Il ministro Orlando ai Radicali: "delega sul carcere al rush finale" di Errico Novi Il Dubbio, 9 marzo 2017 Rita Bernardini si fida di Orlando: "Sospendo lo sciopero della fame". Dopo 31 giorni Rita Bernardini sospende lo sciopero della fame. "Ho incontrato il ministro della Giustizia Andrea Orlando che ha mostrato capacità di ascolto e comprensione per la nostra richiesta: sbloccare la delega sul carcere contenuta nel ddl penale. Lui assicura che l’intero provvedimento sarà approvato a breve", ha dichiarato Bernardini al termine di un colloquio, durato un’ora e mezza, tra il guardasigilli e un’ampia delegazione radicale. Rita Bernardini scommette su Orlando e dopo 31 giorni sospende lo sciopero della fame. "La lotta nonviolenta presuppone fiducia nel rappresentante delle istituzioni", spiega lei. Così al termine dell’incontro a via Arenula tra un’ampia delegazione del Partito radicale e il ministro della Giustizia, la dirigente pannelliana posta su Facebook una foto che la ritrae mentre assaggia una minestra. "Ho perso oltre 9 chili, gli ultimi giorni sono stati difficili ma medici non ne ho voluti vedere, sò na roccia", assicura. La lotta punta all’approvazione della riforma penitenziaria, una delega bloccata come un ostaggio nella tormentata riforma del processo penale. Viste le difficoltà Bernardini e i radicali chiedono lo stralcio di quelle norme sul carcere. "Ma Orlando è convinto che l’intero provvedimento taglierà il traguardo. Gli ho chiesto espressamente se contempla l’ipotesi di stralciare la delega qualora da Ncd arrivassero ostacoli. Lui esclude la cosa, ha ricordato che venerdì è stata autorizzata la fiducia. Vedremo". Bernardini sospende e riprende ad alimentarsi, ma ricomincerà lo sciopero della fame il giorno stesso in cui l’intero disegno di legge ricomparirà in aula, la settimana prossima. Oggi nella commissione Giustizia del Senato approda l’emendamento di Orlando sulle spese per le intercettazioni, che ha determinato il rinvio della discussione finale. "Anche Marco (Pannella ovviamente, ndr) sospendeva le lotte nonviolente dopo gli incontri significativi. Io ho detto al ministro: "Ripongo la mia fiducia in te affinché tu faccia le cose giuste". Sospendo la lotta perché ho trovato un Orlando aperto al dialogo e alla comprensione del nostro obiettivo". Un’ora e mezza nello studio che fu di Togliatti. Al guardasigilli si unisce il suo capo di Gabinetto Giovanni Melillo. Prima di congedarsi, Bernardini consegna al guardasigilli il libro con le lettere dei 21mila detenuti che hanno aderito allo sciopero della fame in occasione della marcia per l’amnistia dello scorso 6 novembre. "Abbiamo annunciato a Orlando che ci sarà un’altra marcia a Pasqua. La situazione nei penitenziari resta allarmante e lui stesso ha riconosciuto che c’è un trend di aumento della popolazione carceraria. Gli abbiamo ricordato che in 93 istituti c’è un sovraffollamento del 120 per cento, senza considerare le sezioni chiuse". Ma all’attuale ministro la coordinatrice della segreteria radicale non esita a riconoscere precisi meriti: "Innanzitutto un’opera di trasparenza che tra l’altro mi lascia libera di visitare le carceri: nei prossimi giorni sarò a Verona, Vicenza e Trieste. Ha stipulato accordi con le Regioni per far scontare la pena ai tossicodipendenti nelle comunità anziché dietro le sbarre, si preoccupa di assegnare a una struttura quegli stranieri che altrimenti non possono usufruire della detenzione domiciliare. E ha fatto molto anche sul funzionamento dei tribunali". Le divergenze restano. "Ho trovato una chiave, alla fine di questo incontro", prosegue Bernardini, "lui è un riformista, noi siamo riformatori che di fronte alla situazione dei penitenziari chiedono di farla rientrare subito nella legalità". E poi "restano le nostre perplessità su altri aspetti del ddl penale, a cominciare dalla prescrizione e soprattutto dal processo a distanza, che è un’idea del pm Nicola Gratteri, vale la pena di ricordarlo". L’incontro di ieri era atteso da un paio di mesi. Prima di celebrarlo, Orlando ha preferito aspettare che il ddl penale imboccasse davvero il rettilineo dell’ultimo chilometro. "Una volta tornati nell’aula del Senato ci vorranno dieci giorni, poi un altro piccolo passaggio alla Camera e finalmente si potranno emanare i decreti delegati sul carcere. La lotta va avanti", promette Bernardini. Che ora per Orlando è un’alleata preziosa. Quanti islam nelle carceri di Renzo Guolo La Repubblica, 9 marzo 2017 Da qualche tempo si sviluppano in carcere programmi mirati alla formazione di personale che sappia individuare i processi di radicalizzazione "dietro le sbarre". Come distinguere, infatti, la pratica religiosa, o il riferimento a una particolare concezione dell’islam, dai possibili indicatori di radicalizzazione? La domanda non è di poco conto. Perché tocca il tema della libertà religiosa e perché interpretazioni errate in materia possono alimentare proprio quei fenomeni che si vorrebbero prevenire. Il carcere deve sempre più consentire, insieme, controllo ed esercizio dei diritti. Sorvegliare e garantire, per parafrasare Foucault. Anche per evitare che, nel dubbio, si restringa la libertà religiosa piuttosto che favorire indirettamente pratiche che potrebbero rivelarsi fattori di diffusione della radicalizzazione. Il riflesso di chiusura rischia, infatti, di acuire tra i detenuti musulmani, la percezione collettiva che l’islam sia non solo religione degli stranieri ma la religione del Nemico. Percezione che alimenta, a sua volta, un senso di discriminazione e risentimento ostile che facilita la penetrazione del discorso ideologico radicale. Di fronte alla nuova composizione etno-religiosa della popolazione carceraria, occorre saper leggere in profondità le diverse stratificazioni sociali che si producono nelle prigioni. La definizione di musulmani per i circa undicimila detenuti in Italia classificati informalmente come tali non è esaustiva. Nulla ci dice, ad esempio, sulla visione del mondo, sulla pratica religiosa, su come quei detenuti considerano la relazione tra religione e devianza e guardano o meno a concezioni estremizzanti dell’islam politico. Nelle prigioni i musulmani si scompongono, come gli altri detenuti, in più sottogruppi non sempre facilmente intellegibili per chi non dispone di specifiche conoscenze. La necessaria distinzione tra musulmani e islamisti non è sufficiente, vi sono detenuti che si rifanno a un islam etico, nel quale la riscoperta della fede risponde al bisogno di riscattare scelte di vita sfociate nello scacco biografico e di superare, attraverso la dimensione comunitaria, il senso di solitudine. Declinata in questo modo, la religione può condurre alla fine delle condotte devianti e funzionare come fattore di autocontrollo disciplinare. Per questo la sua pratica è ben vista dall’istituzione carceraria. Un secondo gruppo comprende i musulmani non rigorosamente praticanti che, pur riscoprendo l’islam come identità collettiva, non giungono a rimettere in discussione le loro scelte devianti. La religione è, per loro, essenzialmente cultura. Fattore che non incide, di per sé, sulle condotte: la convinzione, marcata da un fatalismo determinista che rinvia all’imperscrutabile e onnipotente volontà divina, è che quanto è loro accaduto sia essenzialmente destino. Il terzo gruppo, significativo per capacità d’influenza più che per numeri, è quello salafita. Strettamente osservanti in materia di preghiera, alimentazione, costumi, i salafiti considerano il loro il solo islam autentico. Possono essere quietisti o radicali. I primi teorizzano la rottura con la cultura occidentale e con quanti ritengono "falsi musulmani" ma, contrariamente ai secondi, non fanno della jihad armata la loro stella polare. Il quarto gruppo, quello radicale, legittima e giustifica atti ritenuti riprovevoli in un contesto "autenticamente islamico" ma non in un mondo che nega "l’autentica fede". Da qui la violazione di norme e l’adozione di comportamenti che appaiono illeciti alla maggioranza dei credenti. Un gruppo coeso ideologicamente, che ritiene il carcere terreno di proselitismo. Soprattutto tra quanti non hanno condanne lunghe da scontare e, una volta in libertà, possono imboccare la via della jihad. Impedire che i radicalizzabili diventino radicalizzati è uno dei nuovi compiti assegnati, di fatto, all’istituzione carceraria. Funzione che necessita di sguardi assai diversi da quelli che animavano nel passato gli antichi custodi del Panopticon di Bentham. Laboratori artigianali per le detenute con Engineering e Socially Made in Italy di Sonia Montegiove ingenium-magazine.it, 9 marzo 2017 11 laboratori artigianali d’eccellenza in 11 diversi istituti penitenziari d’Italia, 60 detenute e 10 detenuti impiegati, una cooperativa sociale, Alice, che ha festeggiato 25 anni di attività a sostegno del reintegro dei detenuti, la recidiva che si abbassa al 10% quando le persone in carcere sono avviate ad una attività lavorativa. Questi sono i dati che descrivono in sintesi una realtà e un progetto sociale. Il "chi siamo". Il "come siamo" invece non lo dicono solo i dati, ma anche le storie. Come quella che abbiamo deciso di raccontare oggi per parlare di donne, di nuove fioriture, di seconde opportunità non di seconda mano. "Ogni anno - racconta Concetta Lattanzio, Direttore della Comunicazione di Engineering - partecipiamo a decine e decine di eventi, seminari, stand, fiere e ogni volta, insieme ai nostri interventi, presentiamo materiali di comunicazione che parlano di noi: roll-up, banner, pannelli, quasi sempre in PVC, che riportano la nostra immagine, i nostri messaggi, il numero dei dipendenti, delle sedi, le società del gruppo, i Paesi in cui lavoriamo. Materiali che spesso finiscono nei magazzini, ma, come abbiamo dimostrato grazie alla collaborazione con Socially Made in Italy, possono avere una seconda opportunità". In questo modo, grazie al lavoro delle detenute del carcere di Venezia, i PVC Engineering si sono trasformati in bellissime borse e articoli eco-friendly presentati durante l’ultimo kick-off aziendale. "Abbiamo recuperato, misurato, pulito, inscatolato e spedito al carcere di Venezia come racconta il video che abbiamo girato" - continua Concetta. "E tutto ha un significato che va ben al di là della semplice volontà di conservare per riusare materiali. È un progetto che racconta infatti la nostra "sostenibilità" e l’impegno per la collettività, anche quella meno visibile". Il ricavato della vendita degli oggetti "rivitalizzati" sarà investito infatti per finanziare dei corsi di formazione per le giovani detenute che potranno così costruirsi una professionalità e un futuro. "Niente negli adulti riabilita socialmente più del lavoro": così inizia a raccontare il progetto Caterina Micolano, Project Manager della cooperativa Alice che lavora con i detenuti da più di 22 anni. "Praticamente da più di un ergastolo", dice lei scherzando. "Dignità e ruolo sociale vengono dal lavoro e per questo riteniamo fondamentale poter aiutare le persone a ricostruire il loro percorso professionale attraverso l’impresa sociale, che ha come obiettivo la competitività. Se Alice vanta una storia così lunga lo deve proprio all’aver sempre pensato a produrre prodotti impiegando persone in difficoltà, senza basare il proprio modello di business più sulla emotività che non sulla convinzione di qualità. I prodotti che realizziamo in carcere si vendono perché sono ben fatti e sono competitivi sul mercato". Niente filantropia quindi ma fatturato. Niente femminismo nel coinvolgimento delle donne ma solo una necessità: quella di aiutare di più le persone che vivono in carcere in condizioni peggiori. La detenzione femminile in Italia rappresenta meno del 5 % del totale della popolazione detenuta (2.140 circa le carcerate) ed è presente in cinque Istituti esclusivamente femminili (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli, Venezia-Giudecca) e 52 sezioni femminili. L’esigua percentuale delle donne in carcere rende "meno visibile" il contesto detentivo delle donne,che vivono in una realtà fatta e pensata nella struttura, nelle regole, nelle relazioni e nel vissuto da e per gli uomini. "Le donne non solo vivono in condizioni peggiori - continua Caterina - ma hanno anche molte meno opportunità formative e ricreative dei colleghi uomini. Ed è per questo che i nostri primi laboratori sono stati pensati per dare loro una opportunità". Sartoria, laboratori che creano accessori in PVC, pelle e cuoio a marchio "Malefatte", un laboratorio di cosmetici, un orto biologico, una serigrafia per t-shirt del commercio equo e solidale, collaborazioni con artigiani esperti e grandi brand, un sistema produttivo (Sigillo) certificato dal Ministero di Giustizia che attesta il rispetto dei contratti sindacali di categoria. Tanto hanno messo in piedi nella cooperativa sociale investendo nelle persone, nel loro potenziale. "Grazie al sostegno di esponenti del made in Italy e dell’alta moda che hanno creduto nel nostro progetto - continua Caterina - abbiamo potuto fare un upgrade di competenze importante che ci ha portato a vedere trasformati gli oggetti ricostruiti in veri e proprio prodotti di design". Lavorazioni eccellenti fatte con materiali di scarto prodotti dall’industria della moda e che andrebbero semplicemente a inquinare in caso di smaltimento. "Le loro produzioni - conclude Concetta - raccontano di impegno, etica e cura per l’ambiente: ogni loro produzione è speciale poiché porta con sé la storia delle mani che l’hanno lavorata, fatta di passati tortuosi, presenti di impegno e attese di futuri migliori". Seconde opportunità. Seconde vite. Spesso migliori delle prime. Riforma delle intercettazioni, compromesso vicino. Solo tre mesi per le nuove regole di Francesco Verderami Corriere della Sera, 9 marzo 2017 Ridotti a tre mesi i tempi della delega. Nel Pd c’è chi teme una mossa per le primarie. Sarà tutto più chiaro tra due settimane, quando con ogni probabilità la riforma del processo penale arriverà in aula al Senato, dopo essere rimasta incagliata per anni in commissione. Si diceva che Renzi tenesse fermo il disegno di legge per non alimentare le polemiche con la magistratura. In realtà l’allora presidente del Consiglio non era convinto di alcuni aspetti del provvedimento, a partire dall’aumento dei tempi di prescrizione dei processi, che erano anche motivo di tensione tra Orlando e gli alleati di Ncd. Perciò i ripetuti tentativi del Guardasigilli di forzare il blocco erano stati vani. Ora che c’è Gentiloni a palazzo Chigi, Orlando è riuscito a ottenere dal Consiglio dei ministri il ricorso alla fiducia, che però è rimesso a una serie di mediazioni ancora in atto. La più importante riguarda i tempi entro i quali il ministro della Giustizia dovrà esercitare la delega per modificare le norme che regolano lo strumento delle intercettazioni: ad oggi il testo all’esame del Senato concede al Guardasigilli dodici mesi per redigerle. Troppi, visto che la legislatura è in scadenza. E il rischio, nonostante le rassicurazioni del ministro, è che ancora una volta questa riforma resti lettera morta. La mediazione sui tempi - Per superare il problema, si è raggiunta un’intesa di