"Errori giudiziari, nuova legge". Fronte bipartisan in Parlamento di Alessandro Belardelli Il Giorno, 8 marzo 2017 Pronto il ddl Melilla (Si): il rimborso sia automatico. Ogni anno sono 7mila le persone assolte e ingiustamente detenute, ma solo una minima parte di loro riceve dalla giustizia un indennizzo. Due cavilli nel codice di procedura penale consentono allo Stato di non risarcire le vittime. Un disegno di legge per modificare il discusso comma uno dell’articolo 314 del codice di procedura penale - sui presupposti e modalità degli indennizzi alle persone prosciolte che hanno subito una ingiusta custodia cautelare - c’è, ma è fermo da oltre due anni in Parlamento. L’obiettivo della nuova norma è cancellare (anche dall’articolo 643 sulla revisione processuale) le parole "colpa grave" dal testo, lasciando solamente il "dolo", così gli imputati assolti verrebbero indennizzati automaticamente, a meno che non abbiamo causato volontariamente la propria detenzione. "Questo comma consente allo Stato di aggirare la norma e non risarcire le persone detenute ingiustamente - spiega il deputato di Sinistra Italiana, Gianni Melilla, che ha presentato la proposta di legge numero 2.871 nel febbraio del 2015 -. Lo Stato non risponde delle sue responsabilità e non paga per l’errore commesso. Introducendo anche la condotta colposa si attua un giudizio morale e viene meno la certezza giuridica". La gravità del reato nell’opinione pubblica non dovrebbe mai influire sull’orientamento dell’ordinanza di indennizzo, per non creare imputati vittime di serie A o di serie B. "In realtà se i reati sono di grande allarme sociale è molto più difficile statisticamente ricevere una giusta riparazione - prosegue il deputato abruzzese -. In sostanza, più è grave l’accusa, più è complicato essere risarcito, perché verrebbe percepito come un premio a chi è stato contiguo a certi strati delinquenziali. Rigettando le domande, invece, si dà l’idea che moralmente gli imputati ex sospettati vengono condannati". Il fronte politico favorevole all’abrogazione dell’articolo 314 è molto vasto, ma la situazione è scottante perché coinvolge in pieno i tre poteri dello Stato: giudiziario, legislativo ed esecutivo. "Molti democratici, parte di Forza Italia, Sel sono con noi - osserva Milella. Questo argomento non divide destra e sinistra, ma chi è liberale e chi non lo è. Dopo aver presentato il disegno di legge ho avuto più di un colloquio con il sottosegretario al ministero della Giustizia, Gennaro Migliore. Lui ha appoggiato le mie osservazioni, ma nella maggioranza ci sono stati delle resistenze a far proseguire il cammino del ddl in Parlamento. Corrispondere l’indennizzo in modo automatico a migliaia di persone all’anno aumenterebbe la spesa pubblica in modo consistente e questo è un problema che ha compromesso tutto". Fonti del ministero dell’Economia e delle Finanze da tempo parlano di una spending review nelle voci di bilancio del Mef sul capitolo risarcimenti e di un orientamento preciso della Cassazione. Gli importi corrisposti a titolo di riparazione per ingiusta detenzione negli ultimi anni sono progressivamente diminuiti non perché siano in calo i casi di malagiustizia, ma perché è scesa la disponibilità finanziaria. "Con questa sorta di spending review si risparmia sulla pelle delle persone più deboli, gente che esce dalle carceri con la vita devastata. Alcuni ex detenuti mi hanno raccontato che se vedono un palazzo istituzionale, scappano via dalla rabbia", conclude Milella. Nordio: "basta scappatoie, lo Stato risarcisca e spese legali a carico del ministero" di Giovanni Rossi Il Giorno, 8 marzo 2017 Carlo Nordio, trevigiano classe 1947, già procuratore aggiunto a Venezia e autore di numerose inchieste di peso (dal terrorismo alle coop rosse), non ha paura di esternare la sua sofferenza quando il tema è la giustizia. 0, meglio ancora, l’ingiustizia, come nel caso delle detenzioni e degli errori giudiziari non riparati. Le statistiche parlano chiaro: appena un indennizzo ogni sette richieste. Lei, ex magistrato e liberale dichiarato, come valuta il fenomeno? "Con assoluto dispiacere e sincera preoccupazione". Lo Stato ha paura di ammettere i suoi errori per non perdere rango, oppure, più banalmente, per risparmiare sulle disgrazie che genera? "Credo più alla seconda ipotesi - dice Nordio, che sabato alle 11.30 terrà una lectio magistralis al Lex-Fest a Cividale del Friuli. Allo Stato manca la sensibilità, manca la compassione per riparare alle sofferenze che causa con un sistema giudiziario che esprime patologie radicate. Lo Stato dovrebbe sentire come una necessità profonda, per un fatto di sua credibilità, il risarcimento nei casi di errori giudiziari. L’innocente travolto dalle dinamiche del processo penale dovrebbe ricevere un ristoro largo e onnicomprensivo. E quasi automatico". Con quali modalità? "Non solo un indennizzo sulle basi di un tariffario con minimi non derogabili, ma un risarcimento proporzionato al danno subito in relazione all’identità personale, al ruolo pubblico, alla perdita di chance o al guadagno mancato, per finire alle ricadute dirette e indirette su situazioni e beni di riferimento. Con un tetto massimo alla riparazione - che già esiste". L’Associazione nazionale vittime di errori giudiziari propone correttivi analoghi. Sarebbero sufficienti? "No, fossi il legislatore approverei anche l’immediato rimborso delle spese legali - a tariffario predefinito - almeno nei casi di assoluzione con formula piena. Credetemi, le spese legali possono devastare un imputato e la sua famiglia almeno quanto l’ingiusta detenzione". Tema insidioso... "Non è solo questione di parcelle. Nei processi più importanti - dove i fascicoli hanno migliaia e migliaia di pagine - solo per fotocopie e diritti si pagano fortune. Al processo Andreotti il fascicolo aveva un milione di pagine. Andreotti spiegò di doversi vendere la collezione di francobolli per preparare la difesa. Ed era Andreotti. Persone chiamate per errore a rispondere in sede penale - senza grossi mezzi economici - rischiano di non riprendersi più dai costi vivi del processo". Soluzione? "Solo una. Nel caso di errori giudiziari, lo Stato si scusi e ristori le spese legali senza scappatoie". In caso di richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione, il giudizio è emesso nella stessa Corte d’appello dove il primo grado ha partorito l’errore. Non è un meccanismo che oggettivamente sfavorisce l’accoglimento dei ricorsi? "In Italia, come in quasi tutti i Paesi civili, la sentenza passa in giudicato solo dopo il terzo grado di giudizio. E non perché tre sia numero perfetto in senso pitagorico, hegeliano o convenzionale. Ci sono tre gradi di giudizio perché l’errore nell’amministrazione della giustizia è fisiologico: è, per così dire, certo. Così lo Stato prova a ridurlo. Se però non ci riesce, deve farsi carico dei suoi errori: senza nascondersi dietro regole asettiche e parteggiando anzi per il danneggiato. E questa la rivoluzione culturale che il sistema deve fare. Allinearsi al sentimento comune". Per una giustizia che la gente valuti più efficiente - e quindi più giusta - quali sono le priorità? "Accorciare la durata dei processi. Rafforzare la certezza della pena. Regolare diversamente la carcerazione: oggi sì può finire dentro con troppa facilità, quando si è innocenti, ma si può anche uscire con eccessiva premialità, da colpevoli". Carceri: oggi una delegazione dei Radicali incontra il ministro Orlando Adnkronos, 8 marzo 2017 Oggi, mercoledì 8 marzo, alle ore 11 una delegazione del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito incontrerà in via Arenula il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Lo comunica una nota dei Radicali. Faranno parte della delegazione Rita Bernardini, in sciopero della fame da 31 giorni per la riforma dell’Ordinamento penitenziario; Maurizio Turco, della presidenza del Partito Radicale; Sergio D’Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino; gli avvocati Deborah Cianfanelli, Giuseppe Rossodivita, Alessandro Gerardi, rispettivamente presidente, segretario e tesoriere del Comitato Radicale per la Giustizia Piero Calamandrei; Irene Testa, segretario dell’Associazione Radicale Il Detenuto Ignoto; Matteo Angioli, segretario generale del Global Committee for the Rule of Law-Marco Pannella; Maria Antonietta Farina Coscioni, presidente dell’Istituto Luca Coscioni. Giustizia malata, serve una rivoluzione culturale