Il carcere e una riforma che si aspetta ormai da tempo di Luigi Iorio* avantionline.it, 10 novembre 2017 Riforma dell’Ordinamento Penitenziario. Sembra che questa volta al fotofinish avremo la tanto attesa riforma che, ove venga approvata, seguirà le riforme più significative in tema di ordinamento penitenziario che si sono susseguite negli anni. In particolare la legge 663/1986 (legge Gozzini), la legge 165/1998 (legge Simeone - Saraceni) e la legge 40/2001(legge Finocchiaro). Il Ministero della Giustizia ha annunciato di aver trasmesso i decreti attuativi al Garante nazionale dei detenuti per eventuali osservazioni. Immediatamente dopo i decreti passeranno al vaglio del Consiglio e poi verranno inviati alle commissioni Giustizia di Camera e Senato. Un iter lungo da portare avanti nei tempi sempre più esigui di fine legislatura. La legge 23 giugno 2017, n. 103, la cosiddetta riforma Orlando, prevede, tra le tante novità, anche la modifica dell’ordinamento penitenziario. L’obiettivo del legislatore con tale provvedimento è duplice: da un lato riordinare il sistema penitenziario semplificando le procedure innanzi al magistrato di sorveglianza, il ricorso alle misure alternative eliminando preclusioni per l’accesso ai benefici per i detenuti e incrementando il lavoro esterno e intramurario, eliminare automatismi e preclusioni ai benefici penitenziari, valorizzare sempre più il volontariato. Dall’altro, l’obiettivo, per certi aspetti, il più importante e innovativo è la volontà di migliorare lai vita del detenuto durante il suo periodo di restrizione: ad esempio attraverso la necessaria osservazione scientifica della personalità del detenuto in vista di una futura riabilitazione. Esso inoltre prevede diversi criteri relativi all’incremento delle opportunità di lavoro, al riordino della medicina penitenziaria, all’agevolazione dell’integrazione dei detenuti stranieri, alla tutela delle donne e, nello specifico, delle detenute madri, al rafforzamento della libertà di culto al fine di evitare ulteriore proselitismo e radicalizzazione tra detenuti islamici. Da ultimo vi è anche la previsione di attività di giustizia riparativa. Se la riforma sarà approvata in una corsa contro il tempo potremo avere un carcere più aperto. Aperto a corsi professionali, al lavoro, allo sport, aperto dunque verso l’esterno, in un confronto continuo e costante con la società civile. Un carcere trasparente, immediatamente percepibile dai magistrati di sorveglianza, dai garanti, dal mondo associazionistico. *Cultore di Diritto Penitenziario Università di Foggia Da 25 giorni senza cibo per sollecitare la riforma dell’Ordinamento Penitenziario. cittadellaspezia.com, 10 novembre 2017 La battaglia dell’avvocato spezzino Deborah Cianfanelli coinvolge il Ministro Orlando: "Recepisca ed invii al CdM le bozze sulla riforma penitenziaria. Carceri sempre peggio, i detenuti si suicidano". Poi l’appello per salvare il Partito Radicale. "La prego di non scrivere che questa è una protesta, la mia, la nostra è una vera e propria lotta". Dall’altro capo del telefono c’è Deborah Cianfanelli, avvocato ed esperto di diritto penale e della famiglia, ma soprattutto sentinella spezzina del glorioso Partito Radicale. La professionista è balzata alle cronache nazionali per la recente decisione-shock di iniziare una dieta per ricordare al Ministro Andrea Orlando la parola data rispetto all’emanazione dei decreti attuativi del nuovo ordinamento penitenziario. Nel 2015 scrisse un articolato dossier circa le gravi inadempienze dello Stato italiano in materia di rispetto delle norme europee con particolare attenzione all’irragionevole durata dei processi, ai risarcimenti che ne derivano (Legge Pinto) ed alle conseguenze sul fronte economico. Un’iniziativa che Cianfanelli condivide con la collega Rita Bernardini, con la quale porta avanti un’altra battaglia: quella della sopravvivenza del Partito Radicale, rimasto orfano ormai da un anno e mezzo del suo fondatore Marco Pannella. Dal 10 ottobre 2016 è presidente del Comitato Radicale per la Giustizia “Pietro Calamandrei” - carica rimasta vacante dopo la scomparsa dell’istrionico leader. È autrice dell’esposto per danno erariale presentato presso la procura della corte dei conti del Lazio unitamente a Pannella, Bernardini e Laura Arconti. A Cds racconta i perché della sua scelta. Innanzitutto avvocato come sta? "Potrei stare meglio. Sono venticinque giorni di digiuno, non è la prima volta che lo affronto ma non per così tanto tempo. Dal 16 ottobre porto avanti questa lotta insieme alla collega Bernardini innanzitutto per conquistare l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema della riforma penitenziaria. Digiuno vero? Sì, assolutamente, secondo la modalità dei tre cappuccini al giorno che quanto meno garantiscono al metabolismo di lavorare e a me di continuare la mia attività". Perché è arrivata a tanto? "Perché di Radicali, delle nostre battaglie, non si parla più. A parte la parentesi sulla morte di Pannella, siamo stati completamente spenti. E stiamo per chiudere, se qualcuno ancora non l’avesse inteso. Se non raggiungiamo i tremila iscritti entro l’ultimo anno, come avevamo detto nell’ultimo congresso, finisce una storia nata nel 1955. Ci mancano circa 700 iscritti per rimanere in vita". L’altra questione riguarda invece la riforma penitenziaria. "Il Ministro Orlando deve mantenere la parola data. Sono stati varati i decreti attuativi su una riforma fondamentale viste le condizioni disperate in cui versano i carcerati italiani. Lui per prima sa quanto è importante, visto che ci sono chiare linee guida sulla risistemazione dell’ordinamento. È necessaria una semplificazione per attribuire misure alternative alle pene detentive. Anche per i reati di mafia? Io penso che alcuni 41 bis non siano umano e una pena non rieducativa non è costituzionale. La possibilità di accedere a benefici come il lavoro esterno o interno, la giustizia riparativa, il volontariato. La riforma le prevede, ora non si perda più tempo". Che cosa la preoccupa? "Chi è giustizialista vede i film americani, in cui le celle sono belle e pulite. Se andasse a verificare la realtà in un qualsiasi carcere capirà. Sono in costante aumento i sucidi, la gente non ce la fa più. Quel che mi preoccupa è che le procedure per una legge del genere sono molto lunghe e questa legislatura politica sta entrando negli ultimi mesi di lavoro. Orlando deve mandare i decreti attuativi al consiglio dei ministri, so che alcune bozze sono già pronte ma tutto si è fermato. E considerando che sarà poi il Parlamento e le commissioni a dover ricevere e analizzare il testo, il rischio è che si arrivi al voto con tutto quanto ancora in alto mare". Per quanto ha intenzione di portare avanti il digiuno? "Fino a quando il Ministro non invia i decreti al Consiglio dei Ministri. Nel frattempo cercheremo di sensibilizzare l’opinione pubblica nonostante i media non ci considerino". Se la giustizia ritorna giusta di Luigi Labruna La Repubblica, 10 novembre 2017 Ricordate la “refola”, la mia riflessione su “Repubblica” di un paio di settimane fa sul “Paese della giustizia differenziata”, dedicata alla gip di Firenze Belsito, che aveva mandato in carcere tre cingalesi incensurati accusati di aver comprato con carte di credito e documenti falsi telefonini e iPad nella sua città? La giudice aveva motivato la mancata concessione degli arresti domiciliari con la circostanza che essi erano residenti a Napoli, “città ad alta densità criminale, nella quale il carattere saltuario dei controlli di polizia non sarebbe stato idoneo ad evitare il concreto pericolo di evasione”. Bene. Apprendo dal loro difensore, avvocato Ferone, che il Tribunale del riesame del capoluogo toscano ha invece disposto che gli accusati siano scarcerati e ha sostituito (sentite, sentite) quella eccessiva misura cautelare con l’obbligo di “dimora a Napoli” (sì, a Napoli), accompagnato da quello di presentarsi ogni giorno alla polizia giudiziaria. Ma forse - oltre alla indubbia efficacia della difesa, che ha evidenziato come la prognosi più evidente e giusta per una eventuale condanna dei cingo-napoletani a causa dei reati compiuti fosse quella di una pena non superiore ai tre anni - forse l’intervento allarmato e ironico del nostro giornale non è stato inutile. Ed è possibile che qualche giudice lo abbia letto. Se è vero che, al contrario della loro collega, i magistrati del Riesame non solo hanno annullato la misura cautelare della carcerazione ma hanno smentito il suo assunto discriminatorio nei confronti del “paradiso abitato dai diavoli” non manifestando nessuna riserva sulla capacità della polizia napoletana di fare il suo mestiere nonostante il caos qui imperante su tanti piani e l’imperversare indubbio della malavita. Ne sarà contento stavolta il signor questore. Ma ancor di più soddisfatti saranno quei cittadini che, nonostante tutto, conservano fiducia nel buon senso dei giudici e credono ancora (con qualche ingenuità?) che nel nostro Paese la legge sia davvero eguale per tutti. Anche per i poveri napoletani. Società sanzionate per razzismo. Da 51.600 € a oltre 1 mln per reati di manager e dirigenti di Luciano De Angelis e Christina Feriozzi Italia Oggi, 10 novembre 2017 La legge europea 2017 introduce una nuova fattispecie di reato nel Dlgs 231/2001. Le sanzioni amministrative che colpiscono i reati commessi dai vertici societari si applicheranno anche nel caso in cui i vertici apicali degli stessi enti pongano in essere reati di razzismo e xenofobia nell’interesse e a vantaggio delle società stesse; si tratta di atti finalizzati alla negazione, minimizzazione o apologia dello sterminio degli ebrei, dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra. In questi casi sulla società si applicheranno anche sanzioni di carattere interdittivo. È quanto prevede la legge europea 2017 approvata due giorni fa in via definitiva alla Camera e in attesa di pubblicazione in Gazzetta. La disciplina. Il dlgs 231/2001 prevede che quando le persone che rivestono funzioni apicali di un ente (o società), ai sensi dell’articolo 5 (di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso o persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui sopra), commettono una serie di reati nell’interesse dell’ente e a vantaggio di quest’ultimo, divengono responsabili (o meglio corresponsabili) con il soggetto che ha commesso il reato. Nel corso degli anni la lista dei reati, rilevanti ai fi ni in commento si è allungata in maniera considerevole e la legge Europea contribuirà ad allungare l’elenco. L’integrazione del dlgs 231/01. L’art. 5, del capo II, relativo alle disposizioni in materia di giustizia e sicurezza della legge Europea 2017 introduce, l’ennesimo, reato rilevante ai fini del dlgs 231/2001, inserendo un nuovo articolo e cioè l’art. 25-terdecies (Razzismo e xenofobia). Si tratta, nella fattispecie, dei delitti di cui all’art. 3, comma 3-bis, della legge 13 ottobre 1975, n. 654 (emendata dalla legge europea) ai sensi del quale “si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia, della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello Statuto della Corte penale internazionale, ratificato ai sensi della legge 12 luglio 1999, n. 232”. Il nuovo art. 25-terdecies prevede che in relazione alla commissione dei delitti di cui sopra, all’ente sia irrogata la sanzione pecuniaria da 200 a 800 quote (da 51.600 a euro 1.239.200) I riflessi operativi. L’occasione potrebbe essere propizia per definire nuove procedure per una corretta compliance dell’attività aziendale anche rispetto alla prevenzione dei reati di razzismo e xenofobia. In sostanza nei modelli organizzativi si dovrà prevedere e che l’ente si tuteli, tra l’altro, anche da tali tipologie di reato. Ad esempio sarà opportuno inserire nei contratti di affitto dei locali che questi ultimi non dovranno essere utilizzati per riunioni finalizzate alla organizzazione di eventi orientati a tali reati, che l’ente non collabori a pagamento per servizi finalizzati alla commissione di detti reati (ad es. stampa di volantini, organizzazioni di eventi finalizzati a tali scopi ecc.). Le nuove sanzioni interdittive e aggravanti. Nei casi di condanna degli organi apicali per i delitti di cui sopra si applicheranno all’ente le sanzioni previste dall’articolo 9, comma 2, e cioè; a) l’interdizione dall’esercizio dell’attività; b) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione (salvo che per ottenere la prestazione di un pubblico servizio); d) l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti e contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi; e) il divieto di pubblicizzare beni e servizi. Il tutto per una durata non inferiore a un anno. Infine, a titolo di aggravante nel comma 3° dell’art. 25-terdecies si prevede che se l’ente o una sua unità organizzativa fosse stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione dei delitti di cui sopra si applicherebbe la sanzione dell’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività (articolo 16, comma 3). La prescrizione del reato non comporta la revoca della confisca diretta di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 9 novembre 2017 n. 51988. La pronuncia che accerta la prescrizione del reato - in questo caso percezione indebita di fondi pubblici - non comporta anche la revoca della confisca diretta di somme di denaro. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 9 novembre 2017 n. 51088, accogliendo il ricorso del Procuratore generale della Corte di appello di Catanzaro contro la decisione di secondo grado. Il Tribunale ritenuta la responsabilità dell’imputato, che aveva taciuto di essere sottoposto ad una misura di sorveglianza speciale per non perdere i contributi statali e comunitari, lo aveva condannato a 2 anni di reclusione, ordinando altresì la confisca dei beni mobili ed immobili per un valore di 42.975 euro e di ulteriori 75.489 euro indebitamente percepiti dalla moglie a cui aveva intestato la propria attività. La Corte di appello, preso atto della prescrizione, revocava la confisca per equivalente. Ma nel dispositivo parlava genericamente di “revoca della confisca di quanto in sequestro”. Per cui, prosegue, la decisione, “correttamente” il Procuratore Generale ha segnalato che “il dispositivo, nel provvedere nel senso della revoca della confisca senza alcuna specificazione in ordine alla sua natura, diretta o per equivalente”, si pone “in contrasto” con la motivazione e, in ogni caso, “non è in linea con la natura della confisca che abbia ad oggetto somme di denaro”, né col rapporto tra la confisca diretta e l’estinzione del reato per prescrizione. Per i giudici di legittimità infatti qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario deve essere qualificata come confisca diretta. In questi casi il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato, “può disporre la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell’imputato e, infine, alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio”. E così è accaduto nel caso specifico dove la responsabilità accertata dal Tribunale di Crotone non ha subito modifiche in secondo grado. La Corte di Appello infatti ha dovuto prendere atto della prescrizione “con salvezza, tuttavia, dell’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell’imputato e, infine, alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto”. Più in generale, ricorda la Cassazione, sia la Cedu (sentenza Varavara) che la Consulta (n. 239/2009 e 85/2008) giudicando su di un caso di lottizzazione hanno affermato che “di per sé, non è escluso che il proscioglimento per prescrizione possa accompagnarsi alla più ampia motivazione sulla responsabilità, ai soli fini della confisca del bene”. Mentre per le Sezioni unite “la confisca del prezzo del reato non presenta connotazioni di tipo punitivo, dal momento che il patrimonio dell’imputato non viene intaccato in misura eccedente il pretium sceleris”. Alcol-test in ospedale con obbligo di avviso difensivo di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2017 Corte di cassazione, sentenza 9 novembre 2017, n. 51284. Quando un guidatore coinvolto in un incidente viene portato in ospedale, non è vero che non ci sia mai l’obbligo di avvisarlo che può farsi assistere da un avvocato, prima di sottoporlo a un prelievo del sangue dal quale verrà accertato se è in stato di ebbrezza o no. La Quarta sezione penale della Cassazione (sentenza 51284/2017, depositata ieri) afferma infatti che bisogna distinguere tra due situazioni: quella in cui il prelievo sarebbe comunque stato compiuto, nell’ambito delle cure mediche prestate al ferito e quella in cui il prelievo avviene solo perché richiesto dalla polizia giudiziaria. Solo nella prima situazione si ricade nella giurisprudenza consolidata, secondo cui l’avviso non è necessario. Nella seconda, invece, l’interessato va espressamente avvertito (se è in condizioni di comprendere), anche se non è necessario che provvedano le forze dell’ordine (può farlo anche il personale medico). Questi chiarimenti si sono resi necessari nella situazione particolare cui si riferisce la sentenza: agli atti del processo c’era un modulo per il consenso informato al prelievo, firmato dall’imputata, da cui si desumeva che l’esame era stato chiesto dalla polizia e che non era stato dato avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore. Quest’ultimo elemento era bastato a far ritenere al Gup inutilizzabile l’esito dell’esame. Ma la Procura generale ha impugnato in Cassazione il provvedimento, argomentando che il prelievo era stato effettuato a seguito d’incidente, ipotesi che rende obbligatorio (articolo 186, comma 5, del Codice della strada) l’esame del tasso alcolemico, a prescindere dalla presenza di indizi di reato. Tale obbligo “assoluto” renderebbe arbitrario distinguere tra il prelievo effettuato nell’ambito della cura e quello svolto solo perché richiesto dalla polizia. Secondo la Cassazione, il comma 5 non implica che la misurazione del tasso alcolemico in caso d’incidente sia svolta con prelievo ematico: si può usare anche l’etilometro, che richiede sempre l’avviso della facoltà di farsi assistere, ma non l’intervento di sanitari, e fornisce dati altrettanto utilizzabili nel processo penale. Ma ciò non toglie che ci siano “diversità afferenti alla natura degli atti e alle condizioni cui soggiace la loro utilizzabilità nel processo penale”. E solo quando non c’è cura medica l’atto ha vera natura di polizia giudiziaria e quindi devono esserci già indizi di reato e occorre l’avviso. Peculato per il Consigliere che finanzia il partito con i soldi del Consiglio regionale di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 9 novembre 2017 n. 51286. Commette il reato di peculato il Consigliere regionale che utilizza i contributi pubblici erogati dal Consiglio regionale al suo Gruppo consiliare per spese non giustificate o per finanziare indebitamente partiti politici. Difatti, il reato di cui all’articolo 314 del codice penale si configura quando vi sia una utilizzazione di denaro pubblico, da parte del pubblico ufficiale, quando non si dia giustificazione certa, secondo le norme della contabilità pubblica o quelle derogative previste dalla legge, del loro impiego per finalità corrispondenti alle attribuzioni e competenze istituzionali specifiche. Questo è quanto si desume dalla sentenza 51286 della Cassazione depositata ieri. Il caso - La vicenda riguarda un ex consigliere regionale della Sardegna, iscritto prima al Gruppo “Insieme per la Sardegna” e poi al Gruppo “Misto”, il quale era accusato del delitto di peculato, per aver utilizzato indebitamente, nella sua qualità di pubblico ufficiale, delle somme di denaro erogate dal Consiglio regionale in favore del suo rispettivo Gruppo consiliare di appartenenza. Nello specifico, l’ex consigliere aveva sostenuto spese per materiale propagandistico, pranzi e rinfreschi in occasione di incontri di lavoro e, soprattutto, per finanziare in maniera indiretta l’attività di partiti politici, per una somma complessiva di circa 50 mila euro. Si trattava, cioè, di spese in parte non documentate e in parte non aderenti alle finalità istituzionali per le quali erano erogate. Dopo la condanna in primo grado e la riduzione della pena in appello, l’ex Consigliere si rivolgeva in Cassazione dove lamentava l’errata interpretazione come “pubbliche”, da parte dei giudici di merito, delle spese incriminate, che in realtà dovevano considerarsi “legittime” in quanto riconducibili all’autonomia del Gruppo consiliare e riferibili allo stesso consigliere quale quota individuale; nonché la non corretta applicazione della normativa regionale sulla rendicontazione dei contributi ai gruppi politici. Le spese sostenute dai Consiglieri - La Suprema corte ritiene, però, inammissibile il ricorso del consigliere regionale, attraverso l’analisi delle più importanti sentenze di legittimità in materia di peculato e contributi pubblici indebitamente utilizzati da consiglieri regionali, ribadisce alcuni principi cardine sulla materia. In primo luogo, il Collegio sottolinea come l’oggetto del reato di peculato è “l’appropriazione di denaro o altra cosa mobile altrui delle quali l’agente abbia comunque la disponibilità, così che la natura “pubblica” o meno delle somme ricevute dal Salis a titolo di quota individuale è elemento del tutto non pertinente”. D’altra parte, sostiene la Corte, si tratta di spese che già i giudici d’appello hanno considerato come non giustificate o non legittime distinguendo “tra spese di carattere istituzionale, effettuate dai Consiglieri regionali perché strumentali al funzionamento dei Gruppi e corrispondenti alla loro natura pubblicistica quali necessarie articolazioni interne del Consiglio Regionale, e le spese sostenute dal singolo Consigliere per la sua attività politica sul territorio senza alcun collegamento con le citate funzioni rappresentative e col funzionamento del Gruppo consiliare regionale di appartenenza”. E tale valutazione di merito non può essere sindacata in sede di legittimità. L’obbligo di rendicontazione - Quanto alla questione della conservazione della documentazione delle spese, la Corte ricorda come tutti coloro che investono una funzione pubblica sono tenuti al rispetto di un generale obbligo di rendicontazione integrando il delitto di peculato “l’utilizzazione di denaro pubblico, quando non si dia una giustificazione certa e puntuale del suo impiego per finalità strettamente corrispondenti alle specifiche attribuzioni e competenze istituzionali del soggetto che ne dispone, tenuto conto delle norme generali della contabilità pubblica”. Si tratta, cioè, spiegano i giudici, di regole discendenti direttamente dalle norme costituzionali che riguardano l’intero settore pubblico alle quali, quindi, devono ritenersi assoggettati anche i Consiglieri regionali. Frode in commercio, punito il falso cartellino di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2017 Tribunale di Lecce - Sezione II penale - Sentenza 15 maggio 2017 n. 1187. L’offerta in vendita di pesce fresco come pescato in mare in una certa zona, ma in realtà proveniente da allevamento, costituisce condotta idonea ad integrare gli estremi del tentativo di frode in commercio, indipendentemente dalla contrattazione effettuata o meno con il cliente per l’acquisto della merce. Difatti, l’esposizione del cartellino identificativo del pesce, riportante provenienza e prezzo, equivale ad un’offerta al pubblico, rendendo così superfluo l’eventuale contrattazione. Ad affermarlo è il Tribunale di Lecce con la sentenza 1187/2017. Il caso - La vicenda prende le mosse da un controllo igienico-sanitario effettuato dai Nas dei Carabinieri presso il reparto pescheria di un supermercato in provincia di Lecce, diretto ad “ispezionare la merce esposta in vendita e verificare la veridicità e la corrispondenza delle informazioni riportate sui cartelli di vendita in riferimento allo stato fisico, all’origine, alla provenienza e alla qualità della merce”. I due ufficiali che eseguivano il controllo notavano che le indicazioni presenti sui cartelli identificativi delle specie ittiche “orate” e “spigole” esposte in vendita riportavano che il prodotto era fresco e pescato nella zona Fao 37 (Mediterraneo occidentale). Tuttavia, a seguito di più approfonditi controlli emergeva che, in realtà, il pesce proveniva da allevamenti greci. Di conseguenza, il legale rappresentante della società che gestiva la pescheria del supermercato, assente al momento dei controlli, veniva tratto a giudizio per rispondere del reato di frode in commercio tentata. La decisione - Il Tribunale, data per certa la difformità tra i prodotti offerti e le caratteristiche dichiarate, condanna il titolare della pescheria e spiega quando si configura il reato previsto dall’articolo 515 del codice penale. Ebbene, per la configurabilità della forma tentata di tale delitto “non è necessaria la sussistenza di una contrattazione finalizzata alla vendita, essendo sufficiente l’accertamento della destinazione alla vendita di un prodotto diverso per origine, provenienza, qualità o quantità da quelle dichiarate o pattuite”. In altri termini, spiega il giudice, non rileva che non ci sia stata contrattazione con la clientela, “in quanto l’esposizione del cartellino identificativo, riportante provenienza e prezzo, equivale ad un offerta al pubblico, rendendo superfluo l’assenza di contrattazione”. La semplice offerta, dunque, è sufficiente ad integrare gli estremi del tentativo di frode in commercio. Inoltre, quanto all’individuazione del titolare della pescheria quale responsabile dell’azione criminosa, per il Tribunale non rileva in alcun modo la circostanza che a sistemare la merce sugli scaffali e ad apporre i cartellini fosse stato un dipendente dell’esercizio commerciale. Infatti, sul titolare di un esercizio commerciale grava l’obbligo di impartire ai propri dipendenti precise disposizioni di leale e scrupoloso comportamento commerciale, nonché di vigilare sull’osservanza di tali disposizioni: in difetto, scatta la responsabilità penale “sia allorquando alla condotta omissiva si accompagni la consapevolezza che da essa possano scaturire gli eventi tipici del reato, sia quando si sia agito accettando il rischio che tali eventi si verifichino”. Lazio: 402 detenute, il 17,6% della popolazione carceraria femminile italiana di Valentina Conti Il Tempo, 10 novembre 2017 Sono Scontano la pena con i figli in cella fino a 3 anni. Vite "in stand by" all’interno della casa circondariale di Rebibbia a Roma (dove le guardie penitenziarie sono sotto organico, il rapporto è una su 3,5 detenute) e nelle altre tre carceri femminili del Lazio, Civitavecchia, Latina e la casa di reclusione di Paliano. Strutture che ospitano nel complesso 402 