massima in base alla quale il titolare della Giustizia dovrà assolvere al suo compito non più entro un anno ma in tre mesi, espungendo peraltro un comma dalla delega, che di fatto consentirebbe di accentuare l’uso delle intercettazioni per i reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Orlando aveva già fatto sapere di non voler procedere a riguardo, ma anche su questo punto si chiede che l’accordo venga messo nero su bianco. Resta da capire in quale modo si sancirà la mediazione, dato che per ora l’unico emendamento preannunciato dal governo sulle intercettazioni prevede un taglio delle spese del 50%, con l’obiettivo di costituire in futuro una sorta di Consip, così da disciplinare le tariffe su base nazionale. Può darsi allora che il compromesso prenda forma attraverso un sub-emendamento parlamentare. Ed è evidente che se la riforma venisse varata sarebbe un fatto clamoroso, dato che se ne parla dai tempi in cui a via Arenula sedeva Mastella, Guardasigilli nell’ultimo governo Prodi. Ma il sentiero è ancora tutto da percorrere, data la materia sensibile, che è stata al centro di forti divergenze nel governo. E che in prospettiva potrebbe provocare clamorose ripercussioni. Dubbi tecnici e politici - Lo si intuisce dal resoconto dell’ultimo Consiglio dei ministri. Perché se la disputa tra Orlando e Alfano è stata di natura politica, Costa ha (ri)sollevato critiche tecniche, ricordando al titolare della Giustizia "l’impegno a cambiare il testo sul processo penale, che avevi assunto in Parlamento e che finora hai disatteso". Nodo della contesa: l’allungamento dei termini di prescrizione, che non convince nemmeno i renziani. Ci sarà stato quindi un motivo se Delrio si è schierato con il collega centrista, obiettando il ricorso alla fiducia. E se a Porta a Porta il sottosegretario De Micheli non è riuscita a nascondere i propri dubbi. Perplessità giuridiche si incrociano a questioni politiche, ai pensierini andreottiani di molti dirigenti del Pd vicini a Renzi, secondo i quali Orlando vorrebbe farsi così la campagna elettorale delle primarie. "Non mi sono mosso per fare passerella", ha detto in Consiglio dei ministri il Guardasigilli, quasi a mettere le mani avanti: "E in Parlamento ci manderò un sottosegretario". I pensierini però restano, anche se stavolta non c’è stato modo per fermare il titolare della Giustizia, che ha potuto sfruttare la moral suasion del Colle, l’invito rivolto al governo a procedere con le riforme promesse dall’Italia all’Europa. Una di queste è proprio la giustizia. Il Colle e le riforme - Ovviamente l’esortazione del Quirinale resta lontana dai processi di elaborazione delle leggi e dalle mediazioni tra partiti: è piuttosto uno sprone a ottimizzare il tempo che resta della legislatura, affinché sia rispettato l’impegno del governo a completare il suo programma. E per quanto Mattarella adotti un metodo diverso rispetto al passato, c’è traccia della sua azione sulla politica, pur nel rispetto dei diversi ruoli istituzionali. Basti notare come si è evoluto il dibattito sulla data delle elezioni, dove si è potuta scorgere la sua ferma (per quanto discreta) presa di posizione sulla necessità di armonizzare prima il sistema di voto tra Camera e Senato. È uno strumento che servirà anche al capo dello Stato all’indomani delle urne, quantomeno per avere un segnale univoco degli elettori nei due rami del Parlamento. Quanto al modello di riforma elettorale lascia che siano le Camere a decidere. Come sulla giustizia. Lo stop di Legnini (Csm): "le fughe di notizie minano la credibilità dei pm" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 9 marzo 2017 Caso Consip, duro intervento del vicepresidente del consiglio superiore della magistratura. Secondo il Csm è assurdo che l’intera informativa di polizia giudiziaria, composta da oltre mille pagine, "sia passata dalla procure agli organi di stampa". Il caso Consip e la clamorosa fuga di notizie che ha accompagnato l’indagine sono stati affrontati ieri mattina in Plenum. L’occasione è stata offerta dalla circolare sugli uffici di procura che il Consiglio superiore della magistratura si appresta ad approvare nei prossimi mesi. Ad occuparsene sarà la Settima commissione del Csm presieduta dal togato Claudio Galoppi. La prossima settimana si inizierà con l’audizione dei Procuratori generali e dei Procuratori distrettuali. Scopo è quello di arrivare ad una circolare organica che definisca con esattezza l’organizzazione degli uffici inquirenti. Trascorsi dieci anni dalla riforma dell’Ordinamento giudiziario, riforma iniziata dall’allora ministro della Giustizia Roberto Castelli (Lega) e terminata dal suo successore Clemente Mastella (Udeur), il tema dell’organizzazione del lavoro delle Procure è diventato centrale. L’eccessiva "gerarchizzazione" dell’ufficio inquirente ha prodotto un sistema che sta allontanando sempre più il pubblico ministero dalla giurisdizione, come ribadito in più occasioni anche dal Primo Presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio, il quale ha sollecitato dei correttivi urgenti. Sul punto, comunque, il Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura Giovanni Legnini è stato molto netto. Senza mezzi termini ha stigmatizzato quanto è successo nei scorsi giorni riguardo proprio l’indagine Consip. "A memoria non ricordo una fuga di notizie di queste pro- porzioni. Una intera informativa della polizia giudiziaria, composta da oltre mille pagine, è finita nelle redazioni di alcuni quotidiani che hanno poi provveduto alla pubblicazione anche delle parti coperte dagli omissis", ha dichiarato Legnini. Aggiungendo che il problema non sono, però, i giornali che pubblicano il materiale di cui entrano in possesso, ma chi fornisce loro quel materiale "violando il dovere di riservatezza". Il riferimento è, dunque, al circuito inquirente. Trattandosi di atti coperti dal segreto, gli unici ad esserne in possesso, nel caso in questione, erano i magistrati della Procura di Roma e di Napoli ed il Nucleo Operativo Ecologico (Noe) dei Carabinieri che era delegato alla conduzione delle indagini. Nessun avvocato, infatti, era ancora entrato in possesso di atti. Ed infatti, il Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, con una decisione che ha del clamoroso, ha deciso di esautorare il Noe dalle indagini, affidandole ai carabinieri del Nucleo investigativo del Reparto Operativo della Capitale, uomini di sua fiducia. Ad aggravare questo quadro, si inserisce pure un articolo contenuto nella recente riforma del comparto sicurezza. Oltre ad accorpare il Corpo Forestale dello Stato nell’Arma dei Carabinieri, il Governo ha previsto che le informative di reato delle Forze di polizia siano trasmesse alla loro superiore scala gerarchica. Che in questo modo, a livello centrale, viene a conoscenza in tempo reale di tutte le indagini penali aperte sul territorio nazionale. Un grave "vulnus" nei confronti del codice di procedura nella parte che prevede una dipendenza funzionale della polizia giudiziaria nei confronti dell’Autorità giudiziaria e che è stato duramente stigmatizzato da molti Procuratori della Repubblica, come ad esempio il Procuratore di Torino Armando Spataro. Il motivo è semplice. I vertici delle Forze di polizia sono nominati dal Governo. Ed il rischio che, in un "obbligo di riconoscenza", comunichino a chi ha provveduto alla loro nomina atti d’indagine riservati che riguardano soggetti legati a vario titolo all’Esecutivo è molto forte. Legnini ha poi voluto precisare che il Csm, in caso di violazioni penali, come la rivelazione del segreto d’ufficio, non ha poteri. Questo è compito dell’Autorità giudiziaria e non dell’Organo di autogoverno della magistratura. La Procura di Roma, a proposito della fuga di notizie dell’indagine Consip, ha aperto infatti dei fascicoli e sembra avere le idee chiare su chi possa esserne stato l’autore. In conclusione, il Vice Presidente ha ribadito che è fondamentale "una migliore è più efficace organizzazione del lavoro per evitare che episodi come questo si ripetano in futuro". Riforma della giustizia: per risparmiare si cancellano i tribunali dei minori di Lidia Baratta linkiesta.it, 9 marzo 2017 La riforma del processo civile, che si sta discutendo in Senato, prevede la soppressione dei tribunali per i minorenni, sostituendoli con sezioni specializzate all’interno dei tribunali ordinari. Il mondo della giustizia è in rivolta. Sono ore decisive per il destino dei 29 Tribunali per i minorenni italiani. Nella commissione Giustizia del Senato si torna a discutere la riforma del processo civile (ddl 2284), già approvato alla Camera, che in un articolo prevede la soppressione dei tribunali e delle procure minorili e la sostituzione con sezioni specializzate all’interno dei tribunali ordinari. E l’intero mondo della giustizia è in rivolta. Sono state presentate quattro proposte di stralcio. Da Nord a Sud si rincorrono i convegni. La petizione lanciata su Change.org ha superato le 23mila firme. E più di trecento nomi hanno sottoscritto l’appello "Salviamo i tribunali per i minorenni" dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia (Aimmf). Tra i firmatari ci sono Valerio Onida, Gherardo Colombo, don Luigi Ciotti, e anche Giacomo Guerrera, presidente di Unicef Italia. L’Europa ha indicato l’Italia come modello nella direttiva sul "Giusto processo minorile", ma il governo si muove nella direzione opposta. Magistrati, associazioni e avvocati. Tutti sono contrari all’emendamento inserito a sorpresa dalla deputata Donatella Ferranti, Pd, nella legge delega. L’intento, si dice dal governo, è quello di razionalizzare i costi della giustizia, cancellando i tribunali dopo quasi cent’anni di storia. Il fronte del no è ampio. Persino la Garante per l’infanzia Filomena Albano, come ha spiegato a Linkiesta, è contraria alla soppressione. Ma non sono solo gli addetti ai lavori a protestare. In un convegno del 6 marzo, il presidente del Tribunale di Milano Roberto Bichi ha dichiarato che, con i tassi di scopertura del personale di cui oggi soffrono gli uffici giudiziari, la creazione di una sezione che si occupa di tutte le competenze riguardanti i minori (dalle funzioni penali alle adozioni) "è un impegno organizzativo che sicuramente non siamo in grado di gestire". Il trasferimento delle sezioni minorili nella macchina già congestionata dei tribunali ordinari dovrebbe avvenire a costo zero. "Senza darci una penna in più", ha detto Bichi, che ha chiesto al legislatore di "riposarsi" anziché portare avanti riforme fatte "a volte più a scopo comunicazionale e propagandistico e non mirate veramente a un miglioramento del sistema giustizia". Anche il procuratore di Torino Armando Spataro ha inviato il convegno milanese un messaggio in sostegno dei tribunali per i minorenni, che spesso intervengono prima che i ragazzi compiano reati. "La giustizia ordinaria non sarebbe in grado di mettere in atto un intervento di prevenzione", dice Spataro, con il conseguente danneggiamento "degli interessi e dei diritti dei minori e delle loro famiglie". Difficile immaginare che una procura, che si occupa di questioni che vanno dal terrorismo alla corruzione, possa dedicare ampie risorse alle segnalazioni dei servizi sociali. O che possa pensare al futuro dei figli delle famiglie mafiose, come hanno cominciato a fare i tribunali per i minorenni di Reggio Calabria e Napoli. Non essendo più autonomi, i passaggi burocratici delle sezioni minorili potrebbero raddoppiare, con un abbassamento del servizio. E i ragazzi, finora protetti in un sistema giudicato tra i più avanzati al mondo, finirebbero per essere una delle tante incombenze, confusi tra gli adulti. Il rischio maggiore che gli addetti ai lavori denunciano è la perdita della specializzazione che in questi anni ha reso l’Italia il fiore all’occhiello della giustizia minorile, separata da quella degli adulti. Grazie alla composizione mista dei tribunali minorili, fatta da giudici togati e onorari, esperti in pedagogia o psicologia, si punta non alla punizione del minore ma alla possibilità di offrirgli una seconda possibilità. Privilegiando l’ascolto, la conoscenza delle personalità e la sospensione del processo con la messa alla prova. "Il processo penale minorile è diverso da quello per gli adulti, improntato invece a un’ottica di sanzione e punizione", ha ricordato Cristina Maggia, vice presidente di Aimmf. "Il ragazzo non solo viene visto come autore di reato, ma anche come vittima di una situazione familiare disagiata". E l’azione deve essere immediata, perché si tratta individui in crescita che non possono aspettare i tempi lunghi della giustizia italiana. Spesso le segnalazioni di abusi e maltrattamenti che arrivano alle procure si risolvono solo con gli interventi dei servizi sociali, senza il ricorso al tribunale. E con l’arrivo dei tanti minori stranieri non accompagnati, gli uffici dei luoghi di approdo sono carichi di lavoro. Nella relazione di sintesi per il 2016, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha ricordato come l’Italia sia il Paese con il più basso tasso di delinquenza giovanile rispetto agli altri Paesi europei e agli Stati Uniti. Aggiungendo che questo è il frutto dell’"efficacia sia dei programmi di prevenzione adottati" che delle "misure trattamentali alternative alla detenzione". Dunque, il sistema italiano funziona, ammette il Guardasigilli. Ogni 100mila minorenni, 19 sono in carcere. Ogni 100mila adulti, in carcere ce ne sono 128. Allora perché abolire i Tribunali per i minorenni? Se lo chiedono in molti. "È come se nel sistema sanitario avessimo dei centri di eccellenza, e a un certo punto il ministero della Salute dicesse di farne solo dei padiglioni di un ospedale, eliminando la specializzazione", ha spiegato Grazia Cesaro, presidente della Camera minorile di Milano. L’Austria, che nel 2003 aveva abolito i tribunali per i minorenni, ora sta dibattendo per reintrodurli. Il fronte contrario alla soppressione non vuole solo il mantenimento dello status quo, ma chiede da tempo una riforma del sistema, stabilendo procedure univoche (che non esistono) e puntando all’informatizzazione. Al momento manca una banca dati dei minori fuori famiglia e dei bambini adottabili. La proposta è quella di creare un unico Tribunale della famiglia, che accorpi tutte le competenze. Se n’era cominciato a parlare nel 2015 con il coinvolgimento degli addetti ai lavori. Ma poi è arrivato dall’alto l’emendamento per la soppressione dei tribunali e non se ne è fatto più niente. "Ragionare in termini di pura efficienza economica è sbagliato. Si deve ragionare in termini di efficacia", ha detto Valerio Onida. "Questa riforma peggiora l’efficacia". No al diniego automatico di permessi premio per il detenuto al 41-bis di Laura Piras masterlex.it, 9 marzo 2017 Corte di Cassazione, Sezione prima penale, sentenza n. 9660 del 2017. La mera sottoposizione al regime di cui all’art. 41-bis dell’Ordinamento Penitenziario, il c.d. carcere duro, non è parametro che da solo può essere utilizzato per negare al detenuto la fruizione di permessi premio. È questo il principio affermato dalla Corte con la sentenza in oggetto. Il permesso premio, invero, è un beneficio che viene concesso