di Massimo Krogh Il Mattino, 8 marzo 2017 Giorni fa ho letto che Napoli detiene il record degli arresti facili. La nostra città, infatti, è in testa per le ordinanze emesse in tema di riparazione per ingiusta detenzione, problema al quale s’accoda il numero sempre crescente dei suicidi in carcere. L’arresto facile, di là dei posti in classifica, è un "vizio" della giustizia italiana, non solo di Napoli, ossessionata da una "sballata" cultura delle manette che serpeggia nella coscienza collettiva. Ciò che al tempo di Mani Pulite si presentò come una supplenza della magistratura, quale rimedio provvisorio all’inefficienza della politica e della dirigenza amministrativa, per i suoi risultati di risonante effetto si stabilizzò ben presto come la regola del Paese. Secondo la nostra Costituzione (che è scritta molto bene, non si capisce perché qualcuno volesse cambiarla), chi non ha commesso reati dovrebbe sentirsi al riparo dalla minaccia del processo penale. Per l’articolo 27 Cost. "la responsabilità penale è personale", dunque la persona immune da reati è tutelata da una salvaguardia costituzionale. Nella realtà concreta, le cose vanno diversamente. A dispetto della Costituzione, un’allarmante patologia dell’azione penale, non adeguatamente bilanciata e troppo spesso orientata sui fenomeni piuttosto che sulle persone, al punto d’investire non soltanto le persone fisiche che commettono i reati ma anche le sfere (territoriali, funzionali, societarie ecc..) in cui questi vengono commessi, cancella di fatto il principio di "personalità" coinvolgendo e incarcerando soggetti che poi verranno prosciolti e risarciti; arrestati sol perché appartenenti alla sfera investita dall’indagine. In effetti, il nostro Paese è in ritardo rispetto al mondo civile avanzato conservando un’ampiezza e un’obbligatorietà del potere d’accusa che finisce conio sfumare il settore delle garanzie. Vi sono persone accusate che, nella fase spesso assai lunga delle indagini, non capiscono perché sono accusate. Il teorema del pubblico accusatore, rivolto ai fenomeni piuttosto che ai singoli, è talvolta così allargato da restare a lungo poco comprensibile nel suo sviluppo e tutto si perde nell’eccesso di garanzie che tutelano i colpevoli e nell’ assenza di garanzie a tutela degli innocenti. Questa è la vera perversione del nostro processo, che ha conservalo garanzie stantie, nell’assenza di quelle moderne e reali (rapidità, oralità immediata, parità delle parti e giudice terzo, certezza della pena). Con umiltà occorre riconoscere che siamo indietro, siamo il Paese dove non di rado prima della sentenza si va in carcere, per uscirne poi con la sentenza. Per guardare ai più significativi modelli occidentali, negli Stati Uniti il magistrato dell’accusa sin dalle prime mosse trova il controllo di un giudice istituzionalmente terzo. In Inghilterra, dove otto secoli fa si anticipo’ con la Magna Charta lo spirito liberale, un vero e proprio ufficio del pubblico ministero, il Crown Prosecution Service, è stato istituito solo nel 1985 e le indagini le fa la polizia, il cui vertice promuove l’azione penale sorto il controllo di detto ufficio che può bloccarla (ma non promuoverla). In Francia, patria dell’illuminismo, il pubblico ministero è bilanciato dall’occhio ministeriale. Il rischio della "penalizzazione" attraverso il potere d’accusa è latente ovunque ma fuori che da noi è fronteggiato con appropriati meccanismi d’equilibrio. In realtà, lo stato disastroso della nostra giustizia non è tanto un problema di leggi quanto di cultura. Con intelligenza il Presidente Mattarella ha suggerito ai giovani vincitori del concorso in magistratura l’esercizio moderato della loro alta funzione. Forse sarebbe opportuno cominciare a parlarne anche ai bambini nelle scuole. Il problema giustizia è divenuto un cancro che ha il suo seme nella "testa" del Paese, il quale sfiduciato guarda al carcere, meglio alla magistratura, come l’ultima ancora di salvezza. Si dimentica che quello giudiziario è solo un servizio, forse il più alto, ma che assolutamente non deve trasformarsi in un potere distorcendo gli equilibri statuali su cui deve fondarsi e vivere lo Stato di diritto. Cose già dette, segno che non cambia niente. Fra l’altro, penso che il numero delle ingiuste detenzioni scenderebbe se le carriere del giudice e del pubblico ministero fossero separate. Nel nostro sistema processuale, la difesa è di fatto assente nelle indagini preliminari, dove i meccanismi processuali connessi alla contiguità di giudici e pm, psicologica oltre che di studi, di carriera, di collocazione materiale (stesse stanze) e di area giudiziaria (analoga sensibilità), amputano alla difesa l’esile spazio di cui dispone. Le sinergie negative non tolgono però la speranza, affidata alle generazioni che si stanno formando e che devono svilupparsi e crescere, di un cultura diversa che sappia disperdere l’ombra della stupidità repressiva facendo posto alla vera legalità quale unica tutela della solidarietà sociale. La presunzione d’innocenza… e quella di colpevolezza di Giovanni Valentini Gazzetta del Mezzogiorno, 8 marzo 2017 Abbiamo celebrato da pochi giorni il 25° anniversario di Tangentopoli, l’inchiesta giudiziaria del pool milanese di "Mani pulite" che svelò la "corruzione ambientale", come la definì l’ex pm Antonio Di Pietro, segnando in pratica la fine della Prima Repubblica. Che cosa è cambiato da allora a oggi? Poco o niente, si può dire. Quell’espressione, "corruzione ambientale", stava a significare una corruzione fatta a sistema, diffusa, generalizzata. Un fenomeno cioè che riguardava tutti i partiti, dalla maggioranza all’opposizione, dalla Dc al Pci. Per verifiche o approfondimenti su questo punto, rimando al libro intitolato "Intervista su Tangentopoli", da me scritto con Di Pietro nel 2000 per l’editore Laterza. Chi più chi meno, ci eravamo illusi che una riforma elettorale, innescando il bipolarismo, potesse avviare il ricambio e l’alternanza alla guida del Paese. E quindi, costituire un forte antidoto contro la corruzione. Abbiamo visto, invece, che così purtroppo non è stato e oggi, a torto o a ragione, troviamo coinvolti a vario titolo in nuove inchieste giudiziarie Tiziano Renzi, padre dell’ex presidente del Consiglio ed ex segretario del Pd, insieme al ministro Luca Lotti, ma anche la sindaca grillina di Roma, Virginia Raggi. La giustizia torna a sostituirsi alla politica? Per carità, nessuno vuole fare di tutte le erbe un fascio. Né tantomeno avvalorare il detto popolare "tutti ladri, nessun ladro". Ma allora il garantismo deve funzionare per chiunque, per i democratici come per i Cinquestelle, senza pregiudizi personali o politici. Essere garantisti vuol dire non essere né colpevolisti né innocentisti per partito preso, a prescindere. Vuol dire rispettare il principio della presunzione d’innocenza, caposaldo della civiltà giuridica, per cui nessuno può o deve essere considerato colpevole di un reato fino a una sentenza della magistratura. E dunque, non è lecito adottare al contrario un "principio di colpevolezza", emettendo sentenze mediatiche prima ancora che cominci un processo in un’aula di tribunale. Poi, il giudizio politico o morale procede su un altro piano. Abbiamo sbagliato in passato, noi giornalisti o hanno sbagliato alcuni di noi, a condannare preventivamente Craxi o Berlusconi? Sbagliamo tuttora a fare altrettanto con il papà di Renzi, con Lotti o con la Raggi? Può essere. Ammettiamo pure che questo sia avvenuto e facciamo autocritica "pro quota", ognuno per la sua parte di responsabilità. Chi ha cominciato - come il sottoscritto - a contestare Berlusconi alla metà degli anni Ottanta, dieci anni prima della sua fatidica "discesa in campo", può ben dire di averlo fatto per ragioni pre-politiche: cioè contro l’abnorme concentrazione televisiva e pubblicitaria incarnata dal Cavaliere che, infatti, ha danneggiato nel corso del tempo il pluralismo dell’informazione e la libera concorrenza. Poi, a partire dal 1994, s’è aggiunto il conflitto d’interessi in capo a un leader politico che era anche un concessionario pubblico. Da qui, la legittima conclusione che Berlusconi non faceva affari per fare politica, come pretendevano di giustificarsi molti democristiani, socialisti e anche comunisti; ma piuttosto è sceso in politica per fare o difendere i suoi affari privati, personali e familiari. Il resto appartiene alla storia giudiziaria e qui non c’è che da rimettersi alla