detenute, pari al 17,6% della popolazione carceraria femminile italiana. Storie variegate, di donne che scontano la pena anche con i loro figli in cella fino a 3 anni. Con il 6,4% è il Lazio la regione con il più alto numero di donne detenute, contro una media nazionale del 4,2%. Sono 203 le donne straniere (199 le italiane). Un dato fortemente in crescita dal 2012, quando rappresentavano il 44% del totale, ad oggi, in cui la percentuale di presenze è salita al 50,5%. Di queste, nel Lazio, a differenza del resto d’Italia, la maggior parte proviene da Paesi della Comunità europea (37,9%), segue un 27% proveniente dall’ex Jugoslavia e dall’Albania e un 30% equamente suddiviso tra Africa e Sudamerica. Sono alcuni dei dati realizzati ed elaborati dalla Uil di Roma e del Lazio, in collaborazione con l’istituto di ricerca Eures, relativamente alla situazione carceraria delle detenute della regione, presentati ieri in occasione del convegno "Vite in sospeso" organizzato dal sindacato regionale all’interno del carcere di Rebibbia. Nella nostra regione, inoltre, vi è una componente più giovane rispetto al resto del Paese, anche se sono le fasce di età "centrali", ovvero 30-39 e 40-49, a raccogliere le presenze più numerose. Negli ultimi anni, però, è solo la componente più anziana a registrare un risultato in crescita, con un incremento di circa il 18% delle over 50. “Dato, quest’ultimo, che potrebbe essere legato purtroppo anche alla situazione di crisi e all’aumento del disagio sociale. Non è un caso che il furto sia il reato più diffuso tra le detenute di Rebibbia, ad esempio”, ha evidenziato il segretario generale della Uil di Roma e del Lazio, Alberto Civica. Particolarmente elevato è il numero delle donne con figli: nel Lazio 291, ossia il 72,4% delle detenute censite, con una media di 2,9 figli a testa, un valore superiore al doppio di quello della fecondità media della popolazione. Undici di questi bambini sono attualmente ospitati con le rispettive mamme all’interno della casa circondariale di Rebibbia, l’unica sul territorio ad essere dotata di un asilo nido. Ed il tema dei figli è proprio uno dei più sentiti tra la popolazione carceraria, insieme alle problematiche connesse al lavoro per chi riacquisisce il regime di libertà. Le operatrici raccontano che la richiesta più frequente da parte delle detenute sia quella dei colloqui con i figli, spesso ospitati presso strutture di accoglienza. Marche: i Radicali “siamo preoccupati per alcune categorie di detenuti” di Alessandra Napolitano centropagina.it, 10 novembre 2017 Dopo le visite nel mese di ottobre presso la Casa Circondariale di Montacuto, la Casa di Reclusione Barcaglione e la Casa Circondariale di Marino del Tronto, i Radicali Marche esprimono la loro preoccupazione per alcune categorie di detenuti. “127 sono tossicodipendenti (27%), 110 sono in attesa di giudizio (24%), 108 sono malati cronici (23%), 133 sono stranieri (28%)- riferiscono i radicali-. Temiamo che, almeno in parte, per questi soggetti la detenzione in carcere sia la conseguenza di una difesa impreparata sul caso, di difficoltà linguistiche o della mancanza di un domicilio”. Tra luglio e novembre anche il Garante regionale dei diritti dei detenuti Andrea Nobili ha visitato le carceri marchigiane evidenziando situazioni problematiche. “A seguito dell’ultima visita alla casa circondariale di Marino del Tronto, il Garante ha parlato della necessità di interventi immediati per ripristinare condizioni di normale vivibilità per i detenuti. Dopo quella effettuata a Montacuto, oltre al sovraffollamento, ha evidenziato problematiche relative alla presenza di detenuti con problemi di tossicodipendenza e patologie psichiatriche- spiega Enzo Gravina, segretario Radicali Marche. Il Garante ha sollecitato l’intervento del Dap e l’onorevole Emanuele Lodolini si è impegnato a presentare una interrogazione parlamentare”. I Radicali si appellano alla legislazione e al Ministro Orlando per attuare misure alternative alla detenzione per alcune categorie di detenuti. “La legislazione vigente permette (e le migliori pratiche suggeriscono) l’esecuzione “esterna” della pena per i consumatori di sostanze autori di reato, nei casi di reati droga-correlati e in assenza di rischi sociali o di sicurezza. Consistono in arresti domiciliari, trattamento in comunità, altre residenze specifiche con maggiori probabilità di recupero e minori costi economici e sociali- afferma Gravina. In secondo luogo, rispetto agli imputati in attesa di giudizio, il comitato anti tortura del Consiglio d’Europa, rivolgendosi in particolare alla situazione italiana, ricorda che “la custodia cautelare, data la sua natura invasiva e tenendo a mente il principio della presunzione di innocenza […] deve essere utilizzata solo come ultima misura”. La riforma dell’ordinamento penitenziario approvata quest’anno prevede tra l’altro l’ampliamento dell’ambito di operatività delle misure alternative alla detenzione, ma non è ancora in vigore per la mancata emanazione dei decreti attuativi. Per questo motivo Rita Bernardini con il Partito Radicale il 16 ottobre ha ripreso - insieme a migliaia di detenuti - un digiuno ad oltranza per “incoraggiare” il ministro Orlando a completare l’iter entro la legislatura”. Sardegna: pronto il bando per la selezione del Garante regionale dei detenuti sardegnadies.it, 10 novembre 2017 Il presidente dell’Assemblea legislativa sarda Gianfranco Ganau: “Entro i primi mesi dell’anno prossimo la nomina”. In Consiglio il Garante nazionale Mauro Palma. “Il bando è stato finalmente definito, a breve verrà pubblicato ed entro i primi mesi dell’anno prossimo ci auguriamo di poter nominare, una volta raccolte le domande, il Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale”. Lo ha riferito il presidente del Consiglio regionale Gianfranco Ganau al Garante nazionale per i detenuti, Mauro Palma in Sardegna per visitare gli istituti penitenziari dell’isola e attivare una rete con le istituzioni regionali per un lavoro coordinato con i diversi garanti per i detenuti, già nominati a livello locale. Il massimo rappresentante dell’Assemblea sarda ha ricevuto questo pomeriggio in visita ufficiale il professor Palma, nominato a capo dell’Autorità nazionale a febbraio dell’anno scorso, dopo due anni dall’approvazione della legge n. 10 del 2014 che ha istituito la nuova figura del Garante per i detenuti che oggi si occupa di tutte le forme di privazione della libertà delle persone, dalla custodia nei luoghi di polizia alla permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione, ai trattamenti sanitari obbligatori. “La figura del Garante nazionale ha oggi maggiori competenze - ha sottolineato Palma - ecco perché risulta necessario accreditare le strutture territoriali per delegare alcune funzioni. Il mandato dei garanti regionali non deve coincidere con quello legislativo ed è estremamente importante la selezione della figura che andrà poi a ricoprire l’incarico”. Il presidente del Consiglio regionale ha spiegato che nonostante la legge istitutiva del garante regionale, la n.7 del 2011, sia stata approvata ormai sei anni fa purtroppo ad oggi non è stata ancora applicata né finanziata. “È una buona legge - ha sottolineato il massimo rappresentante dell’Assemblea sarda - che una volta nominato il Garante andrà sicuramente integrata con le nuove funzioni già attribuite a livello nazionale, e soprattutto occorrerà garantire una piena applicazione della norma e una congrua copertura finanziaria”. Friuli Venezia Giulia: suicidi in carcere, ok della Regione al piano di prevenzione quotidianosanita.it, 10 novembre 2017 Il provvedimento recepisce il piano nazionale approvato in Conferenza unificata a luglio. Secondo i dati della Regione, nel 2016 in Friuli Venezia Giulia, su un totale di 614 detenuti, ci sono stati 124 atti di autolesionismo e 9 tentati suicidi. I tentativi di suicidio hanno riguardato tutti soggetti di sesso maschile e soprattutto la fascia di età tra i 21 e i 24 anni. I detenuti provenienti dall’Africa e dall’Asia hanno tassi di tentato suicidio più alti. Anche il Friuli Venezia Giulia, con le sue cinque case circondariali, si trova a doversi confrontare con i problemi legati alla condizione carceraria. A questo scopo, la Giunta regionale ha adottato, su proposta dell’assessore alla Salute, Maria Sandra Telesca, il piano regionale per la prevenzione delle condotte suicidarie e dei gesti autolesivi in carcere e indicazioni per i piani locali. “Il provvedimento, che non comporta spesa a carico del bilancio regionale, recepisce il piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti, approvato in sede di conferenza unificata Stato-Regioni lo scorso luglio. Dal piano regionale discenderà poi la definizione, o l’aggiornamento, dei piani operativi locali tra il singolo istituto penitenziario e la competente azienda sanitaria”, spiega la Regione in una nota. Lo strumento regionale sostanzialmente persegue in primo luogo l’obiettivo di inquadrare dal punto di vista epidemiologico il fenomeno del suicidio e del gesto autolesivo nelle carceri del Friuli Venezia Giulia. In secondo luogo il piano definisce la sua architettura organizzativa per quanto riguarda il livello regionale e locale, individuando gli elementi essenziali dei Piani di prevenzione locale. Il piano regionale è stato sottoposto ad un processo di condivisione in sede di osservatorio permanente per la sanità penitenziaria e all’attenzione del gruppo risk manager degli enti del servizio sanitario regionale che non ha espresso pareri negativi. Per quel che riguarda la casistica dei fenomeni, secondo i dati riferiti dalla Regione, nel 2016 in Friuli Venezia Giulia su un totale di 614 detenuti si sono registrati 124 atti di autolesionismo e 9 tentati suicidi. Il penitenziario con il più alto tasso di autolesionismo, sempre nel 2016, è stato quello di Udine (82 casi su 128 detenuti), mentre quello di Tolmezzo non ha registrato alcun episodio. Nel dettaglio, da un’analisi fatta sul periodo 2010-16, risulta che i tentativi di suicidio hanno riguardato tutti soggetti di sesso maschile, mentre l’età maggiormente rappresentata è quella giovanile, in particolare tra i 21 e i 24 anni. Sul fronte della provenienza geografica i detenuti provenienti dall’Africa e dall’Asia hanno tassi di tentato suicidio più alti rispetto agli europei e agli italiani. Da rilevare infine che, sempre nella fascia temporale 2010-16, si sono verificati 3 casi di suicidio nelle carceri del Friuli Venezia Giulia. Il documento regionale, fornendo indicazioni per i Piani locali in base alle indicazioni del piano nazionale, assegna alle aree operative che si trovano nelle componenti volontarie, professionali e detenute all’interno del carcere tre campi d’azione: sostegno, attenzione e decisione. “In tale ambito - precisa la Regione nella nota - gli elementi essenziali della strategia sono rappresentati dalla rilevazione del rischio (assenza di rete familiare, assenza di esperienze detentive, abitudini legate all’uso di sostanze stupefacenti), dal presidio delle situazioni potenzialmente stressanti (ingresso, colloqui con i familiari e corrispondenza con l’esterno), dal lavoro integrato e multidisciplinare (tra personale di area penitenziaria e sanitaria) e dalla gestione dei casi a rischio (alloggiamento e interventi sanitari)”. “Questo piano regionale - ha spiegato Telesca - è un lavoro importante, il quale fa parte del grande tema della sanità penitenziaria che abbiamo acquisito come Regione Friuli Venezia Giulia quattro anni fa e che si traduce in una maggior sorveglianza sanitaria in carcere non solo nella cura delle malattie ma anche nell’opera di prevenzione legata alle azioni di autolesionismo”. Sulmona (Aq): accelerano i lavori per il nuovo padiglione del carcere di Federica Pantano Il Centro, 10 novembre 2017 Procedono spediti i lavori sul nuovo padiglione del carcere sulmonese. Gli interventi, cominciati nel 2014, dopo l’annuncio della pubblicazione della gara di tre anni prima, sarebbero dovuti terminare nei successivi 18 mesi. Invece, lungaggini burocratiche e problemi nella gestione del cantiere hanno allungato i ritmi di lavoro. Passo che ora si cerca di recuperare dando un’accelerata agli interventi, come conferma il direttore della struttura Sergio Romice. “I lavori proseguono a ritmo serrato e il nuovo padiglione sta cominciando a mettere le radici”, fa notare Mauro Nardella, vicesegretario regionale Uil penitenziari. Il nuovo padiglione servirà ad accogliere 200 detenuti in più, che saliranno da 414 a 614, tra ergastolani (150) e collaboratori di giustizia con pena media di 20 anni. Per appena 250 agenti penitenziari sui 267 previsti in pianta organica, 310 secondo le stime sindacali. Il nuovo padiglione si estenderà su 4mila metri quadri, con sei nuovi cortili da passeggio e sale colloqui più ampie, per un importo di quasi tredici milioni. I lavori, che riguarderanno anche il parcheggio, dovrebbero terminare ad aprile 2018, dopo una durata di 18 mesi. Il nuovo padiglione è stato previsto per venire incontro alle problematiche di affollamento della struttura. Solo che al momento non sono previsti nuovi innesti di personale penitenziario. “Qui si continua a tagliare sulla pianta organica al posto di prevedere nuove assunzioni”, denuncia Nardella. “Ci auguriamo che le cose cambino e che chi governa capisca che con 200 detenuti in più non si può