ai detenuti che hanno tenuto regolare condotta penitenziaria e che non risultano "socialmente pericolosi". Tuttavia, la concessione è, comunque, frutto di una valutazione prettamente discrezionale del giudice. Nel caso di specie, il Tribunale, in applicazione di siffatto disposto, negava il beneficio in ragione del "curriculum" criminale del reo, ritenendolo socialmente pericoloso stante l’attualità e persistenza dei suoi collegamenti con la criminalità organizzata. Tale circostanza, tuttavia, era strettamente ed unicamente legata, secondo il giudice, alla operatività della sottoposizione del condannato al regime di "carcere duro". In buona sostanza, un cane che si morde la coda. Un automatismo ingiustificato secondo cui il regime carcerario in atto applicato costituisce il "segnalatore" del grado di pericolosità sociale del condannato, con la conseguente inapplicabilità di benefici, in totale assenza di ulteriori approfondimenti. La Corte, però, dice no agli automatismi. Infatti, per la concessione di benefici quali l’assegnazione al lavoro esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione, interviene l’art. 4-bis O.P., che prevede presupposti sia di natura soggettiva (quali la posizione di collaboratore di giustizia, ad esempio), che di natura oggettiva (quali la tipologia di reato commesso e per il quale si sta scontando la pena). Ci sono, infatti, reati c.d. ostativi (comma 1) per i quali, a prescindere dal tipo di regime carcerario cui è sottoposto il condannato, non possono essere concessi i benefici suddetti, a meno di non essere collaboratori di giustizia. L’errore del giudice di merito, secondo la Corte, è consistito quindi proprio nel non aver verificato (dato che non se ne da atto nel provvedimento impugnato) se la pena per i reati ostativi fosse stata interamente espiata. Ed allora, la concessione di permessi premio non può essere esclusa a priori per i condannati sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis O.P., senza ulteriori accertamenti relativi anche alla tipologia di reato per cui si sconta la pena. In definitiva, tale esclusione si ha solo se il condannato sia ristretto per uno dei delitti ostativi di cui all’art. 4-bis, comma 1, O.P.. Espulsione vietata per lo straniero affetto da Hiv di Silvia Marzialetti Il Sole 24 Ore, 9 marzo 2017 Corte di cassazione - Sentenza 6000/2017, È vietata l’espulsione di un cittadino straniero gravemente malato. L’imprescindibile diritto alla salute di cui godono tutti i cittadini, comunitari e non, impedisce l’espulsione nei casi in cui l’immediata esecuzione del provvedimento rischierebbe di causare un irreparabile pregiudizio. Tale garanzia comprende infatti non soltanto le prestazioni di pronto soccorso e di medicina d’urgenza, ma anche tutte le altre prestazioni essenziali per la vita. Per questo motivo la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso presentato da un cittadino straniero affetto da Hiv contro il provvedimento del giudice di pace di Massa, che ne aveva stabilito l’espulsione. Il divieto di espulsione temporanea dello straniero per motivi di salute - si legge nella sentenza 6000 depositata l’8 marzo - è correlato ad una condizione di necessità d’intervento sanitario non limitato all’area del pronto soccorso o della medicina d’urgenza, ma è esteso all’esigenza di apprestare gli interventi essenziali "quod vitam". Rientrano in tale categoria tutti gli interventi che, successivamente alla somministrazione immediata di farmaci essenziali per la vita, siano indispensabili al loro completamento, o al conseguimento della loro efficacia, mentre restano esclusi tutti quei trattamenti di mantenimento e di controllo che, seppur necessari per garantire una speranza di vita, esulino dall’intervento sanitario indifferibile e urgente e per i quali può essere richiesto un permesso di soggiorno per motivi di salute. Nel caso preso in esame, il giudice di Massa avrebbe omesso di accertare lo stato di salute del ricorrente, fornendo una "erronea, insufficiente e contraddittoria motivazione". In particolare, questi avrebbe errato nel ritenere i motivi di salute esclusi da quelli tassativamente indicati all’articolo 19 del Dlgs 286/1998 e quindi causa non ostativa per la pronuncia di espulsione. Nel caso di specie - si legge nella sentenza - il giudice di pace si è limitato a una apodittica affermazione senza prender atto della sindrome sofferta dal ricorrente e senza alcuna motivazione circa le ragioni per cui la stessa non giustifichi l’applicazione dell’articolo 19 del Dlgs 286/1998. La Suprema Corte, dunque, non ha dubbi: all’uomo spetta un permesso di soggiorno per motivi sanitari. Alcoltest: se l’orario sugli scontrini non corrisponde al verbale si può correggere a penna di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 9 marzo 2017 Corte di Cassazione - Sezione IV - Sentenza 20 febbraio 2017 n. 8060. Cambiare a penna l’orario sugli scontrini stampati dall’alcoltest non mette in dubbio la funzionalità dell’apparecchio. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 8060 del 20 febbraio 2017. Il caso - Un automobilista si vedeva confermata dai Giudici della Corte d’Appello la pronuncia di condanna per il reato di cui all’articolo 186, lettera c), del codice della strada per guida in stato di ebbrezza, con tasso alcolemico rilevato di g/l 1,74 e 1,77. Avverso la sentenza aveva proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, lamentando la erronea applicazione della legge ed il difetto di motivazione laddove il giudice di merito aveva riconosciuto la colpevolezza dell’imputato pur in assenza di una prova certa che gli scontrini dell’alcoltest fossero riconducibili allo stesso. Sul punto la Corte di merito aveva travisato la prova, invero non aveva rilevato che l’orario degli scontrini non corrispondeva a quello del verbale ed era stata necessaria una correzione a penna fatta dai verbalizzanti per rendere gli atti coerenti tra loro. La decisione - Gli Ermellini ritengono il ricorso infondato e, di conseguenza, lo respingono. L’apparecchio, perfettamente funzionante, aveva riportato nei due test un tasso alcolemico di 1.74 e 1.77 g/l, riguardo ai quali non è lecito nutrire alcun tipo di dubbio. Né si può mettere in dubbio il fatto che quell’accertamento riguardasse proprio l’imputato e non un altro automobilista, dal momento che sui due foglietti appare proprio il suo nome. Oltre a ciò, viene a sostegno della condanna anche la testimonianza resa dai due verbalizzanti, che hanno evidenziato come al momento dei controlli l’imputato presentassi numerosi ed evidenti sintomi di ubriachezza, fra cui l’alito vinoso, la difficoltà a coordinarsi e a parlare, la guida contromano e a zig-zag. Proprio quest’ultimo punto ha indotto un cittadino ad avvertire le forze dell’ordine. Di fronte a tali prove schiaccianti, non è possibile mettere in dubbio il funzionamento dell’alcoltest a causa di una mera irregolarità, peraltro prontamente corretta dai verbalizzanti. Direttore del giornale responsabile se la lettera pubblicata offende il Pm di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 9 marzo 2017 Corte di cassazione - Sentenza 5795/2017. Omesso controllo e diffamazione per il direttore responsabile che pubblica una lettera nella quale si definisce un magistrato "Pm d’assalto". La Cassazione (sentenza 11087) conferma la responsabilità del direttore di un quotidiano nel reato commesso ai danni del Pm Henry John Woodcock, titolare dell’inchiesta "Tempa Rossa" e di alcuni soggetti coinvolti nella vicenda, definiti dal firmatario della lettera "scrocconi e faccendieri". Inutilmente il direttore si era difeso affermando che le parole "incriminate" rientravano nel diritto di critica. Per la Cassazione però le definizioni di "scrocconi e faccendieri" e quella rivolta alla toga bollato come un Pm d’assalto "capace di soffiare sul fuoco dell’arbitrio e dell’illegalità" e di "arrogarsi un potere che non gli spetta", andavano oltre il diritto di critica perché ledevano in modo gratuito la dignità dei destinatari. La Cassazione ricorda che l’accusa di agire per "vanità" o per fini personali, rivolta a chi conduce delle indagini danneggia l’immagine del magistrato. È giusto che il pubblico sia informato del funzionamento del sistema giudiziario, tuttavia serve una tutela contro attacchi distruttivi e infondati che minano la fiducia del pubblico nella giustizia. Soprattutto in considerazione del fatto che i giudici hanno un dovere di discrezione che gli impedisce di replicare alle offese. Lombardia: Carceri e Rems, il Consiglio regionale approva due Risoluzioni quotidianosanita.it, 9 marzo 2017 La prima risoluzione per sensibilizzare Camera, Senato e Consiglio dei ministri sull’approvazione, in tempi brevi, della riforma dell’ordinamento penitenziario. La seconda riguarda la realizzazione delle Rems a Castiglione delle Stiviere e Limbiate. Da Gallera "Impegno per giungere in tempi rapidi alla realizzazione delle 6 strutture sanitarie extraospedaliere". La riforma della giustizia e gli interventi per il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) sono stati i temi al centro di due Risoluzioni, promosse dalla Commissione speciale sulla situazione carceraria presieduta da Fabio Fanetti (Lista Maroni), approvate ieri dal Consiglio regionale della Lombardia. Il primo documento, illustrato dallo stesso Presidente Fanetti, intende sensibilizzare Camera, Senato e Consiglio dei ministri perché si arrivi in tempi brevi all’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. "Occorre rivedere le norme che regolamentano la vita quotidiana delle carceri - ha sottolineato il Presidente Fanetti. È importante che venga garantita una vivibilità adeguata e tutte le misure e le esperienze culturali e assistenziali per la riabilitazione e il reinserimento lavorativo dei detenuti. Grazie a questi interventi si riduce la recidiva e si contengono i costi a carico dello Stato. Ora occorre che lo Stato intervenga per superare i tanti problemi delle carceri italiane". A favore della Risoluzione si sono espressi i consiglieri Chiara Cremonesi (Sel), Fabio Pizzul (PD), Paola Macchi (M5S), Roberto Bruni (Patto Civico) e Mario Mantovani (FI). Il secondo documento, illustrato da Carolina Toia (Lista Maroni), approvato con 58 voti a favore e 16 astenuti, riguarda la realizzazione di strutture sanitarie extraospedaliere (Rems) a Castiglione delle Stiviere (MN) e Limbiate (MI). A oltre quattro anni dalla legge che prevedeva la realizzazione di strutture alternative, il documento impegna la Giunta a istituire un Tavolo tecnico per valutare "la reale necessità di realizzare nuove strutture" e ridurre l’utilizzo di suolo pubblico, dando priorità all’intervento sull’ex ospedale di Limbiate. "Occorre accelerare la realizzazione d’interventi necessari per dare soluzioni a problematiche importanti e non più procrastinabili - ha sottolineato la consigliera Toia. Bisogna arrivare a soluzioni immediate". Durante il dibattito è intervenuto il consigliere Fabio Pizzul (PD), che ha rimarcato l’opportunità della Risoluzione "per evitare che la Regione Lombardia perda strutture d’eccellenza come è stato in passato l’OPG di Castiglione delle Stiviere, ora in difficoltà nel dare risposte adeguate ai detenuti". "È indispensabile intervenire con urgenza - ha rimarcato il consigliere Mario Mantovani (FI), tra i promotori della Risoluzione. Oltre a rischiare un altro richiamo dall’Unione Europea, si aggrava sempre di più la piaga sociale dei suicidi in carcere". Sostegno alla Risoluzione è stato espresso anche da Paola Macchi (M5S). L’assessore al Welfare, Giulio Gallera, ha quindi affermato che sarà "mio preciso impegno accelerare il passo per giungere in tempi rapidi alla realizzazione delle 6 strutture sanitarie extra ospedaliere per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, previste a Limbiate (Monza e Brianza) e Castiglione delle Stiviere (Mantova). Sono stato a Castiglione per accertarmi personalmente sullo stato dei lavori, in ritardo a causa di motivi burocratici, che sicuramente devono essere risolti al più presto". "Visitando le strutture del territorio che provvisoriamente sostituiscono le Rems (Residenze Esecuzione Misure Sicurezza)- ha rimarcato l’assessore - ho constatato l’azione virtuosa svolta, nonostante le difficoltà derivanti dall’applicazione della nuova legge che impone maggiore libertà individuale per i detenuti con l’obiettivo di inserirli in attività di recupero e reintegro nella società". "Per quanto riguarda la realizzazione delle sei nuove Rems - ha spiegato Gallera - qualora in tempi rapidi non dovessimo verificare procedure certe da parte di Infrastrutture Lombarde (società che ha in appalto i lavori), non escludiamo di intraprendere altre strade". "È comunque nostra intenzione - ha concluso Gallera - affrontare le problematiche del disagio psichiatrico dei detenuti anche in contesti diversi dalle Rems. Crediamo, infatti, che debba esserci un’azione allargata sul territorio che veda un coinvolgimento anche delle nostre Asst e per questo stiamo lavorando a un documento che sottoporremo a breve alla Commissione regionale Sanità, prima della sua approvazione in Giunta". Veneto: Rita Bernardini del Partito Radicale visita le carceri di Vicenza e Verona vicenzapiu.com, 9 marzo 2017 Rita Bernardini, componente della presidenza del Partito Radicale e presidente d’onore di Nessuno tocchi Caino, è giunta al 31° giorno di sciopero della fame per chiedere che la discussione e l’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario venga estrapolata dal complessivo pacchetto giustizia. Il provvedimento, che era stato inserito nel calendario dei lavori della Camera dei Deputati, ora ritorna al Senato. I tempi si allungano, e lo stralcio servirebbe ad ottenere almeno l’approvazione dell’ordinamento penitenziario. Una riforma importante perché prevede punti essenziali per rendere legale l’esecuzione penale: incremento della possibilità d’accesso alle pene e alle misure alternative anche per i recidivi, maggiori possibilità di lavoro, di formazione e di studio sia in carcere che una volta usciti, giustizia riparativa e apertura del carcere alla società esterna, accesso alle cure, particolare attenzione e riguardo ai tossicodipendenti e ai malati psichiatrici, effettivo diritto all’affettività affinché la persona reclusa mantenga rapporti stabili con i familiari, in particolare con i figli minori. Una delegazione del Partito Radicale condotta da Rita Bernardini visiterà gli istituti penitenziari di Vicenza e Verona: sabato 11 marzo al carcere di Vicenza sarà accompagnata da Maria Grazia Lucchiari, Fiorenzo Donadello, Giuseppe Milan, Alberto Ruggin, Stefania Cunegatti. Domenica 12 marzo al carcere di Verona sarà seguita da Maria Grazia Lucchiari, Antonella Sacco, Laura Vantini, Fiorenzo Donadello, Giuseppe Milan, Emanuela Bertoni, Carol Martin. Al termine delle visite alla popolazione detenuta e agli operatori delle carceri Rita Bernardini parteciperà alle assemblee per la campagna di iscrizioni al Partito Radicale per il 2017: Vicenza sabato 11 marzo, ore 17:00 in Contrà De Proti Giampietro, 3 (Piazza dei Signori). Verona domenica 12 marzo, ore 17:00 sala civica