ammorbidire il 41 bis” ricorda la Piantadosi. Sistemi audiovisivi accessibili, ma non ai detenuti in regime di 41bis, questo chiede l’associazione Vittime del dovere. L’uso di colori nella corrispondenza e altri dettagli sono strumenti per i detenuti isolati per veicolare messaggi, così l’uso del personal computer, i colloqui senza divisori, la perquisizioni solo con rilevatori elettronici, la simultanea apertura per le visite spirituali e per i Garanti dei detenuti. Com’e accaduto a Torino dove era accompagnato da Sergio Segio. “Papa Francesco ha scomunicato corrotti e mafiosi e prima di lui papa Giovanni Paolo II” questo deve far riflettere. Perché ammorbidire il carcere duro sapendo quante vittime è costato? “L’attenzione agli autori di reato e dal momento in cui non c’è una voce.. noi chiediamo l’istituzione di un osservatorio (associazioni, magistrati, avvocati e coloro che possono rappresentare le esigenze delle vittime : giustizia e certezza della pena per avere giustizia per i servitori dello Stato che hanno dato la vita per la nostra collettività”. Glissa il sottosegretario: “Davvero il lavoro che fate come associazione vittime del dovere è importante e non credete, venite ascoltate - dice Ferri sottolineando che curare l’area trattamentale all’esterno sarebbe più efficace. “La Circolare rende omogenea la esecuzione del 41 bis” parla di piccole aperture garantite oggi ai minori di 12 anni figli di detenuti al 41bis. Di questo parla il sottosegretario, fuorviando tutto il discorso sull’uso dei supporti audio visivi e dell’isolamento nel regime del carcere duro non più garantito dalla recente disciplina. Il tema è la modalità esecutiva del 41bis per il vice ministro. In compenso saranno assunti 2.064 agenti di polizia penitenziaria, entro il 2018, e le piante organiche degli istituti saranno riviste in ragione dell’aumento del loro numero dei detenuti. Al carcere di Alta sicurezza di Sulmona saranno 200 i posti in più dietro le sbarre, 2 centinaia di reclusi in più, ma per il personale, da un decennio sottorganico, non si vedono ancora spiragli. Arresto-Crazia. Il potere del “coro antimafia” di Piero Sansonetti Il Dubbio, 11 novembre 2017 Ieri pomeriggio Cateno De Luca è stato assolto per la quattordicesima volta. Niente concussione, nessun reato. A casa? No, resta agli arresti perché dopo 15 accuse, 15 processi e 15 assoluzioni, martedì scorso era arrivata la 16ima accusa. E ci vorrà ancora un po’ prima che sia assolto di nuovo. Stavolta l’accusa è evasione fiscale. Non sua, della sua azienda. Cateno De Luca è un deputato regionale siciliano. Era stato eletto martedì. Lo hanno ammanettato 24 ore dopo. L’altro ieri sera invece era stato fermato Roberto Spada. Stiamo aspettando la conferma del suo arresto. Lui è in una cella a Regina Coeli. Roberto Spada è quel signore di Ostia che martedì ha colpito con una testata - fratturandogli il naso - un giornalista della Rai che gli stava facendo delle domande che a lui sembravano inopportune e fastidiose. È giusto arrestare Spada? È stato giusto arrestare Cateno De Luca? A favore dell’arresto ci sono i giornalisti, gran parte delle forze politiche, una bella fetta di opinione pubblica. Diciamo: il “Coro”. Più precisamente il celebre “Coro antimafia”. Che ama la retorica più del diritto. Contro l’arresto c’è la legge e la tradizione consolidate. Prendiamo il caso di Spada. La legge dice che è ammesso l’arresto preventivo di una persona solo se il reato per il quale è accusata è punibile con una pena massima superiore ai cinque anni. Spada è accusato di lesioni lievi (perché la prognosi per il giornalista è di 20 giorni) e la pena massima è di un anno e mezzo. Dunque mancano le condizioni per la custodia cautelare. Siccome però il “Coro” la pretende, si sta studiando uno stratagemma per aggirare l’ostacolo. Pare che lo stratagemma sarà quello di dare l’aggravante della modalità mafiosa. E così scopriremo che c’è testata e testata. Ci sono le testate mafiose e le testate semplici. Poi verrà il concorso in testata mafiosa e il concorso esterno in testata mafiosa. Mercoledì invece, dopo l’arresto di Cateno De Luca, non c’erano state grandi discussioni. Tutti - quasi tutti - contenti. Sebbene l’arresto per evasione fiscale sia rarissimo. Ci sono tanti nomi famosi che sono stati accusati in questi anni di evasione fiscale per milioni di euro. Alcuni poi sono stati condannati, alcuni assolti. Da Valentino Rossi, a Tomba, a Pavarotti a Dolce e Gabbana, a Raul Bova e tantissimi altri. Di nessuno però è stato chiesto, ovviamente, l’arresto preventivo. Perché? Perché nessuno di loro era stato eletto deputato e dunque non c’era nessun bisogno di arrestarlo. L’arresto, molto spesso, specie nei casi che più fanno notizia sui giornali, dipende ormai esclusivamente da ragioni politiche. E il povero Cateno ha pagato cara l’elezione. I Pm non hanno resistito alla tentazione di saltare sulla ribalta della politica siciliana. Comunque qui in Italia ogni volta che qualcuno finisce dentro c’è un gran tripudio. L’idea che ormai si sta affermando, a sinistra e a destra, è che l’atto salvifico, in politica, sia l’arresto. Mi pare che più che in democrazia viviamo ormai in una sorta di “Arresto-Crazia”. E che la nuova aristocrazia che governa l’arresto-crazia sia costituita da magistrati e giornalisti. Classe eletta. Casta suprema. Gli altri sono colpevoli in attesa di punizione. Poi magari ci si lamenta un po’ quando arrestano i tuoi. Ma non è niente quel lamento in confronto alla gioia per l’arresto di un avversario. Il centrodestra per esempio un po’ ha protestato per l’arresto pretestuoso di Cateno De Luca. Il giorno prima però aveva chiesto che fosse sospesa una fiction in Rai perché parlava di un sindaco di sinistra raggiunto da avviso di garanzia per favoreggiamento dell’immigrazione. Il garantismo moderno è così. Fuori gli amici ed ergastolo per gli avversari. Del resto la sinistra che aveva difeso il sindaco dei migranti ha battuto le mani per l’arresto di Cateno. L’altro ieri intanto è stato minacciato l’avvocato che difende il ragazzo rom accusato di avere stuprato due ragazzini. L’idea è quella: “se difendi un presunto stupratore sei un mascalzone. Il diritto di difesa è una trovata farabutta. Se uno è uno stupratore è uno stupratore e non serve nessun avvocato e nessunissima prova: condanna, galera, pena certa, buttare la chiave”. Giorni fa, a Pisa, era stato aggredito l’avvocato di una ragazza accusata di omicidio colposo (poi, per fortuna, gli aggressori hanno chiesto scusa). Il clima è questo, nell’opinione pubblica, perché questo clima è stato creato dai politici, che sperano di lucrare qualche voto, e dai giornali che un po’ pensano di lucrare qualche copia, un po’, purtroppo, sono scritti da giornalisti con doti intellettuali non eccezionali. E se provi a dire queste cose ti dicono che sei un complice anche tu, che stai con quelli che evadono le tasse, che stai con quelli che danno le testate. Il fatto che magari stai semplicemente col diritto, anche perché il diritto aiuta i deboli mentre il clima di linciaggio, il forcaiolismo, la ricerca continua di punizione e gogna aiutano solo il potere, beh, questa non è nemmeno presa inconsiderazione come ipotesi. Tempo fa abbiamo pubblicato su questo giornale “La Colonna Infame” di Manzoni. Scritta circa due secoli fa. Due secoli fa? Beh, sembra ieri. P. S. Ho letto che Saviano ha detto che Ostia ormai è come Corleone. Corleone è la capitale della mafia. A Corleone operavano personaggi del calibro di Luciano Liggio, Totò Riina, Bernardo Provenzano. Corleone è stato il punto di partenza almeno di un migliaio di omicidi. Tra le vittime magistrati, poliziotti, leader politici, sindacalisti, avvocati. Paragonare Ostia a Corleone è sintomo o di discreta ignoranza o di poca buonafede. Ed è un po’ opffensivo per le vittime di mafia. P. S. 2. Il giornalista Piervincenzi, quello colpito con la testata da Spada, ha rilasciato una intervista davvero bella. Nella quale tra l’altro, spiega di non essere stato affatto contento nel sapere dell’arresto di Spada. Dice che lui in genere non è contento quando arrestano la gente. Davvero complimenti a Piervincenzi. Io credo che se ci fossero in giro almeno una cinquantina di giornalisti con la sua onestà intellettuale e con la sua sensibilità, il giornalismo italiano sarebbe una cosa sera. Purtroppo non ce ne sono. Corruzione. “Approvate la legge per proteggere chi denuncia il malaffare” di Silvio Buzzanca La Repubblica, 11 novembre 2017 “Riparte il futuro” e “Transparency International” consegnano a Boldrini 66 mila firme per il via libera alla legge sul whistleblower. Il testo ariva martedì in aula per la terza lettura e prevede norme a favore dei dipendenti pubblici e privati che segnalano delle illegalità. “Riparte il futuro” e “Transparency International”, due associazioni che da anni si battono per la trasparenza e contro la corruzione, sono salite a Montecitorio per consegnare alla presidente Laura Boldrini 66 mila firme di cittadini. Chiedono l’approvazione della legge sul whistleblowing. In italiano si potrebbe tradurre letteralmente “soffiare nel fiaschetto”, “lanciare l’allarme”. Un mistero verbale chiarito dal frontespizio della proposta di legge che approda in aula martedì alla Camera per la terza lettura: norme a tutela “degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato”. In maniera più breve e concisa stiamo quindi parlando della figura dell’”informatore” - Boldrini propone di chiamarlo “segnalatore” - di chi trova il coraggio di raccontare quello che avviene nel suo luogo di lavoro. E le norme in discussione dovrebbero proteggere dal licenziamento o dal mobbing proprio tutti coloro che raccontano a un magistrato cose illegali che avvengono in un’azienda o in un ufficio pubblico. Norme che esistevano in parte per la Pubblica amministrazione, adesso migliorate, e che con questa legge vengono estese anche al settore privato. Nella navetta fra Camera e Senato sono state introdotte rispetto al testo originale alcune modifiche. È stato rimosso dalla legge il concetto di “buona fede” del whistleblower, un criterio soggettivo, che avrebbe ampliato la discrezionalità dei magistrati nel momento in cui si arriva a un processo; inoltre toccherà al datore di lavoro dimostrare che il licenziamento o una misura disciplinare è stata assunta per motivi diversi dalla “vendetta” per la denuncia del dipendente; e, cosa più importante, è stato introdotto il reintegro sul posto di lavoro per il whistleblower licenziato dopo la sua denuncia. Il via libera finale al provvedimento dovrebbe arrivare senza problemi, almeno sulla carta. La proposta porta la firma di alcuni deputati grillini, ma ha assorbito altre proposte come quella della presidente della commissione Giustizia della Camera, la dem Donatella Ferranti. Annunciano voto favorevole i Cinque Stelle, il Pd e Mdp, definita dagli oppositori “una strana, maggioranza”. Si oppongono Forza Italia e altri gruppi che si sono fatti portavoce delle proteste del mondo imprenditoriale. Boldrini, dopo l’incontro con “Riparte il futuro” e “Transparency International” ha detto: “Chi si deve vergognare non è chi racconta che una regola è stata violata ma chi la viola. Si dice che fa la