pensare di lasciare gli agenti agli attuali numeri, che ci espongono a continui rischi e che minano anche la sicurezza degli stessi reclusi”. Il riferimento del sindacalista è all’ultimo episodio di aggressione ai danni di un agente penitenziario, per mano di un detenuto che lo ha colpito con un pugno sul volto. Lunga anche la scia dei suicidi nel carcere sulmonese. L’ultimo risale a settembre scorso, quando un giovane collaboratore di giustizia campano di 24 anni fu trovato senza vita in cella. Prima, nell’aprile del 2010, un detenuto era stato trovato impiccato con un lenzuolo alla grata della sua cella. Biella: i detenuti diventano sarti per cucire le divise degli agenti di tutta Italia di Andrea Formagnana La Stampa, 10 novembre 2017 Il carcere di Biella è pronto ad aprire una sartoria industriale che, a regime, occuperà una settantina di persone. È un progetto nazionale che pone il penitenziario biellese tra le strutture modello in Italia. La pena ha lo scopo di reinserire i detenuti nella società. Lo si dice di continuo, ma il reinserimento passa soprattutto dalla formazione del detenuto, che va dotato di strumenti che una volta tornato libero gli consentano di trovare un’occupazione. La realtà di molte carceri spesso è un’altra. A offrire una fotografia della situazione piemontese è il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano: “Sono poco più di 150 i detenuti che svolgono un vero lavoro nelle 13 carceri piemontesi. Gli altri coinvolti in attività, 894 in tutto, vengono impegnati in lavoretti domestici; 199, infine, lavorano ma non alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria”. Il garante ha citato come esempio il caso di Padova dove la cooperativa Giotto porta avanti veri progetti di lavoro come il call center per le prenotazioni nella sanità. “È un modello - dice Mellano - che ha dato risultati sia numerici sia per la qualità degli interventi. Non si tratta di progetti di nicchia con pochi detenuti, perché coinvolgono anche un centinaio di persone”. E il progetto del carcere di Biella con la sartoria industriale va proprio in questa direzione. I detenuti realizzeranno le divise per il corpo della polizia penitenziaria, ha anticipato Mellano. La direttrice del carcere Antonella Giordano conferma l’imminente apertura del laboratorio: “Da marzo, in collaborazione con il Cpia (centro provinciale istruzione adulti) e con l’Ipsia, abbiamo cominciato a formare i primi dieci detenuti e a fine mese saremo pronti a partire con la produzione. Intanto altre dieci persone hanno iniziato i corsi”. Tutti i detenuti saranno regolarmente assunti dall’amministrazione carceraria e verrà loro riconosciuto un diploma spendibile quando saranno rilasciati. In un carcere che ormai sta raggiungendo la saturazione - attualmente sono 440 i detenuti quando il limite sarebbe fissato a 500 - sono attivi da tempo anche altri percorsi, come quello del “tenimento agricolo”, che presto si implementerà con la trasformazione dei prodotti grazie a Caritas e a “Raggio Verde”, ed i corsi di manutentore delle aree verdi e per operatore di impresa di pulizie. Reggio Calabria: il Comune avvia i tirocini formativi per i giovani detenuti avveniredicalabria.it, 10 novembre 2017 Il Settore Welfare del Comune di Reggio Calabria, ha avviato un importante progetto per favorire il recupero sociale e lavorativo di 20 minori, sottoposti a procedimenti penali dell’Autorità Giudiziaria in carico al Servizio Sociale per i minorenni di Reggio Calabria che risiedono nel territorio reggino. A comunicarlo, l’Assessore al Settore Welfare Lucia Anita Nucera. “Il progetto - spiega l’Assessore Nucera - realizzato attraverso la sottoscrizione di un protocollo operativo tra il Comune di Reggio Calabria, l’Ussm (Servizio sociale per i minorenni) di Reggio Calabria, l’Atam S.p.a. e il Consorzio “Ecolandia Scrl” tende, attraverso l’utilizzo dei minori in variegate attività di pubblica utilità (socio-lavorativa), a favorire l’interiorizzazione del rispetto delle regole e le condizioni per un loro recupero e un organico inserimento nel tessuto sociale e civile. Il protocollo operativo - continua l’Assessore Nucera - vuole sottolineare l’importanza che riveste per questi ragazzi l’aspetto socio-educativo e la realizzazione di opportunità d’incontro con il mondo del lavoro poiché questi aspetti rappresentano e si configurano come importanti fattori formativi, di crescita e di recupero. Sia l’Atam sia il Consorzio “Ecolandia”, in base alle loro competenze e attività realizzate, mettono a disposizione dei minori segnalati dall’USsm di Reggio Calabria, opportunità socio-lavorative configurate attraverso specifici tirocini socio-educativi il cui percorso di recupero è seguito da un tutor appositamente designato. L’Atam garantisce servizi che riguardano l’apprendistato meccanico, l’apprendistato d’ufficio e l’apprendistato inerente agli impianti, il consorzio “Ecolandia” mette sul piatto attività concernenti lavori manuali che riguardano la cura di piante, fiori e alberi di parco, lavori di vangatura e manutenzione del terreno, la diserbazione manuale delle piante infestanti e la manutenzione della pulizia delle aiuole”. “Il protocollo prevede pure che per ciascun minore, coinvolto nel progetto, sia garantita la copertura assicurativa contro gli infortuni e le malattie professionali e un rimborso spese. Si tratta di una iniziativa - prosegue Nucera - che riveste un grande significato pedagogico oltre che sociale perché è destinata ad intervenire su dei ragazzi che hanno violato il rispetto delle regole con dei percorsi di recupero mirati ad evitare e impedire possibili recidive che possano condizionare pesantemente il loro futuro. Infatti, alla base del progetto, vi è l’obiettivo di costruire, per quei minori che fanno parte del circuito penale, percorsi di giustizia riparativa e di educazione alla cittadinanza attiva attraverso azioni di recupero di pubblica utilità”. Eboli (Sa): al via il corso di Lingua Italiana dei Segni per i detenuti dell’Icatt di Arianna Bruno occhiodisalerno.it, 10 novembre 2017 Al via venerdì corso gratuito di sensibilizzazione alla lingua italiana dei segni rivolto ai detenuti dell’Icatt di Eboli. Al via venerdì 10 novembre il “Corso gratuito di sensibilizzazione alla lingua italiana dei segni” rivolto ai detenuti dell’Istituto a custodia attenuata per il trattamento delle tossicodipendenze di Eboli. Come riportato da Salernonotizie, il corso è promosso dall’associazione di promozione sociale “Mi girano le ruote” di Campagna, guidata da Vitina Maioriello, che all’interno della struttura detentiva dirige la rivista mensile di informazione sociale “Diversamente Liberi”, una redazione dietro le sbarre composta da circa dieci detenuti. Il corso, rivolto a quindici detenuti, si terrà all’interno dell’Icatt di Eboli. Avrà durata di dieci ore e si articolerà in quindici incontri della durata di circa 2 ore. Al termine del progetto sarà allestito un saggio-spettacolo con “poesie e canzoni in lis”e verrà rilasciato un attestato di partecipazione dall’Unione Culturale Sportiva Sordomuti Cavensi. “Ne siamo estremamente orgogliosi - dichiara la presidente Maioriello - che da anni collabora in sinergia con l’Icatt di Eboli. Ringrazio di cuore la direttrice dell’istituto penitenziario di Eboli che ha accolto positivamente la nostra proposta educativa riconoscendone il valore che la frequentazione del corso potrà avere per gli ospiti della struttura. Un ringraziamento va anche a coloro che affiancheranno i nostri volontari affinché si porti avanti questo percorso formativo”. Napoli: Guida ai diritti e ai doveri dei detenuti, ecco la seconda edizione in 5 lingue ilmondodisuk.com, 10 novembre 2017 Guida ai diritti e ai doveri dei detenuti. La seconda edizione, curata dalla Commissione di studio dell’associazione “Il Carcere Possibile Onlus” sul diritto dell’esecuzione penale, edita da Pacini Giuridica, sarà presentata lunedì 13 novembre alle 11.30 nella sala auditorium del Palazzo di Giustizia di Napoli. È dedicata alla memoria di Adriana Tocco. Il progetto è realizzato con la Camera penale di Napoli, l’Unione delle camere penali Italiane, l’Osservatorio carceri dell’Unione delle camere penali Italiane, il garante dei diritti dei detenuti della Regione Campania, in collaborazione con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Partecipano: Gennaro Migliore, sottosegretario al ministero della giustizia; Adriana Pangia, presidente del tribunale di sorveglianza di Napoli; Rosa D’Amelio, presidente del consiglio regionale Campania; Giuseppe Martone, provveditore della amministrazione penitenziaria della Campania; Beniamino Migliucci, Presidente dell’Unione Camere Penali, Attilio Belloni, presidente della camera penale di Napoli; Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Regione Campania. Intervengono: Riccardo Polidoro, Presidente dell’osservatorio carcere; Monica Amirante, giudice presso il tribunale di sorveglianza di Napoli, Rita Bernardini della Camera dei Deputati; Sabina Coppola, direttivo de Il Carcere Possibile Onlus; Elena Cimmino, direttivo de “Il Carcere Possibile Onlus”. Modera, Angelo Mastrocola, direttivo della Camera Penale di Napoli. Questa edizione è un aggiornamento della Guida già pubblicata nel giugno 2010. Tradotta in 5 lingue (spagnolo, inglese, francese, rumeno, albanese), sarà distribuita gratuitamente negli istituti penitenziari per fornire a quanti vivono dietro le sbarre e ai loro familiari uno strumento per orientarsi in carcere, affrontando una detenzione consapevole dei diritti riconosciuti e delle regole da rispettare. Macerata: al via il festival “Philodiritto”, la popsophia del diritto e del crimine viveremacerata.it, 10 novembre 2017 Venerdì 10 novembre, prenderà il via la prima edizione di Philodiritto, il festival nazionale interamente dedicato alla “Pop Filosofia del diritto e del crimine” che il Comune di Macerata organizza insieme all’Associazione Popsophia, alla Camera Penale di Macerata, al Comitato per le Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Macerata. Partner eccezionali il Consiglio Nazionale Forense e il suo quotidiano “Il Dubbio” e l’Unione Camere Penali Italiane. Due giornate, il 10 e l’11 novembre, al Teatro Lauro Rossi di Macerata interamente dedicate alle tematiche del diritto, del crimine e della giustizia e ai rispettivi fenomeni della cultura di massa - letteratura, cinema, fiction, musica, social media. Si parte alle ore 15:30 con la rassegna “Philofiction”: con il Presidente del Consiglio Nazionale Forense Andrea Mascherin, si parlerà del controverso ruolo dell’avvocato nelle fiction televisive più amate dal pubblico, dall’eroico difensore Perry Mason al bad lawyer nella più recente fiction Better Call Saul. Il pomeriggio proseguirà alle 17.30 con la rassegna “Popcrime” dedicata alle contraddizioni e ai pericoli del processo giornalistico e della gogna mediatica, tra aule di tribunale e social network, il primo appuntamento vedrà ospiti il giornalista e direttore del quotidiano nazionale del Consiglio Nazionale Forense, “Il Dubbio”, Piero Sansonetti e l’avvocato Renato Borzone dell’Osservatorio Informazione Giudiziaria U.C.P.I.. Alle 18.30 sarà il turno di Roberto Mordacci dell’Università S. Raffaele di Milano che parlerà di “Filosofia dell’eroe noir tra legge e morale”, dal film “Il Falcone maltese” al più recente “Vizio di forma”. Alle 21.30 il mondo del diritto si trasforma in Philoshow, con l’inedito spettacolo filosofico-musicale ideato dalla direttrice artistica di Popsophia Lucrezia Ercoli, con i montaggi e la regia di Marco Bragaglia. Il presidente delle Camere Penali Italiane Beniamino Migliucci introdurrà il philoshow “Peccato Reato - dall’Avvocato del Diavolo ai Rolling Stones”. Un excursus tra diritto, filosofia, televisione, cinema e musica che si completerà con le esecuzioni dal vivo della band Factory che interpreterà brani storici italiani e internazionali, da Bruce Springsteen a Fabrizio de André, da Bob Dylan a Edoardo Bennato. Gli appuntamenti del festival Philodiritto rientrano nelle attività riconosciute dall’Ufficio Scolastico Regionale come valide ai fini dell’aggiornamento dei docenti per l’anno scolastico 2017/18. La frequenza al festival rientra altresì nelle attività riconosciuta come valida ai fini della formazione forense. "Laggiù tra il ferro. Storie di vita, storie di reclusi", di Nicodemo Gentile recensione di Massimo Picozzi imprimatureditore.it, 10 novembre 2017 “Ogni istituto penitenziario è un microcosmo con i suoi riti, le sue gerarchie. Non puoi conoscerlo, e non puoi conoscere chi lo abita, se non entrandoci, passandoci del tempo. Con l’umiltà di ascoltare e l’intelligenza di sospendere i giudizi. Questo è riuscito a fare Nicodemo Gentile, e questo racconta nelle pagine del suo libro. Un libro speciale, perché è un libro vero”. Storie sconosciute della vita dietro alle sbarre, spaccati di quotidianità spesso drammatici, questo il contenuto del libro. Con le competenze tecniche che gli derivano dalla sua professione, l’autore ci offre un quadro estremamente accurato della situazione in cui versa la maggior parte dei detenuti nel nostro Paese per cercare di capire chi non ha più prospettive di vita libera, chi non riesce assolutamente ad adattarsi alle privazioni quotidiane, chi ha perso ogni speranza o chi non vuole e non sa rassegnarsi a ciò che crede una profonda ingiustizia. Sono