Lodi - via San Giovanni in Valle 13 (Piazza Isolo). La mozione approvata dal 40° congresso straordinario che si è svolto lo scorso settembre all’interno del carcere romano di Rebibbia ha posto come condizione minima necessaria per proseguire le battaglie e le iniziative del Partito Radicale il raggiungimento di almeno 3000 iscritti nel 2017 e altrettanti nell’anno successivo. Trento: "Messa alla prova", ottocento richieste pervenute nel 2016 di Dafne Roat Corriere del Trentino, 9 marzo 2017 Ufficio penale sotto organico, pratiche raddoppiate. De Bertolini: questa novità funziona. Ottocento pratiche solo nel 2016. Sono i numeri dell’Uepe (Ufficio penale esecuzione esterna) sui fascicoli relativi alle richieste di sospensione del processo per la messa alla prova. Un istituto che sta entrando a pieno regime. Sono 100 le ordinanze firmate dal Tribunale, 50 dal Gup. Ma i numeri si scontrano con i problemi di organico. Gli avvocati: "Intervengano gli enti locali". De Bertolini riflette sulle nuove sfide dell’avvocatura: "Ruolo sempre più sociale". È causa di estinzione del reato, anche se da molti è considerato un po’ un escamotage per evitare una condanna. "Non è un’ammissione di colpa" aveva sottolineato il consigliere autonomista spiegando sul social network la sua scelta. In realtà l’istituto della messa alla prova, introdotto con la legge 68 del 28 aprile 2014 ed entrato in vigore nel nostro ordinamento il 17 maggio 2014, è molto utilizzato da tanti imputati in quanto offre la possibilità - ma non per tutti i reati - di scontare la pena attraverso il meccanismo dei lavori di pubblica utilità. La ratio della norma è l’attivazione di condotte "volte all’eliminazione di conseguenze dannose derivanti dal reato" e, dove è possibile, risarcire il danno. Solo nel corso del 2016 l’Uepe (Ufficio penale esecuzione esterna) ha gestito 800 pratiche di messa alla prova, sono 100 le ordinanze firmate dal Tribunale penale dibattimentale monocratico, e cinquanta quelle emesse dall’ufficio del giudice delle udienze preliminari. Il numero, in questo caso, è inferiore per la tipologia di reati trattati in udienza Gup, che spesso non possono rientrare tra quelli per i quali è previsto l’istituto di messa alla prova. La disciplina dell’istituto della sospensione del processo con la messa alla prova è infatti applicabile solo per reati con una pena detentiva non superiore al massimo di quattro anni. I numeri, che riguardano il periodo tra il primo gennaio e il 31 dicembre 2016, sono importanti. Basta considerare che l’Uepe ha raddoppiato i carichi di lavoro rispetto all’anno precedente. Prima dell’entrata in vigore di questo nuovo strumento l’ufficio trattava complessivamente circa 800 pratiche all’anno, relative solo alle misure alternative alla detenzione per sentenze già passate in giudicato, quindi definitive, ora, nel 2016, l’ufficio è passato a 1.600 pratiche. Analizzando i dati il 10% del carico di lavoro dell’ufficio è rappresentato dalle istanze relative alla messa alla prova. È l’Uepe, acquisita la richiesta di programma di trattamento, che si occupa dei programmi presso associazioni di volontariato o altri enti che dovrà seguire l’imputato, progetti poi sottoposti all’attenzione del giudice che decide e stabilisce i tempi del percorso, commisurati ovviamente all’eventuale pena e quindi al reato commesso. Più oneri, ma il personale è sempre meno. L’aumento di lavoro e di fascicoli si scontra infatti con gli organici. L’organico previsto per l’Uepe è di dodici unità, ma in realtà sono solo in 5 e di questi due sono in servizio a part-time. Tutto questo ha portato a ritmi di lavori assurdi, spesso insostenibili e inevitabili inefficienze. Il rischio di una paralisi del sistema è più che concreto e tutto questo potrebbe mettere in crisi anche l’intero sistema della messa alla prova. L’unica via di uscita potrebbe essere la delega Stato-Regione, sulla giustizia, la norma è stata approvata e dal primo gennaio sono state delegate alla Regione l’organizzazione amministrativa e la gestione giuridica ed economica del personale amministrativo, la manutenzione e la gestione degli immobili destinati a sedi di uffici giudiziari nel distretto. Ma nel caso dell’Uepe, a quanto pare, non avrebbe alcuna efficacia. Il personale dell’Ufficio penale esecuzione esterna dipende direttamente dal Dipartimento giustizia minorile e di comunità, quindi per loro la delega non vale. Il problema resta. Gli avvocati invocano un intervento degli enti locali affinché "individuino strategie di intervento per soccorrere e sopperire a questa carenza". Sassari: venti detenuti al lavoro negli archivi del carcere oroseieventi24.it, 9 marzo 2017 60mila documenti digitalizzati in pochi mesi. Eccellente risultato per il progetto della Cooperativa DigitAbile finanziato da Ras e Fondazione di Sardegna, con partner il carcere di Bancali e l’Ufficio esecuzione penale esterna. Dalle attività svolte nasce un libro realizzato dai reclusi. Venti detenuti coinvolti più uno in esecuzione penale esterna, oltre 60mila documenti digitalizzati in pochi mesi e, soprattutto, la consapevolezza di aver intrapreso un valido percorso rieducativo, un punto di svolta che rappresenta l’opportunità di un nuovo inizio. Da luglio dello scorso anno, grazie a un importante finanziamento della Ras e della Fondazione di Sardegna, il progetto Isola Digitale 2.0 sviluppato dalla Cooperativa sociale DigitAbile di Oristano in collaborazione con il Carcere di Bancali e con l’Uepe (Ufficio per l’esecuzione penale esterna), ha promosso il reinserimento sociale di un gruppo di lavoro selezionato dall’area trattamentale. I primi quattro detenuti hanno lavorato al riordino alla digitalizzazione ottica dell’Archivio della casa circondariale di Bachiddu. Altri 16 invece hanno digitalizzato una parte dell’archivio del dismesso carcere di San Sebastiano e un ventunesimo, beneficiario dell’Uepe, sta svolgendo attività di riordino di un archivio della cooperativa in modalità di telelavoro. Prelevati dai faldoni degli scaffali polverosi, i documenti hanno acquisito pian piano l’aspetto di file digitali con grande entusiasmo da parte dei reclusi per via dell’efficacia che ne scaturisce sull’azione amministrativa: una richiesta digitale può ottenere risposte in tempi decisamente più veloci e, ogni minuto trascorso nell’isolamento della cella, amplifica a dismisura il disagio dell’attesa. Alla conferenza stampa di stamane nella sede della Fondazione sono intervenuti Giorgio Oggianu, presidente della Cooperativa sociale DigitAbile di Oristano, che ha sviluppato il progetto, Ilenia Troffa, educatrice e referente per l’area trattamentale del carcere, Simonetta Sanna, vice presidente della Fondazione di Sardegna e Angelo Ammirati, già direttore dell’Archivio di Stato di Sassari. Grazie a un permesso speciale, uno dei detenuti, Fabio Sechi di Sassari, ha potuto raccontare la propria eccezionale esperienza nei panni di archivista: "Prima non sapevo nemmeno inviare un sms, ora sono autonomo nell’utilizzo del computer. Ogni istante passato in cella accresce il desiderio di sentirsi utili, e quest’opportunità ci ha dato speranza. Mi si sono aperte tante porte per quando uscirò". "I detenuti hanno imparato che si può credere nelle proprie capacità e in se stessi quali artefici delle proprie scelte - ha spiegato Giorgio Oggianu. Il progetto ha garantito ai partecipanti diversi vantaggi: oltre ad aver percepito uno stipendio, hanno potuto studiare e lavorare". Buona parte dei carcerati proviene da diversi Paesi come Albania, Romania e Somalia, con comprensibili difficoltà linguistiche e culturali. La diffidenza del primo periodo, soprattutto nelle proprie capacità a causa del basso livello di scolarizzazione, ha lasciato spazio alla voglia di mettersi in gioco, di familiarizzare con le attività e con il gruppo. Finora quasi nessuno aveva mai utilizzato un pc. La fase di formazione ha permesso a tutti di conseguire della patente europea di computer e, inoltre, l’apprendimento delle tecniche di archiviazione grazie alle lezioni di Angelo Ammirati. "L’impegno dell’Istituzione carceraria - ha detto Oggianu - è stato determinante per la buona riuscita del piano di lavoro e per il raggiungimento di obiettivi così importanti. A partire dal direttore e dai servizi educativi per arrivare al personale di sorveglianza e amministrativo, tutti hanno fatto il possibile perché quest’opportunità si concretizzasse e divenisse operativa". Da quest’esperienza nasce il libro "Isola Digitale" realizzato dai detenuti, che riporta i vissuti personali dei protagonisti, le loro sensazioni, le relazioni sulle attività svolte e le tempistiche di intervento. Una sezione di approfondimento del volume è dedicata alla correlazione statistica tra tipologie di reati e luoghi di provenienza dei detenuti. Su richiesta il testo può essere scaricato in versione pdf dal sito www.digitabile.org. Isola Digitale è un esempio di sperimentazione di un intervento dinamico, ripetibile e trasferibile, in grado di promuovere l’occupabilità delle persone coinvolte nella valorizzazione digitale degli archivi delle amministrazioni pubbliche. "Siamo già in fase di realizzazione di nuovi progetti che possano dare prosecuzione al lavoro svolto - ha concluso Oggianu - con la volontà di premiare chi ha dimostrato maggiore costanza e impegno". Sondrio: inaugurazione ufficiale per il "Pastificio 1908", nato nel carcere della città settimanalediocesidicomo.it, 9 marzo 2017 È stata scelta la sera dell’8 marzo - una cena presso un ristorante di Sondrio, con lo show-cooking di un noto chef, l’emiliano Marco Ferrarini - per l’inaugurazione ufficiale del Pastificio 1908, realtà artigianale nata all’interno della Casa Circondariale del capoluogo valtellinese, un progetto che incontra e da risposte a diverse forme di fragilità. Si tratta infatti di un laboratorio per la produzione di pasta senza glutine, destinata, cioè, a chi è colpito da quella particolare forma di infiammazione cronica che è la celiachia (come lo chef Ferrarini), malattia autoimmune che richiede, a chi ne soffre, di non ingerire prodotti che contengano farine da frumento o derivati. Il Pastificio 1908 è collocato all’interno del carcere di Sondrio, completo di macchinari e strumenti. A coordinare l’iniziativa, fortemente voluta dalla direttrice della Casa Circondariale Stefania Mussio, è la cooperativa Sociale Ippogrifo, che attraverso questo progetto mira a offrire un’opportunità di formazione, lavoro e inclusione sociale alle persone detenute e un aiuto alle loro famiglie, impegnando le persone coinvolte nell’acquisizione di competenze specifiche per la realizzazione di un prodotto di nicchia e di qualità. "Il pastificio è un passo importante lungo la strada del reinserimento sociale e lavorativo di chi ha sbagliato - riflettono dalla Cooperativa Ippogrifo - realizza una produzione attenta all’alimentazione di persone con un’intolleranza alimentare problematica e sempre più diffusa, è un’attività di valorizzazione del territorio valtellinese e una sfida per tutta la comunità". La Pasta senza glutine 1908 sarà distribuita sul territorio con 5 diverse tipologie: 2 paste secche, 2 paste fresche riso e mais e il tipico pizzocchero di grano saraceno. Cagliari: da Sdr e Fidapa un’iniziativa di solidarietà e salute per le donne detenute Ristretti Orizzonti, 9 marzo 2017 Giornata all’insegna di solidarietà e salute l’8 marzo nella sezione femminile della Casa Circondariale di Cagliari. L’annuale appuntamento "Un sorriso oltre le sbarre", promosso dalle associazioni "Socialismo Diritti Riforme" e Fidapa Cagliari, è stato infatti l’occasione per conoscere la realtà delle recluse e delle agenti della Polizia Penitenziaria. Grazie alla disponibilità del chirurgo oncologo Massimo Dessena 17 detenute, su loro richiesta, hanno potuto usufruire di una visita senologica e di ecografia. Un’iniziativa, la prima del genere in una struttura penitenziaria, che è stata preceduta da un incontro con la distribuzione di un sacchetto contenente prodotti per l’igiene e la cura della persona, dolci e un piccolo mazzetto di mimose. Le detenute, che svolgono costantemente attività sportiva, hanno inoltre ricevuto una maglietta di cotone con una scritta artistica realizzata dall’artista Katia Rivano e una pianta è stata offerta alla sezione. Nel corso dell’appuntamento la scrittrice e poetessa Rosaria Floris ha interpretato il componimento in lingua sarda "Donne della Sardegna". Oltre a Maria Grazia Caligaris e Liliana Floris, presidenti rispettivamente di Sdr e Fidapa Cagliari, sono intervenuti il coordinatore dell’area sanitaria dell’Istituto Antonio Piras e Paola Sanna responsabile della Sanità Penitenziaria della ASSL nonché le Educatrici dell’Istituto. Nel corso dell’incontro è emersa la necessità di promuovere corsi di formazione per le detenute in modo da impiegare il tempo utilmente nella prospettiva di un ritorno nella società con capacità e conoscenze spendibili sul mercato del lavoro. La presenza in Istituto di 28 recluse, su una popolazione complessiva di 611 detenuti, rende particolarmente difficoltoso organizzare iniziative di formazione durature anche per la tipologia dei reati femminili. Nell’esprimere preoccupazione per la presenza nella sezione di una donna madre di 8 figli al sesto mese di gravidanza e di un’altra detenuta con due bimbi di 3 mesi e 2 anni, "c’è però un altro aspetto - ha osservato Caligaris - che necessita di attenzione. In particolare è indispensabile, anche in considerazione del cresciuto numero delle detenute, dotare la sezione femminile di un servizio infermieristico almeno durante le ore notturne. Il Villaggio Penitenziario di Uta infatti è particolarmente esteso e dispersivo. Medici e infermieri nelle ore notturne sono dislocati nell’ala centrale della struttura distante dalla sezione femminile. Una condizione che crea grave disagio e alti rischi quando si verifica un’emergenza". "La sanità penitenziaria nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta - ha evidenziato Paola Sanna - garantisce standard di salute elevati ed è considerata un positivo esempio anche a livello nazionale. Ciò significa che c’è una significativa attenzione nei riguardi dei cittadini detenuti. La realtà è quindi nel complesso soddisfacente e ben strutturata segnaleremo tuttavia l’esigenza emersa in questo contesto e valuteremo la possibilità di garantire la presenza di un infermiere nelle ore notturne". Le iniziative dell’8 marzo di Sdr e Fidapa Cagliari proseguiranno domani pomeriggio con il "Premio Solidarietà Donna". Nuoro: carceri di Badu e Carros e Mamone, primo spiraglio nella vertenza infermieri di Francesco Pirisi La Nuova Sardegna, 9 marzo 2017 L’Asl studia una procedura per la riassunzione dei nove lavoratori licenziati Mustaro (Cisl): "La loro assenza sta creando difficoltà all’assistenza ai detenuti". Il problema dei nove infermieri delle carceri di Badu e Carros e Mamone, licenziati a dicembre dalla Asl, è da alcuni giorni sul tavolo di Fulvio Moirano, direttore dell’Ats, l’azienda per la tutela della salute. L’impegno è rivolto a trovare una via per la loro riassunzione o comunque l’apertura di una selezione riservata, dove possano fare