magistratura, a cui spetta la responsabilità di emettere le sentenze definitive per assolvere o condannare qualcuno. Prima di allora, nessuno può essere considerato colpevole, fino a prova contraria. Né il padre di Renzi, né il ministro Lotti, né la sindaca Raggi, che al momento sono indagati proprio per potersi difendere meglio. Ora è chiaro, però, che se il sistema giudiziario nel suo complesso (pm, gip e gup, cancellieri, poliziotti, carabinieri o finanzieri) non riesce a tutelare i diritti di questi o di altri cittadini, compromettendo la presunzione d’innocenza e precostituendo di fatto il giudizio di merito, allora le garanzie della difesa rischiano di essere violate o tradite. Non è certo la prima volta che assistiamo a "fughe di notizie" sulle inchieste in corso e in genere a essere imputati sono i giornalisti. Ma quando queste "fughe" assumono le caratteristiche di una campagna politica contro questo partito o quel movimento, è giusto che la magistratura intervenga come ha fatto opportunamente la Procura di Roma, revocando ai carabinieri del Roe (Reparto operativo ecologico) le indagini sul "caso Consip" che coinvolge il cosiddetto "Giglio magico" intorno all’ex premier e aprendo a sua volta un’indagine per violazione del segreto d’ufficio: la corruzione sarà pure "ambientale", ma non si vede francamente il motivo per cui in una situazione del genere venga utilizzato un reparto ecologico. Ai tempi del primo governo Prodi, un autorevole ministro della Giustizia come Giovanni Maria Flick provò a inserire nel suo "pacchetto" di riforme una semplice norma: se un’inchiesta giudiziaria in corso subisce "fughe di notizie", tali da danneggiarne gli sviluppi e l’esito, il magistrato preposto a quell’inchiesta ne perde automaticamente la titolarità in base al criterio della "responsabilità oggettiva". La regola era tanto opportuna e sensata che infatti non venne approvata. Più modestamente, forse basterebbe vietare la diffusione dei nomi e delle immagini dei pubblici ministeri per risolvere almeno metà del problema. Di sicuro, non comparendo più sui giornali o in tv, per molti di loro verrebbe meno la tentazione del protagonismo e dell’esibizionismo. Il traffico di influenze? Roba da dilettanti di Pierluigi Mantini* Italia Oggi, 8 marzo 2017 I recenti fatti relativi a Consip, e la cospicua cronaca riguardante appalti e gare pubbliche, ci portano spesso a riflettere sui mezzi migliori per contrastare la corruzione e sui confini tra il diritto penale e il diritto amministrativo. Chi è più utile, il giudice penale o l’Anac, Davigo o Cantone? La passione italica per il derby e le fazioni può trovare una serena risposta sul punto poiché servono entrambi, chi per prevenire e chi per punire. Anzi, stiamo sempre più assistendo a una sorta di "ibridazione" delle due sfere, alla crescita di un forte seppur scivoloso campo del "diritto amministrativo punitivo", fatto di interdittive, esclusioni dalle gare per indegnità, commissariamenti e altre purghe, sanzioni assai pesanti e afflittive, spesso assunte sulla base di soli sospetti e senza le garanzie tipiche del processo penale. Se si pensa che in carcere sono solo poche decine le persone condannate per corruzione mentre queste misure sono molte centinaia ed in aumento, si potrebbe concludere che il diritto "amministrativo punitivo" batte il penale 2 a zero. Eppure, i reati non mancano: "traffico illecito di influenze", "turbativa d’asta", fattispecie spesso evanescenti, utili per aprire indagini e prime pagine dei giornali, assai meno per le condanne. Il campo dell’anticorruzione è comunque ben presidiato ma la corruzione sembra farsene un baffo. Ho personalmente contribuito a scrivere il nuovo codice degli appalti e, venti anni fa, il regolamento della Merloni, abbiamo complicato la vita ai corruttori, ci siamo illusi che si potesse cambiare, abbiamo assistito a rivoluzioni di ogni tipo, politiche e giudiziarie. Niente da fare, la corruzione è sempre là, sembra invincibile, e l’Italia traballa, sotto gli occhi del mondo. Ma siamo sicuri che si tratti proprio di corruzione (e dintorni)? Non è che una delle spiegazioni del successo strepitoso della corruzione in Italia non sia nello speciale Dna nazionale ma in un vizio della parola, della mente, della definizione? "Se tutto è mafia nulla è mafia", scriveva Sciascia, se "tutto è corruzione nulla è corruzione", potrei dire parafrasando Cassese. Anche perché, aggiungo, forse tutti noi siamo un po’ corrotti, di certo quanti ammettono di credere nel peccato. Rischiamo di complicare norme e procedure, terreno di coltura della corruzione, di rappresentare malissimo l’Italia nel mondo, di inquinare il dibattito pubblico, senza alcun risultato positivo. No, bisogna conoscere meglio la corruzione. Prendiamo il "tentativo di influenza", fattispecie discutibile ma assai di moda, che non porta mai a condanne. Ma o si corrompono veramente i commissari di gara, quelli che aggiudicano, o in cosa consiste l’illecito? Nessun commissario sano di mente commette un così grave reato gratis, perché "sotto influenza". La corruzione è una condotta seria e grave, non va ridicolizzata. Gli imprenditori che pensano di "influenzare" le gare pubbliche in loro favore parlando con i politici, i presidenti o gli amministratori delegati, danno forse per scontato che questi abbiano i commissari di gara al loro servizio o siano disponibili a corromperli, con un altissimo rischio personale, organizzando un’associazione a delinquere. Ma non è così e sempre meno lo sarà con i commissari presi dall’albo Anac. D’altronde, quel che prima era vietato, ad esempio parlare dei contenuti del futuro bando di gara tra stazione appaltante e imprenditori interessati, con la direttiva europea del 2014 e il nuovo codice, è divenuto lecito e anzi virtuoso. Un dialogo trasparente, alla luce del sole, sui contenuti della gara, un’opportunità per tutti. L’Europa ci indica vari "modelli di concorrenza" e dunque diversi tipi di gare, alcune semplificate o basate su una maggiore discrezionalità nella valutazione della qualità, non solo sul prezzo più basso. Che facciamo, non ci fidiamo più di nessuno, il sospetto di corruzione dovrà dominare sull’efficienza del public procurement in Italia? Le cose cambiano, il giudice penale deve seguire le innovazioni ed anche gli imprenditori dovrebbero smetterla di affidarsi a questo ridicolo gigantesco gioco del millantato credito: o corrompono davvero i commissari o la smettano di credere a raccomandazioni e trafficanti di influenze. È roba del passato, non funziona così, il Paese è più avanti, facciano un "master di corruzione", magari all’estero. Ma tutti noi dovremmo non confondere la corruzione con altro, con la malamministrazione, con l’inefficienza, con il malcostume, l’immoralità, con le vanterie dei sedicenti "influenti". Tutto molto deprecabile e grave, da contrastare con forza, ma con mezzi diversi. Dobbiamo chiamare le cose con il loro nome, se sbagliamo la diagnosi saremo meno efficaci nella cura. La corruzione è una cosa seria, non trattiamola da dilettanti. *Vicepresidente della Giustizia amministrativa Il Cnf chiede a Orlando un tavolo di lavoro sul patrocinio a spese dello Stato Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2017 Il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin, ha scritto al ministro della Giustizia Andrea Orlando, per chiedere la costituzione di un tavolo di lavoro sul tema del patrocinio a spese dello stato. Il Cnf crede che "l’istituto presenti gravi criticità, potendosi parlare, in termini figurativi, di una forma di sua "disapplicazione", la cui causa può essere ravvisata, da un lato, nelle antinomie più o meno reali di talune norme, dall’altro lato, dalla poca chiarezza di altre disposizioni che, nel tempo, hanno consentito ad una giurisprudenza "creativa" di consolidare orientamenti probabilmente non in linea con la ratio della normativa in materia". Al termine di un documento, che fa un’analisi dell’applicazione dell’istituto, il Cnf auspica una migliore definizione della normativa "dovendosi certamente puntare a responsabilizzare sempre più i difensori quanto alla qualità della prestazione da un laro, e garantire il rispetto dell’alta funzione da loro esercitata, dall’altro". Gratuito patrocinio, incognita per i legali di Gabriele Ventura Italia Oggi, 8 marzo 2017 Gratuito patrocinio a spese e a rischio dell’avvocato. Per l’ammissione all’istituto sempre più uffici giudiziari chiedono