spia? No. È denunciare quello che non va nella Pubblica amministrazione e nel privato ed è giusto proteggere queste persone che si espongono con grande coraggio. Sono dei servitori dello Stato che si assumono la responsabilità di denunciare e, giustamente, vanno protetti”. La presidente della Camera si è detta ottimista sull’approvazione della legge. Un tassello di quello che definisce il “pacchetto diritti” che vorrebbe completato “prima della fine della legislatura”: le norme per gli orfani di femminicidio, quelle sull’uso del cognome della madre per i figli, quelle sul testamento biologico, sulla cittadinanza, e contro l’omofobia. Il detenuto può avere colloqui telefonici (anche al cellulare) con i familiari di Angela Pederiva Il Gazzettino, 11 novembre 2017 La Cassazione annulla il rifiuto del Tribunale di Venezia: “le visite in prigione possono affiancarsi ai contatti telefonici”. Un detenuto può avere diritto a chiamare la sua amata, anche se si trova in carcere. Così la Cassazione ha annullato l’ordinanza con cui il Tribunale di Venezia aveva rigettato la richiesta di un 37enne siciliano, di usufruire dei colloqui telefonici con i familiari, magari pure attraverso il cellulare. Ora il giudice delle indagini preliminari dovrà nuovamente riesaminare il caso, alla luce delle puntualizzazioni formulate dalla Suprema Corte. Il 1° dicembre 2016 una banda aveva preso di mira la filiale di Chirignago del Credito Cooperativo di Marcon. I taglierini in pugno e una spinta al cassiere: tanto era bastato per arraffare un bottino di 82.000 euro. Ma poco dopo, grazie alle indagini-lampo della polizia, i delinquenti erano stati sorpresi a spartirsi i soldi in un monolocale di Zelarino, ancora con la colla sulle dita nel vano tentativo di non lasciare impronte. Erano in sei, cioè un’ex guardia giurata veneziana che aveva fatto da basista e cinque trasfertisti che erano arrivati dalla provincia di Catania. Fra loro c’era Orazio Moschetto, ritenuto dall’accusa uno dei due uomini che erano fisicamente entrati nell’istituto a minacciare i dipendenti e rubare il denaro. Una responsabilità che, del resto, l’arrestato aveva subito ammesso. Proprio per questo il suo avvocato aveva chiesto che gli fosse consentito di telefonare alla famiglia, ma lo scorso 11 aprile quella domanda era stata respinta dal gip, “rigetto motivato con la possibilità, da parte dell’istante, di incontrare comunque la compagna e di avere con lei colloqui diretti in carcere”, come hanno riassunto gli “ermellini” nella sentenza. Quel rifiuto è stato cancellato dalla Cassazione, a cui la difesa di Moschetto si era rivolta affermando che “il ricorrente non è persona pericolosa, è reo confesso del reato per il quale è in carcerazione preventiva” e ricordando che “una circolare del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria, ndr) rende possibili, con opportune cautele e limitazioni, anche i colloqui telefonici mediante apparecchiature cellulari”. La stessa procura generale, peraltro, aveva chiesto l’annullamento con rinvio del provvedimento impugnato “giacché immotivato”. Domanda accolta dalla Suprema Corte, secondo cui “i colloqui in carcere integrano una modalità di contatto con i familiari da parte del detenuto distinta, parallela e non esclusiva”. Ascoli Piceno: carcere di Marino Del Tronto, nove in una cella e acqua razionata di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 novembre 2017 La denuncia del Garante dei detenuti delle Marche. Situazione problematica nel carcere di Marino Del Tronto, nelle Marche. A denunciarlo è Andrea Nobili, il garante regionale dei detenuti. Tra le maggiori anomalie riscontrate da Nobili c’è l’affollamento delle celle, la mancanza di un adeguato arredo che vada a soddisfare le esigenze minime di convivenza, il razionamento dell’acqua calda. “Una situazione senza dubbio problematica che necessità di interventi immediati per ripristinare condizioni di normale vivibilità per i detenuti”, commenta Andrea Nobili al termine del sopralluogo presso la casa circondariale di Marino del Tronto, previsto nell’ambito della costante azione di monitoraggio messa in atto dalla stessa Autorità di garanzia. Ha riscontrato un insostenibile affollamento con la conseguenza che in alcune celle di arrivano a ospitare nove detenuti con tre file di brande a castello. “A ciò si aggiunge - evidenzia il Garante - la mancanza di un adeguato arredo in grado di soddisfare le esigenze minime di convivenza, il razionamento dell’acqua calda e l’imposizione della chiusura delle stesse camere, che va ad ostacolare la socializzazione e una reale vivibilità nell’istituto penitenziario”. Aperta nel giugno del 1980 come struttura di massima sicurezza, la casa circondariale, esclusa la sezione del 41bis, ospita circa ottanta detenuti. “Abbiamo riscontrato una situazione preoccupante - spiega Nobili - e le carenze evidenziate non possono essere disconosciute. La nostra azione di monitoraggio viene portata avanti con l’obiettivo di tutelare i diritti fondamentali delle persone ristrette, anche attraverso un confronto diretto con i detenuti stessi e con quanti, ai diversi livelli, operano nel carcere. Gli aspetti strutturali ed organizzativi sono rilevanti nell’ambito del complesso meccanismo di verifica e monitoraggio”. Il Garante ha disposto l’invio di un’informativa da far pervenire al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e al provveditorato, riservandosi di intervenire anche presso il Ministero di Giustizia, invitando all’adozione degli opportuni interventi nei tempi più rapidi possibili. Il carcere salì agli onori della cronaca per un omicidio. Parliamo di Achille Mestichelli, 53enne ascolano deceduto il 18 febbraio 2015 all’ospedale di Torrette di Ancona a seguito delle ferite riportate in una lite con un tunisino, suo compagno di cella. A febbraio scorso, il Gup di Ascoli Anna Maria Teresa Gregori ha condannato quest’ultimo a sedici anni di reclusione. Ma nello stesso tempo ha messo nel mirino anche il personale del carcere di Marino del Tronto chiedendo verifiche ulteriori circa dei presunti maltrattamenti da parte di alcuni agenti penitenziari. Il carcere in provincia di Ascoli aveva ospitato al 41 bis anche Giuseppe Graviano, il boss mafioso di Brancaccio. Fu lì dove è stato intercettato mentre parlava durante l’ora d’aria con un altro detenuto, Umberto Adinolfi. Poi è stato trasferito in un altro carcere dopo che gli agenti hanno rinvenuto una lama ricavata da una lattina di coca cola e con un manico realizzato con il nastro isolante. Però Graviano avrebbe detto agli agenti che il coltello non era il suo. Bologna: clan e droga dentro il carcere della Dozza di Gianluca Rotondi Corriere della Sera, 11 novembre 2017 La cosca di ‘ndrangheta spadroneggiava anche alla Dozza dove ordinava pestaggi, stabiliva gerarchie e regole. E si serviva dei Casalesi per lanciare avvertimenti. Una parola fuori posto e scattava la spedizione, come accaduto a un detenuto pestato per una risposta sgradita a Gianluigi Sarcone, ritenuto ai vertici del clan Grande Aracri. Lui e Sergio Bolognino, altro presunto esponente del clan, sono stati raggiunti da un’ordinanza per violenza privata aggravata dal metodo mafioso. Accuse che condividono con due napoletani ritenuti affiliati alla camorra. L’inchiesta della Dda e del Ros ha portato alla luce presunti illeciti di due agenti, ai domiciliari per spaccio, altri due indagati. “Entravano telefonini e tablet”. Uno sgarro si lava col sangue, in carcere come nel proprio territorio di riferimento. Basta una minima mancanza di rispetto per scatenare la furia del boss. La legge del clan vale perfino dietro le sbarre, un’appendice dove replicare gerarchie criminali e rapporti di forza. A Gianluigi Sarcone, fratello di Nicolino, presunto capobastone della cosca Grande Aracri, il rispetto si doveva solo per la caratura criminale e il cognome che porta. Lo sapevano bene i detenuti napoletani affiliati ai Casalesi con i quali per alcuni mesi del 2015, dopo la retata di Amelia, Sarcone e Sergio Bolognino, fratello di Michele, altro presunto vertice della cosca sotto processo come Sarcone per associazione mafiosa a Reggio Emilia, hanno condiviso la detenzione alla Dozza. I napoletani portavano a Sarcone il rispetto che si deve a un capo riconosciuto di ‘ndrangheta. Una questione di gerarchie e supremazia. Per questo quando uno “spesino”, un detenuto campano addetto alla distribuzione dei viveri, ha osato rispondere male al cutrese, è partita la spedizione punitiva. Un pestaggio in una cella della sezione alta sicurezza ordinato per l’accusa da Sarcone e Bolognino ed eseguito da due detenuti legati alla camorra, Mario Temperato e Enrico Palummo, zio e nipote, in carcere per estorsioni aggravate dal metodo mafioso nei confronti di un operaio e di un medico. “Dovevano dargli una lezione, hanno mandato uno a fare da palo. Io ero poco lontano, sono entrati in cella e hanno picchiato il ragazzo - ha messo a verbale davanti alla Dda il collaboratore Giuseppe Giglio. Del resto Sarcone era considerato dai detenuti calabresi, ma anche napoletani, il punto di riferimento in carcere per la sua autorità criminale e non solo perché fratello del boss Nicolino”. Un monito per assoggettare e intimorire chi non era allineato. E, infatti, il detenuto pestato si è ben guardato dal denunciare i fatti: “Sono caduto”, si è limitato a dire in infermeria. Sono state le dichiarazioni del primo pentito di Aemilia il motore del nuovo filone d’inchiesta “Reticolo” sulla cosca egemone in Emilia, che ieri ha portato all’ordinanza di custodia cautelare per 7 persone: 4 in carcere, 3 ai domiciliari. Il provvedimento ha raggiunto Sarcone e Bolognino in carcere a Reggio Emilia, mentre Palummo e Maiorano sono stati fermati in Campania dove erano in sorveglianza speciale. I pm antimafia Marco Mescolini e Beatrice Ronchi, che hanno coordinato le indagini del Ros dei carabinieri trovando riscontri alle dichiarazioni di Giglio, accusano i primi due di essere mandanti del pestaggio eseguito dai napoletani. Rispondono tutti di violenza privata e lesioni aggravate dal metodo mafioso. Alla Dozza c’erano le regole ma erano quelle del clan. Ne sa qualcosa un detenuto cutrese ripreso dai napoletani per aver fatto la doccia nudo. Una circostanza puntualmente riferita a Sarcone affinché provvedesse. Alla Dozza, si passava da lui perfino per decidere il lavorante di sezione. Gerarchie che si manifestavano anche durante i pasti con Sarcone che sedeva sempre a capotavola. Partendo dalle rivelazioni di Giglio, che ha parlato del coinvolgimento di guardie penitenziarie attraverso le quali i Casalesi beneficiavano di favori (telefoni, alcol e droga), l’inchiesta ha illuminato presunte condotte illecite di 4 agenti. Due, Fabrizio Lazzari e Loris Maiorano, sono finiti ai domiciliari per detenzione ai fini di spaccio, altri due sono indagati. Droga che per l’accusa veniva smerciata fuori ma veniva anche fatta entrare in carcere. A Lazzari i pm contestavano pure l’omessa denuncia del pestaggio con l’aggravante di aver agevolato il clan, ma il gip non l’ha riconosciuta. Ai domiciliari per spaccio è finito anche Abderrazak Lachad, in contatto con gli agenti, e un altro marocchino ha avuto il divieto di dimora. Ci sono