vicende che spaziano dall’accettazione razionale della propria esistenza a un avvicinamento fideistico alla religione o, purtroppo, al tentativo di suicidio. Dietro tutto questo dolore, però, si avverte la necessità dell’ineluttabilità del carcere e della pena e vi è la convinzione che solo la rieducazione sociale del condannato (che non vuol dire pena più lieve o più corta) debba guidare la logica di chi gestisce le carceri di un Paese civile. La voce dell’autore si alterna a quella dei detenuti, come Salvatore Parolisi, Manuel Winston Reyes, Angela Biurikova, Carmelo Musumeci, che descrivono non la loro storia giudiziaria, ma la vita e il tempo in carcere. Nicodemo Gentile è nato a Cirò (Kr). È avvocato cassazionista e si occupa prevalentemente di diritto penale. Da anni è impegnato in vicende di rilevanza nazionale, tra le quali il processo per l’omicidio di Meredith Kercher e quello per Melania Rea e il delitto della contessa dell’Olgiata, dove è stato il legale degli imputati. In qualità di difensore di parte civile ha celebrato i processi per gli omicidi di Sarah Scazzi, dei fidanzati di Pordenone (Trifone e Teresa), di Roberta Ragusa, di Guerrina Piscaglia, alcuni dei quali ancora in corso. È inoltre il legale di riferimento di varie comunità e di associazioni impegnate nel sociale. La sede principale del suo studio è a Perugia, ma da tempo si avvale di articolazioni in tutto il territorio nazionale. “Liberare l’Italia dalle mafie” di Francesco Renda recensione di Alberto Olivetti Il Manifesto, 10 novembre 2017 Torno su alcune affermazioni di Francesco Renda in "Liberare l’Italia dalle mafie", il dialogo con Antonio Riolo che Ediesse pubblica nel 2008. Dopo aver rilevato la duplice essenza della mafia (associazione criminale organizzata e sentimento, idea, consenso ovvero cultura), Renda dice che “il fenomeno dei rapporti mafiosi con la società, con la politica, le istituzioni e il potere non è, non può e non deve essere materia di azione giudiziaria, ma di azione politica allo stato puro”. Meditiamo le conseguenze di questo assunto. Tra le altre una e non di poco momento: che il contrasto alla valenza criminale della mafia, quand’anche ottenga - e talora ottiene - rilevanti successi, non parrebbe in grado di scalfire o incrinare o ridurre la operante, estesa, costante presenza della cultura mafiosa in atto. Così come non parrebbe in grado di interdire o infrangere o circoscrivere le forme criminose che continuamente la mafia aggiorna e svecchia. A questa stregua, volgendo lo sguardo al trentennio trascorso, non pare azzardato sostenere che l’azione giudiziaria consentita dall’articolo 416 bis approvato nel 1982, abbia colpito con successo attività delittuose perseguite da comparti mafiosi, se non al tutto socialmente obsoleti e culturalmente residuali, per certo arretrati rispetto alle inedite e cospicue attività messe a punto ed elaborate dalla rinnovate pratiche e culture mafiose nell’ultimo trentennio. Rami se non secchi, destinati a inaridirsi per essere alimentati o da fonti in via d’esaurimento o, in ogni caso, inadeguate a fornire l’alimento richiesto dalle dimensioni delle nuove imprese avviate. Un intervento di potatura, diresti, lasciato dalla mafia alle mani dello Stato, che potrà vantarsene, presentandolo come l’ammirevole e meritoria sua guerra alla mafia, alla sua organizzazione ed ai suoi presunti capi che, finalmente assicurati alla giustizia, restringe inflessibile “all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati”, come disposto dall’art. 41 bis. Scrive Renda che, diversamente, “i problemi da affrontare e risolvere sono il diffuso consenso e la rete di connivenze, di aiuti e di protezione che consentono alla criminalità organizzata di sviluppare la sua attività delittuosa e di resistere all’azione giudiziaria e all’usura del tempo”. E continua, non nascondendosi che “un’opera del genere è assai vasta e complessa, e non è fattibile in breve tempo. Occorrono i provvedimenti legislativi e talune riforme della pubblica amministrazione, ma soprattutto è indispensabile una diffusa educazione civica, un impegno etico-politico, una nuova maniera di concepire i rapporti fra Stato, classi dirigenti e società civile”. Una nuova maniera opposta all’usata maniera, storicamente consolidata. Riflettevo, nella nota apparsa la scorsa settimana in questa rubrica, sulla natura (che la maniera ne stabilisce) degli attuali rapporti tra Stato e mafia “da intendersi, scrivevo, come relazioni determinate, operanti e attive nella fibra interna dell’organismo sociale e della sua crescita, non estranei all’assetto istituzionale, compresi nell’impianto statuale”, riflessione svolta in sintonia con quanto Renda afferma relativamente alla liberazione dello Stato da tali rapporti che, dice, va intesa “come un’autoliberazione”. A ragione dunque Renda indica la necessità di condurre una adeguata lotta alla mafia come la concertazione di un’azione politica allo stato puro. Renda, contrariamente alle facili vulgate che circolano, sostiene che poco della mafia conosciamo e che “i misteri della mafia rimangono, tuttavia, sempre misteri, e finora se ne sono individuati solo un paio”. Constatazione che rende assai arduo impostare una strategia efficace che si voglia davvero intesa all’annullamento del sistema mafioso in Italia. Sistema che, per molti rispetti si rivela inerente ad alcune (e delicate) articolazioni dello Stato. Così Renda della politica allo stato puro richiama una categoria classica: utopia. “Se vogliamo la liberazione dalle mafie, che adesso non c’è ma che vogliamo e speriamo di ottenere domani o dopodomani, necessariamente dobbiamo formularla adesso come nostra utopia, ossia come scopo da non conseguire al primo angolo della strada”. La pena di morte non ferma il male di Giorgio Pieri* informarexresistere.fr, 10 novembre 2017 La rivoluzione di Papa Francesco si fa avanti a piccoli passi, ma decisivi per un cambiamento della storia umana. Mentre Trump invoca la pena di morte per il terrorista colpevole di stragi in nome dell’Isis, il Pontefice va direttamente nella direzione opposta: l’abolizione della pena capitale. Non è questa la rivoluzione di Bergoglio, ma il contesto nel quale afferma tale dovere cristiano: il discorso per la promozione della nuova evangelizzazione, pronunciato mercoledì 11 ottobre 2017. Due parole chiave per comprendere: ”Custodire” e “Proseguire”. La Chiesa deve custodire la verità, proteggerla dai nemici, dai falsificatori, e oggi dall’ideologia del nulla che permette tutto. Contemporaneamente si rende necessario “esprimere le novità del Vangelo di Cristo che, pur racchiuse nella Parola di Dio, non sono ancora venute alla luce. È quel tesoro di “cose antiche e nuove” di cui parlava Gesù, quando invitava i suoi discepoli a insegnare il nuovo da lui portato senza tralasciare l’antico (cfr Mt 13,52).” Don Oreste Benzi, fondatore della comunità Papa Giovanni XXIII, e servo di Dio di cui abbiamo celebrato i 10 anni dalla sua salita in cielo, aveva proprio la capacità di rendere attuale il vangelo perché pur custodendo la verità sapeva attualizzarlo attraverso la vita di condivisione con i poveri. Definiva “le nuove chiamate”, i problemi che richiedevano una risposta nuova, creativa e a volte geniale alla luce del vangelo. Rispetto al tema della pena di morte, la Chiesa con le parole di Papa Francesco ribadisce che “si deve affermare con forza che la condanna alla pena di morte è una misura disumana che umilia, in qualsiasi modo venga perseguita, la dignità personale. È in sé stessa contraria al Vangelo perché viene deciso volontariamente di sopprimere una vita umana che è sempre sacra agli occhi del Creatore e di cui Dio solo in ultima analisi è vero giudice e garante. Mai nessun uomo, neppure l’omicida perde la sua dignità personale, perché Dio è un Padre che sempre attende il ritorno del figlio il quale, sapendo di avere sbagliato, chiede perdono e inizia una nuova vita. A nessuno, quindi, può essere tolta non solo la vita, ma la stessa possibilità di un riscatto morale ed esistenziale che torni a favore della comunità”. Di questa presa di posizione ho parlato con una ventina di detenuti che espiano la loro pena presso la Casa Madre della Riconciliazione, situata sui colli riminesi, facente parte del progetto Cec apg23 (Comunità Educante con i Carcerati) dell’associazione comunità Papa Giovanni XXIII. Tra loro c’erano anche persone che hanno commesso omicidio e reati sessuali. Ho posto loro questa domanda: è giusto abolire la pena di morte? Sono rimasto sorpreso perché ho trovato resistenze e non pochi erano a favore della pena di morte. Poi, parlando, si è giunti a considerare la necessità dell’ergastolo a vita al posto della pena capitale. Ragionando e soprattutto considerando che il Papa ha abolito l’ergastolo ostativo tre anni fa dalla Città del Vaticano si è convenuto che il tema è davvero complesso e che la provocazione del Pontefice è enorme. Tempo fa ho visitato le carceri nello stato del Camerun, in cui è ancora vigente la pena di morte, dove abbiamo due case d’accoglienza per detenuti ed anche una forte presenza nelle carceri che sono veri e propri luoghi di tortura. Ventiquattro persone in 12 metri quadrati, con le catene ai piedi, condizioni igieniche assurde, cibi scadenti così come l’assistenza sanitaria. In una di queste ho conosciuto condannati a morte che lo Stato non uccide, ma di fatto li lascia in carcere. Mi viene in mente Woltair che mi disse: “Sono anni che i miei occhi non guardano oltre i 30 metri. Per superare questo blocco, sono costretto a guardare in cielo, dove c’è Dio”. Dentro per omicidio ha solo 32 anni, da 10 è in carcere e finirà la sua vita li dentro. Questi, come quelli che in Italia sono condannati con l’ergastolo ostativo usciranno dalla prigione solo da morti. Ecco perché il Papa ha parlato dell’ergastolo ostativo come di una “pena di morte mascherata”. Ecco che allora siamo a dover considerare opportuno fissare una data di scadenza alla pena, al di là della tipologia del reato. Non a caso il Papa ha parlato di un diritto sottolineando che “a nessuno può essere tolta non solo la vita, ma la stessa possibilità di un riscatto morale ed esistenziale che torni a favore della comunità”. È ovvio che siamo tutti a chiederci: come è possibile offrire ai detenuti un riscatto morale ed esistenziale che addirittura abbia la forza di riparare al male fatto nei confronti della società? Sino ad oggi abbiamo risposto al male con il male. Il Pontefice ha detto che “nei secoli passati (…) il ricorso alla pena di morte appariva come la conseguenza logica dell’applicazione della giustizia a cui doversi attenere. Purtroppo, anche nello Stato Pontificio si è fatto ricorso a questo estremo e disumano rimedio, trascurando il primato della misericordia sulla giustizia. Assumiamo le responsabilità del passato, e riconosciamo che quei mezzi erano dettati da una mentalità più legalistica che cristiana. La preoccupazione di conservare integri i poteri e le ricchezze materiali aveva portato a sovrastimare il valore della legge, impedendo di andare in profondità nella comprensione del Vangelo”. Don Oreste parlando dei detenuti sin dall’inizio affermava che fosse necessario riconoscere l’opzione fondamentale: “quando una persona si pente del male fatto, non deve fare neanche un giorno di carcere, ma magari dedicare la sua vita per rimediare al male fatto con azioni a favore delle vittime e della società”. Ecco allora che si rende necessario, anzi urgente, creare luoghi di vita dove si rende possibile l’espiazione della pena che restituisca giustizia alle vittime e alla società. L’esperienza mi insegna che chi compie il male, spesso l’ha subito. Il male cresce nelle ferite del cuore dell’uomo. Il male è una catena che si auto alimenta e non lo si a ferma con la violenza. Neanche la pena di morte ferma il male. Può fermare una persona, ma il male nella società aumenta. Che fare? Costruire comunità educanti dove il reo espia la pena lasciandosi educare. La comunità Papa Giovanni XXIII sperimenta tale modello da oltre 15 anni. Oggi sono oltre 300 le persone accolte a costo zero per lo Stato. È possibile sperimentare la potenza del vangelo. La via del perdono, della misericordia quando è applicata con intelligenza, non cancella la giustizia, non degenera in buonismo. Ne è la prova il fatto tanti sono quelli che preferiscono il carcere alla vita comunitaria che è fatta di regole, di diritti, ma anche di doveri. Arriverà il giorno che guarderemo le carceri, queste enormi colate di cemento, dove gli uomini vivono ingabbiati in condizioni disumane, e arriveremo a riconoscerne l’assurdità. L’evoluzione dell’umanità non può mantenere luoghi di morte in nome della giustizia. Anche i penitenziari come sono oggi concepiti verranno riconosciuti al pari della pena capitale, come un modo di rispondere al male attraverso una mentalità attenta alla regola, ma non alla persona. L’eliminazione della pena di morte dunque porta necessariamente all’abolizione dell’ergastolo ostativo. Ma se un criminale deve uscire dal carcere dopo 30 o 40 anni si rende altresì necessaria la creazione di percorsi educativi che restituiscano alla società persone non più pericolose. Tali percorsi rendono attualizzabile il vangelo che afferma che Gesù non è venuto per i giusti ma per gli ingiusti e soprattutto noi cristiani siamo chiamati ad amare i nemici. Amare significa