valere professionalità e anzianità di servizio maturate all’interno del sistema sanitario dove hanno operato per diversi anni. L’altra strada è una previsione, per il reimpiego, da inserire nella legge finanziaria, che nelle prossime settimane approderà in Consiglio regionale. Un atto per il quale si sono impegnati i consiglieri eletti nella provincia di Nuoro, se la soluzione amministrativa interna all’Ats non dovesse andare in porto. Nel frattempo da parte degli infermieri è stata depositata nella Direzione territoriale del lavoro una richiesta di conciliazione con l’azienda sanitaria, passaggio necessario per un’eventuale vertenza se i passi della politica non si rivelassero risolutivi. Il caso è tra quelli che tengono in fibrillazione il settore della salute nel Nuorese, proprio in questo periodo salito alle cronache per la denuncia dei vuoti negli organici di infermieri e medici, e per la condizione dei lavoratori ausiliari, entrati nella confusione più totale dopo il blocco del Project financing. Per gli infermieri delle carceri il colpo è stato ancora più duro. Come spiega Giorgio Mustaro, segretario della Cisl Funzione pubblica di Nuoro: "Alcuni di loro sono in servizio da svariati anni, con contratti sempre a termine o di collaborazione. Prima erano dipendenti del ministero di Grazia e Giustizia e poi della Asl, da quando nel 2012 la sanità è passata nelle competenze delle Regioni. Tutti hanno raggiunto dunque almeno i 36 mesi che la legge sulla pubblica amministrazione ha fissato a suo tempo come momento in cui si matura il diritto della trasformazione del contratto a termine nel tempo indeterminato". Passaggio contrattuale per i lavoratori interessati a portata di mano proprio nella fase del trasferimento delle competenze dallo Stato alle Regioni, "se non fosse stato per una pratica amministrativa chiusa con troppa fretta e che ha dimenticato di farsi carico di queste situazioni consolidate nei fatti", aggiunge Mustaro. E ciò, e a maggior ragione, proprio nel caso dei lavoratori della sanità carceraria: "La loro assenza ha creato delle difficoltà, soprattutto nel primo periodo e nonostante il posto sia stato preso da altri professionisti. Questo perché l’opera viene prestata in un ambiente particolare, dove ha un rilievo anche il rapporto di fiducia che s’instaura nel tempo con il detenuto". Le ultime notizie dalla Regione appaiono incoraggianti, per via della ricerca di una soluzione proprio in questi giorni da parte di Moirano. Impegno alla cui base vi sono le garanzie date dall’assessore Luigi Arru al consigliere regionale di Sel, Daniele Cocco, in risposta a un’interrogazione in aula, dove già si avanzava una duplice possibilità per la soluzione di un unico problema. Cosenza progetto Liberi di Leggere, 2.500 libri per i detenuti della Casa circondariale cosenzainforma.it, 9 marzo 2017 Venerdì 10 marzo, alle 10.30, all’Istituto penitenziario "Sergio Cosmai" di Cosenza, si svolgerà l’inaugurazione della biblioteca della casa circondariale realizzata dall’associazione di volontariato penitenziario LiberaMente nell’ambito del progetto Liberi di Leggere, promosso in partnership con la casa circondariale, MorEqual, la libreria Ubik di Cosenza e il Centro socio culturale Pier Giorgio Frassati di Paola e con il contribuito della Parrocchia Santa Maria Madre della Chiesa Onlus. Il progetto, finanziato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali nell’ambito del bando Direttiva 266/91, prevedeva la gestione della biblioteca all’interno del carcere, la realizzazione di reading, incontri con gli autori e laboratori di scrittura creativa ed il coinvolgimento della cittadinanza tramite la possibilità di lasciare un "libro sospeso" per i detenuti. La biblioteca ospita 2500 volumi, alcuni dei quali donati dalle biblioteche di Lamezia Terme e dal Lions Club di Amantea, altri offerti dai clienti di diverse librerie di Cosenza, Rende e Paola. "Il nostro obiettivo - ha affermato il presidente dell’associazione, Francesco Cosentini - era quello di sostenere percorsi di inclusione e reinserimento sociale dei detenuti attraverso la lettura. Attraverso il progetto abbiamo potenziato la biblioteca acquistando nuovi arredi e libri". All’inaugurazione parteciperanno il vescovo della Diocesi di Cosenza - Bisignano, Francesco Nolè, il direttore della casa circondariale, Filiberto Benvenuto, il magistrato di sorveglianza, Paola Lucente, il parroco della Parrocchia Santa Maria Madre della Chiesa, don Franco Bonofiglio, il presidente di LiberaMente, Francesco Cosentini, il direttore del CSV Cosenza, Mariacarla Coscarella, i referenti del Lions Club Amantea, i dirigenti degli istituti scolastici che promuovono corsi per i detenuti in carcere e i volontari dell’associazione. Cosenza: grazie ai Radicali le porte del carcere aprono allo sport emilioquintieri.com, 9 marzo 2017 Aperta la palestra. A breve due campi da calcetto in erba sintetica con pista di atletica. Ogni tanto, qualche politico, prevalentemente durante le feste, viene a trovare i carcerati per poi sparire e non fare nulla. Gli unici che si distinguono e fanno qualcosa di concreto sono i Radicali che ringrazio per la collaborazione offerta all’Amministrazione Penitenziaria nell’assolvere il proprio mandato costituzionale. Con queste parole il Dirigente Penitenziario Filiberto Benevento, ha aperto la conferenza stampa, tenutasi nei giorni scorsi, presso la Casa Circondariale di Cosenza "Sergio Cosmai" per presentare il progetto "Officina, Mente & Corpo" per la pratica dello sport in carcere. All’iniziativa erano presenti per l’Amministrazione Penitenziaria Filiberto Benevento, Direttore dell’Istituto Penitenziario ed il Funzionario Giuridico Pedagogico Maria Francesca Branca; per il Movimento Radicali Italiani gli esponenti calabresi Emilio Enzo Quintieri e Valentina Anna Moretti; per la Scorpion Health Club Ercole Blasi Nevone; per la New Fashion Fitness Club, i Personal trainer Francesco Iacucci e Giovanni Gagliardi, per il Comitato Olimpico Nazionale Italiano, il Delegato Provinciale di Cosenza Francesca Stancati e per l’Associazione Centri Sportivi Italiani, Ente Nazionale di Promozione Sportiva avente anche finalità assistenziali, il Presidente del Comitato Provinciale di Cosenza Adamo Guerrini. Il mio ringraziamento, ha proseguito Benevento, va a tutti coloro che si sono prodigati per la riuscita di questo importante progetto ed in modo particolare agli Istruttori che, gratuitamente e volontariamente, verranno qui ad allenare e formare i detenuti, la cui maggior parte sono di giovane età. Noi, come Amministrazione, abbiamo il dovere di rieducare e riabilitare i detenuti ma da soli, senza il contributo della Società esterna, non c’è la possiamo fare. Per questo siamo disponibili ad accogliere tutte le buone iniziative provenienti dall’esterno. Avevamo investito tanto per realizzare questa palestra e comprare le attrezzature ma sino ad oggi è stata chiusa non avendo istruttori tra il personale. Andremo oltre. Tra qualche giorno, ha concluso il Direttore, avvieremo il progetto per la realizzazione di due campi di calcetto, 1 da calcio a 7 e l’altro da calcio a 5, entrambi in erba sintetica, oltre ad una pista di atletica leggere in terra battuta lungo tutto il loro perimetro, finanziati dalla Cassa delle Ammende del Ministero della Giustizia. Per eseguire i lavori ricorreremo alla manodopera dei detenuti che saranno assunti ed avranno anche la possibilità di guadagnare qualcosa. Solo per alcuni ostacoli burocratici, il progetto è rimasto fermo per diversi mesi. Nella palestra saranno impegnati, in due turni, 24 detenuti per 3 giorni a settimana, appartenenti ad entrambi i Circuiti Penitenziari (Media ed Alta Sicurezza), ha proseguito Maria Francesca Branca, uno dei pochi Funzionari Giuridico Pedagogici in servizio al Carcere di Cosenza. Avranno la priorità tutti coloro che per motivi di salute hanno bisogno di svolgere attività motoria. Poi i condannati, rispetto ai giudicabili, con pene medio lunghe da espiare e che durante la detenzione abbiano tenuto una buona condotta. Francesco Iacucci e Giovanni Gagliardi, personal trainer, hanno detto di voler trasmettere tutto il loro sapere ai detenuti che parteciperanno al progetto per dargli, una volta tornati in libertà, anche una concreta possibilità per inserirsi nel mondo del lavoro. Infatti, ha detto poi Adamo Guerrini, Presidente del Comitato Provinciale Acsi di Cosenza, che ha donato gratuitamente 100 tessere per la copertura assicurativa in caso di infortuni, rilasceremo degli attestati ufficiali con titolo spendibile su tutto il territorio nazionale. Più in là, una volta ultimati i lavori dei campi di calcio, potremmo anche organizzare delle partite con le nostre squadre come avviene in altri posti. Successivamente, hanno preso la parola Ercole Blasi Nevone, Valentina Moretti ed Emilio Quintieri i quali dopo aver espresso parole di elogio nei confronti della Direzione della Casa Circondariale di Cosenza, dell’Area Trattamentale e della Polizia Penitenziaria nonché della Magistratura di Sorveglianza di Cosenza sempre favorevole ad autorizzare questi progetti, hanno preso l’impegno di estendere l’iniziativa, con la collaborazione ed il sostegno degli altri Enti presenti, in tutti gli altri stabilimenti penitenziari della Provincia di Cosenza (Case Circondariali di Paola e Castrovillari e Casa di Reclusione di Rossano). Ha concluso, per ultimo, l’Avvocato Francesca Stancati, in carica da circa un anno, Delegato Provinciale del Coni di Cosenza. È un progetto molto importante ed è quello che in questi anni avrebbe dovuto fare il Coni in tutte le Carceri d’Italia e che invece ha realizzato solo in alcuni Istituti Penitenziari (Roma Rebibbia Femminile, Bologna, Torino, Spoleto, Terni, Padova, Ascoli Piceno, Napoli Secondigliano, Monza, Milano Bollate, etc.). Lo sport aggrega, da dei benefici fisici, mentali e umorali, tutto quel che serve ad una persona che vive costantemente in una situazione di estremo disagio come quella detentiva. Ed ha anche una valenza educativa perché impara, oltre ad aver rispetto per il proprio corpo, ad apprendere il rispetto per le regole e per l’avversario, una cosa fondamentale nei rapporti interpersonali. Non bisogna fermarsi solo all’attività motoria al chiuso in palestra, bisogna integrare questo progetto, peraltro già molto completo, con altre attività sportive all’aria aperta come il calcio, la pallavolo, il rugby. Ed incalzata dal radicale Quintieri, l’Avv. Stancati, ha confermato che per qualsiasi problematica il Coni di Cosenza è a disposizione dell’Amministrazione Penitenziaria così come lo è a livello nazionale visto il Protocollo di Intesa stipulato nel 2013 con l’ex Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri. È un impegno che assumo io in prima persona perché ci credo molto in queste iniziative. Siamo a disposizione anche per supporto tecnico per presentare progetti alle Istituzioni competenti per migliorare l’impiantistica sportiva degli Istituti Penitenziari. Pesaro: all’Università di Urbino un dibattito sul rapporto tra giustizia penale e media Corriere Adriatico, 9 marzo 2017 I rapporti tra giustizia penale e i mezzi di informazione saranno discussi venerdì prossimo, 10 marzo alle ore 10 nell’aula magna del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Urbino. A confronto rappresentanti del mondo accademico, operatori della giustizia e della comunicazione con prospettive e sensibilità diverse su un tema di estrema attualità. La relazione introduttiva è affidata al professor Glauco Giostra, che analizzerà patologie e disfunzioni del rapporto fra giustizia penale e media, individuandone cause, effetti, possibili rimedi. Interverranno poi operatori particolarmente qualificati della giustizia e dell’informazione: il dottor Sergio Sottani (procuratore della Repubblica di Forlì), l’avvocato Renato Borzone (Responsabile dell’osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione camere penali italiane), il giornalista di Repubblica Carlo Bonini. Seguiranno infine gli interventi di Chiara Gabrielli docente di diritto processuale penale della sicurezza sul lavoro dell’Università di Urbino e di Franco Elisei, consigliere nazionale dell’Ordine dei giornalisti, docente a contratto di linguaggi del giornalismo a Urbino. Il convegno sarà anche l’occasione per presentare il Libro bianco sui rapporti tra mezzi di comunicazione e processo penale, che raccoglie in modo organico dati e commenti relativi alla prima ricerca statistica realizzata sull’informazione giudiziaria italiana, condotta dall’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle Camere penali italiane, che hanno raccolto e studiato dal giugno al dicembre 2015 i dati ricavati dagli articoli di cronaca e di politica giudiziaria apparsi sui principali quotidiani italiani. L’incontro verrà come crediti formativi per l’Ordine degli avvocati e per l’Ordine dei giornalisti. Ferrara: il liceo artistico "Dosso Dossi" si prepara a incontrare i detenuti del carcere estense.com, 9 marzo 2017 Procede il progetto "La parola oltre i confini e oltre le mura". Gli studenti della classe Terza B/C del "Dosso Dossi" mercoledì 8 marzo, con la loro docente di Lettere, professoressa Perinasso, e il dirigente scolastico professor Borciani, hanno incontrato il direttore, il comandante, le educatrici della casa circondariale di Ferrara. Sono intervenuti il dirigente del Cpia, Fabio Muzi, il caporedattore del giornalino del carcere "Astrolabio", Mauro Presini, e le famiglie degli studenti coinvolti. La scuola e il carcere rappresentano due istituzioni statali profondamente diverse ma legate da un filo educativo e rieducativo. La consapevolezza della difficilissima situazione delle carceri italiane, in termini di rispetto dei diritti delle persone è il presupposto del progetto che muove anche dal credere ostinatamente nel valore della parola, nella possibilità di un percorso di vita diverso, nei valori positivi delle giovani generazioni. L’incontro era propedeutico a uno scambio di letture fra gli studenti che entreranno nella casa circondariale di Ferrara e un gruppo di persone detenute durante il mese di maggio. Il progetto educativo sperimentale di promozione alla lettura, avviato quest’anno, sottende un percorso di educazione alla legalità per far comprendere ai ragazzi come l’organizzazione della vita personale e sociale si fondi su un sistema di relazioni giuridiche nella consapevolezza che valori come la dignità, la libertà, la solidarietà, la sicurezza vanno perseguiti e protetti ponendosi in contrasto contro ogni forma e fenomeno di illegalità. Il compito di realtà di docenti, genitori, educatori è costruire un terreno esperienziale in cui lo studente si appropri di questi valori attraverso la mediazione di uno strumento come la parola che li accompagni in un viaggio verso l’interno di un mondo come il sistema penitenziario che rappresenta un confine tra il bene e il male, tra scelte giuste e sbagliate. Allora la parola scritta e interpretata, le emozioni e suggestioni della lettura, possono diventare un’arma per capire, per conoscere un mondo oltre e salvarsi in quei momenti in cui la vita ci costringe drammaticamente a