infatti documentazione extra rispetto all’ultima dichiarazione dei redditi. Il più delle volte, mentre il procedimento penale è in corso, con la conseguenza che l’avvocato scoprirà solo alla fi ne di aver prestato la propria opera gratuitamente, cioè a proprio rischio, e di dover pure compensare di tasca propria eventuali spese di consulenza. Non solo. Per l’attività di gratuito patrocinio i compensi liquidati dai giudici sono spesso al di sotto delle massime diminuzioni consentite dal decreto parametri, con attese di anni dalla richiesta di liquidazione. Ma ci sono anche casi in cui gli uffici giudiziari subordinano il provvedimento di liquidazione alla risposta dell’ufficio finanziario competente o dell’Agenzia delle entrate in merito alla sussistenza dei requisiti. Sono alcune delle criticità individuate da un’indagine svolta sul territorio dal Consiglio nazionale forense, che ha chiesto al ministero della giustizia di costituire un tavolo di lavoro in tema di patrocinio a spese dello stato. Queste le principali problematiche. L’ammissione al beneficio - Il Cnf ha rilevato che alcuni uffici giudiziari hanno iniziato a chiedere documentazione attestante il reddito di anni precedenti, e non solo l’ultima dichiarazione, con l’unico effetto di ricavarne presunzioni da cui l’inammissibilità dell’istanza. Molti uffici, inoltre, "utilizzando formule di stile e facendo ricorso a mere presunzioni", osserva il Cnf, hanno iniziato a richiedere ulteriore documentazione su condizioni che esulano dal concetto di reddito riferite sia al richiedente sia ai familiari conviventi. Il più delle volte, emerge dall’indagine, tutto ciò avviene mentre il procedimento penale segue il suo corso, talora arrivando anche a conclusione, con il risultato che l’avvocato scoprirà solo alla fine di aver prestato la propria opera gratuitamente e, anzi, se si è avuta la necessità di nominare un consulente per assicurare una difesa effettiva e piena, di dover compensare quest’ultimo a proprie spese. Il trasferimento dell’onere economico sull’avvocato si verifica anche ogni volta che, a sua insaputa, l’assistito abbia taciuto l’esistenza di redditi incompatibili con l’ammissione all’istituto. Anziché recuperare le spese anticipate dall’erario dall’imputato, infatti, la revoca elimina del tutto la possibilità per il difensore di essere compensato. La liquidazione - L’indagine del Cnf rileva inoltre come quasi nessun organo giudiziario pronunci il decreto di liquidazione contestualmente al provvedimento che definisce il grado di giudizio. Inoltre, numerosi uffici giudiziari dichiarano improcedibili o inammissibili le istanze di liquidazione depositate dopo la conclusione del giudizio. Riguardo il pagamento, un parziale rimedio all’endemico ritardo dello stato, secondo il Cnf, risiede nell’istituto della compensazione. Ma, avendo escluso gli studi associati, la compensazione sarà solo parziale perché di norma le fatture vengono emesse dallo studio. I social non turbano il processo di Francesco Barresi Italia Oggi, 8 marzo 2017 I commenti sui social network non possono determinare il processo. Lo chiarisce la Corte di cassazione, nell’ordinanza 8878/2017 del 22 febbraio, che ha curato un caso molto particolare. Un uomo, A.P., accusato nel 2015 di omicidio pluriaggravato nei confronti di una donna, chiedeva il 13 settembre 2016 al giudice del tribunale di Catania la rimozione del procedimento in corso. Il motivo consisteva negli attacchi social ripetuti su di lui da parte di persone legate alla vittima, tali da costringere il suo avvocato difensore a rinunciare al mandato difensivo e a chiedere l’interruzione del processo in base all’articolo 45 del codice di procedura penale. I porporati, esaminando questa vicenda singolare, hanno rigettato in toto il ricorso esprimendo le proprie considerazioni sulla "personalità" dei commenti su Facebook e sulla loro presunta efficacia. "Non vi è alcuna prova che i commenti presenti sul social network", spiegano i giudici, "siano riferibili ai soggetti individuati dal ricorrente, non apparendo sufficiente l’utilizzo di una pagina Facebook intestata al nominativo di un soggetto per concludere che la stessa sia effettivamente allo stesso in uso e che i commenti ivi presenti siano stati dallo stesso effettuati". Ma oltre alla "personalità" dei commenti i giudici hanno evidenziato come gli attacchi social sull’imputato, certamente inurbani e discutibili, non sono in grado di alterare la situazione locale al punto da influire sul processo in corso, perché non è documentata alcuna conseguenza di tali pubblicazioni". Gli Ermellini, dopo la formulazione dei principi di diritto sulla vicenda, hanno aggiunto in conclusione che la rinuncia al mandato difensivo dell’avvocato è inconsistente, perché "dal contesto si apprende che il professionista si è sentito criticato politicamente, quale vicesindaco impegnato in attività volte a contrastare il "femminicidio", e la costrizione della libertà e indipendenza professionale è meramente affermata". Concordato a rischio di abuso di Alessandro Galimberti Italia Oggi, 8 marzo 2017 Anche nella crisi di impresa esiste un abuso del diritto. Lo ribadisce la Corte di cassazione - Prima civile, sentenza n° 5677/17, depositata ieri - sottolineando che la richiesta di concordato preventivo, tanto più se reiterata, non può essere utilizzata a fini meramente dilatori. In questo caso, non solo la procedura non può evitare l’apertura del fallimento - scopo reale dell’operazione - ma integra in tutto e per tutto un’ipotesi di abuso del diritto da parte del debitore. Il processo deciso in ultima istanza era partito da una complicata procedura fallimentare, relativa a un’azienda situata a cavallo tra il Lazio e la Campania. L’impresa si era vista revocare un primo concordato preventivo dai giudici di Napoli, seguita da una nuova proposta di piano che la società stessa revocava nelle more di una questione di competenza con il tribunale di Latina. Nel frattempo l’amministrazione societaria aveva trasferito la sede in Lussemburgo, cancellandosi dal registro delle imprese. Depositate le prime istanze di fallimento, l’azienda proponeva nuove ipotesi di concordato preventivo, che però venivano respinte dai giudici laziali che contestualmente stabilivano anche la giurisdizione del giudice italiano. Veniva quindi aperto il fallimento, confermato dalla Corte d’appello capitolina. Secondo i giudici di merito, il trasferimento all’estero era manifestamente fittizio, per la "costanza della situazione di insolvenza" e per gli artifici contabili tesi a dissimularla. Insolvenza che peraltro risaliva ad almeno ai due anni precedenti l’innesco delle procedure concorsuali, e che venne riconosciuta dalla stessa declaratoria fallimentare solo due mesi dopo la "delocalizzazione" fittizia. La Cassazione ha in primo luogo riaffermato il principio di giurisdizione "estesa" se la società di capitali in decozione "già costituita in Italia che abbia trasferito la sede legale all’estero dopo il manifestarsi della crisi di impresa" non abbia dato seguito anche al trasferimento effettivo dell’attività imprenditoriale. Nel caso specifico i giudici sottolineano che gli elementi portati a sostegno della delocalizzazione erano in sostanza una mera bozza di bilancio, fatture prive di oggettivi riscontri, mancanza di riferimenti ai potenziali contraenti e di eventuali rapporti bancari esteri, circostanze valutate in modo incensurabile dai giudici di merito. Quanto ai rapporti tra le due procedure concorsuali - la proposta concordataria e il fallimento vero e proprio - la Corte boccia il prospettato automatismo di sbarramento della prima sul secondo. A giudizio della Cassazione il carattere meramente dilatorio della proposta concordataria - peraltro reiterata nel caso specifico - è "indubbiamente abusivo", manifestandosi in un vero e proprio "abuso del diritto del debitore, essendo funzionale ad allungare i tempi tesi a pervenire alla regolazione dello stato di dissesto". Abuso che ricorre, chiosa infine l’estensore "quando in violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede e dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, si utilizzano strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento li ha predisposti" La lunga battaglia dei Radicali sulla giustizia di Rita Bernardini e Giuseppe Rossodivita agenziaradicale.com, 8 marzo 2017 Quella dei Radicali con la giustizia è una storia che parte da