certamente perdonare, avere misericordia, ma soprattutto creare le condizioni perché il reo non torni a delinquere. Laddove si possono sperimentare questi percorsi educativi, la recidiva si abbassa dall’80% al 15%. Ciò significa che la società applicando il vangelo, ha tutto da guadagnare in termini di sicurezza, ma anche dal punto di vista economico: investire sull’educazione, infatti, permette un risparmio di oltre tre quarti della spesa odierna. Un esempio in questa direzione è rappresentato dalle prigioni che utilizzano il metodo Apac - Associazione per la protezione e assistenza dei condannati - che sono nate in Brasile. Questi piccoli ma piccoli ma significativi segni di speranza, sono prigioni senza guardie dove la recidiva si abbassa dall’80% al 20%. Cioè su 100 persone che escono solo 20 tornano a delinquere contro gli 80 del sistema comune. Nel solo Stato del Minas Gerais sono 52 le carceri a metodo Apac ed i costi sono un quarto del metodo tradizionale. L’Onu l’ha riconosciuto come il miglior metodo nel panorama mondiale, mentre la conferenza Episcopale Brasiliana (Ceb) ha affermato che nelle città dove viene utilizzato questo sistema non è più necessaria la pastorale carceraria. Prima di diventare un ente giuridico, l’Apac era formato da volontari che appartenevano al gruppo Amando il Prossimo Amerai Cristo. Essendo un metodo che ha per fondamento l’esperienza cristiana, non può che continuare a diffondersi. È la vittoria del bene sul male, il primato di una “giustizia educativa” che prende il posto di una “giustizia vendicativa” che è quella delle carceri. *Coordinatore Comunità educante con i carcerati della Comunità Papa Giovanni XXIII Periferie d’Europa, ecco dove nasce il senso di insicurezza dei cittadini di Dario Paladini Redattore Sociale, 10 novembre 2017 Da una indagine nei quartieri periferici di cinque città europee (Milano, Londra, Parigi, Budapest, Barcellona) emerge che i migranti, e tutti coloro che vivono ai margini della società (senza dimora, tossicodipendenti) rappresentano il peggiore incubo dei cittadini residenti, perché esprimono la precarietà e la fragilità umana Non basta arrestare ladri e rapinatori per sentirsi più sicuri. Il senso di insicurezza e di paura di moltissime persone ha origini più profonde. Un gruppo di ricercatori italiani dell’Università Bicocca ed europei ha condotto uno studio in due quartieri di cinque città: Milano, Londra, Parigi, Budapest, Barcellona. A Milano, in particolare, hanno intervistato residenti nei quartieri di Rogoredo-Santa Giulia e Gratosoglio-Ticinello. E quel che hanno scoperto è, per certi versi, sotto gli occhi di tutti ogni giorno: ciò che ci rende insicuri, ciò che ci fa sentire in pericolo, è la trasformazione che sta avvenendo nei quartieri, nelle nostre strade. Non ci sentiamo più parte di una comunità. "Il materiale empirico raccolto nel corso della ricerca - scrivono gli studiosi -, ha messo ben in luce come nei quartieri delle città oggetto d’analisi i migranti, e tutti i soggetti che vivono ai margini della società (senza dimora, tossicodipendenti ecc.) rappresentino il peggiore incubo dei cittadini residenti, perché esprimono la precarietà e la fragilità della condizione umana. In un certo senso rappresentano l’essere “superflui”, quello che ognuno di noi, a causa della pressione di questo sempre più precario equilibrio economico, potremmo diventare e che vorremmo velocemente dimenticare. I migranti sono diventati per innumerevoli motivi i principali portatori delle differenze di cui abbiamo paura e contro cui tracciamo confini". Non ci sentiamo più sicuri, perché non ci sentiamo più "a casa". Usciamo dal nostro appartamento e il quartiere nel quale magari viviamo da decenni non lo riconosciamo più. E così tutto ciò che è diverso e sconosciuto, lo percepiamo come un pericolo. Rompe l’equilibrio che avevamo raggiunto nel corso degli anni. La ricerca è stata presentata oggi a Milano, durante il convegno "La lezione delle periferie". L’insicurezza, dunque, nasce da come viviamo i cambiamenti delle nostre città. "Cambiamenti che riguardano tanto gli aspetti urbanistici e architettonici (trasformazioni e/o degrado di strutture e infrastrutture) quanto la morfologia sociale delle città -sottolineano i ricercatori -. Il costante e profondo ricambio della composizione socio-demografica dei quartieri, le trasformazioni del tessuto economico e commerciale, la presenza di conflitti fra popolazioni che usufruiscono in maniera fortemente differenziata degli spazi pubblici, sono processi strettamente intrecciati e generano una sensazione diffusa di perdita di controllo sulle condizioni all’interno delle quali si svolge la vita quotidiana nelle aree urbane. L’habitat urbano, in sostanza, risulta insicuro per i suoi utilizzatori perché si trasforma sempre più velocemente, dal punto di vista sia fisico sia sociale; questi cambiamenti rendono i quartieri sempre più distanti, anonimi e insicuri". Di fronte ad una paura non legata a episodi criminali specifici, la reazione è quella di crearsi comunque un nemico. "Può sembrare paradossale, ma l’esplosione del conflitto sembra rispondere al bisogno di ripristinare una forma di controllo su un ambiente urbano sempre meno familiare. Tali conflitti, peraltro, sempre più di frequente si declinano in termini securitari e vedono coloro che continuano a detenere una posizione di relativo vantaggio (in genere, i residenti di lunga data nel quartiere) evocare l’intervento repressivo della mano pubblica per ripristinare un ordine sociale che non può scaturire da processi sociali endogeni e informali". Si ha bisogno di un capro espiatorio. "L’ansia collettiva, in attesa di trovare una minaccia tangibile contro cui manifestarsi, si mobilita contro un nemico qualunque e, spesso, lo straniero viene identificato tout-court con il criminale che insidia l’incolumità personale dei cittadini e i politici tendono a sfruttare questo disagio a fini elettorali". Migranti. “A scuola nessuno è straniero”, il tempo per lo ius soli è adesso Il Manifesto, 10 novembre 2017 Dal 13 al 18 novembre in decine di scuole, con lo slogan “A scuola nessuno è straniero”, si terranno incontri e letture per sensibilizzare studenti e insegnanti sulla necessità di arrivare quanto prima all’introduzione nella legislazione italiana dello ius soli e dello ius culturae. Il 20 novembre, Giornata Internazionale delle Nazioni unite per i diritti dell’infanzia, a Roma e in molte altre città italiane saremo in piazza per ribadire ancora una volta l’urgenza della riforma. Nella stessa giornata verrà nuovamente lanciato lo sciopero della fame promosso dagli insegnanti nei giorni scorsi e a cui hanno aderito associazioni, politici e intellettuali. Saranno anche promosse azioni di pressione sui social. Dopo tante rassicurazioni di esponenti del governo, compreso il presidente del consiglio, sulla volontà di far approvare la legge prima dello scioglimento delle Camere, non ci sono più scuse: il tempo è adesso! Le iniziative sono organizzate da L’Italia sono anch’io, Italiani senza cittadinanza, Insegnanti per la cittadinanza Movimento di Cooperazione Educativa, Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti, Cemea, A Buon Diritto, Amnesty International Italia. La Campagna “L’Italia sono anch’io” è promossa da Acli, Arci, Asgi, Anolf, Caritas Italiana, Centro Astalli, Cgil, Cisl, Cnca, Comitato 1° Marzo, Comune di Reggio Emilia, Comunità di Sant’Egidio, Coordinamento Enti Locali Per La Pace, Emmaus Italia, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Legambiente, Libera, Lunaria, Migrantes, Il Razzismo è Una Brutta Storia, Rete G2 - Seconde Generazioni, Sindacato Emigranti Immigrati, Tavola Della Pace, Terra del Fuoco, Uil, Uisp. Il movimento #Italianisenzacittadinanza è stato fondato nell’ottobre 2016 da giovani cresciuti in Italia. In occasione dell’anniversario del voto della Riforma della legge sulla cittadinanza alla Camera il movimento ha organizzato i flash mob “fantasmi per legge” a Roma, Palermo, Reggio Emilia, Padova, Napoli e Bologna. Migranti. Nuovi corridoi umanitari contro le stragi nel Mediterraneo di Daniele Biella Vita, 10 novembre 2017 Una persona morta in mare ogni 42 che viaggiano. Prende sempre più voce l’appello della società civile per la revisione dell’accordo Italia-Libia. Il ministero dell’Interno sigla l’intesa con Comunità di Sant’Egidio e le altre associazioni coinvolte per aggiungere mille persone in due anni alle altrettante già arrivate, soprattutto siriani dal Libano. Numeri bassi di fronte al dramma di una persona morta in mare ogni 42 che viaggiano ma “via da seguire senza tregua perché evita le stragi e a fronte di un progetto preciso supera diffidenza e garantisce integrazione”, spiega il portavoce di Sant’Egidio. Nel frattempo prende sempre più voce l’appello della società civile per la revisione dell’accordo Italia-Libia Altre mille persone arriveranno in Italia nei prossimi due anni con i Corridoi Umanitari. La notizia è positiva e fa da contraltare a giorni più che drammatici per le ultime tragedie avvenute nel Mar Mediterraneo, con decine di vittime - siamo di fronte ai dati peggiori di sempre nel rapporto tra arrivi e persone che hanno perso la vita in mare - e tensione internazionale per il discusso comportamento delle unità della Guardia costiera libica coinvolte nei salvataggi. “Verranno selezionate persone e famiglie siriane soprattutto dai campi profughi del Libano, ma anche dal Marocco. Sempre con la stessa modalità dei mille arrivati in questi due anni: visite in loco, conoscenze dirette su segnalazione delle associazioni che sono presenti”, spiega Roberto Zuccolini, portavoce della Comunità di Sant’Egidio, all’indomani della firma per i nuovi arrivi avvenuta al ministero dell’Interno alla presenza anche del ministro Marco Minniti. Il rinnovo dei corridoi libanesi - promossi anche con Fcei (Federazione chiese evangeliche), Tavola Valdese e Comunità Papa Giovanni XXIII - e la novità di quelli marocchini si va ad aggiungere all’azione che si sta portando avanti in Etiopia, in particolare dalla Cei, Conferenza episcopale italiana. “Stiamo parlando di un’iniziativa che funziona. I corridoi dimostrano che le persone che arrivano in questo modo non sono pericolose come molti pensano. Se c’è un progetto preciso, loro evitano il rischio di morire in mare, noi sappiamo fin da subito chi abbiamo di fronte perché verifichiamo i documenti fin dal luogo di partenza”, continua Zuccolini. Una volta in Italia, “chiedono subito asilo politico e in 5 mesi lo ottengono, media molto più bassa dei due anni di attesa per le altre persone che arrivano con i barconi”. Fin da subito le persone che entrano in Italia via aerea con i Corridoi umanitari iniziano corsi di italiano. “L’integrazione avviene in modo naturale, e una volta che capiscono il progetto, i vicini di casi e i residenti del paese dove sono inseriti i profughi iniziano a collaborare, anche offrendo case. Questo è da sottolineare in un momento in cui la diffidenza è alta verso chi arriva da lontano. E questo avviene praticamente in ogni Regione d’Italia, dato che i mille già arrivati sono diffusi un po’ ovunque, anche a San Marino”. A proposito dell’estero, l’esperienza italiana ha finalmente fatto scuola anche in Francia, dove “sono arrivate le prime 30 persone di un progetto da 500 arrivi, sempre dal Libano”, e si sta sta studiando in Spagna, Belgio e altri Stati, “ma ancora nulla a livello di Unione Europea, e l’assenza di un’azione comunitaria è il problema principale”, spiega il portavoce di Sant’Egidio. Servirebbero più corridoi ma anche “altre vie di ingresso legale, come i flussi per motivi di lavoro - a fronte di un’offerta che c’è - e azioni di sponsorhip come il modello canadese”, in cui associazioni o privati si prendono carico della persona accolta. “È riscontrato che i ponti funzionano meglio dei muri, che sono inutili e mandano un messaggio distorto della realtà”. In che senso? “Non siamo più sicuri chiudendo le nostre porte. Al contrario: aprendosi capisci chi hai davanti, i suoi problemi, li gestisci e aumenti anche la tua sicurezza. In questo modo avrai meno zone d’ombra da cui possono nascere estremismi e attentati”, specifica Zuccolini. La chiusura delle frontiere sta portando alle stelle i numeri della sofferenza. Se negli hotspot della Grecia il sovraffollamento, le lunghe attese e le condizioni di vita sono proibitive e l’accordo Ue-Turchia sta creando situazioni drammatiche dal punto di vista dei diritti umani, nel mar Mediterraneo le morti non sono mai state così frequenti. La nuova conta dell’Oim, Organizzazione internazionale delle migrazioni che da un paio d’anni è sotto l’egida delle Nazioni unite, toglie il fiato. 