altri cinque indagati per reati di droga. Per il giudice Alberto Ziroldi le condotte di Sarcone, Bolognino e dei napoletani “s’inquadrano in un disegno quotidiano di rafforzamento della propria capacità e direzioni criminali e quindi come espressione della esistenza e forza dell’associazione di stampo mafioso, anche in ambito carcerario, luogo elettivo per la difesa e affermazione sia nei confronti di altre organizzazioni dell’associazione di appartenenza, sia nei riguardi di chiunque intenda disconoscerne la supremazia”. Tra napoletani e calabresi c’erano rapporti tutt’altro che conflittuali, tanto che un camorrista chiese a un cutrese per la cresima del figlio un rito dal forte valore simbolico nella grammatica ‘ndranghetista. Il Garante dei detenuti: “gravissimo, presto vedrò i vertici” Oltre alla droga, anche i cellulari sarebbero stati forniti ai detenuti della sezione di alta sicurezza dagli agenti della penitenziaria. Un sistema, dunque, che sembra far acqua da più parti. “Il quadro che si sta prospettando è molto grave - commenta il garante per i detenuti di Bologna, Antonio Ianniello. Se tutto sarà confermato vuole dire che sono saltate le condizioni di sicurezza e questo all’interno di un carcere non è ammissibile, a maggior ragione nella sezione di alta sicurezza dove c’è un regime differente perché chi è recluso appartiene a organizzazioni criminali mafiose e camorristiche”. Non è ancora chiaro se nei prossimi giorni ci sarà un’ispezione da parte del ministero, intanto “occorre fare subito chiarezza, incontreremo presto la direzione per decidere come agire. Si tratta di singoli e di singole condotte ma è desolante, mettono a repentaglio il lavoro fatto ogni giorno da persone che lavorano con rispetto”. Ma fino a qui non c’è stato mai alcun sospetto? “Il clima di violenza e intimidazione all’interno della sezione di alta sicurezza non è mai emerso. Ho ricevuto dai detenuti più richieste di incontri e colloqui ma le questioni affrontate erano di tutt’altra natura”, conclude Ianniello. Non si sbilancia, invece, la direttrice della Dozza, Claudia Clementi: “Quello che sta emergendo è ciò che un direttore e un comandante della penitenziaria non vorrebbero mai accadesse. Bisognerà attendere gli sviluppi dell’indagine, ma ci tengo a precisare che i protagonisti di questa vicenda sono due uomini della penitenziaria a fronte di 390 che invece ogni giorno lavorano nel rispetto delle leggi”. “Da quando abbiamo saputo degli arresti siamo sconcertati e amareggiati”, prosegue la direttrice. Intanto dalla direzione della Dozza sono partite tutte le relazioni del caso al dipartimento amministrazione della penitenziaria e al ministero della Giustizia. “Rovinano il lavoro di tanti agenti” Due agenti ai domiciliari per spaccio, altri due indagati. Ai detenuti bastava chiedere per avere telefoni e favori. Le celle della Dozza come un colabrodo, con regole e controlli aggirati e la sicurezza ridotta a simulacro. Una sorta di zona franca dove ai detenuti napoletani affiliati ai Casalesi bastava chiedere per ottenere dai presunti “secondini” infedeli benefici di ogni tipo: alcol, droga, cellulari, tablet e perfino diritti penitenziari, ovvero corsie preferenziali. Uno scenario desolante emerso durante le indagini della Dda che hanno illuminato in particolare le condotte di due agenti, Fabrizio Lazzari, 45 anni, e Loris Maiorano, 28, finiti ai domiciliari per spaccio. Altri due “secondini” sono invece indagati. Ma è il quadro d’insieme descritto dal collaboratore di giustizia Giuseppe Giglio a restituire un’immagine devastante del penitenziario, per lo meno nel periodo d’indagine (inizio del 2015). “I telefoni in carcere li forniscono le guardie, ne sono coinvolte diverse. Bastava chiedere ai napoletani che stavano già facendo entrare droga. Costava 500 euro con 50 di ricarica. Ad esempio avevano una bottiglia di grappa che la facevano entrare queste guardie e pure i telefoni. Ma qualsiasi cosa, un tablet, loro l’avrebbero fatto entrare o uscire...perché le guardie, tra l’altro, sono quasi tutte napoletane, sono paesani dei detenuti. Ah ma se lì avesse messo delle intercettazioni ne avrebbe sentito delle belle!”, mette a verbale Giglio, detenuto alla Dozza dal febbraio 2015, davanti alla pm Beatrice Ronchi. Secondo l’accusa Lazzari gestiva una rete personale spaccio che nel tempo si era ampliata a dismisura. L’assistente capo era inoltre in contatto con alcuni detenuti reclusi nella sezione dove prestava servizio e con le loro conviventi o mogli che incontrava fuori: “Incontri che sono da ricollegare con estrema probabilità - scrive il gip - alla ricezione di denaro, schede o apparecchi telefonici da consegnare illegalmente ai detenuti”. Ma il passaggio di denaro non è stato provato né contestato. Nei confronti di Lazzari e Maiorano gli inquirenti ritengono però di aver documentato attraverso intercettazioni (in cui parlano di magliette e pizze) e pedinamenti una lunga serie di cessioni di marijuana e cocaina. All’inizio quantitativi modesti, poi sempre più ingenti. In una telefonata Lazzari parla “di un chilo e mezzo (verosimilmente cocaina)a 23mila euro”. Lazzari, ragiona il gip, “è pronto a eseguire bassi servigi in favore di alcuni detenuti, consentendo l’introduzione in carcere di sostanza stupefacente”. Maiorano, che ha precedenti di polizia per maltrattamenti alla compagna e invasione di terreni ed edifici in occasione di un rave, viene tradito da un lungo sms della compagna. Il giudice è durissimo e parla di “quadro preoccupante e desolante fondato sul completo abbandono di ogni regola deontologica”. Lazzari “assimilando le regole della devianza sociale, non esita a circondare le proprie azioni dalle più ampie cautele (suggerendo di guardarsi dagli sbirri, suoi colleghi) in un vorticoso giro di acquisti e cessione di stupefacente, attività che scandiscono i ritmi della giornata non lavorativa”. Spoleto (Pg): riabilitare i detenuti tramite la formazione umbriadomani.it, 11 novembre 2017 L’accordo che verrà siglato a dicembre inserisce il carcere di Maiano in un progetto nazionale che coinvolge scuole integrandole con attività di laboratorio. Il progetto per la riabilitazione dei detenuti del carceri di Spoleto attraverso la strumento della formazione sta per prendere corpo. Il prossimo dicembre verrà firmato l’accordo con cui si dà inizio al primo dei “Poli inter-istituzionali come centri di innovazione e monitoraggio delle azioni programmate a livello nazionale”, previsti dal protocollo d’intesa sottoscritto tra il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e il ministero della Giustizia, diventerà operativo. Il carcere di Maiano è stato inserito in un progetto nazionale che vede protagonista una serie di strutture tra cui le case circondariali, gli istituti penali per minorenni, le aree penali esterne, gli istituti scolastici di secondo grado. Va anche riconosciuto che il carcere umbro, già considerato un fiore all’occhiello a livello nazionale, offre un’ampia offerta didattica per i detenuti, e questo ulteriore iniziativa rappresenterà un modo in più per tutelare le pari opportunità di tutta la popolazione carceraria, a partire dal diritto di un percorso scolastico adeguato alle capacità effettive di ognuno. Le varie istituzioni che sono entrate a far parte del progetto potranno così lavorare insieme integrando le rispettive attività in modo efficace. Tra queste vanno menzionate la casa circondariale di Maiano, il Cesp (Centro studi scuola pubblica), la Rocca Albomoziana, l’Ambito scolastico territoriale, il Comune di Spoleto, il Cpia di Perugia e i plessi scolastici spoletini dell’Iis “Sansi-Leonardi-Volta” e l’Alberghiero “De Carolis”. Sicuramente l’insieme così variegata di queste strutture potrà contribuire in modo significativo alla riabilitazione del detenuto. Tra i vari obiettivi del protocollo spicca anche quello di “sviluppare l’offerta formativa della scuola fornendo strumenti per la condivisione delle buone pratiche sia del primo che del secondo livello di istruzione e ancora, costruire una rete scolastica del ciclo detentivo integrando la progettazione di laboratori, implementare gli interventi di mediazione linguistica e favorire l’analisi e la coscienza dei bisogni presenti nelle istituzioni penitenziarie del territorio”. Larino (Cb): i detenuti-studenti vincono Premio nazionale di Giornalismo scolastico primonumero.it, 11 novembre 2017 I detenuti studenti della sede carceraria dell’Alberghiero hanno vinto il premio nazionale di Giornalismo Scolastico - Targa d’Argento del Presidente della Repubblica - “Alboscuole” grazie a “Stile libero”, il numero zero del giornale nato in carcere nel corso dello scorso anno scolastico. Con le loro poesie, le ricette imparate nelle cucine durante le lezioni come studenti dell’Alberghiero Federico di Svevia, e poi i racconti e le interviste fatte agli studenti universitari, hanno ottenuto il riconoscimento che sarà consegnato ad aprile durante la cerimonia a Chianciano Terme. Larino. Era nato come un esperimento, il numero zero del loro giornale. Una prova fatta di racconti, storie, interviste e ricette. Un modo diverso per raccontare la quotidianità fatta ogni giorno degli stessi gesti, degli stessi occhi che si incrociano tra detenuti, docenti, personale e guardie penitenziarie. Le stesse facce che vedono da settimane, mesi, qualcuno anni e che continueranno ancora a incontrare nelle loro giornate chiuse tra le alte pareti del carcere di Larino e nelle sale che quotidianamente frequentano. Ma quella prova loro l’hanno affrontata, superata e vinta. Quelle mura sono diventate la loro casa, quei compagni di classe e di cella sono un po’ la loro famiglia, come quei poliziotti che ogni giorno li controllano. Ma proprio in quella monotonia di gesti e di sguardi, di incontri e di luoghi hanno trovato una sfida nuova che hanno afferrato al volo. Letteralmente e con un entusiasmo che li ha catapultati subito nelle vesti di giornalisti. Niente politica e niente attualità però nei loro pezzi, nessuna notizia arrivata da fuori; solo la loro vita, le loro esperienze e le loro giornate che si snocciolano all’interno dell’istituto di pena in contrada Monte Arcano. Lì, tra le mura alte diversi metri che abbracciano le varie strutture, dove quello che accade dall’altra parte è solo frutto della loro immaginazione, hanno creato “Stile libero”, un giornale in cui le regole non esistono - se non quelle classiche di chi racconta la vita tutti i giorni - e non ci sono limiti, ma solo libertà di esprimersi. Spazio alla loro volontà di raccontare, descrivere, parlare con qualsiasi cosa: una poesia, un racconto, una storia. E poi con le ricette, loro che sono studenti iscritti a tutti gli effetti all’istituto Alberghiero Federico di Svevia che frequentano nella sede carceraria ogni giorno. Giusto il tempo di proporla, dalla docente e referente del progetto Chiara Maraviglia, a lungo giornalista di Primonumero.it, in una giornata di scuola. In poco tempo è nato il giornale: dieci pagine create da una ventina di studenti che si sono cimentati in qualsiasi sfida giornalistica: intervistare i loro colleghi universitari, raccontare loro stessi, le ore dentro il carcere, provare a disegnare e a descrivere con i colori e le