lontano, quando, il 9 gennaio 1969, uno sparuto gruppo di Radicali, riuniti a Piazza Cavour, sotto il palazzo della Suprema Corte di Cassazione, meglio noto a Roma come "Palazzaccio", metteva in atto la prima contro-inaugurazione dell’anno giudiziario, invocando una giustizia giusta, a fronte della paralisi, sì della paralisi, della giustizia. Eravamo nel 1969, il mondo è cambiato, l’Europa è cambiata, l’Italia è cambiata, quella che invece non è mai cambiata è la struttura portante del sistema giustizia, rimasto ancorato al potere, immenso, delle corporazioni, in special modo della magistratura associata che quel potere vuole continuare a conservare, anche rispetto al potere legislativo ed esecutivo. In Italia la "giustizia" è strutturalmente e profondamente ingiusta, e rappresenta la principale fabbrica di violazioni di diritti umani fondamentali dell’individuo, riconosciuti a livello sovranazionale dalle Convenzioni Onu, dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ed a livello nazionale dalla stessa Carta Costituzionale. E si tratta proprio di quel "sistema giustizia" che quei diritti umani fondamentali dovrebbe invece tutelare. Un esempio per tutti: la irragionevole durata dei processi. L’art. 111 della Costituzione, al comma due dispone che la legge assicura la ragionevole durata del processo, mentre l’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo garantisce il diritto ad avere un processo in tempi equi e ragionevoli. È un principio elementare di civiltà giuridica. Il processo è già di per sé una pena per chi lo subisce. Eppure l’Italia è il Paese che vanta il triste record di condanne, che si contano a migliaia, da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, per l’irragionevole durata dei processi. Tanto che, oramai 15 anni fa, nel 2001, l’Italia fu costretta dalla Corte ad adottare un regime di ricorsi interni, al fine di evitare che le migliaia di ricorsi per l’irragionevole durata dei processi paralizzassero l’attività dei giudici di Strasburgo. Marco Pannella si scagliò contro quella legge, anticipando che si sarebbe trattato di un ‘pannicello caldò, di una legge truffa, capace solo di illudere, come fanno gli illusionisti, i cittadini Italiani. E così è stato. A quindici anni di distanza i ricorsi per la legge Pinto hanno ulteriormente ingolfato i ruoli delle Corti d’Appello, i risarcimenti riconosciuti dai giudici italiani sono ben presto divenuti irrisori e non conformi a quelli indicati dalla Corte Europea, i tempi per avere una sentenza che riconosce il risarcimento sono a loro volta diventati irragionevoli e la Corte Europea di Strasburgo è di nuovo sepolta dai ricorsi degli Italiani. Calcolando il numero dell’arretrato complessivo del sistema giustizia in Italia, oltre 10 milioni di processi tra civili e penali, si può tranquillamente dire che quasi ciascun cittadino che ha avuto la sorte o l’ardire di avere a che fare con i Tribunali o con le Procure, come imputato o parte offesa, attore o convenuto, ricorrente o resistente, ha avuto violato il suo diritto umano fondamentale ad avere un processo in tempi ragionevoli: si tratta dunque di milioni di cittadini. E oggi in Parlamento anziché discutere di come rendere i tempi dei processi ragionevoli, si discute di come allungarli ancora, attraverso la ulteriore dilatazione dei tempi di prescrizione dei reati. Come decine di migliaia sono i detenuti italiani che anziché essere privati della loro libertà personale - che in ciò consisterebbe la pena della reclusione o la misura cautelare della custodia in carcere - sono stati e sono strutturalmente privati della loro libertà, del loro diritto alla salute, del loro diritto al cibo, all’igiene, all’intimità, alla dignità di essere riconosciuti e trattati come essere umani. Lombardia: l’assessore Gallera "salute penitenziaria, lavoriamo in condizioni difficili" regioni.it, 8 marzo 2017 L’assessore al welfare Gallera: risorse statali sempre meno e in ritardo. "L’impegno di Regione per garantire l’assistenza sanitaria negli Istituti penitenziari è forte, anche se purtroppo dobbiamo lavorare in condizioni difficili causate dal sovraffollamento, che è una delle grandi piaghe del sistema carcerario italiano. Il trasferimento delle competenze sanitarie dal Ministero della Giustizia alle Regioni ci ha consentito di rendere più strutturale la nostra presenza, ma le risorse statali stanziate, sempre meno e erogate con forte ritardo, mettono in sofferenza la nostra azione". Lo ha detto l’assessore al Welfare di Regione Lombardia Giulio Gallera che, questa mattina, all’ospedale San Paolo di Milano, è intervenuto al convegno intitolato "Sentieri verso la Città - La salute Penitenziaria a Milano", organizzato dall’Asst Santi Paolo e Carlo. Presidi interni - "All’interno dei quattro Istituti penitenziari di Milano (San Vittore, Opera, Bollate e il minorile Beccaria), che contano circa 4.000 detenuti - ha ricordato il titolare regionale della Sanità -, esistono presidi sanitari in cui sono impiegati 350 operatori, tra medici e personale di assistenza, che erogano circa 200.000 prestazioni l’anno, tra visite ed esami diagnostici e strumentali. Presso la Casa circondariale di San Vittore in quella di reclusione di Opera sono inoltre presenti dei Centri clinici specializzati (aree riservate a detenuti con necessità di cure di gravità medio alta) per l’assistenza in campo psichiatrico, cardiologico e infettivologico". Prevenzione - "Nonostante le difficoltà - ha concluso Gallera - Regione intende, comunque, intensificare ulteriormente l’attenzione rivolta alla prevenzione, sul fronte della salute mentale, della disabilità e delle dipendenze. Già in tutti gli istituti penitenziari, con il concorso delle Direzioni penitenziarie, assicuriamo forme di medicina di promozione della salute, attraverso la correzione degli stili di vita e dei possibili fattori di rischio che favoriscano il mantenimento dello stato di salute dei detenuti. Trento: il Garante nazionale dei detenuti "troppi quattro suicidi, indagare in profondità" di Marta Romagnoli Corriere del Trentino, 8 marzo 2017 È comparsa davanti al gip a Trento in rappresentanza del garante nazionale dei detenuti Emilia Rossi. In qualità di "persona offesa" nel procedimento nato dall’esposto sui presunti maltrattamenti in carcere presentato dal garante. "Nel 2016 ci sono stati quattro suicidi" ricorda e parla di "un campanello d’allarme". I suicidi in carcere? Sono "campanelli d’allarme" e secondo il garante nazionale dei diritti dei detenuti non vanno trascurati. Ieri la componente del collegio Emilia Rossi era a Trento in qualità di "persona offesa" nell’ambito del procedimento relativo all’ipotesi di presunti maltrattamenti che ci sarebbero stati a Spini. La vicenda risale allo scorso anno: attorno alle accuse del garante nazionale contenute in un rapporto nel quale veniva denunciata la presenza di una "stanza delle percosse" nacque un caso. Antecedente, datato maggio 2016, è l’esposto presentato alla Procura, su cui venne aperta un’indagine. Quindi erano arrivate la richiesta di archiviazione del fascicolo e l’opposizione del garante. Ieri davanti al gip a Trento la discussione sulla richiesta di archiviazione. Il garante era rappresentato da Emilia Rossi che ha partecipato all’udienza, con l’assistenza dell’avvocato Nicola Canestrini, come "persona offesa". L’avvocato ha sottolineato l’opportunità che gli accertamenti siano condotti da autorità diverse rispetto a quelle coinvolte nell’indagine. "È la prima volta - dichiara Rossi - che il garante nazionale partecipa a un’udienza e a un procedimento penale in qualità di persona offesa: significa il riconoscimento del ruolo istituzionale del garante e della sua figura come soggetto che tutela i diritti e gli interessi legittimi dei detenuti". "Al di là di merito specifico e delle necessità proprie di un’indagine - prosegue - riteniamo che, in vicende in cui ci sono denunce o segnalazioni anche ripetute di atti di violenza o di maltrattamenti nei confronti dei detenuti, le indagini debbano essere molto approfondite perché tralasciare profili di indagine e archiviare i procedimenti penali senza che si sia accertato tutto ciò che è possibile può generare un’idea di impunità che non fa bene all’onore, al prestigio e all’impegno del corpo di polizia penitenziaria e di tutta l’amministrazione che lavora negli istituti con grande dedizione, sacrificio e impegno. Non fa bene nemmeno agli equilibri interni agli