2715 persone che han perso la vita su 113.957 arrivi, e se aggiungiamo le quattro salme portate a Pozzallo il 7 dicembre dalla nave Aquarius dell’ong Sos Mediterranée e il corpo del bimbo recuperato assieme a 58 superstiti dalla nave dell’ong Sea-Watch, il numero arriva a 2720 vittime su 114.020: una media umanamente insostenibile di una persona annegata ogni 42 che si mettono in viaggio. Nel 2016 il rapporto era una ogni 19. Nel frattempo le navi delle poche ong rimaste attive da quest’estate (più per le minacce della Guardia costiera libica che per il Codice di condotta governativo italiano) sono ora ritornate in mare aperto, dove ci sono quelle militari dell’Agenzia Ue di controllo delle frontiere esterne, Frontex, e dell’Operazione Sophia- Eunavform Med. In particolare, desta ancora preoccupazione a tre giorni dall’accaduto l’atteggiamento violento di un’unità libica nei confronti dei migranti che volevano raggiungere la nave di Sea-Watch, come testimoniato nel racconto a tinte forti del volontario italiano a bordo Gennaro Giudetti (che dopo la sconvolgente intervista-appello per Vita.it in cui chiede di incontrare il ministro Marco Minniti ha già ricevuto un primo riscontro, ovvero un invito alla Camera per quando avrà finito la missione in mare). Accaduto che Sea-Watch ha documentato con foto, video e audio, mentre la Guardia costiera libica, rimandando al mittente le accuse e additando l’ong come “lupi travestiti da agnelli”, ha annunciato imminenti prove mediatiche a suo favore che però non sono ancora arrivate. In tutto questo, una vasta parte della società civile sta mettendo in discussione l’accordo Italia-Libia, proprio per il comportamento dei libici (deputati a riportare in Libia i barconi intercettati, cosa che ovviamente non fanno né unità navali italiane o europee né le ong, anche se per ora il governo italiano si chiude a qualsiasi revisione. “Noi non crediamo né a Sea Watch né alla Guardia costiera libica, ma non dobbiamo neanche stabilire a priori chi sono i buoni e chi sono i cattivi, perché c’è molto da discutere su chi oggi siano i buoni e chi siano i cattivi”, ha risposto seccato il Prefetto e Capo di gabinetto del ministero dell’Interno Mario Morcone a Eleonora Camilli, giornalista di Redattore sociale, che le chiedeva un parere sui fatti del 6 novembre 2017. Tra le altre reazioni, si segnala quella del senatore Pd Luigi Manconi: “le politiche di chiusura e di respingimento si sono rivelate tragicamente inefficaci. Si deve voltare pagina. E intanto e da subito occorre riprendere l’iniziativa Mare nostrum - irresponsabilmente abbandonata - e si deve promuovere la più ampia presenza di imbarcazioni delle ong nel Mediterraneo. Tutto il resto - missione italiana in Libia, accordi con i governi di quel paese, controllo dei confini - viene dopo”.Anche il giurista esperto di flussi migratori Fulvio Vassallo, intanto, scrive a Minniti una lettera apertache sta guadagnando adesioni. Ecco il testo: “Caro ministro Minniti non abbiamo più parole per esprimere il dolore e l’insofferenza civile per la fine tragica di tanti migranti sulla rotta libica. Malgrado siano diminuite le partenze continuano ad aumentare le vittime. Oltre 40 tra morti e dispersi, anche bambini, solo negli ultimi giorni sulla rotta del Mediterraneo centrale. Crediamo che gli accordi conclusi con il governo di Tripoli, con la Guardia Costiera che vi corrisponde, e con alcune milizie che controllano o controllavano i luoghi di partenza, abbiano costi umani intollerabili, anche tenuto conto delle finalità che si volevano perseguire. Vogliamo incontrarla per comunicare e condividere il dolore, le immagini, i racconti, di persone che non sono riuscite ad arrivare vive in Italia o che sono state soccorse e sbarcate vive nel nostro paese, ma con segni indelebili nel corpo e nello spirito, per le torture ed i trattamenti degradanti subiti in Libia. Gli accordi bilaterali, o le intese assunte a livello europeo, non possono violare il diritto internazionale, recepito anche in Italia, che garantisce i diritti fondamentali a tutte le persone, a partire dal diritto alla vita, indipendentemente dalla loro provenienza e condizione giuridica. Speriamo che voglia ascoltare almeno chi porta soltanto una storia da raccontare, una testimonianza, in nome di chi non ha più voce, per chiedere la fine di accordi e protocolli operativi che stanno uccidendo e ferendo migliaia di persone”. Probabilmente sarebbe auspicabile, a questo punto, un incontro costruttivo tra ministero e società civile (di cui fanno parte anche le ong) per capire come superare le estreme difficoltà attuali nel garantire diritti umani e sicurezza in mare e nei luoghi di partenza delle imbarcazioni. Libici contro Ong: la battaglia navale mentre 50 migranti muoiono in mare di Alessandra Ziniti La Repubblica, 10 novembre 2017 Militari e volontari si fronteggiano, i naufraghi si tuffano per non tornare indietro. Poi la strage. L’elicottero della Marina italiana volava basso in tondo e provava a fermare la motovedetta libica mentre John moriva, trascinato via a folle velocità, sospeso in aria sul mare, una mano disperatamente attaccata alla cima e l’altra protesa verso la moglie, ormai in salvo sul gommone della Sea Watch. "Lui era lì, sul ponte della barca e gridava verso di me. I libici lo picchiavano con delle corde, lo prendevano a calci, poi l’ho visto scavalcare e buttarsi in acqua. È andato giù, l’ho visto riemergere, era riuscito a riaggrapparsi alla fune sul fianco della motovedetta. Gridava: "Aspettatemi, aspettatami, aiuto, non lasciatemi qui...". Ma a un certo punto i libici hanno riacceso il motore e la barca ha fatto un balzo in avanti trascinando via lui e tutti gli altri che stavano ancora in acqua. E non l’ho più visto. John non sapeva nuotare, era salvo ma è morto perché voleva raggiungere me che ero già in Italia". Darfish piange senza sosta, in ospedale a Modica, mentre riavvolge il tragico film che lunedì mattina ha cambiato per sempre la sua vita. Lei, sul gommone della nave umanitaria tedesca, dunque "già in Italia ", suo marito, a bordo della motovedetta della Guardia costiera, dunque destinato a tornare in Libia. Viaggio di andata e ritorno all’inferno. Di nuovo in prigione, di nuovo torture, violenza, un nuovo riscatto da pagare per riprovarci ancora. Una prospettiva agghiacciante anche per chi, come questa giovane coppia camerunense, è sopravvissuto alla traversata nel deserto, alla prigionia nella connection house e persino al naufragio di quel gommone davanti al quale il destino ha aperto loro le "sliding doors" del Mediterraneo. Un drammatico soccorso conteso tra i libici e le Ong che, per la prima volta da quando sono entrati in vigore gli accordi tra il governo italiano e quello di Al Serraj, ha aperto gli occhi dell’Europa sulla roulette russa a cui è affidato il destino delle migliaia di persone che ancora tentano la traversata nel Mediterraneo. Un incidente che avrebbe fatto una cinquantina di dispersi e sul quale adesso indaga la Procura di Ragusa. Nei prossimi giorni i pm vaglieranno le testimonianze dei 59 superstiti portati a Pozzallo dalla Sea Watch insieme al corpicino del bimbo di due anni, annegato sotto gli occhi della madre, e a quelli delle altre quattro vittime recuperate e trasferite a bordo di un’altra nave umanitaria, la Aquarius di Sos Mediterranèe. Dovranno stabilire se su queste morti vi siano delle responsabilità di qualcuno degli attori intervenuti nelle operazioni di soccorso che, coordinate dalla sala operativa della Guardia costiera di Roma, hanno dovuto fare i conti con il contemporaneo arrivo sul luogo del naufragio della motovedetta libica e della nave umanitaria. L’Italia da una parte e la Libia dall’altra, il gommone semiaffondato in mezzo, tanti corpi galleggianti in acqua ma soprattutto decine di persone, che ormai in salvo sull’imbarcazione libica, si sono buttate in mare nel vano tentativo di raggiungere quei due gommoni che avrebbero aperto loro le porte dell’Europa. Terribili disperati minuti di caos spezzati dalla fuga in avanti della motovedetta libica che, dopo aver tentato di trattenere a bordo con minacce e violenze i migranti, ha riacceso i motori ripartendo a tutto gas verso Tripoli con 42 superstiti a bordo che imploranti tendevano le mani urlando verso mogli, figli, fratelli, sorelle da cui probabilmente sono stati divisi per sempre. La scena, da girone dantesco, è rimasta impressa non solo nei racconti di chi ce l’ha fatta, ma anche nella scatola nera della Sea Watch che ora l’equipaggio della ong tedesca mette a disposizione degli inquirenti per andare a fondo nelle indagini. Il disperato grido partito dall’elicottero della Marina italiana presente sulla scena è tutto registrato nelle conversazioni sul canale 16 riservato ai soccorsi: "Guardiacostiera libica, questo è un elicottero della Marina italiana, le persone stanno saltando in mare. Fermate i motori e collaborate con la Sea Watch. Per favore, collaborate con la Sea Watch", l’invito inascoltato. Nel racconto di Gennaro Giudetti, attivista italiano imbarcato sulla Sea Watch, tutto l’orrore di quei momenti: "Quando siamo arrivati sul posto c’erano già diversi cadaveri che galleggiavano e decine di persone in acqua che gridavano aiuto. Abbiamo dovuto lasciare stare i corpi per cercare di salvare più gente possibile. I libici ci ostacolavano in tutti i modi, per quanto incredibile possa sembrare, ci tiravano anche patate addosso. Loro non facevano assolutamente nulla, abbiamo dovuto allontanarci un po’ per non alzare troppo il livello di tensione e in quel momento abbiamo visto che sulla nave libica i militari picchiavano i migranti con delle grosse corde e delle mazze. In tanti si sono buttati a mare per raggiungerci e sono stati spazzati via dalla partenza improvvisa della motovedetta. È stata una cosa straziante. E la colpa è di tutti noi, degli italiani, degli europei che supportiamo questo sistema. Quelle navi libiche le paghiamo noi. Quando ho raccolto dall’acqua il corpo di quel bambino, ho toccato davvero il fondo dell’umanità". Stati Uniti. La morte del diritto di Michele Paris altrenotizie.org, 10 novembre 2017 L’iniezione letale che nella tarda serata di mercoledì ha ucciso in un penitenziario del Texas il cittadino messicano Ruben Ramirez Cardenas non ha rappresentato solo l’ultima conferma della natura barbara e violenta del sistema giudiziario americano, ma ha anche messo ancora una volta gli Stati Uniti al di fuori della legalità internazionale. Il 47enne Cardenas è stato rinchiuso nel braccio della morte per quasi vent’anni e i suoi diritti sono stati deliberatamente violati fin dall’arresto, avvenuto nel 1997. La sua storia aveva sollevato accese polemiche soprattutto al di fuori degli Stati Uniti. Dopo l’arresto, infatti, non gli era stato comunicato tempestivamente il diritto di ricevere assistenza da parte delle autorità consolari del suo paese. Il governo messicano avrebbe avuto notizia dell’arresto di Cardenas solo cinque mesi più tardi. Questo diritto fondamentale previsto per gli accusati di qualche crimine in un paese di cui non hanno la cittadinanza è sancito dalla Convenzione di Vienna sulle Relazioni Consolari del 1963, sottoscritta, sia pure con alcuni importanti distinguo, anche dagli Stati Uniti. Il governo messicano aveva più volte manifestato il proprio disappunto per la vicenda legale di Cardenas e nella giornata di mercoledì in un messaggio su Twitter lo stesso presidente, Enrique Peña Nieto, ha “condannato fermamente” l’esecuzione. Il comportamento americano era stato oggetto delle pesanti critiche anche di numerose organizzazioni a difesa dei diritti umani. Tra le altre, la Commissione Inter-Americana per i Diritti Umani, organo indipendente dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), aveva recentemente adottato una risoluzione nella quale, vista la gravità del caso Cardenas, chiedeva agli USA di “astenersi dall’applicazione della pena di morte” nei confronti del detenuto messicano. Tutte le proteste internazionali e l’evidenza della violazione dei diritti di Cardenas non sono riusciti alla fine a fermare la mano del boia in Texas. Per legittimare la condanna e l’esecuzione, le autorità politiche e la giustizia americane hanno creato in questi anni varie giustificazioni pseudo-legali a dir poco discutibile. Una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 2008, in particolare, aveva stabilito che la Convenzione di Vienna era da considerarsi vincolante solo per il governo federale, mentre non risulterebbe applicabile nei casi di competenza dei singoli stati americani. Per neutralizzare poi una decisione della Corte di Giustizia Internazionale, che metteva di fatto fuori legge la detenzione nel braccio della morte negli USA di una cinquantina di cittadini messicani, la stessa Corte Suprema aveva rimandato al Congresso di Washington una decisione sull’argomento. Prevedibilmente, tuttavia, da quest’ultimo non è mai arrivato nessun provvedimento in proposito. Oltre a mostrare l’indifferenza degli Stati Uniti per il diritto internazionale, il caso di Cardenas è risultato emblematico anche del carattere anti-democratico e ultra-autoritario del sistema penitenziario e giudiziario americano, anche quando in gioco vi è la vita dei condannati. Cardenas aveva ricevuto la sentenza di morte nel 1998 per il rapimento e l’assassinio di una cugina di 16 anni. Le circostanze seguite all’arresto sarebbero state messe però in seria discussione dal cittadino messicano e dai suoi legali. La sua confessione era stata la prova principale nel procedimento ma, secondo Cardenas, gli sarebbe stata estorta dalla polizia del Texas e, infatti, egli stesso avrebbe ben presto dichiarato la propria innocenza. Non solo, un’altra gravissima violazione dei suoi diritti ha pesato sulla condanna, visto che la polizia gli permise di ottenere un avvocato solo dolo 11 giorni dal suo arresto, durante i quali era stato interrogato ripetutamente senza assistenza legale. Le dichiarazioni rilasciate in questo periodo di tempo erano risultate contraddittorie. Ad