scegliere. Milano: il "vento gentile" della poesia d’amore soffia tra le mura del carcere di Opera di Annarita Briganti La Repubblica, 9 marzo 2017 Ventitré anni fa, quando fondarono uno dei più antichi laboratori di lettura e di scrittura creativa in carcere, li presero per "pazzi". Oggi che le attività artistiche sono ampiamente riconosciute nei penitenziari, ma anche negli ospedali e in altri luoghi dove c’è bisogno di cura, i promotori dell’iniziativa sono andati oltre, aiutando i detenuti non solo ad avvicinarsi ai libri, ma a esprimere se stessi attraverso uno dei generi più difficili da praticare: la poesia. Il risultato è la raccolta "Ti darò un vento gentile. Poesie d’amore dal carcere" (pubblicato da La Vita Felice), a cura dei docenti-fondatori del Laboratorio, Silvana Ceruti e Alberto Figliolia, con la prefazione di un grande poeta, Maurizio Cucchi. Gli autori delle poesie, una trentina, di diverse nazionalità, sono quasi tutti ancora reclusi nel carcere di massima sicurezza di Milano-Opera. Due albanesi, due africani, un peruviano, un ecuadoregno e gli italiani si incontrano attorno a un tavolo ogni sabato mattina, dalle 9 alle 12, e condividono i versi che hanno scritto durante la settimana. "L’unica regola è l’assenza di giudizio", spiega Ceruti. "In tutti questi anni non ho mai chiesto a nessuno perché fosse "dentro". Non conta il passato. Noi vogliamo dare loro un futuro, anche a quelli, e ne abbiamo tra i nostri allievi, che scontano un "fine pena mai", ergastoli senza benefici, dovuti a omicidi. Sanno che non ne usciranno, ma almeno impiegano bene il presente". "Lo Stato si occupa della certezza della pena, ma trascura la loro "rieducazione". È compito della società civile sopperire a questa mancanza", aggiunge Gerardo Mastrullo, l’editore che pubblica queste raccolte dal carcere, volontario tra i volontari, considerando che spesso non copre neanche le spese che sostiene e che aiuta gli ex detenuti anche con stage nella sua casa editrice e con piccoli prestiti per gli studi dei figli o per avviare attività commerciali. Assodato che il "prima" è un tabù, anche nella produzione letteraria, l’amore diventa il tema perfetto per esprimere desideri e rimpianti dei partecipanti all’antologia. C’è quello romantico, che dà il titolo all’opera - "Ti darò un vento gentile / che accompagni i tuoi pensieri / accoglierò con gioia i tuoi desideri / come se fossi qui a sussurrarmi all’orecchio", di Giovan Battista Della Chiave. Ci sono componimenti in dialetto, come i versi, in siciliano, di Antonino Di Mauro: "Ritunnamu ‘nzemi, stritti da ‘na vittigini, / nda fini di ddu pricipiziu chiamatu vita" (Ritorneremo insieme, stretti in una vertigine, / alla fine di quel precipizio chiamato vita). C’è un dialogo a distanza, doloroso, con i figli, come nelle lettere di Fabio Presicci, collocate alla fine del volume: "Nelle mie mani i solchi della solitudine tracciano la distorta linea del prossimo futuro che porterà al niente, maledetto tesoro dell’eredità che vi lascio". "È difficile scrivere poesie se stai bene. In questo senso, la detenzione "aiuta" i nostri poeti", fa notare Ceruti. "Si tratta di esseri umani che avevano perso la fiducia degli altri e in se stessi. Con la poesia, e con la scrittura, ritrovano sicurezza e smettono di delinquere. Roma: la mostra "Please come back", ovvero l’uomo come prigione di se stesso di Giancarlo Capozzoli (Regista teatrale e scrittore) huffingtonpost.it, 9 marzo 2017 Le novità autentiche degli "invisibili" è il pensiero con cui esco dal museo. "Please come back" è infatti il titolo di una mostra esposta in queste settimane al museo Maxxi, di Roma. Mostra che prende il titolo da una opera del collettivo Claire Fountaine, "please come back" appunto, scritta al neon, che vuole essere "una riflessione sul mondo del lavoro inteso come spazio di reclusione e sullo sconfinamento della prigione al di fuori delle sue mura". L’esposizione è divisa in tre quadri (n.d.r. stavo per scrivere in tre celle): dentro le mura/Fuori le mura/Oltre i muri.Il percorso espositivo vuole suggerire una riflessione, da un lato, sulle attuali condizioni della detenzione, dall’altro vuole suggerire questo superamento appunto della spazio intramurario, anche nella società fuori. Libera e al di là di ogni controllo, ma apparentemente. Senza fingere alcuna ingenuità, siamo - bene o male tutti o molti - consapevoli di quante tracce lasciamo quotidianamente tramite dispositivi elettronici che ci accompagnano. Dispositivi che coniugano i nostri consumi, decidono le nostre scelte (di mercato), stabiliscono i nostri gusti (di consumo), e comprano i nostri beni. Eppure c’è dell’altro. C’è quel qualcosa che non è quantificabile, individuabile, consumabile. C’è qualcosa che non fa statistica, non insegue mode, non stabilisce trend di valutazione. Questo qualcosa è il pensare, è il pensiero, lo studio, la riflessione, l’approfondimento. Le nostre scelte, il nostro stesso scegliere va oltre il semplice commento a qualche pagina virtuale. Scelta è innanzitutto rinuncia. Scelgo questo e non un altro. La scelta è rinuncia a qualcos’altro. È l’affermazione di qualcosa, contro qualcosa altro. Questo sì, questo no. "Please come back" quasi involontariamente, allora, suscita anche questa altra riflessione, nata dalla visione di una proiezione all’ultimo piano della esposizione. La proiezione di interviste realizzate all’interno di un carcere, ad un gruppo di detenuti nella loro semplicità nuda, di uomini-detenuti, mi è sembrato l’aspetto più interessante di tutta l’esposizione. Perché un gruppo di (eletti) fruitori di un museo, dovrebbero interessarsi alle parole dette dall’uomo a un detenuto? Perché dovrebbe osservarne gli occhi e lo sguardo profondo e triste? Perché dovrebbe prestare attenzione al gesticolare nervoso del detenuto S.? Che vorrà dire il tatuaggio sul collo di M.? Come si sarà procurato il taglio alla mano sinistra? Perché mantiene sempre lo sguardo abbassato? Perché non dovrebbe capire l’italiano incespicante e difficile e stentato di B.? Sono solo alcune delle domande che mi hanno accompagnato lungo la via del ritorno, dal museo. Domande che mi sono piombate letteralmente addosso. Ho guardato questa video-intervista, alcuni di loro mi è sembrato anche di riconoscerli. Ho riconosciuto di certo le storie, sempre le stesse, diverse e singolari eppure identiche nella miseria economica e culturale. Mi ha interessato naturalmente. Ero rapito, ma io sono di parte. Perché qualcun altro dovrebbe interessarsi a questa proiezione all’interno di un museo di arte contemporanea? Che cosa è l’arte? Il mezzo con cui è stato realizzato lo fa un racconto per immagini, e pertanto contemporaneo. La domanda principale resta: che cosa è l’arte? Che cosa ha a che fare con la esperienza dell’arte questa proiezione? "L’arte deve esprimere ciò che non è immediatamente e semplicemente visibile agli occhi", afferma un mio studente con la certezza definitiva della sua giovane età e della sua inesperienza. Heidegger uno dei maggiori filosofi contemporanei del 900 restituisce un nuovo e antico concetto di arte, quando lo riconduce al concetto di verità, intesa come disvelamento. Arte e verità si appartengono. L’arte dice, a noi uomini, qualcosa che ha a che fare con l’uomo stesso, nella più intima essenza. Se è vera arte, altrimenti è intrattenimento, e fa perdere tempo. Ci distrae. L’arte allora si inserisce nel movimento del disvelamento della verità, ci fa vedere "oltre" il velo del disvelamento. Ci va vedere anche oltre il muro. Questo video e l’immediatezza della sua apparente semplicità (videocamera fissa, un solo microfono, nessuna o alcuna accortezza dell’inquadratura, luce naturale, nessuna luce artificiale aggiuntiva, né alcun effetto video a sottolineare sguardi profondi o cicatrici), ci getta addosso cosa c’è oltre il muro, oltre il velo, ci mostra questi uomini invisibili. Ci fa vedere cosa è il carcere oltre il muro di cinta. Ci fa vedere cosa è nella sua essenza, i detenuti. Il detenuto nella sua singolarità ed unicità. I gesti semplici di uno ci parlano della sua eleganza, il tono sommesso della voce di un altro, ci racconta la sua amara disperazione o la sua assenza di prospettive, di un futuro. L’italiano stentato di un altro detenuto ancora ci narra delle sue origini sottoproletarie. Di un detenuto in particolare e anche della maggior parte di loro. Di un altro recluso ci catturano le labbra chiuse, che raccontano la sua rabbia repressa. Anche la rigidità del corpo, la mancanza di senso. Di sensi e percezioni. Di un altro detenuto, infine, la scarsa cultura. O la semplicità dei suoi modi spicci, ridotti al minimo. In breve, emergono i valori essenziali di questi uomini. Il video squarcia il velo del muro del silenzio e ci fa gettare uno sguardo intimo dentro il carcere, dunque. Per gettare uno sguardo, per farsi un’idea, un’opinione, un pensiero. Ma, soprattutto, per cambiare anche i propri preconcetti, il proprio modo di guardare e pensare. Guardare per conoscere, guardare per comprendere. Guardare per riflettere. Riflettere per poter avere un’opinione che vada oltre l’istinto vendicativo di chi vuole semplicemente il colpevole in cella, buttando via la chiave senza aver prima compreso le condizioni e le ragioni che hanno portato queste persone a commettere un reato. "Please come back" apre uno squarcio di riflessione, è un’occasione perché accada qualcosa anche fuori dalle mura della società civile, da cui gli altri, i colpevoli, sono esclusi. Molto ancora ci sarebbe da dire e da pensare, ma questo è lo snodo centrale da tenere sotto osservazione per comprendere, a fondo, l’importanza di una iniziativa come questa: riuscire, o almeno tentare, a cambiare anche e soprattutto il "pensare fuori". Sentire un uomo (che nella sua declinazione di detenuto resta comunque un uomo) che racconta della sua assenza di libertà, è una valida occasione per un ulteriore pensare da parte di tutti, sul significato della assenza di libertà. È l’occasione di domande che si ripropongono: che cosa è a questo punto la libertà? È un uomo privato della sua libertà personale? È la sua giusta condanna? Quali sono i suoi valori? E i miei? Cosa sancisce la Costituzione Italiana? Quali sono i diritti inviolabili? Chi li garantisce? Quale è la loro provenienza? Quale è la sua educazione? Quale colpa hanno le istituzioni? Lo Stato? La scuola? Il sistema? Che cosa fare perché lui/loro possano operare scelte diverse da quelle fatte finora? È davvero una scelta? Quali sono le mie decisioni? Io, uomo, sono davvero libero? E loro? E gli altri? Chi sono i miei coabitanti? In che modo decidiamo e rinnoviamo la scelta di vivere? Cosa si fa e si può fare per migliorare le condizioni medie di tutti? E le opportunità? E le capacità? Quanto è necessario che la Politica si occupi di tali questioni? È necessario? Perché? Quanto è importante la educazione? Lo studio? Che cosa è il controllo? Chi controlla chi? Dove finiscono i muri? Quali sono i valori condivisi tra noi e loro? Che cosa è un valore? Che cosa è la dignità? Che cosa è la libertà? È "Please come back" a fornire una risposta, offrendo delle novità autentiche sugli "invisibili". Migranti. Il Consiglio d’Europa bacchetta l’Italia: "ritardi sui ricollocamenti" di Marco Bresolin La Stampa, 9 marzo 2017 Il rapporto: i ritardi sui ricollocamenti dipendono anche dalle procedure italiane. Gentiloni: il problema non lo risolve neanche Mago Merlino. L’Italia "non può farcela da sola" a gestire i flussi migratori. Da un lato perché sono massicci (più di 180 mila arrivi nel 2016, di cui 25 mila minori non accompagnati), dall’altro perché il sistema italiano presenta molte "debolezze". È un rapporto del Consiglio d’Europa ad elencare le criticità del sistema Italia, puntando il dito sulle procedure di identificazione, sul sistema di accoglienza e sulla gestione dei rimpatri. Strasburgo riconosce che gli altri Paesi Ue (e non) dovrebbero fare di più sul fronte dei ricollocamenti, accogliendo i richiedenti asilo dall’Italia, ma riconosce che anche il nostro Paese ha le sue colpe: ci sono troppi ostacoli procedurali. Il report è frutto di una missione realizzata in Italia tra il 12 e il 21 ottobre da Tomas Bocek, rappresentante speciale del Consiglio per le migrazioni e i rifugiati. Va detto che la fotografia scattata in autunno non tiene conto dei provvedimenti adottati dal governo Gentiloni, in particolare dal ministro dell’Interno Marco Minniti, e nemmeno della nuova legge sui minori non accompagnati. E infatti il Consiglio scrive nero su bianco che "il sistema di custodia legale per i minori non accompagnati non funziona". Gli hotspot sono infatti "luoghi inadatti a garantire le loro necessità". Inoltre, a causa della mancanza di standard unici, le condizioni "variano da centro a centro" e in alcuni di questi ci sono "dubbi sul rispetto dei diritti umani". C’è anche un rischio di "corruzione" da parte dei servizi privati che gestiscono i centri, per questo serve un maggiore monitoraggio. In sintesi: in Italia "la capacità di accoglienza dei richiedenti asilo e dei minori non accompagnati è insufficiente". C’è anche un grande problema legato all’identificazione dei migranti appena giunti sulle coste italiane. "Le procedure al momento degli sbarchi - scrive il Consiglio - non garantiscono sempre l’identificazione effettiva delle vittime delle tratte, né un’adeguata informazione nei loro confronti sui loro diritti". "Debolezze" vengono registrate anche sul fronte dei rimpatri volontari e delle espulsioni forzate, che rischiano di "incoraggiare le partenze dei migranti irregolari". Poi c’è il capitolo ricollocamenti: il piano della Commissione, che prevede di redistribuire circa 40 mila richiedenti asilo dall’Italia verso gli altri Paesi Ue, non funzione. Per colpa degli altri Stati che non collaborano, ma anche per via del meccanismo italiano poco efficiente per gestire le pratiche. Il Consiglio d’Europa invita anche i suoi Stati membri, anche quelli che non fanno parte dell’Ue, a collaborare per alleggerire il peso che grava sull’Italia. "Il problema della immigrazione non lo cancella neanche il mago Merlino. Ma è possibile sostituire quella clandestina irregolare e micidiale per i migranti con flussi e canali. Questo è l’obiettivo della Ue e spero che a Bruxelles si facciano passi in più per aiutare il lavoro di avanguardia dell’Italia", dice Paolo Gentiloni nell’Aula del Senato. "Non abbiamo fatto promesse - aggiunge - conosciamo la fragilità della situazione in Libia e la sua complessità, ma sappiamo anche che si è cominciato un lavoro, che nelle ultime settimane le autorità locali hanno cominciato a intervenire con loro mezzi per bloccare i migranti in procinto di partire. Sono segnali della direzione in cui lavoriamo". Migranti. Presto un summit europea a Roma per aprire Centri di controllo in Africa di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 9 marzo 2017 Il ministro dell’Interno Minniti: "Impossibile accogliere tutti, va ripristinata la sicurezza dei confini". "Stiamo concludendo accordi per fermare i flussi dei migranti in Niger, si sta lavorando con l’Etiopia, ma la cosa deve essere europea, non solo italiana". Un summit a