forme quello che sentono e che provano, parlare dei laboratori, far emergere il loro punto di vista su libri, filosofia e sul valore della scuola. Hanno anche incontrato i giornalisti di Primonumero e con loro hanno scoperto le regole fondamentali, hanno compreso l’importanza della comunicazione e scoperto le tecniche della scrittura giornalistica. Perché anche se all’interno del carcere, lontani dalla quotidianità che velocemente scorre ogni giorno e appare su telegiornali e sui social, continuano a vivere, a fantasticare e anche a raccontarsi. Si sono appassionati, si sono impegnati, sono andati ben oltre ciò che li ha portati lì dentro, hanno potuto esprimersi al meglio, come volevano. Qualcuno, venuto da lontano, si è anche messo alla prova con l’italiano, sfidando le regole di una grammatica e di una lingua conosciuta da poco. E la loro sfida l’hanno vinta. Sono riusciti a raccontarsi da dentro, non hanno avuto bisogno di essere aggiornati in tempo reale su cosa fosse in prima linea su Twitter o quali fossero i post più commentati e postati su Facebook, su quali fossero le ultime mosse di Trump e le ultime novità dall’Italia. Hanno saputo trasformare la loro quotidianità in una notizia, interessante e ben costruita all’interno di un giornale semplice e chiaro. Tanto da aggiudicarsi il premio nazionale “Giornalista per un giorno 2018” nella quindicesima edizione del concorso promosso dall’Associazione Nazionale Giornalismo Scolastico - Targa d’Argento del Presidente della Repubblica - “Alboscuole”. “Stile libero” ha sbaragliato la concorrenza, superato brillantemente gli avversari e si è meritato anche le parole di apprezzamento del presidente dell’Associazione Nazionale di Giornalismo Scolastico Ettore Cristiani nella lettera con cui ha comunicato alla scuola la vittoria, mentre la commissione era presieduta dal vice direttore del Tg1 Rai e direttore della scuola di giornalismo di Salerno Gennaro Sangiuliano. E ora, quella vittoria condivisa qualche giorno fa in classe dalla docente, ha ottenuto non solo un applauso degli stessi detenuti per il loro lavoro, ma la voglia di ripartire e rimettersi nuovamente alla prova e in gioco. Riprendere carta e penna e iniziare a lavorare al primo numero del loro giornale, pronti per pubblicarlo a Natale. Prato: oggi il convegno “Carcere e lavoro, opportunità per le imprese” di Patrizia Scotto stamptoscana.it, 11 novembre 2017 Convegno nella Sala Consiliare della Provincia di Prato, oggi sabato 11 novembre, organizzato dal gruppo Lista Civica Biffoni, Gruppo Consiliare Pd, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, in collaborazione con Meccanica System e Kiwanis International Club di Prato, che in collaborazione con il Comune di Prato, si è è occupato e si occupa, coinvolgendo le Istituzioni ed altri Organismi presenti sul territorio, di delicate tematiche sociali e in collaborazione con le associazioni di volontariato presenti sul territorio nel settore della ricerca sanitaria e dei disagi sociali. Titolo dell’incontro è “Carcere e lavoro. Opportunità per le imprese”, moderato da Rosanna Sciumbata, presidente del gruppo consiliare Lista Biffoni per Prato e da Ione Toccafondi Garante dei Diritti delle persone private e delle libertà personale. Si parlerà del lavoro in carcere come di una “finestra” sul mondo, perché uno degli scopi del convegno è dimostrare che è importante dare una professione a queste persone in modo che una volta “fuori” possano passare dalle attività della cooperativa all’interno del carcere a quelle esterne. Questo perché il carcere non può essere un luogo in cui i detenuti scontano la pena senza impegnarsi in qualcosa, anzi in base alla legge n. 193/2000, meglio nota come legge Smuraglia che si occupa delle attività industriali e produttive, si prevede l’affidamento a soggetti esterni, soprattutto cooperative sociali, di attività produttive, da attivare in laboratori che la stessa cooperativa si impegna ad allestire. In questo modo, cambia l’identità del detenuto: da detenuto lavorante in lavoratore detenuto. Un individuo che può apprendere quelle competenze professionali, che in un prossimo futuro potranno servirgli al momento della dimissione per un reinserimento nella società. I dati in questo senso sono confortanti e ci dicono che l’indice di recidiva è pari al 75% per i soggetti dimessi che abbiano espiato per intero la condanna, mentre si riduce al 25% per coloro che abbiano godute di misure alternative, quindi abbiano svolto lavoro all’esterno o in semilibertà. “Direi che un paese si misura anche dalla capacità di reinserimento”, così il Vicesindaco Simone Faggi,-”di chi ha commesso una colpa grave. Non solo per un motivo di giustizia morale ma anche e soprattutto per evitare il ripetersi di condotte criminali e quindi per il bene della comunità. Legame lavoro carcere può essere la via maestra per percorsi di reinserimento sociale.” In apertura previsti i saluti del Sindaco di Prato Matteo Biffoni e a seguire gli interventi del vicesindaco Simone Faggi, di Italo Minguzzi, avvocato e professore di diritto commerciale presso la Facoltà di Giurisprudenza di Bologna, del vice presidente della Camera penale di Prato e avvocato penalista Gabriele Terranova, Rossella Favero presidente della Cooperativa sociale “Altracittà” di Padova, che qualche tempo fa “ad oggi sono numerosi i detenuti che abbiamo formato avvalendoci della consulenza di archivisti professionisti: alcuni dei reclusi, o degli ex ristretti, hanno trovato un’occupazione continuativa sul territorio, come aiuto bibliotecari e addetti alla sistemazione e riordino di archivi comunali nella provincia padovana”, e poi Stefano Carnoli socio cooperativa “Altracittà” di Padova e Maria Luisa Giovannone consulente del lavoro. Pescara: il Comitato Cri presenta il corso di alfabetizzazione informatica per i detenuti cri.it, 11 novembre 2017 Si è tenuta l’8 novembre, a Pescara, la conferenza di presentazione del corso di alfabetizzazione informatica riservata ai detenuti, promosso e finanziato dal Comitato della Croce Rossa pescarese. “Qualche mese fa ci eravamo lasciati con l’impegno che, entro breve tempo, saremmo partiti con un corso di informatica dedicato ai collaboratori di giustizia. Questo momento, ora, è arrivato”. Fabio Nieddu, Presidente del Comitato della Croce Rossa di Pescara, riassume in queste brevi parole il senso di quello che è un percorso iniziato, ormai, da tanti anni. Era infatti il 2010 quando la Croce Rossa di Pescara ha stipulato un protocollo di intesa con la casa circondariale locale, in maniera tale che i volontari che lavorano all’interno del carcere avessero una precisa identità. Ora, a distanza di anni, in questo percorso ormai consolidato e che ha visto realizzarsi numerose iniziative quali, ad esempio, momenti di svago come le consuete tombolate, attività di formazione con corsi di inglese, supporto sociale, parte un corso di alfabetizzazione informatica riservato ai collaboratori di giustizia promosso e finanziato, interamente, dal nostro comitato di Croce Rossa. “Il detenuto, una volta scontata la pena, deve essere considerato dalla comunità come una risorsa per il tessuto sociale e avere una base formativa sulla quale sviluppare la propria identità” prosegue Nieddu. “Per fare ciò, in questa prima fase, attraverso la docenza di Maurizio Corazzini, forniremo ai partecipanti le nozioni basilari d’informatica. Per il 2018, invece, stiamo lavorando per ritagliare uno specifico finanziamento per proseguire con un corso avanzato”. Quasi 56 mila persone ristrette in carcere per la commissione di circa 140 mila reati, a fronte di una capienza di circa 50 mila posti: questi sono i numeri della situazione carceraria nel 2016 in Italia, così come fotografata dall’Istat che, recentemente, ha pubblicato tutti i dati. “È questo lo scenario che ci spinge, sempre più, a dedicarci a questo mondo e a queste persone, perché è bene rammentare che il detenuto merita il rispetto e la dignità che regaliamo ad ogni singola persona”, commenta Fabio Nieddu. “L’aver commesso un reato -conclude il Presidente- comporta il giusto obbligo di scontare una pena ma questa non può consistere nella perdita della dignità e nell’emarginazione sociale”. Ecco che, allora, il reinserimento diventa fondamentale e, per farlo, è necessario preparare la persona a questo rientro. All’interno del Comitato Cri di Pescara si è consolidata, ormai da anni, l’attività svolta dai volontari nell’ambito del “Progetto Carcere” e che ha comportato una formazione peculiare con corsi di aggiornamento specifici proprio in virtù della particolarità di questo servizio. Il loro, infatti, è un cammino formativo che li rende idonei ad affrontare questa missione così delicata, in costante collaborazione con la Direzione e con l’Area Trattamentale del carcere di Pescara. “Questo corso è molto importante - sottolinea il dott. Franco Pettinelli, direttore della Casa circondariale di Pescara - perché senza uno specifico percorso formativo, non è possibile nessun reinserimento sociale. Devo ringraziare la Croce Rossa per il forte supporto per attuare questo processo di recupero e di reinserimento sociale. È evidente, nei volontari, la forte motivazione a lavorare e a collaborare per questa finalità che non è facile, soprattutto perché ci si trova di fronte a una particolare tipologia di persone che richiede l’intervento da parte di personale formato e, credo, che quello della Croce Rossa sia uno degli esempi migliori che abbiamo”. Conclude la conferenza stampa il Presidente Nieddu, sottolineando ancora una volta come “il carcere non debba essere considerato come un contenitore di persone ma deve essere, a tutti gli effetti, una struttura dove queste persone oltre ad espiare la propria pena, vengono aiutate ad essere reinserite all’interno della comunità”. Reggio Calabria: figli di ‘ndrangheta, l’incontro promosso dall’Agape ildispaccio.it, 11 novembre 2017 “Un futuro diverso è possibile”. Il riconoscimento del Csm alla sperimentazione avviata da alcuni anni a Reggio Calabria dal Tribunale per i Minorenni, che ha permesso a circa 40 minori appartenenti a famiglie di ndrangheta di potere fare un’esperienza di vita alternativa, era il segnale che si attendeva per rendere questa metodologia d’intervento strutturale ed organica. Un bilancio di questa esperienza è stato tracciato nell’incontro promosso dal Centro Comunitario Agape di Reggio Calabria, associazione fondata da Don Italo Calabrò che da anni opera per la tutela e l’accoglienza dei minori in condizioni di disagio sociale e dalla Camera Minorile composta da un gruppo di avvocati che stanno collaborano con il Tribunale per i Minorenni svolgendo il ruolo di tutori o curatori per minori i cui genitori appartenenti a clan hanno avuto la revoca o la limitazione della patria potestà. L’intervento del procuratore delle repubblica c/o il Tribunale dei Minorenni di Reggio Giuseppina Latella, protagonista assieme al Presidente Roberto di Bella di questa sperimentazione, ha offerto una panoramica chiara sul lavoro svolto che ha evidenziato come su questi temi molti sono intervenuti in maniera superficiale, denunciando presunte “deportazioni” ed interventi a tappeto sulle famiglie mafiose senza conoscere le procedure