istituti penitenziari, in cui l’esito di queste vicende può generare l’aumento di tensioni e conflitti". "Nel corso della visita svolta nel Triveneto tra giugno e luglio un capitolo è stato dedicato a Trento - ricorda Rossi - Sono state verificate delle segnalazioni, tensioni e conflitti molto alti nell’istituto di Trento e indici di maltrattamenti nei confronti dei detenuti. Abbiamo segnalato tutto con un esposto". La Procura avrebbe chiesto l’archiviazione perché non sarebbero emersi elementi da approfondire. Ieri il giudice si è riservato. "Nel 2016 il carcere di Trento ha contato quattro suicidi - conclude Rossi - Su un totale italiano di 40 equivalgono al 10%. Sono una materia molto delicata su cui il garante fa una riflessione complessiva e rispettosa della delicatezza del tema, ma una frequenza di casi in un istituto fa suonare un campanello d’allarme perché tra gli eventi critici questo è il più grave". Catania: chiude l’ufficio del Garante dei diritti dei detenuti ennaora.it, 8 marzo 2017 La notizia è di queste ore: chiude a Catania l’ufficio del Garante dei diritti dei detenuti, uno dei pochi presidi di democrazia e di civiltà istituiti negli anni passati dalla Regione Siciliana. L’ufficio, che si occupava delle carceri della parte orientale della regione, insieme a quello centrale, avente sede a Palermo, ma anch’esso drasticamente ridimensionato, essendo passato da 13 a 5 dipendenti, venne istituito con la legge 19 maggio 2005, n. 5, art. 33 e, fino al settembre 2013, ha trattato diverse migliaia di casi riguardanti detenuti nelle carceri siciliane o che fossero siciliani, anche se reclusi altrove. Tra i risultati più importanti conseguiti dall’ufficio vi sono certamente quelli legati alle attività lavorative autonome svolte dai reclusi, quelle di carattere culturale, teatrale e sportivo, quelle di assistenza alle famiglie e ai minori, senza trascurare le centinaia di interventi compiuti per assicurare ai detenuti una corretta assistenza sanitaria e una detenzione dignitosa. Dopo il settembre 2013, alla scadenza del mandato del Garante, il dottore Salvo Fleres, per circa 3 anni, l’ufficio è rimasto pressoché inattivo, poiché il Presidente della Regione Rosario Crocetta, ritenne di non indicare nessuno, fino a metà del 2016, quando fu nominata la dottoressa Maria Antonietta Bullara, che rimase in carica soltanto due mesi. Poi è stata la volta del Garante in carica, il professore Giovanni Fiandaca. Il resto è storia recente, con la decisione di queste ore di chiudere la sede di Catania. Una sede, è bene precisarlo, che operava a costo zero, mantenendo quasi del tutto immobile quella di Palermo. Sull’argomento abbiamo sentito l’ex Garante, nonché autore della legge istitutiva, Sen. Salvo Fleres. Come mai questa decisione che priva una parte della Sicilia di una presenza di prossimità in un settore così delicato come quello delle carceri? Il motivo bisognerebbe chiederlo al Presidente Crocetta e al Garante in Carica. Personalmente credo che la decisione non sia recente, anche se è stata posta in essere adesso. Penso che la scelta di o privare la Sicilia Orientale di un servizio così importante risieda nell’evidente insensibilità del governo regionale verso questo genere di problematiche, che riguardano i soggetti deboli della società. D’altra parte, se non si fosse intervenuti mediaticamente, la stessa cosa sarebbe accaduta ai disabili, da anni trascurati da Crocetta e dai suoi assessori. Lei, da Garante, fece parlare molto i giornali per le sue iniziative che sfidarono i vertici dell’amministrazione penitenziaria e persino la Magistratura. Pensa che questo suo atteggiamento abbia pesato sulle sorti dell’ufficio? Mi auguro di no. Non amo la dietrologia ma non posso negare che le mie iniziative, soprattuto alcune, mi abbiano tirato addosso le antipatie di molti personaggi autorevoli, poco inclini al contraddittorio. Può essere più chiaro? Certo! Vede, quando lo Stato è forte ed è rispettoso delle leggi è in grado persino di contestare se stesso. L’ufficio del Garante, spesso, si scontrava contro altre istituzioni pubbliche e lo faceva a viso aperto, con i mezzi forniti dalla legge e con il rischio di perdere o di far perdere lo Stato medesimo. Insomma, era lo Stato, che può apparire troppo severo quando perquisisce corporalmente i familiari dei reclusi, che si piegava alle sue leggi quando riconosceva ai reclusi il diritto a una detenzione regolare, in spazi regolamentari, con l’assistenza prevista ecc. Quando lo Stato arretra, come nel caso della chiusura dell’ufficio del Garante di Catania, diventa il migliore alleato della criminalità organizzata e comune che, dimostrando l’inadeguatezza delle istituzioni, afferma la propria forza e torna ad essere l’unico interlocutore credibile per chi si trova in galera. Non so se sono stato chiaro! Lo è stato certamente. Insomma lei vuole dire che la chiusura di un ufficio come quello di cui parliamo e l’indebolimento complessivo del settore fa comodo alla delinquenza. Non le pare molto dura come affermazione? Direi proprio di no e le rispondo con due dati. Quando un recluso sconta la pena in maniera regolare, viene assistito, viene rieducato, lavora, studia, ecc. nell’85% dei casi non torna in carcere. Quando invece sconta la propria pena in maniera indegna, in spazi ristretti, senza lavorare, né studiare ecc. nell’85% dei casi torna in carcere nei successivi due anni. Credo che queste non siano opinioni ma fatti che dimostrano come la criminalità goda moltissimo della solitudine istituzionale del recluso. Lei vuol dire che chi abbandona i reclusi a se stessi o sopprime servizi importanti come quello di cui parliamo favorisce la criminalità? Potremmo parlare di un favore colposo, probabilmente inconsapevole, non certo doloso. Lo stesso favore che fa la scuola, quando non funziona è non si cura dell’abbandono, o altri corpi dello Stato, quando si fanno infiltrare dall’illegalità. Lei, per oltre due anni, è stato coordinatore nazionale dei Garanti regionali dei detenuti. Cosa ricorda di quell’esperienza? Una grande collaborazione tra tutti noi garanti e un grande rispetto da parte dei nostri interlocutori. Ricordo che non ebbi nessun problema a far passare in Senato un emendamento che permetteva ai Garanti di entrare in carcere senza preavviso né autorizzazione. Riuscii nell’intento perché noi Garanti eravamo diventati importanti strumenti di legalità. Oggi c’è un garante nazionale ma non credo se ne siano accorti in tanti. La funzione di garante è una funzione dura e difficile, non la si può esercitare stando seduti dietro le scrivanie del Ministero della Giustizia, magari evitando di infastidire troppo l’apparato ospitante. Bisogna andare nelle carceri, ascoltare i reclusi, leggere le loro lettere ed agire anche in controtendenza ma nel rispetto della legge e dei Diritti umani. Tornerebbe a fare il garante dei detenuti? Sì, certo, lo farei, ma con un governo diverso, un governo che sappia distinguere il crimine dal criminale, così come bisogna saper distinguere la malattia dal malato. Le malattie non si sconfiggono proclamandone la pericolosità ma curandole con competenza e sacrificio, magari adoperando i farmaci giusti e rivolgendosi ai medici migliori. Velletri (Rm): carcere, la parte vecchia è degradata, con pochi operatori per tanti detenuti di Valentina Stella Il Dubbio, 8 marzo 2017 Una delegazione Radicale ha visitato l’istituto che ospita 592 reclusi invece di 411. "Prima la "battitura" alle sbarre e poi applausi e abbracci fraterni, con Marco Pannella sempre presente nei loro cuori", questo il commento di Rita Bernardini sull’accoglienza ricevuta nel carcere laziale di Velletri dove si è recata a far visita all’intera comunità penitenziaria, insieme ai compagni del Partito Radicale Paola di Folco, Alessandro Gerardi, Maria Laura Turco e Federico Tantillo. Il sovraffollamento a Velletri è pari al 144 per cento: rispetto ai 411 posti regolamentari, sono reclusi 592 detenuti. La situazione più drammatica si registra nel vecchio padiglione, mentre in quello nuovo, aperto nel 2012, secondo la delegazione radicale non emergono criticità: "ci sono docce nelle celle ma soprattutto, in linea con quanto previsto dalla Costituzione, vengono svolte molte attività di studio e di lavoro. Al contrario nella parte vecchia è emergenza sia dal punto di vista strutturale che rieducativo. Qui i detenuti non hanno a disposizione nemmeno i tre metri quadrati di spazio