Roma tra partner europei, con Italia, Germania e Francia in prima fila, assieme ai Paesi del Nord Africa per gestire la crisi dei migranti con centri di selezione e controllo. A questo sta lavorando Marco Minniti in coerenza con gli accordi raggiunti con il governo libico di Fayez Sarraj ai primi di febbraio. E potrebbe avvenire a breve, addirittura entro pochi giorni. "Stiamo concludendo accordi per fermare i flussi dei migranti in Niger, si sta lavorando con l’Etiopia, ma la cosa va ampliata e deve essere europea, non solo italiana", specifica. "Isis sta perdendo terreno a Mosul e Raqqa. Non è escluso che i suoi militanti in fuga non possano unirsi alle rotte dei migranti", aggiunge. Ma le sue non sono solo misure legate all’allarme contingente: lo guida una riflessione più profonda. "La mia preoccupazione è di salvare l’unità europea e la stabilità delle nostre democrazie così come sviluppate dal Dopoguerra ad oggi. I migranti sono la chiave di volta. Costituiscono un problema d’importanza vitale, la prima grande sfida dalla nascita dell’Europa unita. Se non sapremo risolverla perderemo gran parte delle nostre conquiste politiche, sociali, democratiche, economiche. Sarà il collasso e l’avvio di un’era buia fatta di razzismi, nazionalismi, piccoli egoismi xenofobi e auto-distruttivi", spiega in due lunghi colloqui nel suo ufficio luminoso al Viminale. Sono trascorsi meno di tre mesi dalla sua nomina a ministro dell’Interno, eppure il suo slancio al "fare", cresciuto anche negli anni di lavoro come sottosegretario con delega ai servizi segreti, è già diventato proverbiale. Da qui la rapidità con cui ha spinto per la riapertura dell’ambasciata italiana a Tripoli; i suoi recenti accordi con i sindaci del Fezzan, nel profondo deserto libico meridionale; l’istituzione di "corridoi umanitari" dal Libano assieme alla Comunità di Sant’Egidio e alla Tavola Valdese dove gli agenti italiani comunque verificano l’identità e la legittimità delle domande dei richiedenti asilo. "L’anno scorso sono approdati in Italia 181.283 migranti, quasi tutti dalla Libia anche se quasi nessuno è libico, e nei primi mesi del 2017 ammontano già a 15.760. Secondo le prime stime, in maggioranza sono arrivati perché spinti a migliorare le loro condizioni economiche. Chi scappa dalla guerra e dalla fame ha il diritto d’asilo. Gli altri vanno rimpatriati", dice secco. Un vecchio militante comunista attento alle questioni umanitarie (a suo dire la politica del governo ungherese in materia è deleteria, contrasta con i principi comunitari europei), ma che trova il plauso delle destre quando parla di "sicurezza" e della "necessità di regolare i flussi". "Non voglio muri, non si possono respingere e trattare da criminali i minori non accompagnati", esclama. Il Minniti pensiero su questo punto è tuttavia molto chiaro: "Non è assolutamente possibile continuare a ricevere chiunque sbarchi illegalmente sulle nostre coste senza imporre alcun criterio di accoglienza. La prima prerogativa della sovranità è quella del controllo dei propri confini. L’anarchia degli arrivi e il non coordinamento a Bruxelles ha invece contribuito alla Brexit, alimenta la Le Pen in Francia, porta acqua al mulino dei neonazisti in Germania, causa il malcontento populista in Italia e non solo da noi. Il paradosso odierno dell’Europa è che più sarà passiva, oppure più prevarranno le demagogie delle frontiere aperte a tutti, e più è destinata a implodere". Morale: abbiamo creato un paradiso di benessere, democrazia e prosperità, tanto che tutti vogliono venirci a vivere. Se non lo difendiamo lo perderemo. Parole che lui traduce in fatti. È ben contento di raccontare le sue intese con i sindaci e i capi tribali del Fezzan (ci sono i clan Tebu, Tuareg e Suliman) che di recente sono venuti a trovarlo a Roma. Anche loro dovrebbero aiutare a creare grandi centri di controllo delle migliaia di profughi in arrivo da Ciad, Sudan, Mali, Congo, Niger, Nigeria, Burkina Faso. "Con Sarraj ci siamo messi d’accordo per creare meccanismi di verifica delle coste occidentali della Libia. I primi 90 marinai delle motovedette dei guardacoste sono già stati addestrati dalla nostra Marina militare e le 10 barche veloci libiche che l’Italia ha in riparazione dal 2011 verranno consegnate a breve. Adesso dobbiamo però concentrarci sui confini meridionali. L’Italia ha pronti 200 milioni di euro per l’altra sponda del Mediterraneo. Altrettanti sono stati impegnati dall’Europa al recente vertice di Malta". Ma cosa fare se in Libia permane il caos, le istituzioni non funzionano, i guardacoste nulla possono contro le bande di scafisti a Sabratha e dintorni e per giunta Sarraj non controlla neppure Tripoli? "Non abbiamo alternative. Possiamo concludere accordi internazionali validi solo con l’unico premier riconosciuto dall’Onu. Ovvio che in parallelo spingiamo anche per il suo dialogo con Tobruk e con il generale Khalifa Haftar". Una risposta a Matteo Salvini che va a Mosca per cercare un partner forte in Libia. "Non serve andare dai russi. È l’Italia che ha il ruolo trainante in Libia. Per noi si tratta di un’occasione unica. Come la Germania è stata centrale nell’accordo dell’Europa con la Turchia sui migranti, così noi possiamo fare con la Libia, stabilizzarla e rilanciarci come pedina centrale dell’Europa nel Mediterraneo". Ungheria. L’accusa delle Ong: "la legge contro i rifugiati viola il diritto internazionale" di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 9 marzo 2017 Il parlamento ungherese ha approvato la norma che permetterà di arrestare i richiedenti asilo nelle zone di transito e deportazioni sommarie in Serbia. Un passo indietro di quattro anni contro il quale si scagliano le organizzazioni umanitarie. Alla fine il governo di Viktor Orbán ha mantenuto la promessa. Nella mattina di martedì il parlamento magiaro ha approvato con larga maggioranza un provvedimento che prevede ancora una volta una stretta ferrea sui richiedenti asilo. Con 138 voti favorevoli, 6 contrari e 22 astenuti Budapest ha dato il via libera all’arresto dei richiedenti asilo e alla loro detenzione in campi di raccolta nel sud del paese. Container e fili spinati. I richiedenti asilo dunque saranno deportati in "aree di transito" a sud del paese, una denominazione a dir poco riduttiva vista la presenza di reti di filo spinato e strutture/container destinate a migliaia di richiedenti per tutto il tempo necessario all’esame della loro domanda di protezione. "Detenere automaticamente alcune delle persone più vulnerabili del mondo in container dietro recinzioni di filo spinato, a volte per mesi e mesi, è inaccettabile - ha commentato Gauri Van Gulik,, direttore per l’Europa di Amnesty International - Queste nuove misure detentive sono solo l’ultimo atto di repressione su rifugiati e migranti da parte del governo ungherese". Nessuno escluso. Le richieste d’asilo di coloro che arrivano dalla Serbia o da un "third safe state" ovvero uno stato vicino in cui il richiedente non corre alcun pericolo non saranno accettate. Il termine per fare ricorso è di soli tre giorni e i costi della prigionia saranno pagati dagli stessi prigionieri. Inoltre secondo la nuova norma potranno essere arrestati non solo gli adulti ma anche i nuclei familiari con bambini e minori non accompagnati con più di 14 anni. "Queste misure - continua Van Gulik - saranno applicate anche sui bambini, una chiara violazione del diritto internazionale ed europeo. Inoltre sarà consentito la deportazione forzata dei rifugiati in Serbia senza un giusto processo". Le Nazioni Unite. In un clima di immobilismo, la chiusura sempre più netta della via balcanica fa crescere la preoccupazione anche a Ginevra. L’Alto commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr) attraverso la portavoce Cécile Pouilly a poche ore dall’approvazione della norma anti richiedenti asilo ha espresso tutto il suo sconcerto. "Secondo le leggi internazionali e comunitarie - ha ribadito Pouilly - la detenzione di rifugiati e richiedenti asilo può essere giustificata solo per un numero limitato di motivi, e solo dove è necessaria, ragionevole e proporzionata […] Alternative alla detenzione dovrebbero sempre essere prese in considerazione prima. In caso contrario si rischia di rendere la detenzione arbitraria. I bambini inoltre non dovrebbero mai essere detenuti, poiché la detenzione non è mai nel migliore interesse di un minore". E l’Europa resta a guardare. La legge draconiana appena approvata è solo l’ultimo schiaffo dato dall’Ungheria alla legislazione europea su migrazione e diritti umani. Già da tempo infatti il governo magiaro ha eretto muri sui confini per evitare che "il cavallo di Troia del terrorismo" così come il presidente Orbán ha definito migranti e rifugiati, possa entrare nel territorio nazionale. Pochi giorni prima della votazione della norma, Budapest ha annunciato la costruzione di un secondo muro, questo al confine con la Serbia che sarà anche elettrificato per meglio respingere l’afflusso dei migranti. In una lettera inviata alla Commissione europea, Benjamin Ward, responsabile per l’Europa di Human Rights Watch ha scritto: "L’Europa non dovrebbe stare a guardare mentre l’Ungheria si fa beffe del diritto di cercare asilo. Usare zone di transito come centri di detenzione e costringere chi ha già raggiunto l’Ungheria a tornare indietro, al di là del filo spinato nella parte serba, è un abuso senza senso e crudele". A fargli eco anche Marta Pardavi, co-presidente dell’Ong Hungarian Helsinki Committee che nella missiva diretta a Bruxelles ha sottolineato che: "Queste riprovevoli misure minano fortemente la solidarietà tra gli Stati membri, una solidarietà necessaria per affrontare la crisi dei rifugiati e proteggere le persone a rischio di abusi". Stati Uniti. Il muro inutile tra Usa e Messico che non frena i cartelli della droga di Roberto Saviano La Repubblica, 9 marzo 2017 Nel suo primo discorso al Congresso il presidente Donald Trump ha assicurato il suo impegno a contrastare i cartelli criminali che hanno inondato di droga e violenza gli Stati Uniti e ha rinnovato l’intenzione di costruire un "great wall" lungo il confine con il Messico, che - il presidente ha garantito - sarà "un’arma molto efficace contro le droghe e il crimine". Steve Bannon, dopo essere stato executive chief di Breitbart, ora è Chief Strategist del Presidente Trump. Il suo ruolo compare anche in uno degli ultimi memoranda firmati da Trump, il quale ha stabilito che d’ora in poi il Chief Stategist della Casa Bianca avrà un posto assicurato a tutte le riunioni del Consiglio di Sicurezza Nazionale. L’articolo assicura che il muro interferirà con i guadagni dei cartelli del narcotraffico. Ma il muro (che già esiste per un terzo del confine messicano) finora non ha fermato né la coca in ingresso, né i soldi in uscita, né i soldi che tornano per essere riciclati. Un muro è un muro. Non esistono muri che segregano e muri che proteggono. I muri, in ogni luogo e in ogni epoca, hanno sempre creato fratture, separazioni e ingiustizia. Quando un politico annuncia la costruzione di un muro, la prima domanda che bisognerebbe porgli è: a cosa serve? E poi: è davvero la soluzione? Nella maggioranza dei casi ci si renderà conto che esistono misure ben più efficaci, forse addirittura meno onerose, ma un muro è sempre un muro ed è il modo più veloce per parlare a tutti, anche a chi non ha voglia di ascoltare, anche a chi non trova il tempo per leggere. La costruzione di un muro significa questo: stiamo lavorando per voi, lo stiamo facendo materialmente, potete vederlo, mattone su mattone. Il muro tra Stati Uniti e Messico - ribattezzato "muro della vergogna" proprio come il Muro di Berlino - si può definire un progetto bipartisan, implementato nel tempo con varie iniziative sia dai repubblicani sia dai democratici, tutti ben consapevoli che c’è sempre un elettorato da rassicurare. A cosa dovrebbe servire lo sappiamo. Dovrebbe servire a interdire la rotta Messico-Stati Uniti ai cittadini latino americani che volessero illegalmente valicare il confine, ai capitali sporchi, proventi del narcotraffico, che le organizzazioni criminali reinvestono in Usa, alla coca sudamericana distribuita dai cartelli messicani di cui il Nord America è il maggior consumatore al mondo. Dovrebbe servire a questo, ma chi ci dice che sia realmente efficace? I cartelli messicani sono riusciti a far arrivare le partite di droga negli Usa con ogni mezzo immaginabile, a volte senza nemmeno il bisogno di attraversare fisicamente il confine: catapulte, deltaplani, tunnel scavati sottoterra, sottomarini. Ma spesso la droga dal Messico entra dai varchi ufficiali: con oltre mezzo milione di persone che attraversano il confine dal Messico agli Stati Uniti ogni giorno, è impossibile controllare tutti gli individui, le auto, le moto, i camion, i pullman gran turismo che sono in coda. I narcos sovente attaccano la coca con delle calamite sotto le macchine che hanno la licenza per attraversare il confine su una corsia preferenziale, convinti che il miglior corriere sia colui che non sa di esserlo. Coprono l’odore della coca aggiungendo all’esterno caffè o peperoncino per ingannare i cani. Una volta al di là del confine trovano il modo per recuperarla. Fino a quando gli Usa rimarranno il maggior consumatore al mondo di coca e fino a quando il Messico avrà la coca, nessun muro potrà fermare il mercato. Ma il muro finora non ha fermato nemmeno il flusso dei clandestini, che tentano di attraversarlo rischiando la morte nel deserto e ingrassano i trafficanti di esseri umani, controllati dai cartelli. Quindi il muro non ha fermato i migranti ma ha anzi creato una doppia fonte di guadagno per i cartelli: se il migrante non ha i 1.500-2.000 dollari per pagare il coyote, può sdebitarsi infilando la coca nel bagaglio prima di attraversare. In poche parole i cartelli trasformano i migranti in corrieri della droga. Infine il muro non ferma ciò di cui il sistema finanziario americano si è nutrito per molto tempo: i soldi dei cartelli, che rientrano negli Usa per essere riciclati, inquinando così l’economia legale. Uno studio del 2012 di due economisti colombiani dell’Università di Bogotà, Alejandro Gaviria e Daniel Mejía, rivelò che il 97,4% degli introiti provenienti dal narcotraffico in Colombia viene riciclato da circuiti bancari statunitensi ed europei attraverso varie operazioni finanziarie. Non basta un muro per fermare i trasferimenti bancari: le inchieste giudiziarie degli ultimi anni hanno dimostrato come i cartelli riciclino i soldi della droga attraverso i grandi colossi bancari americani ed europei. Il caso Wachovia è esempio lampante: le autorità americane hanno scoperto che dal 2004 al 2007 diversi milioni di dollari sono passati dalle "casse" del Cartello di Sinaloa ai conti bancari di Wachovia attraverso le casas de cambio. Le banche in Messico ricevevano il denaro contante, aprivano conti gestiti dalla filiale Wachovia di Miami e qui giravano il denaro con trasferimenti telematici su conti Wachovia negli Stati Uniti, per acquistare titoli o beni. Wachovia non aveva rispettato il protocollo antiriciclaggio nel trasferimento di oltre 378 miliardi di dollari dalle banche messicane