e le motivazioni che hanno portato alla scelta dell’allontanamento dei minori dal loro nucleo familiare. Una strada invece imboccata non in modo automatico, per la solo appartenenza ad un clan, ma solo di fronte a condotte gravi e documentate (ad esempio per mezzo di intercettazioni e rapporti delle forze dell’ordine) pregiudizievoli della crescita del minore e nel suo interesse. Una metodologia rigorosa che viene preceduta dall’ascolto dei genitori e dei minori da operatori specializzati, con la garanzia di un accompagnamento psicologico e sociale ed anche della continuità delle relazioni con i genitori anche quelli che vivono la detenzione. Spesso emerge in questa fase soprattutto da parte delle madri il consenso al progetto di recupero, ma anche qualche genitore condannato con il 416 bis ha ringraziato il Tribunale per l’intervento avviato. L’indicatore più importante della validità di questa procedura è la ritrovata serenità psicologica ed affettiva di minori che per anni hanno vissuto il dramma delle continue perquisizioni, degli arresti, della interruzione traumatica dei rapporti affettivi. Di grande valenza per i più piccoli è l’esperienza di accoglienza vissuta in famiglie affidatarie che non hanno avuto remore ad aprirsi a questa povertà educativa. Il Magistrato ha lanciato l’appello per un maggiore coinvolgimento degli Enti Locali e dell’associazionismo per allargare la rete di soggetti che possano garantire anche dopo in conseguimento della maggiore età la continuazione del progetto pedagogico di accompagnamento. Gli avvocati Giuseppe Marino e Pasquale Cananei della Camera Minorile, partendo dalle loro esperienze di curatori, hanno indicato tra le criticità da affrontare la carenza di operatori specializzati su questi temi, la mancanza di coordinamento tra i servizi, la necessità di ridurre al minimo gli allontanamenti in regioni del centro nord privilegiando le soluzioni in ambito locale e regionale. Dall’esperienza fatta emerge ancora l’importanza del ruolo delle donne che rappresentano la carta decisiva da giocare per aumentare il numero dei minori da coinvolgere ed avviare una vera e propria rivoluzione delle coscienze. Per Enrico Inter donato psicologo di Addio Pizzo di Messina e per la pedagogista Carmela Fotia della coop Don Italo Calabrò, che hanno seguito diverse situazioni di minori, la sperimentazione ora deve fare uno scatto in avanti, non si può continuare a basarsi solo sul volontariato ma servono scelte ed investimenti di risorse da parte del Governo e della Regione Calabria che privilegino le risorse che sono presenti nel territorio. Un servizio di monitoraggio della sperimentazione e di avvio di attività formative per preparare operatori specializzati è stato offerto dal prof. Carzo del dipartimento di Sociologia dell’università di Messina. Concludendo i lavori il presidente del centro Comunitario Agape ha ribadito che serve un cambio di impostazione da parte del parlamento e del Governo nel contrasto alle mafie che finora si è espresso unicamente con la repressione dei reati pur necessaria senza capire l’importanza degli investimenti in educazione ed in politiche sociali. Ha proposto come provocazione che nelle periferie e nei paesi ad alta densità mafiosa accanto ad ogni caserma dei carabinieri sorga un centro di aggregazione giovanile, che gli stessi soldi che vengono spesi per forze dell’ordine e Magistratura si utilizzino per assumere assistenti sociali, educatori, per una scuola a tempio pieno, per attivare spazi per fare sport e per vivere un tempo libero che non riempito da spaccio, furti, vandalismo. Per questi motivi la legge che il Csm ha chiesto al Parlamento dopo l’esperimento di Reggio Calabria deve anche su queste urgenze deve dare risposte. Quei giovani che uccidono per gioco, sfida o noia di Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 11 novembre 2017 Il pm al processo di Tortona: segnale di un nulla profondo. Il presidente della Corte che giudicò i ragazzi veronesi di Bussolengo: “Tiravano sassi per non sentirsi inferiori rispetto agli altri del gruppo”. La sorella di Maria Letizia: “La sua morte non è servita a nulla”. Non c’è un guadagno, non c’è odio, non c’è rabbia né vendetta. C’è solo il brivido del gioco, del tiro al bersaglio, di una follia da roulette russa. “Per riempire un’esistenza vuota”, vibrano ancora le parole dei giudici della Corte d’Assise di Alessandria che condannarono a più di 18 anni i fratelli Paolo, Sandro e Franco Furlan e il loro cugino Paolo Bertocco in quello che per l’Italia è il processo monstre dei lanciatori di sassi. “Il segnale di un nulla profondo che atterrisce”, concluse il pm Maurizio Laudi. Era il 27 dicembre del 1996 quando Maria Letizia Berdini, giovane sposa di Civitanova Marche, fu uccisa da un masso lanciato dal cavalcavia della Cavallosa mentre viaggiava con suo marito sull’autostrada Torino-Piacenza. “Vent’anni non sono serviti a nulla, come non è servita a nulla la morte di Letizia”, dice oggi sconsolata la sorella Maria Rosa che ricorda come “la cosa che più mi fa male è sapere che i colpevoli sono tutti fuori. Servono pene più severe per gli assassini”. Com’erano, come sono - Erano giovani fra i 18 e i 25 anni, un muratore, un musicista, lavoretti saltuari e “serate fatte di nulla, riempite da un gioco criminale prima di cena”, precisa il pm Laudi parlando di loro. “Bingo!”, esultavano dal cavalcavia quando il bersaglio veniva centrato. Oggi sono padri di famiglia e di quel tempo non vogliono più dire alcunché. “Hanno scelto tutti la via del silenzio e dell’oblio”, spiega l’avvocata Patrizia Tuis, che all’epoca difendeva l’unico fratello assolto, Gabriele, il grande accusatore. Usciti dal carcere nel 2009, si sono riappacificati, decidendo di cancellare dalle loro menti i tragici fatti della Cavallosa. Da allora, sono state centinaia le vittime dei lanciatori. La maggior parte feriti, in nove casi decessi. A dire il vero la contabilità nera parte dal 1986, quando venne colpita la piccola Maria Jlenia Landriani, due mesi e mezzo di vita, mentre dormiva in braccio alla mamma. L’Osservatorio di Asaps, il portale della sicurezza stradale, solo nel 2017 ha registrato 63 episodi di lanci di sassi contro veicoli: sette avvenuti sulla rete autostradale o raccordi, 56 sulle statali e altre strade. Le cronache parlano di lapidatori da strada, di sabotaggio della libera circolazione, di attentato alla sicurezza dei trasporti. Il profilo - Le varie sentenze tracciano in qualche modo il profilo del lanciatore. Giovane, giovanissimo, quasi sempre in compagnia, spesso annoiato. L’arma è il braccio, le pallottole sono sassi, massi, cartelli stradali, palle da bowling, addirittura gatti. “Erano tutti di una bassa fascia sociale e culturale, ragazzi poveri di strumenti culturali”, ricorda Tuis. “Tiravano sassi per non sentirsi inferiori rispetto agli altri del gruppo”, disse il presidente della Corte d’Assise Mario Sannite che giudicò i ragazzi veronesi di Bussolengo, responsabili dei fatti del 29 dicembre 1993. Quella notte, dopo aver colpito il furgone di un camionista di Cuneo e l’auto di tre amici di Pisa, decisero di esagerare lanciando un masso di 14 chili su una Renault che passava lì sotto. La sfondarono e Monica Zanotti morì accanto al suo fidanzato. “Sentivo che ridevano”, dirà un camionista che tentò invano di rianimare la giovane vittima. Erano tutti ventenni e avevano un capo. “Pavidi”, urlava agli altri, come testimonieranno i complici a processo. I dossier ignoti - Ma fu la tragedia di Maria Letizia a imprimere al fenomeno un’accelerazione. Il clamore suscitato dalla vicenda dei giovani di Tortona provocò una psicosi collettiva fra gli automobilisti, alimentata da una moltiplicazione di episodi criminali. Nei mesi successivi furono centinaia le auto danneggiate dagli emuli della Cavallosa. Fortunatamente furono solo feriti. Almeno fino al 2002, quando il sangue tornò a scorrere e successe al Sud. Una quarantottenne di Afragola, Rosa Miscioscia, venne colpita da un oggetto metallico caduto da un cavalcavia lungo l’autostrada Roma-Napoli e non si rialzò più. Tre anni dopo, sempre sull’A1, nei pressi di Cassino, un macigno di 40 chili costerà la vita a Natale Giuffré. Per lui, per Monica, per la piccola Maria Jlenia i dossier si sono chiusi alla voce ignoti. Strage di migranti in Libia, ma l’accordo non si tocca di Adriana Pollice Il Manifesto, 11 novembre 2017 Cinquanta morti in mare, i video della Ong tedesca inchiodano la guardia costiera libica. “La collaborazione con la Guardia costiera libica finora si è rivelata utile” ha dichiarato ieri Lia Quartapelle, capogruppo Pd in commissione Esteri della Camera, commentando l’operazione di soccorso, avvenuta lunedì scorso nel Mediterraneo, che ha provocato circa 50 morti e nonostante la Ong tedesca Sea Watch accusi la marina libica di essere responsabile dei decessi. A sostegno della loro versione, ieri gli attivisti hanno pubblicato audio e video di quelle drammatiche ore. Al disastro di lunedì si è arrivati dopo una settimana di scontri in Libia, con gli equilibri interni pronti a saltare. Le partenze verso l’Italia sono riprese: la scorsa settimana sono arrivati circa 2.500 con la Marina di Tripoli che li smistava sulle navi europee invece di riportarli indietro. A Salerno sabato scorso sono arrivati i cadaveri di 26 donne, molte giovanissime. Ci sarà stato nervosismo al Viminale, visti i soldi e i mezzi investiti sull’altra sponda del Mediterraneo. Lunedì la Guardia costiera libica deve aver deciso di mostrarsi fedele ai patti. Intorno alle 7 di mattina la Ong Sea Watch riceve il comando dal Centro di coordinamento del soccorso Marittimo di Roma di portarsi a 30 miglia dalla sponda africana, dove c’era un gommone carico di migranti in precarie condizioni. Il mediatore culturale Gennaro Giudetti racconta: “La Guardia costiera libica, essendo più veloce, è arrivata prima. C’erano persone in acqua, alcuni morti, il gommone era già semiaffondato, legato con una cima alla nave della guardia costiera. La situazione era fuori controllo, non abbiamo recuperato i cadaveri perché non c’era tempo. Nell’andare verso i naufraghi, abbiamo tirato su il corpo di un bambino, non mi sono sentito di lasciarlo in acqua perché avevo la mamma di fianco che piangeva straziata”. Gli attivisti recuperano 58 persone più cinque cadaveri, ma dalla Guardia costiera cominciano le provocazioni: “Hanno iniziato a minacciarci, ci tiravano addosso patate. I migranti trascinati a bordo della nave libica ci chiedevano di liberarli perché sapevano cosa li attende una volta tornati indietro”. La Ong lunedì denuncia sul suo sito l’accaduto. Il giorno successivo arriva la replica: secondo il portavoce della Marina libica, il colonnello Ayoub Qasim, i morti sarebbero stati provocati dalla Ong che, anziché allontanarsi, si sarebbe avvicinata al gommone finendo per speronarlo, creando poi “caos e confusione tra gli immigrati” i quali, inclusi alcuni già salvati dalla Marina libica, si sarebbero gettati in mare per raggiungere la nave della Ong tedesca. Sea Watch ha deciso ieri di pubblicare le immagini di quel terribile lunedì mattina. Il primo errore dei militari, spiegano gli attivisti, è stato agganciare il gommone già sgonfio alla nave, provocandone il semi affondamento, invece di avvicinarsi con calma con le scialuppe. In uno dei video si vede un uomo a bordo della nave libica frustare con una grossa cima i naufraghi ammassati sul ponte, un altro utilizza un bastone. Nessuno dei naufraghi ha indosso giubbotti di salvataggio o coperte termiche, sanno che, una volta sbarcati, saranno rinchiusi nel deserto. Il video mostra una colluttazione: i militari colpiscono uno dei naufraghi, cercano di trattenerlo ma l’uomo si aggrappa alla cima che lega il gommone alla motovedetta e si getta in acqua. L’uomo è in mare, sospeso fuoribordo, la Guardia costiera avvia lo stesso i motori per allontanarsi. Dall’alto segue la scena un elicottero della Marina militare italiana che cerca di bloccare i libici, dall’audio si ascolta: “Guardia costiera libica fermate i motori, per favore cooperate con Sea Watch! Per favore, cooperate con Sea Watch! Vogliamo che vi fermate ora, ora! ora! Guardia costiera libica avete una persona sul lato destro, per favore fermate i motori! Fermate i motori!”