nella cella, le pareti sono vecchie e sporche, i gabinetti sono minuscoli, senza finestra e areazione, e manca l’acqua calda. Inoltre è stato interrotto il servizio di tutoraggio delle università romane verso gli studenti e manca il mediatore culturale per i detenuti stranieri". Ma c’è una contraddizione che Bernardini vuole denunciare: "nell’ala vecchia vengono ospitati molto spesso detenuti che hanno avuto rapporti disciplinari in altri istituti di pena. Beh, appunto perché hanno più problemi si pensa che l’amministrazione debba fare uno sforzo maggiore per il loro recupero, e invece non è così. Gli educatori, rispetto ai 6 previsti per tutto l’istituto sono solo 3. Sotto organico anche la magistratura di sorveglianza ridotta del 50%, gli assistenti sociali e gli psicologi; fa difetto persino quello addetto ai nuovi giunti". E, purtroppo, non finisce qui l’elenco dei problemi del carcere diretto dalla "brava e presente Maria Donata Iannantuono", aggiunge Bernardini "c’è un reparto di osservazione psichiatrica al momento chiuso, mentre la struttura ospita a volte persone che dovrebbero stare nelle Rems e che invece vengono parcheggiate qui anche 40 giorni in attesa di un posto adeguato altrove. Questa è una totale, patente illegalità". Foggia: volontariato in carcere sempre più competente "la buona volontà non basta" di Annalisa Graziano csvnet.it, 8 marzo 2017 Dagli incontri con gli scrittori di "Innocenti evasioni", alle partite di calcio e ai percorsi di educazione alla salute. Spinte dal Csv, a Foggia le attività dell’associazionismo in ambito penitenziario crescono, diventando più mirate e qualificate. "La lettura in carcere può aiutare ad acquisire la consapevolezza che esistono modi diversi di concepire la realtà. Negli anni ho capito che uno scambio sincero con i detenuti è possibile: grazie al gruppo di lettura abbiamo superato persino alcune riserve e chiusure iniziali". Michele Paglia è il presidente dell’associazione Centro Studi Diomede di Castelluccio dei Sauri e dal 2014 realizza, in collaborazione con il Csv Foggia, il progetto di lettura "Innocenti Evasioni", nella sezione Alta sicurezza della casa circondariale di Foggia. "Scegliamo libri e film che possano suscitare dibattito, un confronto dialettico e gli incontri sono sempre partecipati. In un contesto come questo - spiega Paglia - il volontariato deve entrare in modo massiccio e continuato, perché la fiducia non si acquista da un momento all’altro. Per questo occorre competenza, non può bastare la buona volontà, quando si ha a che fare con persone che vivono in situazioni di sofferenza". La promozione del volontariato "dentro" - Negli anni, da quando il Csv Foggia ha sottoscritto - nel 2013 - un protocollo di intesa con il carcere di Foggia, numerosi sono stati i progetti realizzati, grazie allo strumento della manifestazione d’interesse: dallo sportello di mediazione interculturale al percorso di educazione alla salute, agli incontri con gli scrittori, nell’ambito di "Lib(e)ri dentro". Gli ultimi appuntamenti hanno visto salire sul palco del teatro dell’istituto penitenziario il magistrato Simona Lo Iacono, autrice di "Le streghe di Lenzavacche", Stefania Divertito, con il suo eco-thriller "Una spiaggia troppo bianca" e il giornalista Andrea Parodi con Michele Montagano, ultimo sopravvissuto degli "Eroi di Unterluss", episodio storico a lungo dimenticato che ha ispirato il titolo del libro. "Il nostro impegno - sottolinea il presidente del Csv Foggia, Pasquale Marchese - negli ultimi anni si è concentrato in particolare sulla promozione del volontariato in ambito penitenziario. Le associazioni mostrano un nuovo interesse e sono pronte a misurarsi in questo settore, ancora nuovo per il nostro territorio. Qualche giorno fa abbiamo presentato il volume "L’altra Possibilità, viaggio nel mondo penitenziario" agli studenti dell’istituto Pacinotti coinvolti nel progetto "Edificio della Memoria". Una ponte solidale con la città - "Attraverso tali incontri di sensibilizzazione - continua Marchese - cerchiamo di raccontare lo sforzo dei volontari nella casa circondariale, la loro attenzione a proporre sempre nuove attività. Noi svolgiamo e continueremo a svolgere il nostro ruolo di supporto, con il sostegno della Fondazione Banca del Monte di Foggia, favorendo questa rete solidale che si sta creando con l’istituto penitenziario, grazie alla grande disponibilità della direttrice Mariella Affatato, dell’area educativa e del corpo di Polizia penitenziaria. E così dimostriamo, ogni giorno, quanto il volontariato sia una risorsa importante per tutti gli Istituti di pena". Intanto, i volontari sono in fermento per una nuova iniziativa: i detenuti con e senza figli scenderanno in campo mercoledì 8 marzo, per giocare e sorridere oltre le barriere fisiche ed emotive. Sarà un pomeriggio particolare nella casa circondariale di Foggia, per le persone ristrette, per le loro famiglie ma anche per i volontari e per chi nel carcere ci lavora. Dopo la sfida del 19 dicembre scorso, questa nuova partita di calcio è stata organizzata per dare voce e visibilità ai bambini - oltre 100mila ogni anno in Italia - che hanno un genitore recluso, per sensibilizzare istituzioni, sistema carcerario, media e opinione pubblica affinché non vengano emarginati solo perché figli di detenuti. Sugli spalti, a tifare per i propri papà, mariti e figli, ci saranno i parenti. Nei percorsi trattamentali, infatti, un ruolo determinante lo ricopre la famiglia. Il genitore in carcere attraversa un momento grave di disorientamento e necessita di un sostegno per recuperare un’identità genitoriale persa o da ricostruire. E il volontariato serve anche a questo: a riportare l’attenzione sulla necessità che le persone detenute abbiano dei momenti di condivisione familiare, partecipando a eventi positivi tutti insieme. Lucca: corso di cucina per 12 detenuti del carcere San Giorgio luccaindiretta.it, 8 marzo 2017 La seconda occasione. La chance giusta per reinserirsi nella società, per guardare al futuro oltre le sbarre, con un’opportunità di lavoro a portata di mano. 12 detenuti del carcere San Giorgio, arrivati a fine pena e selezionati per buona condotta, frequenteranno un corso per diventare aiuto - cuochi e lavorare in cucina, in un laboratorio di pasticceria o in un forno. Merito del Comune di Pietrasanta che, quest’anno, per la prima volta co-finanzia un doppio progetto in collaborazione con la casa circondariale di Lucca, su accordo con il direttore della struttura, Francesco Ruello. Un’iniziativa fortemente voluta dal Sindaco Massimo Mallegni, che fu recluso nella cella 17 del penitenziario per 39 giorni, nell’ambito delle note vicende giudiziarie, conclusesi poi con un’assoluzione. Dopo il corso di teatro per garantire ai detenuti un momento di socializzazione e di svago, partono le prime lezioni di cucina, tenute da Versilia Format, per rilasciare a 12 reclusi un attestato che, una volta saldato il debito con la giustizia, permetterà loro di rifarsi una vita. "Tutti possiamo sbagliare - dice l’assessore al Sociale, Lora Santini. È fondamentale avere la consapevolezza di poter ricominciare da zero, lasciandosi alle spalle gli errori commessi. L’obiettivo di questo progetto è quello di dare ai detenuti l’occasione di tagliare definitivamente con il passato e ripartire da un lavoro, che è il punto di riferimento più importante per avere una prospettiva per sé stessi e per una famiglia". Il corso, che si terrà nelle cucine dell’istituto di pena, avrà la durata di 20 lezioni, per un totale di 60 ore. Ai fornelli si alterneranno lo chef Sebastiano Sorrentino, lo specialista della panificazione Mario Crisciuolo e l’esperta in materia di igiene e sicurezza, Luisa Balducci. Al termine dell’esperienza, i detenuti potranno contare sul rilascio della certificazione Haccp, indispensabile per trovare un impiego nel settore alimentare. "È un primo approccio alla cucina - spiega il direttore di Versilia Format, Massimo Forli. La nostra agenzia di formazione non aveva mai tenuto corsi in carcere, anche se abbiamo una lunga esperienza nel sociale, maturata con progetti per il recupero di adolescenti che hanno abbandonato gli studi. Speriamo che questo progetto dia gli stessi concreti risultati. Per noi sarebbe una grandissima soddisfazione". Novara: detenuti impegnati da Assa nel recupero del patrimonio ambientale freenovara.it, 8 marzo 2017 È stato ultimato nella mattinata di ieri, martedì 7 