esempio, Cardenas aveva dichiarato di avere violentato la vittima, ma l’esame sul cadavere aveva smentito l’ipotesi dello stupro. Gli avvocati difensori di Cardenas hanno poi sempre sostenuto che le prove raccolte dagli inquirenti potevano essere state contaminate, ma i tribunali americani non hanno mai consentito nuovi esami del Dna che avrebbero potuto scagionare il loro cliente. Nei giorni e nelle ore precedenti l’esecuzione, i legali di Cardenas hanno presentato svariati ricorsi, sia nel circuito statale del Texas sia a livello federale fino alla Corte Suprema di Washington. Nonostante gli elementi a favore del cittadino messicano, tutti gli appelli anche per una sospensione della condanna sono stati però respinti, a conferma del disinteresse del sistema giudiziario USA per le più basilari norme democratiche e per il diritto americano e internazionale anche in presenza di elementi e fattori di estrema rilevanza. Cardenas, da parte sua, ha continuato a ribadire la sua innocenza fino al momento dell’esecuzione. Nella sua ultima dichiarazione scritta prima dell’iniezione letale, Cardenas ha affermato di non potersi scusare per “un crimine commesso da qualcun altro”. Come già ricordato, l’esecuzione di Ruben Ramirez Cardenas non rappresenta un caso isolato negli Stati Uniti. Oltre ai più di cinquanta detenuti nel braccio della morte, sono almeno cinque i cittadini messicani già giustiziati negli Usa in violazione del diritto internazionale. La storia di Cardenas si inserisce in un quadro giudiziario caratterizzato da ripetuti abusi, eccessi e aberrazioni legali nell’ambito della somministrazione della pena capitale in America. Uno degli esempi più recenti è rappresentato da una decisione della Corte Suprema di Washington, presa proprio questa settimana, che ha dato il via libera all’esecuzione di un detenuto 67enne gravemente invalidato da una serie di ictus. Svariate perizie psicologiche hanno dimostrato che il condannato, detenuto in Alabama, non è in grado nemmeno di ricordare il crimine del 1985 che gli sarebbe costato la condanna a morte nove anni più tardi. Catalogna. Arrestata la presidente del “Parlament”, libera solo se pagherà 150mila euro di Elisabetta Rosaspina Corriere della Sera, 10 novembre 2017 Carme Forcadell è rimasta due ore davanti al Tribunale Supremo. Da Madrid segnali di “clemenza” in vista delle elezioni. Ma dopo il caso Puigdemont il giudice nega la scarcerazione a otto ministri (c’è pericolo di fuga). “Signor giudice, la dichiarazione unilaterale d’indipendenza non aveva effetti giuridici, è stata soltanto simbolica, nel quadro di un negoziato con il governo centrale”: la marcia indietro strategica attribuita a Carme Forcadell, presidente del parlamento catalano, e agli altri componenti della presidenza, sotto accusa per ribellione, sedizione e malversazione, ha alleggerito di poco le decisioni del giudice Pablo Llarena del Tribunale Supremo. Alla richiesta della Procura di incarcerare tutti (tranne il terzo segretario della presidenza, Joan Josep Nuet che si era opposto al referendum sull’indipendenza e alla secessione), il giudice ha risposto offrendo la libertà provvisoria agli indagati, ma ad alto prezzo: 150 mila euro è la cauzione richiesta a Carme Forcadell per evitare la prigione. Analoghe condizioni per gli altri quattro componenti la presidenza, Lluís Corominas, Lluís Guinó, Anna Simó e Ramona Barrufet, ma la somma è di “soli” 25 mila euro a testa. E hanno una settimana di tempo per versarla. Mentre Carme Forcadell non sarà rilasciata finché non avrà depositato i 150 mila euro al Tribunale Supremo e passerà quindi almeno una notte nella prigione di Alcalà Meco. L’interrogatorio della presidente del “Parlament” è durato oltre due ore; Forcadell ha deciso di rispondere alle domande della procura che la accusa di aver posto ai voti la dichiarazione unilaterale di indipendenza della catalogna dalla Spagna. Dopo di lei sono stati sentiti gli altri membri della presidenza e gli interrogatori si sono prolungati fino al tardo pomeriggio. quando la parola è passata al procuratore generale che ha chiesto la detenzione preventiva per cinque dei sei accusati. Per gli stessi reati Carmen Lamela, giudice dell’Audiencia Nacional aveva ordinato la detenzione dell’ex vice presidente della Generalitat, Oriol Junqueras, e di sette ex ministri (un ottavo, Santi Vila, ha ottenuto la libertà condizionata) e la cattura dell’ex presidente, Carles Puigdemont, e degli altri quattro ex ministri, rifugiati in Belgio. Convocati davanti al Tribunale Supremo, che aveva concesso loro una settimana di tempo per preparare la difesa, Carme Forcadell, i suoi vice presidenti e segretari, hanno adottato una strategia diversa da quella dei membri del governo destituito (che si erano chiusi nel silenzio): riconoscono l’autorità del pubblico ministero, collaborando. La giudice dell’Audiencia Nacional ha nel frattempo respinto le istanze di scarcerazione di Junqueras e degli altri sette componenti del governo destituito, in carcere da una settimana. Motivo : rischio di fuga (Puigdemont insegna) Anche il governo di Madrid lancia messaggi diversi, rispetto a sette giorni fa: se prima, di fronte alla linea dura dell’Audiencia Nacional che ha ordinato carcere per tutti (eccetto Santi Vila, l’unico membro che si era dimesso prima dell’approvazione della dichiarazione con cui veniva proclamata la Repubblica indipendente di Catalogna), il premier Mariano Rajoy si era stretto nelle spalle, sostenendo che il potere giudiziario è indipendente dal potere politico, oggi dalla Moncloa soffia vento di clemenza. Il ministro dell’Interno, Juan Ignacio Zoido, ha precisato che però “occorre anche tenere conto del contesto”. E nel contesto, cioè all’avvio della campagna elettorale (Rajoy sarà a Barcellona domenica per inaugurare quella del Partido Popular), ai partiti costituzionalisti non giovano detenuti che il fronte indipendentista presenta nelle piazze come “prigionieri politici”. A demolire questa tesi è intervenuta nelle ultime ore anche Amnesty International, secondo la quale nessuno degli arrestati (inclusi i leader dei due movimenti indipendentisti, Assemblea nazionale catalana e Omnium Cultural, Jordi Sanchez e Jordi Cuixart) sono in carcere per le loro idee. In mattinata, in un intervento all’università di Salamanca, Rajoy ha ribadito il suo rispetto per “le decisioni dei giudici”, augurandosi comunque un “ritorno alla moderazione”. Tra i vari scenari (giudiziari) possibili c’è la riunificazione in un solo procedimento, dinnanzi al Tribunale Supremo, delle cause aperte dalla Procura nei confronti dei vertici del “Parlament” e del governo destituito, e una derubricazione del reato di ribellione (che comporta, se accertato, pene da 15 a 30 anni di reclusione) a quello di cospirazione per la ribellione (per il quale le pene previste vanno dai 3 ai 7 anni). Perché si configuri il reato di ribellione occorre la presenza di armi e di violenza: le prime certamente non c’erano, né durante la manifestazioni di piazza, né nelle azioni dei vertici istituzionali catalani, ma sulla seconda c’è dibattito fra i giuristi spagnoli. La capacità di destabilizzazione dello schieramento indipendentista non è irrilevante: mercoledì, con pur una scarsissima adesione allo sciopero generale, proclamato da un sindacato minoritario, poche migliaia di persone sono bastate a paralizzare i collegamenti ferroviari e stradali della Catalogna per l’intera giornata. E dalla Cup, il partito di estrema sinistra su cui si appoggiava Puigdemont per governare, minaccia paralisi a oltranza. Le elezioni regionali, convocate per il 21 dicembre, in anticipo e il più rapidamente possibile da Rajoy, nello stesso momento in cui ha commissariato il governo autonomo (con l’inedita applicazione dell’articolo 155 della Costituzione), restano il traguardo per la normalizzazione della Catalogna. Da Bruxelles, Puigdemont si difende attraverso le interviste televisive, non avendo finora ottenuto udienza nelle istituzioni europee: mercoledì, dalla tribuna di una tv fiamminga, ha accusato il governo di Spagna di “attitudini fasciste” e l’Unione Europea di colpevole indifferenza. Ma nel mondo indipendentista la sua fuga in Belgio con alcuni ex “consellers”, nel giorno in cui il resto del governo finiva in carcere, resta fonte di imbarazzo e di divisione nella campagna elettorale appena iniziata. Afghanistan. Omicidio Cutuli, il pm chiede condanna a 30 anni per due Pashtun Corriere della Sera, 10 novembre 2017 I due accusati di etnia Pashtun per la morte dell’inviata del Corriere della Sera sono sotto processo a Roma con l’accusa di rapina e concorso omicidio: sono già stati condannati nel loro Paese. La sentenza è attesa per il 29 novembre. La condanna a 30 anni di reclusione è stata chiesta dalla pm Nadia Plastina per i due afgani sotto processo a Roma per l’omicidio dell’inviata del Corriere della Sera Maria Grazia Cutuli, compiuto in Afghanistan il 19 novembre 2001. Alla sbarra (e collegati in videoconferenza da un carcere del loro Paese d’origine) ci sono Mamur, figlio di Golfeiz e Zar Jan, figlio di Habib Khan, entrambi di etnia Pashtun. Entrambi sono tati già condannati in Afghanistan a 16 e 18 anni di carcere e sono attualmente detenuti. In Italia sono sotto processo per le accuse di concorso in rapina (per essersi impossessati, insieme con altri ancora non identificati, di una radio, un computer e una macchina fotografica appartenuti a Cutuli) e di concorso in omicidio. La sentenza sarà pronunciata il prossimo 29 novembre. L’agguato - Nell’agguato del 2001 (avvenuto pochi mesi dopo l’attacco alle Torri Gemelle in un Afghanistan controllato in gran parte dei talebani), oltre a Maria Grazia Cutuli perseto la vita anche il collega del Mundo, Julio Fuentes, e i corrispondenti della Reuters, l’afghano Azizullah Haidari e l’australiano Harry Burton. “Delitti politici” - “Siamo arrivati a ridosso del sedicesimo anno dai fatti - ha detto il pm nella requisitoria - e ciò rende questo processo non facilmente comprensibile, ma sin dall’inizio c’è stata la volontà chiara dello Stato italiano di procedere e individuare gli autori di questo fatto delittuoso, ma anche di rinnovare il processo in Italia”. Per la pm Nadia Plastina “i delitti per cui si procede sono stati qualificati come delitti politici, e la normativa consente di rinnovare questo processo in Italia”. Gli elementi raccolti, per il rappresentante dell’accusa, hanno consentito di accertare che “è stato realizzato un piano organizzato per un bottino. È stata un’azione audace, clamorosa. Mamur ha confessato e ha tirato in ballo Zar Jan. Valutando tutti gli elementi che abbiamo, l’unica ricostruzione possibile è che i due sono i responsabili dei delitti loro contestati, oltre ogni ragionevole dubbio”. Mauritania. Liberato il blogger condannato a morte di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 10 novembre 2017 Il blogger Mohamed Cheikh Ould Mkhaitir, 33 anni, lascerà la prigione di Nouadhibou, in Mauritania, dopo che la Corte d’appello della città ha convertito la condanna a morte in due anni di prigione, già scontati visto che il giovane è agli arresti da quasi quattro. La pena capitale era stata decisa dai giudici nel 2014 per un articolo in cui si criticava l’uso della religione per giustificare la discriminazione sociale, un pensiero che era stato ritenuto blasfemo nei confronti dell’Islam. Il caso aveva diviso il Paese con gli islamisti che erano scesi in piazza chiedendo l’esecuzione della sentenza. Nei giorni scorsi la polizia aveva vietato tutte le manifestazioni e predisposto imponenti misure di sicurezza, per evitare che si ripetessero gli scontri avvenuti in occasione dei processi precedenti. Ora Mohamed M’kheitir potrebbe essere già in viaggio verso il vicino Senegal da dove è probabile che chiederà asilo politico ad un qualche paese europeo. Intanto, al momento, la guardia nazionale ha ordinato la chiusura di tutti gli esercizi commerciali e presidia le strade della capitale economica della Mauritania. Il blogger in questi giorni ha anche ricevuto minacce di morte. Nel 2016 il blogger si era visto riconfermata la sentenza del primo processo in appello. Lo scorso anno la corte di Nouadhibou aveva registrato e riconosciuto il suo pentimento, affidando alla Corte Suprema il giudizio finale sulla sincerità di Mohamed Cheikh Ould Mkheitir. Il 31 gennaio 2017 la massima istituzione giuridica del paese ha decretato di non essere competente e rinviato il caso dinnanzi un’altra corte di appello da costituire. Il caso Mohamed Cheikh Ould Mkheitir alimenta da anni critiche e proteste di Ong della società civile e difensori dei diritti umani. Il 3 novembre Mohamed Diop, giornalista dell’agenzia stampa mauritana Alakhbar, ha riferito che a Nouakchott agenti di polizia hanno impedito una marcia di protesta contro l’esecuzione di Mkheitir e arrestato quattro manifestanti. Quattro mesi fa il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle detenzioni arbitrarie ha denunciato il caso del blogger mauritano e chiesto giustizia quanto prima. La Mauritania non esegue una condanna a morte dal 1987 ma lo scorso anno un gruppo di influenti musulmani aveva invitato le autorità ad applicarla nuovamente. “Questa è una grande vittoria per la giustizia in Mauritania - ha detto l’avvocato di Mkhaitir, Mohamed Ould Moine. I giudici hanno rispettato la legge e considerato il suo pentimento”.