. L’uomo viene risucchiato dalle acque, la moglie (soccorsa dalla Ong) assiste impotente alla morte del marito. “I video e gli audio messi a disposizione dalla Sea Watch - dichiara don Armando Zappolini, presidente del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza - parlano chiaro, sono una vergogna per qualunque paese civile. La condotta della Guardia costiera libica viola i più elementari diritti umani. Non pensi il governo italiano di allontanare da sé facilmente ogni responsabilità o di raccontare la favoletta che l’Italia non c’entra con i respingimenti. Le navi delle Ong, che assicurano realmente una possibilità di soccorso in mare, sono drasticamente diminuite e i morti in mare aumentano”. L’Associazione studi giuridici per l’immigrazione ha deciso di fare ricorso al Tar per impugnare il decreto del ministero degli Esteri che indirizza i fondi che dovevano servire agli “interventi straordinari volti a rilanciare il dialogo e la cooperazione con i paesi africani” verso il progetto di esternalizzazione delle frontiere: dal fondo Africa, stanziato dal parlamento per la cooperazione, sono stati sottratti 2,5 milioni per la rimessa in efficienza di quattro motovedette per la Guardia costiera libica, “soldi che rientrano quindi nel finanziamento dell’apparato militare libico”. Terrorismo. “Io, l’avvocato dei jihadisti, sono stato minacciato dai francesi” di Anais Ginori La Repubblica, 11 novembre 2017 Nello studio legale vicino agli Champs-Élysées, Éric Dupond- Moretti fuma una sigaretta dopo l’altra. L’avvocato del Diavolo è nervoso? “È stato il processo più duro della mia vita”. A 56 anni, fisico imponente e voce da baritono, ha recitato anche in alcuni film, uno dei quali diretto da Claude Lelouch. È uno dei penalisti più famosi di Francia, e ora anche uno dei più odiati. Dupond- Moretti ha difeso in tribunale Abdelkader Merah, fratello del terrorista che nel 2012 ha ucciso sette persone, tra cui tre bambini ebrei. Al palazzo di Giustizia l’avvocato è stato accolto da sputi e insulti. La sua famiglia ha ricevuto minacce di morte. “Ne ho viste tante, ma così mai”, racconta a Repubblica. “È la prima volta che mi viene contestato persino il diritto alla difesa. Qualcuno, forse, ha dimenticato che persino i nazisti hanno avuto diritto a un processo?”. Eppure se l’aspettava. “Sapevo che in questo caso in palio non c’era solo l’eventuale condanna del mio cliente”. Dopo i tanti attentati degli ultimi due anni, la Francia ha accettato senza neppure discutere la conversione in legge dello stato di emergenza. Il governo vuole lasciare in Siria e Iraq i jihadisti francesi arrestati pur sapendo che rischiano la pena di morte. Il processo Merah era una prova generale. Altri ne arriveranno nei prossimi anni, e per le difese degli imputati sarà ancora più difficile. La posizione di Dupond-Moretti è netta: “I giudici devono resistere alla dittatura dell’emozione”. Sul tavolo ha una scacchiera appartenuta a Jacques Vergès, il famoso “Avvocato del Diavolo” morto qualche anno fa. Dupond- Moretti è chiamato dai media “Acquittator”, dal verbo “acquitter”, assolvere. Tra i penalisti vanta il record di assoluzioni, 141. Dal faccendiere Bernard Tapie al calciatore Karim Benzema, in molti si sono affidati a questo avvocato che parla un italiano perfetto. La sua famiglia era immigrata da Castelraimondo, provincia di Macerata, per lavorare nelle miniere del nord della Francia. Ha scelto di diventare avvocato dopo la scomparsa del nonno, ritrovato morto vicino a una ferrovia. La polizia francese non aveva voluto indagare, all’epoca i ritals, gli immigrati italiani, erano gli ultimi della società. “Il terrorismo si deve vincere senza snaturare le nostre democrazie, com’è accaduto in Italia”, spiega Dupond-Moretti. Ha amato molto il film “Avvocato!” dedicato al presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino Fulvio Croce assassinato dalle Brigate Rosse per aver accettato la difesa d’ufficio dei suoi capi storici per la prima volta alla sbarra, che invece rifiutavano dallo Stato qualunque tutela legale. Durante il processo Merah, davanti al dolore delle famiglie in lacrime, ha tirato dritto: “Prove, prove, dove sono le prove?”. Una linea considerata irrispettosa e brutale dalle parti civili. “La corte di giustizia non è un’unità psicologica”. Il video nel quale impartisce una lezione di diritto a un giornalista è stato visto due milioni di volte. “Se il populismo entra anche in un’aula di giustizia allora è davvero finita”, ripete di continuo. Abdelkader Merah era accusato di complicità negli attentati del fratello, ucciso dalle forze dell’ordine. Il processo ha mostrato una famiglia di fanatici islamici che odia la Francia, ma non sono emerse prove di una partecipazione diretta di Abdelkader nelle stragi. Alla fine è stato condannato per associazione a delinquere in organizzazione terrorista. La procura ha fatto appello. Dupond-Moretti accende l’ennesima sigaretta. Inutile dire che spera in un’assoluzione. Piaccia o non piaccia. “È il mio mestiere”. Truffe, crimini e ricatti online: come funzionano e perché sono difficili da fermare di Carola Frediani La Stampa, 11 novembre 2017 L’intreccio di infrastrutture, servizi, paradisi offshore ed enclavi regionali in cui si nascondono e prosperano le attività illecite. Perché è così difficile individuare e bloccare chi organizza estorsioni di massa sotto forma di ransomware (i virus che cifrano file e chiedono un riscatto)? O chi architetta truffe e frodi inviando mail finte per ottenere l’accesso al computer delle vittime e depredarle di soldi e dati? O chi dissemina la Rete in chiaro di siti palesemente pedopornografici, anche se miseramente travestiti da vetrine per baby modelle? Non tutte queste attività si svolgono nel cosiddetto Dark Web, nei siti nascosti su reti che anonimizzano utenti e gestori di servizi, come Tor. Anzi, una buona fetta di attività criminali avvengono sulla Rete “normale”, attraverso un complesso intreccio di pratiche, tecniche, legislazioni. Un mosaico composto da fornitori di servizi di rete compiacenti se non collusi; da tecniche che sfruttano il sistema dei nomi di dominio (DNS) per offuscare i siti che servono malware, software malevoli; da giurisdizioni offshore che nascondono i veri proprietari dei servizi che ospitano attività criminali. Un sistema che esiste da anni e che, come vedremo, presenta ancora gli stessi attori. I quali come una fenice rinascono dalle ceneri di precedenti attività, creano società multiple, registrate alle Bahamas, alle Seychelles o in qualche altro paradiso fiscale, sfruttano le connessioni veloci e i data center degli Usa o dell’Europa, ma risiedono e operano in Paesi dove non è facile perseguirli. Cosa è il bulletproof hosting - Uno dei pilastri di questa architettura è il cosiddetto bulletproof hosting, cioè l’offerta di un servizio di hosting (che permette di affittare dei server per gestire un sito web o altro) blindato. A prova di richieste legali. O comunque un servizio che chiuda un occhio su quello che viene fatto con i suoi server, almeno finché sia possibile. Il bulletproof hosting di per sé può essere usato come uno strumento per difendere la libertà di espressione e la privacy specie laddove sia sotto attacco. Ma in molti casi il modello di business - perché stiamo parlando di servizi a pagamento - è chiaro: si ignora il comportamento di clienti malevoli finché pagano e finché non si solleva un tale vespaio da rendere poco conveniente continuare ad accettarli. “Senza i servizi di bulletproof hosting, molti, se non tutti i maggiori gruppi cybercriminali smetterebbero di operare”, arriva a scrivere la società di cybersicurezza TrendMicro in un documento dedicato al tema. Servizi che funzionano come, per i criminali del mondo fisico, i covi dove nascondersi, o dove occultare strumenti e materiali, scrive ancora TrendMicro. Solo che i cybercriminali usano tali “covi” digitali per piazzare i loro malware, i kit per attaccare software e browser, i centri di comando e controllo delle botnet (le reti di dispositivi infettati), i dati rubati, i siti con cui distribuire contenuti illeciti, truffe, pedopornografia. “Questi servizi esistono perché Isp e fornitori di hosting in diverse aree geografiche rispondo in modo diverso alle segnalazioni di abusi”, commenta a La Stampa Fyodor Yarochkin, ricercatore TrendMicro. Ovvero in certi Paesi alcune attività (ad esempio il gioco d’azzardo o contenuti pornografici) possono avere margini di manovra più ampi di altre; oppure non è dato seguito a richieste che arrivino dall’estero. “A volte questi servizi specificano cosa è permesso sui loro server e cosa no; spesso ad esempio non è ritenuto accettabile ospitare siti di carte di credito rubate. E chi invece consente questo genere di attività farà pagare un prezzo più elevato”. Al contrario, mettere in piedi un servizio di bulletproof hosting costa molto poco. “Due-tremila dollari per crearlo da zero, registrare una società offshore, ecc. E il rischio di essere arrestati è piuttosto basso”, commentano a La Stampa Dhia Mahjoub, ricercatore di OpenDNS, e Sarah Brown, ricercatrice di Security Links, che hanno lavorato insieme proprio sull’analisi di servizi di hosting “a prova di proiettile”. Geometria cybercriminale - Il modello è spesso il seguente. L’azienda è registrata in giurisdizioni offshore, le stesse usate spesso come paradisi fiscali (e di cui si è molto parlato in questi giorni con i Paradise Papers), ma che offrono anche il vantaggio di essere più difficili da raggiungere da richieste legali: Antigua, Belize, Panama, Seychelles, e via dicendo. I server sono in Paesi diversi, e spesso a seconda del tipo di servizio viene consigliata anche una certa area geografica: per contenuti che violano copyright possono andare anche Svizzera e Svezia, per il porno bene i Paesi Bassi, per il malware ok Paesi come l’Ucraina. Si paga con sistemi che proteggono la privacy, come criptovalute e Western Union. “Abbiamo server in Romania, Paesi Bassi, Germania, Russia, Ucraina e Transnistria. Tutti i nostri server sono bulletproof”, recita uno dei tanti annunci, presenti sul web in chiaro come nei forum delle darknet. Un’altra inserzione, su