e di questi fu accertato che almeno 110 milioni erano proventi del narcotraffico, finiti così nei circuiti bancari internazionali. Wachovia nel 2010 ha patteggiato un risarcimento di 110 milioni di dollari per aver consentito, violando le norme antiriciclaggio, transazioni collegate al traffico di droga, più una multa di 50 milioni di dollari. Una cifra ridicola se paragonata ai guadagni di una banca come Wachovia, che - fino alla sua acquisizione da parte di Wells Fargo - era la quarta più grande degli Stati Uniti. Ci hanno guadagnato tutti, nonostante il muro, perché non esistono più spalloni che attraversano il confine con valigie di denaro: i soldi ormai si spostano con un click, direttamente dal Messico. Ciò nonostante, The Clearing House, associazione di categoria che rappresenta le maggiori banche americane, pochi giorni fa ha annunciato di voler proporre al governo un nuovo sistema di regole antiriciclaggio, più snello rispetto a quello attuale (che prevede la compilazione di report su ogni transazione che potrebbe avere natura criminale): questo alleggerirebbe il peso della burocrazia e dei costi che ora le banche sono costrette a sopportare per rispettare i protocolli antiriciclaggio esistenti. In pratica è come dire: siccome la rete a maglie strette pesa troppo, allarghiamo le maglie. Una soluzione che potrebbe sembrare improbabile, se non fosse che sappiamo bene quanto il Presidente Trump sia sensibile e attento alle richieste di Wall Street. La propaganda di Trump oggi sta cercando di convincere i cittadini americani, terrorizzandoli, che chi tenta di attraversare il confine messicano per raggiungere gli Usa siano essenzialmente membri dei cartelli, coprendo così la natura razzista del muro con indiscutibili emergenze di sicurezza. Non solo sembra ignorare tutte le persone che valicano il confine per cercare un lavoro onesto, una vita migliore per sé e per i propri figli, e che stanno magari scappando dalla violenza con cui gli stessi cartelli della droga tengono sotto scacco molte zone del Messico, ma sembra ignorare anche che negli anni i cartelli si sono ingegnati per superare persino le barriere diplomatiche. Los Zetas, ad esempio, da anni si servono di ragazzi americani da loro addestrati per trafficare droga e diventare sicari al soldo del cartello. Avendo cittadinanza americana non hanno bisogno di alcun visto o di valicare alcun muro per attraversare il confine. Trump dichiara di voler salvare vite con il muro, ma in realtà secondo i dati dello United States Border Patrol dal 1998 al 2013 oltre 6.000 corpi senza vita di migranti sono stati trovati dalla parte statunitense del confine, morti nel tentativo di realizzare il sogno americano. Vittime del deserto, dei serpenti, della sete, del caldo del giorno, del freddo della notte, dei trafficanti, o inghiottiti dal fiume, o soffocati nel vano motore delle auto dove si erano nascosti. Nonostante in molti abbiano sottolineato il tono diverso del discorso di Trump al Congresso, più pacato e unificante rispetto a tutte le sue esternazioni precedenti, analizzandolo attentamente si nota come Trump si sia in realtà voluto mostrare esattamente come si è mostrato a partire dal primo giorno: come un presidente operativo, un presidente che sta trasformando le promesse fatte in campagna elettorale in azioni concrete. Il suo discorso, infatti, è stato un lungo elenco di "abbiamo...": "abbiamo iniziato…", "abbiamo intrapreso…", "abbiamo formato…", "abbiamo ordinato…", un’anafora semplice, banale ma sicuramente molto rassicurante per i suoi sostenitori. Non "faremo" - tipica espressione linguistica della promessa politica - ma "abbiamo fatto". E, con la sua fisicità, il muro con il Messico sta per diventare la rappresentazione tridimensionale di questo atteggiamento. Il muro è espressione intrinseca della politica di Trump. Ma nel suo discorso al Congresso Trump ha anche detto: "Ciò a cui stiamo assistendo oggi è il rinnovamento dello spirito americano". Se per spirito americano si intende quello che ha animato la fondazione degli Stati Uniti - tra l’altro ricordata da Trump nel suo discorso - allora dobbiamo ricordare quei diritti inalienabili citati dalla Dichiarazione d’Indipendenza: vita, libertà, perseguimento della felicità. Diritti che i padri fondatori riconoscevano a tutti gli uomini, non solo americani. Le immagini che abbiamo visto di recente negli aeroporti - immagini di anziani in carrozzina tenuti bloccati per ore solo perché musulmani; di figlie che, visibilmente spaventate, abbracciano i genitori all’uscita dai controlli, consapevoli di aver rischiato di non vedere più i propri cari chissà per quanto tempo; di un bambino di 5 anni fermato perché iraniano, che ha dovuto attendere per ore prima di riabbracciare la propria madre sul territorio statunitense - e che rischiamo di dover vedere ancora se Trump perseguirà nella sua politica di esclusione, sono tutte immagini di terrore, di desolazione e di infelicità. No, Presidente Trump, questo non è il rinnovamento dello spirito americano. Eppure tutto questo Trump lo aveva promesso e anche per questo è stato votato. E sarà proprio ciò che a noi in queste ore sembra odioso ad assicurare lunga vita alla sua credibilità. Trump rischia di essere l’unico politico a mantenere la parola data. Ha promesso l’inferno e lo sta attuando in un Paese complesso che, già ostaggio di lacerazioni violentissime, da questa presidenza uscirà in ginocchio. Turchia. Corrispondenze dal carcere: "la mia cella, due metri per tre" di Maurizio Boldrini L’Unità, 9 marzo 2017 Vita da cronisti nella Turchia del Sultano. Deniz Yucel è il più noto, del tedesco Die Welt, arrestato quasi un mese fa per aver fatto (bene) il suo lavoro. "Ogni buon corrispondente deve mandare qualcosa al suo giornale. Non siamo mica qui per divertirci": Deniz Yucel consegna queste parole ai suoi avvocati, mentre trascorre i suoi giorni, i suoi lunghi giorni, nel carcere turco. L’hanno arrestato, a metà febbraio, mentre per conto del suo giornale, Die Welt, stava facendo un’inchiesta sul collettivo di hacker che da qualche tempo stava diffondendo le mail, evidente ritenute "riservate", del genero di Erdogan. Stava, in buona sostanza, toccando un nervo scoperto del sistema. Le mail che il collettivo "RedHak" stava pubblicando svelavano, infatti, alcune direttive impartite dal ministro dell’energia, e genero del Gran Capo, sui comportamenti da a-dottare per conquistare l’opinione pubblica e mettere altre museruole ai gruppi editoriali dissidenti. È stato così facile, per il regime, trovare un capo d’imputazione per sbatterlo dentro: il quarantatreenne giornalista tedesco è stato accusato di fare "propaganda terroristica". È così iniziato un braccio di ferro, che ancora dura, con le centinaia di cittadini e giornalisti turchi che, con coraggio, manifestano per le vie di Istanbul, per chiedere la sua immediata scarcerazione e di resistere anche alle pressioni della cancelleria tedesca con la quale si è accesa una vera disputa diplomatica, fino a sfiorare la rottura delle relazioni. Niente da fare. Erdogan, qualche giorno fa, nel pieno della querelle con il governo tedesco, ha confermato la decisione, rincarando la dose e accusando Deniz Yucel di essere "un esponente del Pkk e un agente tedesco", e di essersi, per questo "nascosto per un mese nel consolato tedesco". Il giornalista dovrà così rimanere in carcere, nella cella d’isolamento, dove si trova da metà gennaio: non può parlare con nessuno, non può scrivere, mangia poco perché il cibo fa schifo. La sua situazione il suo stato d’animo l’ha raccontata, a voce ai suoi difensori, che poi l’hanno dettata al Welt. Come facevano, un tempo, i corrispondenti e gli inviati: un articolo dettato al "dimafono", perché i redattori la mettessero, poi, in pagina. Così descrive la sua cella: "L’immagine della mia cella: sopra, orologio con bandiera turca sul quadrante; a destra, termosifone con cibo dì conserva da riscaldare; davanti, sbarre di metallo ovunque. Matita e quaderni sono vietati. I libri, se politici, "inutili". Luce: dal corridoio lampeggia costantemente la stessa lampadina al neon. In cella è debole: troppo chiara per riuscire a dormire, troppo scura per leggere. A volte, si ascoltano i rumori dalla strada. Altrimenti silenzio, e nessuna luce del giorno". Il giornalista ha avuto modo, e tempo, dì misurare l’angusta cella: misura due metri e dieci per tre e mezzo; è alta quattro e l’arredamento, diciamo così, è composto da due materassi spessi, da quattro coperte e niente cuscini. La cella, in cemento, è abitata da tre o quattro persone e l’aria è, ovviamente, mefitica, con un dominante odore dì corpi. Le guardie si guardano bene dall’ascoltare le loro proposte e le loro richieste. Tutti chiedono costantemente, a lui, più fortunato perché ha la vista sull’unico orologio, dì sapere l’ora e lui, nel rispondere, sì domanda se "sia buono o pessimo vedere con quanta lentezza passano i secondi". La descrizione, da perfetto cronista, continua illustrando e valutando il cibo che "fa schifo" e le pozioni di acqua. Del the? Del caffè? "Mica siete in albergo", rispondono le guardie, a muso duro. E poi le file del bagno che nessuno pulisce e le rare docce e le quattro toilette, in corridoio, per oltre settanta detenuti. Le osservazioni con le quali chiuse la dettagliata descrizione: "Sono un giornalista straniero, uno che ha resistito al potere, e qui vengo guardato con rispetto dagli altri. So degli articoli sudi me, e le lacrime mi salgono agli occhi. Questo, qui non deve succedere. Ma fa così bene. Così incredibilmente bello sapere che non sono solo, né dimenticato. Grazie, grazie a tutti". Così è, in effetti: sulla sua sorte la Germania sta facendo molta pressione, ritenendolo un simbolo della lotta per la libertà di stampa. Angela Merkel, è tornata, spesso, su quest’ arresto, spendendosi ancora una volta per la sua liberazione e per il rispetto dell’indipendenza dei giornalisti. I giornalisti di tutta l’Europa stanno sostenendo la battaglia del giornalista tedesco e di quelle centinaia e centina di giornalisti e di operatori della comunicazione turchi che da mesi e mesi sono rinchiusi nelle galere di Erdogan. È indicativa la situazione in cui si trovano ad agire i giornalisti del quotidiano Cumhuriet che per onorare i propri giornalisti che, sono stati sbattuti in galera dal regime sono usciti, nelle poche edicole che li distribuiscono, con spazi vuoti al posto delle rubriche. Le colonne bianche di un quotidiano indipendente e laico che ha la forza di opporsi a Erdogan sono il simbolo, al pari delle parole del giornalista tedesco, della battaglia per difendere la libertà di stampa. Iran. La ricerca in prigione: "Teheran liberi subito Ahmadreza Djalali" di Chiara Cruciati Il Manifesto, 9 marzo 2017 Lo scienziato iraniano in carcere da aprile accusato di spionaggio. I colleghi italiani fanno appello al mondo universitario europeo. Come Regeni: nel mirino c’è la libertà accademica. "Ma questa volta si può intervenire". Cosa ne è di Ahmadreza Djalali? Di cosa è accusato? Perché è stato fatto sparire in una cella di isolamento nella famigerata prigione di Evin, a Teheran? Le domande intorno al caso dello scienziato iraniano le carpisci dal racconto della moglie Vida Mehrannia. Dalla Svezia si collega al telefono con la Sala Nassiriya del Senato italiano dove la Commissione per i diritti umani ha indetto ieri una conferenza stampa per aprire uno squarcio sulla vicenda del ricercatore. "Sono costantemente in contatto con il legale di mio marito - dice Vida. Ma è difficile avere informazioni. Non conosciamo neppure i capi di accusa". Come nel caso di Giulio Regeni di nuovo l’Italia è investita da una sparizione che coinvolge direttamente la libertà di ricerca e quella di espressione. "Stavolta però possiamo intervenire - sottolinea la senatrice a vita e scienziata Elena Cattaneo - Ahmadreza è vivo". Facciamo un passo indietro di un anno: Ahmadreza Djalali, 45 anni, scienziato iraniano, si è da poco trasferito con la famiglia in Svezia per un dottorato di ricerca al Karolinska Institute di Stoccolma. Arriva direttamente dall’Italia: "Per quattro anni, dal 2012 alla fine del 2015, è stato nostro collega alla Crimedim, centro di ricerca in medicina dei disastri dell’Università del Piemonte Orientale - spiega il professor Luca Ragazzoni - Era arrivato nel 2010 come studente di un master e poi è rimasto come ricercatore. Insieme abbiamo lavorato a tanti progetti legati all’assistenza umanitaria. Nonostante il trasferimento in Svezia, ha continuato a collaborare con noi. Ad aprile 2016 è stato invitato dall’Università di Teheran per un ciclo di conferenze. Il 25 aprile è sparito". Da allora inizia un calvario invisibile: la moglie chiede ai colleghi italiani (preoccupati non vedendolo tornare per un evento previsto in Italia) di tacere, convinta che il caso si sarebbe risolto di lì a poco. Così non è: Ahmadreza sarebbe indagato per spionaggio. "Djalali è un ricercatore specializzato in medicina dei disastri - dice il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione dei diritti umani del Senato - Ha lavorato in facoltà, istituti di ricerca e fondazioni in tutta Europa. La sua è la biografia di un uomo cosmopolita, parte di una generazione che si muove, studia, viaggia nel mondo. Che contribuisce a dare alla scienza un ruolo sociale. Ora l’Iran lo accusa di spionaggio, proprio per i suoi contatti globali". I capi di accusa non si conoscono con esattezza, elemento che rende difficile anche mettere in piedi la difesa. A ciò si aggiunge il rigetto da parte del tribunale iraniano dei due avvocati presentati da Djalali. Rifiuti che a dicembre lo hanno costretto a prendere una decisione drastica: "Da dicembre Ahmadreza è in sciopero della fame - aggiunge Ragazzoni -Non potevano più restare in silenzio: ci siamo mossi a livello mediatico, sui social e sul piano istituzionale. Al nostro appello, come Crimedim, hanno risposto la Libera Università di Bruxelles e il Karolinska Institute. Ma vogliamo fare di più: oggi facciamo appello a tutto il mondo accademico perché rifiuti di prendere parte a eventi scientifici e conferenze in Iran fino a quando Djalali non sarà liberato". A preoccupare sono le indiscrezioni che escono da Teheran: a Vida è stato detto che durante una recente udienza il marito è stato minacciato di condanna a morte. Amnesty ha lanciato una campagna, mentre la sua storia comincia a comparire nei media internazionali. In Italia Manconi riporta di incontri con la rappresentanza diplomatica iraniana a Roma, "incontri finora deludenti": "Sappiamo solo che le indagini sono ancora in corso, cosa che farebbe pensare che la pena di morte non sia stata già decisa. Ma quando l’ambasciata iraniana ci ha ricevuto, ci ha fornito poche informazioni e continua a farlo nonostante le continue sollecitazioni. Abbiamo però ricevuto l’appoggio dell’Alto rappresentante della Ue agli affari esteri: Mogherini ci ha detto di aver attivato i canali europei e contatti diretti con l’Iran sia a Bruxelles che a Teheran". Sul tavolo c’è molto: la vita di un uomo, il suo lavoro prezioso per la comunità, la libertà di fare ricerca globale, la libertà di espressione.