un sito in inglese, russo e romeno, offre un servizio dalla Moldavia. E in particolare la Transnistria, una regione separatista di questo Stato dell’Europa orientale, sembra essere diventata un posto molto in voga per queste attività negli ultimi tempi. Ma anche Lugansk, roccaforte separatista dell’Ucraina. In un forum russo, La Stampa ha trovato proprio un’inserzione su server a Lugansk (o Luhansk, il nome in ucraino): “Servizio bulletproof”, è specificato, con un datacenter privato a Luhansk. Tra i plus dell’offerta: “Indirizzi fisici dei server a Luhansk. Il che rende impossibile accedere agli stessi da parte di governi e forze dell’ordine europei e statunitensi”. I prezzi sono “negoziabili e dipendono dai target e dai progetti”. Si contatta il supporto su un indirizzo chat (Jabber) attualmente attivo. Ma molti servizi sfruttano anche i server e i data center dei Paesi Bassi, luogo con ottimi collegamenti e con una legislazione più permissiva su alcuni temi (ad esempio il porno), oltre che una zona di passaggio per paradisi fiscali. “Il punto è anche che per fornire un servizio di hosting di qualità ti serve la connettività che trovi in Europa o in altri Paesi avanzati. In Olanda sono presenti in generale molte aziende tech in virtù delle sue ottime infrastrutture. A ciò aggiungiamo una legislazione attenta alla privacy e la facilità con cui si può aprire e gestire una società”, commentano ancora Mahjoub e Brown. “Ogni servizio bulletproof usa un sistema diverso di offuscamento”, aveva commentato Mahjoub nel corso di una conferenza su come individuare tecnicamente questo genere di società. Tra i nomi di spicco, Novogara, server ad Amsterdam, registrazione in UK (di cui parliamo più sotto). O King Server, registrata nell’isola caraibica di Anguilla, server nei Paesi Bassi. O Koddos/Hostlic/Esecurity - anche qua, più scatole societarie per lo stesso servizio - registrata a Hong Kong, data center in Olanda, servizi che “ospitavano fino all’anno scorso malware, carte di credito rubate e schemi di investimento truffaldino in stile Ponzi”. Alla ricerca di collegamenti tra cybercrime e hosting - I ricercatori di sicurezza si stanno ingegnando per tracciare collegamenti fra specifici gruppi criminali e determinati fornitori di servizi di rete. Un attore piuttosto longevo sembra essere Whost, prima noto come Abdallah, un “pioniere del bulletproof hosting con radici nel Russian Business Network”, lo ha definito il ricercatore Mykhailo Sakaly in una presentazione di qualche tempo fa alla conferenza BlackHat. Un servizio che albergava nientedimeno che il trojan Zeus, uno dei più noti malware usati soprattutto per rubare credenziali bancarie, battezzato anche come “il Microsoft Office delle frodi online”. Come hanno fatto a capirlo? Abdallah, che era anche moderatore di una sezione di Mazafak, tra i più esclusivi forum cybercriminali russi, aveva aperto una rimostranza ufficiale (in gergo, black) contro un altro membro del forum, Slavik. Abdallah si lamentava di non essere pagato da due mesi da Slavik, che gli doveva 30mila dollari di hosting. Slavik era un attore ben noto nell’underground: era infatti proprio il creatore di Zeus, il malware comparso nel 2006 che aveva poi preso molte forme - divenendo anche la botnet GameOver Zeus - mentre il gruppo attorno a Slavik diventava un business criminale sempre più organizzato e a partire dal 2013 iniziava a entrare - rilanciandolo - nel business dei ransomware. Secondo le autorità americane, Slavik sarebbe un trentenne russo noto come Evgeniy M. Bogachev, uno dei cybercriminali più ricercati della terra: su di lui pende dal 2015 una taglia di 3 milioni di dollari. Attualmente si ritiene che si aggiri libero da qualche parte in Russia. Mentre un altro ransomware piuttosto noto, Cerber, aveva trovato rifugio presso il fornitore di hosting Althost, che gestisce un servizio a flusso veloce (che spieghiamo più sotto) e ha data center in Europa dell’Est. Il collegamento è stato fatto di nuovo attraverso una lamentela (black) in un forum underground, che mostra come Cerber usasse proprio questo fornitore. Un altro operatore di bulletproof hosting, Maxided, registrato nell’isola caraibica di Dominica, server in 83 Paesi, e citato ancora da Sakaly, sarebbe nato proprio da uno dei membri originari del gruppo dietro a GameOver Zeus. Ora, secondo un altro team di ricercatori, recentemente Maxided avrebbe ospitato (oltre che carte di credito rubate e altro malware) il server di comando e controllo di Mirai, la famigerata botnet di dispositivi connessi che a fine 2016 aveva mandato offline vari siti in Rete. Ma uno dei servizi più citati dai ricercatori è anche uno tra i più longevi. E la sua analisi mostra come sia difficile arginare il fenomeno. Vediamolo in dettaglio. Il caso Ecatel: una vecchia conoscenza - Giugno 2016: gli esperti di sicurezza che lavorano a OpenDNS - una azienda che offre vari servizi DNS acquisita da Cisco - scoprono una campagna di truffe a discapito di utenti bitcoin, la nota moneta elettronica. Gli attaccanti avevano clonato le pagine web di siti che forniscono portafogli online di criptovalute, come Blockchain.info. Poi cercavano di attirare gli utenti di questi servizi - ad esempio con pubblicità online - sui propri siti clone in modo da rubare loro le credenziali. I ricercatori notano che questi siti truffaldini sono ospitati su un indirizzo IP con una storia. Lo stesso che in passato aveva ospitato siti malevoli, spam farmaceutico, finti portali bancari, e così via. Questo indirizzo - scrivono i ricercatori - appartiene a una società di nome “Quasinetworks, che in realtà usava essere Ecatel”. E che ora ritengono sia Novogara. Attenzione che qua è come il gioco delle tre carte. Ecatel è una società registrata nel 2005 in UK ma operativa nei Paesi Bassi. Per dieci anni ha fornito bulletproof hosting, “ospitando continuamente contenuti criminali e tossici, e generando spam e traffico DDoS (attacchi che saturano un servizio con un eccesso di richieste, ndr) dal suo spazio IP”. Ma nel 2015 Ecatel avrebbe cambiato nome, cedendo il proprio spazio IP (blocchi di indirizzi IP, gli indirizzi identificativi delle macchine connesse a internet, che sono allocati a specifiche organizzazioni) alla nuova società Quasinetworks. Avrebbe cambiato anche Paese, registrando Quasinetworks alle Seychelles, che oltre a essere una meta turistica sono una giurisdizione offshore. E poi, nell’aprile 2016, Ecatel si sarebbe trasformata in Novogara. In pratica, sospettano i ricercatori di Cisco, stiamo parlando di tre società collegate (o della stessa società riplasmata e ridistribuita) che continuano a offrire lo stesso servizio malgrado le innumerevoli lamentele e segnalazioni accumulate negli anni. Non sono gli unici a nutrire questo sospetto. Pochi mesi dopo, nel dicembre 2016, ricercatori della società Cyberlight Global individuano una campagna di phishing (invio di mail finte per rubare credenziali di accesso) alle banche della Georgia, nel Caucaso. Ci sono somiglianze con le procedure usate da una nota gang cybercriminale che colpisce e svaligia istituti bancari, Carbanak. Ma soprattutto c’è un dato che i ricercatori definiscono “interessante”. L’indirizzo IP al quale il software malevolo usato per infettare i computer chiede ulteriori codici e istruzioni è ospitato dalla società Novogara. Per i ricercatori di Cyberlight, Novogara, Quasinetwork e Ecatel sono di fatto la stessa entità che da anni è accusata di dare spazio a spam, siti malevoli, botnet, pedopornografia. Al punto che perfino Anonymous nel 2012 la prese di mira, in ragione dei siti pedo, organizzando una campagna di attacchi nota come OpEcatel (operazione Ecatel). “Secondo vari forum del Deep Web - scrivono i ricercatori - i predecessori di Novogara forniscono rifugio da anni ai gruppi cybercriminali russi e ucraini, incluso il famigerato Russian Business Network (RBN)”. Si tratta di uno sfuggente gruppo russo che nel 2007 era considerato uno dei principali fornitori di hosting per attività criminali. Negli ultimi anni il Russian Business Network sembra essere “evaporato” ma molti dei suoi componenti sono rimasti nel business. Una delle tracce da seguire ad esempio è ZeroAccess, uno strumento (tecnicamente, un rootkit) per veicolare di nascosto del malware, distribuito dal Russian Business Network. E a un certo punto ospitato su Ecatel. Ma non si tratta solo di traffico o software malevoli. Ancora nell’ottobre 2017 siti di presunte “modelle bambine” - di fatto una porta su contenuti esplicitamente pedopornografici, con aree a pagamento per vedere di più, un fenomeno che avevamo raccontato in questa precedente inchiesta sulla pedopornografia sono ospitati su Novogara e nello spazio IP (più tecnicamente, sul Sistema autonomo) di Quasinetworks, come ha verificato La Stampa a partire dai dati di registrazione dei domini. Stiamo parlando di siti con bambine sugli 8 anni circa, che offrono ulteriori foto e video a pagamento. Nello stesso periodo, un ricercatore segnalava la presenza di contenuti simili, oltre che siti di revenge porn, su indirizzi IP di Quasinetworks. E si faceva molte domande sui legami con Ecatel e Novogara. Domande che si è fatta anche una associazione antipirateria olandese, Brein, che poche settimane fa ha provato a portare in tribunale i direttori delle tre società per riuscire a capire i rapporti fra di loro. E per sapere contro chi procedere per abuso del servizio. Le carte del procedimento per la prima volta gettano un po’ di luce su queste società. L’attuale direttore di Novogara è stato direttore di Ecatel fino all’estate 2015, ad esempio. Ecatel, registrata a Follkestone, UK, ha uffici all’Aja e server ad Amsterdam. E anche Novogara, registrata a Cardiff, UK, ha uffici e server ad Amsterdam. Dalle carte emerge anche una ulteriore società, Reba Holding, che gestisce un data center sempre in Olanda, a Wormer. Già, perché le carte del procedimento tracciano collegamenti tra Ecatel, Novogara, e Quasinetwork. Quest’ultima - è scritto nelle carte - si trova alle Seychelles, dove è registrata come International Business Company (IBC). Una qualifica data solo a compagnie che non abbiano una attività vera e propria nell’arcipelago dell’Oceano Indiano. “È pertanto escluso che Quasinetworks abbia degli asset come data center nelle stesse Seychelles. Ci sono indicazioni concrete che usi dei server presso il data center Dataone a Wormer”. I dati del procedimento legale sono confermati anche da un’analisi storica dei registri d’impresa in UK e da altri dati ottenuti dalla Stampa con la collaborazione dell’Investigative Dashboard (investigativedashboard.org), gruppo di ricercatori coordinato dall’Organised Crime and Corruption Reporting Project (Occrp). Due olandesi figurano come direttori di Ecatel e anche come azionisti di Reba Holding, che a sua volta controlla Ecatel, e che ha pure due sussidiarie, Fiber Xpress Limited and Incrediserve Ltd. Novogara, nata nel 2015, ha come direttore uno dei due direttori di Ecatel. Se la causa andrà avanti può darsi che alcuni dei buchi legali e delle girandole societarie sfruttati da questi gruppi inizino a chiudersi. Anche se c’è chi pensa che già oggi si possano adottare soluzioni tecniche contro i servizi che non ascoltano le segnalazioni di abusi sui propri server. “Bulletproof hosting è un termine di marketing, serve per attirare clienti. Ma per quanto tempo si possono ignorare le segnalazioni? In fondo tutti questi servizi hanno un fornitore di connessione upstream (cioè chi sta “a monte” di lui e gli fornisce una connessione col resto della rete, ndr). Dunque si può fare pressione su chi gli dà la connessione, e sulle altre reti che scambiano traffico (peering) con loro”, commenta a La Stampa Troy Mursch, un ricercatore di sicurezza che poche settimane fa in un post aveva denunciato il fatto di ricevere traffico malevolo da Ecatel. “C’è un precedente, anni fa, quando nel 2008 Ecatel fu mollata dai sui vicini, da chi faceva peering con loro a livello di rete. Poi però in qualche modo sono ritornati”. Alte tecniche di offuscamento: la rotazione degli indirizzi - I fornitori di hosting bulletproof usano metodi diversi. Impiegano server “sicuri” e dedicati per i servizi più problematici e costosi. Oppure tecniche che sfruttano il sistema DNS per far ruotare velocemente gli indirizzi. In questo secondo caso impiegano reti di macchine compromesse, botnet, che fanno da filtro, da schermo, di un sito malevolo di cui si voglia proteggere il vero indirizzo. Normalmente infatti se si crea un sito di phishing dopo qualche tempo qualcuno lo identifica come tale, e il suo indirizzo IP finisce in una lista nera; ma se invece si serve il sito di phishing attraverso una rete di macchine compromesse, questo rimane protetto. In estrema sintesi, si stabilisce che un certo dominio - ad esempio il sito www.assistenzaazienda[.]com, un sito di truffatori che imiti l’assistenza di una certa azienda - sia risolto in una lista di indirizzi IP in continuo cambiamento forniti dalla botnet. Per questo si chiamano reti a flusso-veloce (fast-flux networks).Tali indirizzi IP funzionano da proxy mascherando di fatto la vera destinazione della connessione che serve i contenuti malevoli. Il vantaggio è che “nel momento in cui tale dominio venga identificato come malevolo e inserito in una lista nera (di fatto bruciandolo), agli operatori è sufficiente creare un nuovo dominio e associarlo alla botnet per rendere quei contenuti malevoli di nuovo immediatamente disponibili”, commenta a La Stampa Angelo Dell’Aera, ricercatore di sicurezza e membro del progetto Honeynet, che da anni analizza attacchi informatici e botnet. I livelli di camuffamento sono molteplici. “Ci sono dei malware che utilizzano algoritmi per la generazione dei nomi/domini dei server di comando e controllo da contattare. Spesso questi algoritmi (detti DGA) generano uno o più nomi/domini al giorno”; spiega ancora Dell’Aera. “ Se assumiamo uno al giorno ad esempio oggi il malware cercherà di contattare il server di comando usando asdasd[.]com, domani frdew[.]com e così via (ho usato nomi a caso). Questi domini possono essere associati a delle reti fast-flux e quindi essere risolti sempre sulle stesse macchine compromesse della botnet che gireranno il traffico (proxy) verso il vero server di comando e controllo che ne risulterà protetto. Se domani io identifico asdasd[.]com come dominio malevolo e lo blocco è già troppo tardi perché il dominio contattato è cambiato nel frattempo”. Una rete fast-flux serve insomma a nascondere un pezzo della tua infrastruttura. “Ci possono essere situazioni in cui riesci a risalire indietro e altre in cui è più difficile. In generale, più una campagna è distribuita, come i ransowmare, più si trovano tracce con cui ricostruire il percorso. Più un attacco è mirato, più è difficile tracciarlo tecnicamente, perché hai meno elementi cui appigliarti”, aggiunge Dell’Aera. Le reti fast-flux sono usate ancora oggi per ospitare bazaar di dati e carte di credito rubati, oltre che siti di phishing, come rilevato più volte da Open DNS. Senza contare, commenta il già citato Fyodor Yarochkin, che “oltre ai servizi di hosting bulletproof i criminali possono semplicemente sfruttare delle macchine compromesse”. Tanto che esiste proprio un mercato dedicato. Inoltre, aggiunge Vladimir Kropotov, un altro ricercatore Trendmicro, “l’elevata probabilità che qualora siano individuati dei server in un’operazione, questi siano solo dei proxies, dei nodi intermediari compromessi dagli attaccanti, diminuisce le possibilità che le forze dell’ordine possano collaborare e condurre indagini fruttuose”. “Hai bisogno di prove forti, che dimostrino come da parte del fornitore del servizio ci fosse consapevolezza di quello che facevano i suoi clienti, altrimenti risponde che non è sua responsabilità controllare quello che passa”, aggiungono Mahjoub e Brown. “Ma fino ad oggi quello che ha funzionato è la collaborazione, sul campo, di più Stati, di ricercatori, di enti pubblici e società private. Si può ottenere qualcosa sul fronte tecnico della faccenda, più che su quello legale e politico”. Di sicuro, gioca a favore dei cybercriminali la complessità degli incastri tra giurisdizioni e procedure. La polizia di un Paese europeo per ottenere i dati da una società che ha server in Europa ma è registrata a Panama deve inviare una richiesta specifica sulla base di un trattato internazionale di mutua assistenza legale, le indagini ci mettono mesi, e nel mentre il sito o l’attività malevola si ricollocano. E quando un fornitore di hosting comincia a diventare una pecora nera, ecco che rinasce con un altro nome ma identico comportamento. E avanti di questo passo. Francia. Equipe nelle carceri per deradicalizzare i detenuti islamici di Diego Minuti globalist.it, 11 novembre 2017 Un nuovo approccio al problema, con risultati positivi, dopo un paio di recenti fallimenti. In 14 sono seguiti, all’esterno delle carceri, per aiutarli a aborrire la violenza. Da quando, ormai da troppo tempo, è esplosa l’emergenza del radicalismo islamico ed il successivo passaggio alla violenza religiosa, un po’ tutti concordano sul fatto che le carceri sono diventate un pericoloso catalizzatore di rabbia e disperazione, rendendo i soggetti che vi risiedono per molti anni troppo esposti a religioni ed a teorie che costituiscono il fertile terreno dove germogliano i semi del terrorismo. Un problema comune a tutti i Paesi che hanno detenuti di religione islamica (per nascita o per conversione) e che, una volta in carcere, possono subire il lavaggio del cervello da parte di pseudo-imam che li indottrinano, indirizzandoli verso il radicalismo e, quindi, costituendo potenziali serbatoi per guerre sante ed affini. In Francia (dove esiste une numerosissima comunità musulmana, ereditata dai territori d’oltremare in Nord Africa) il problema è presente da tempo, anche se solo da una quindicina d’anni esso è assurto al rango di emergenza. Come purtroppo confermato in un passato nemmeno tanto lontano che ha visto repentine conversioni al verbo della violenza religiosa, spesso promossa in un ambito di convivenza forzata quale è quella delle carceri, ma, in un certo senso, anche dei quartieri dormitorio delle balieu. Il governo ha deciso di mutare registro dopo il fallimento di precedenti esperimenti di deradicalizzazione, come le “unità dedicate” o il centro di Pontourny (quest’ultimo portato avanti dal ministero dell’Interno) molto pubblicizzati, senza che poi abbiano portato niente di positivo. Questa volta a muoversi - pare anche con buoni risultati - è stato il ministero della Giustizia che, dallo scorso anno, in un clima di grande riserbo, sta lavorando alla deradicalizzazione di quattordici soggetti, rimasti condizionati o peggio avviluppati dai sermoni di qualche predicatore che li ha convinti che non c’è religione sena atti di violenza. I quattordici soggetti (otto uomini e sei donne) sono stati già condannati o soltanto messi sotto accusa per associazione con finalità terroristiche o per reati comuni, ma che risultano identificati come radicalizzati da parte dell’amministrazione penitenziaria che ne ha controllato i passaggi dell’adesione alle derive più estremistiche dell’islam. Oggi, scelti dopo una attenta selezione tra le centinaia di potenziali soggetti da deradicalizzare. sono al centro del lavoro di una equipe definita “pluridisciplinare” che opera in un “ambiente aperto”, cioè all’esterno della prigione. Si tratta di persone sottoposte ad un controllo giudiziario, prima o dopo essere stati sottoposti a processo. Per alcuni, in stato di libertà, è stato previsto un braccialetto elettronico per verificare gli spostamenti. L’aspetto innovativo del progetto è una figura che può essere avvicinata ad un mentore, col risultato che ciascuno dei soggetti è seguito da un “referente sociale”. Si tratta di educatori, psicologi, psichiatri, un cappellano musulmano, a disposizione sei giorni alla settimana dalle 9 alle 19, Come si premurano a dire dal ministero della Giustizia, la differenza tra questo esperimento e quelli precedenti è il carattere estremamente individuale della presa in carico, cosa che quindi non prevede riunioni o incontri collegiali. Probabilmente perché il percorso di affrancamento dal radicalismo può avere un esito positivo solo se affrontato da soli, senza magari confrontarsi con altri che forse hanno lo stesso obiettivo, ma con origini, provenienza, sensibilità e preparazione diverse. Per questo sono i componenti delle equipe a muoversi, ad andare ad incontrare i soggetti, in un luogo pubblico o in una sede tenuta segreta per motivi di sicurezza. La protesta degli studenti eritrei e il silenzio del mondo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 11 novembre 2017 In Eritrea va tutto bene, garantisce il governo. Al massimo qualche sporadica protesta messa a tacere “senza fare vittime”. Le vittime invece ci sono. Come raccontato qui, decine. Bersaglio di questa nuova fase di repressione da parte del governo eritreo (sulle precedenti si può leggere questo post) c’è la scuola privata islamica “Al Diaa” di Asmara. Fondata mezzo secolo fa da una delle personalità indipendenti più importanti del paese, l’haji Musa Mohamed Nur - una vita dedicata all’impegno sociale, alla beneficenza, alla cooperazione e all’istruzione - la scuola è tutto meno che una fabbrica d’integralismo (tant’è che ha ricevuto la solidarietà anche di studenti cristiani), anche se al governo fa comodo descriverla in questo modo per ottenere il silenzio se non addirittura l’approvazione della comunità internazionale. I circa 3000 studenti rivendicano un diritto elementare: seguire le lezioni di religione che il governo pretende siano abolite. Gli ordini dati ai soldati sono stati spietati: sparare ad altezza d’uomo. Musa Mohamed Nur e altri dirigenti scolastici sono stati arrestati così come decine di insegnanti, studenti e loro genitori. Questo accadeva a fine ottobre. Da allora, il numero delle persone scese in strada in difesa della scuole e dei suoi studenti si è fatto sempre più grande e pare (dobbiamo scrivere “pare” perché il governo ha chiuso Internet e, come noto, i giornalisti indipendenti sono in carcere e quelli esteri non sono esattamente benvenuti) stia interessando altre parti del paese. Oggi, sabato 11, a Roma è prevista una manifestazione per protestare contro il nuovo giro di vite del regime eritreo. L’appuntamento è alle 10 in piazza della Repubblica.