marzo, l’intervento di ritinteggiatura dell’Autostazione di viale Ferrucci. La struttura, di proprietà della Sun, ora si presenta come un bel biglietto da visita della città per quanti quotidianamente arrivano a Novara per studio o per lavoro e per quanti, anche solo saltuariamente, si avvalgono del trasporto pubblico locale interurbano o semplicemente vi transitano. Sotto il coordinamento di Assa, i detenuti usciti in permesso premio dalla Casa circondariale, supportati dai detenuti impiegati in Assa tramite i "cantieri lavoro", hanno prestato la loro opera volontaria provvedendo a imbiancare la parte esterna dell’Autostazione, il fronte strada e tutti i cordoli, eliminando le numerose scritte che campeggiavano sui muri. "Ovviamente - commenta il presidente di Assa Giuseppe Antonio Policaro - mettiamo in conto che ci sono probabilità che quelle pareti vengano presto ricoperte da altri graffiti e scritte, ma è riduttivo sostenere che "è inutile fare, tanto sporcano ancora". Per contrastare l’inciviltà bisogna inanzitutto evitare che questa venga emulata. In questo caso, è stato dunque doveroso pulire e ridare decoro ritinteggiando per ricoprire le scritte e i graffiti in modo da richiamare al rispetto delle strutture pubbliche e stimolare atteggiamenti virtuosi". L’intervento, iniziato il 28 febbraio con la imbiancatura del muro coperto dalla pensilina e delle colonne e con la pulizia di tutta l’area, è stato svolto nell’ambito del Protocollo per le "Giornate di recupero del patrimonio ambientale, del decoro urbano e dell’edilizia sociale" che vede sinergicamente coinvolti Comune di Novara, Magistratura di Sorveglianza, Casa Circondariale, Uepe, Atc, Assa, a cui si unisce a pieno titolo anche la Sun che in questo caso è stata beneficiaria dell’intervento quale proprietaria della struttura. Taranto: educare i giovani alla legalità "solo così sarà possibile ripartire" di Alessandra Macchitella Quotidiano di Puglia, 8 marzo 2017 "Costituzione, legalità e sussidiarietà" è stato il tema di un convegno, che si è svolto ieri mattina nel salone della Provincia di Taranto e che vede i giovani protagonisti assoluti. Simone Borsci, Marta Catucci, Giorgia De Tommasi, Giorgia Martucci, Esterin Kojtari e Rosy Vecchio, sono i nomi dei sei studenti del liceo Archita che hanno condiviso le loro relazioni con gli altri alunni delle quinte classi. Destinatari delle loro parole anche i "grandi", in un progetto che ribalta il chi deve insegnare cosa. L’evento è stato organizzato dal liceo Archita e dalla giustizia di pace nell’ambito dell’alternanza scuola/lavoro. "Da 10 anni l’ufficio del giudice di pace organizza questi convegni con le scuole - ha spiegato l’avvocato Nicola Russo - con l’obiettivo di dare fiducia agli studenti. Questa volta tocca al liceo Archita, con cui abbiamo una convenzione per l’alternanza scuola-lavoro. Vogliamo divulgare l’importanza della legalità, la città può ripartire solo dai giovani per un risanamento. I ragazzi sono i principali artefici, seguiamo la caratteristica di don Luigi Sturzo, stando sempre vicino a loro. È quello che, con difficoltà, stiamo cercando di fare a Taranto". Palermo: lotta fra bande al carcere minorile Malaspina, sedata la rivolta di Romina Marceca La Repubblica, 8 marzo 2017 Un gruppo di detenuti guidato da un campano si è chiuso in una sala dopo aver picchiato un ragazzo dello Zen. Hanno strappato le chiavi della "sala comune" dalle mani di un agente penitenziario e da quel momento è scoppiata una mini rivolta nel carcere per minorenni Malaspina. In undici su 25 si sono barricati dentro alla sala e ancora prima hanno preso a bastonate un detenuto dello Zen che si era opposto alla ribellione. Il ragazzo è finito in ospedale. Alla guida della protesta un campano di 25 anni. Cosa succede dentro al Malaspina? Si è trattato davvero di una mini rivolta per ottenere migliori condizioni carcerarie? O c’è dell’altro? Intanto sei degli undici rivoltosi sono stati trasferiti in altre strutture e tutte le attività ieri sono state sospese, i giovani detenuti sono rimasti tutto il giorno nelle loro celle. Tra chi si è unito alla protesta c’è chi sta scontando condanne per rapina e anche per tentato omicidio. La protesta domenica sera era iniziata dopo una pasta alla panna poco saporita. "Vogliamo più panna", avevano lamentato alcuni detenuti. Poi gli undici sono riusciti a rinchiudersi dentro la "sala comune" mentre poco dopo aver colpito a bastonare un ragazzo dello Zen poi trasferito in ospedale. Gli agenti penitenziari hanno cercato di convincere i ragazzi a rientrare nelle loro celle, mentre i detenuti, quasi tutti tra i 20 e i 25 anni, hanno elencato le loro richieste: televisione anche dopo la mezzanotte, pasti più gustosi, più permessi premio. Intorno all’una di notte sono dovuti intervenire carabinieri e poliziotti per riuscire a riportare la calma. Hanno sfondato la porta della "sala comune" e i giovani sono ritornati nelle celle. "Probabilmente - dicono Pino Apprendi, deputato Ars, e Giorgio Bisagna, dell’Osservatorio delle carceri dell’associazione Antigone - la presenza di numerosi adulti fino a 25 anni, conseguenza della norma che ne prevede il loro reinserimento anche dopo essere stati assegnati a strutture per adulti, ha creato squilibri e lotta per affermare il potere. Il trasferimento di alcuni dei protagonisti di quanto accaduto forse riporterà l’atmosfera preesistente". Sottolinea Lillo Navarra, Segretario nazionale per la Sicilia del Sappe: "C’è altissima tensione". Il direttore del penitenziario, Michelangelo Capitano, si è detto "deluso" di quanto accaduto. Nell’istituto sono diverse le attività: dal progetto "Cotti in flagranza", i biscotti fatti con le mani dei detenuti, ai corsi di vela e fino alle sezioni di scuola elementare e media e ai corsi di formazione professionale. Lecce: a leggere e giocare con mamma e papà (anche in carcere) di Alessandra Lupo quotidianodipuglia.it, 8 marzo 2017 Misurare, progettare, colorare gli spazi che diventeranno teatro di una nuova realtà e nel contempo farli propri, trasformando luoghi angusti e inospitali in oasi di benessere possibile. Dimenticate la burocrazia e immaginate cosa significhi realmente la parola "inclusione", soprattutto in uno dei luoghi meno inclusivi per antonomasia, il carcere, e all’interno dei nuclei familiari separati dalla detenzione. Una delle risposte più significative a questo tipo di bisogno arriva dal progetto "Giallo, rosso e blu", dell’associazione "Fermenti lattici" di Lecce, vincitrice del bando "Infanzia Prima" della Compagnia San Paolo, Fondazione con il Sud e Cariplo a sostegno di partenariati territoriali e progetti innovativi nei servizi di educazione. Un progetto che prevede la creazione di spazi 0-6 destinati ai circa 300 bambini, figli di detenuti e detenute nel carcere leccese, dove poter leggere, ascoltare storie e giocare accanto ai genitori, ritrovando una nuova intimità, anche dietro le sbarre. Dopo aver vinto il bando, il progetto ha stretto fondamentali partnership con le realtà attive all’interno del carcere di Borgo San Nicola dove quello dell’inclusione non è un esercizio inedito, grazie al differente approccio dei dirigenti, fondamentale al progetto è stata infatti la collaborazione della direttrice Rita Russo, e al lavoro di diverse associazioni tra cui Principio attivo Teatro, Factory, Io ci provo, che oggi fanno parte del progetto, cui ha già aderito anche il programma "libere di leggere", nato con l’Università e gestito da volontarie. Ma al lavoro per trasformare gli spazi ci sono anche i Mof, gruppi dedicati alla Manutenzione ordinaria fabbricati, formati da detenuti, che insieme agli agenti di polizia penitenziaria hanno iniziato a smantellare i vecchi ambienti impersonali e tristi per realizzare i nuovi spazi, pensati e progettati proprio dai bambini. Torino: rugby in carcere, il Centro di formazione U18 visita "La Drola" federugby.it, 8 marzo 2017 Gli atleti e lo staff del Centro di Formazione Permanente U18 di Torino saranno protagonisti domani di un allenamento congiunto particolare insieme agli atleti de "La Drola", la squadra della casa circondariale del capoluogo piemontese che milita, grazie al Progetto Carceri di Fir ed al pari di altre realtà analoghe, nel Campionato Italiano di Serie C. I ventisette atleti del Centro di Formazione torinese incontreranno in mattinata i detenuti-atleti de "La Drola" in un primo momento di socializzazione e dibattito, a cui farà seguito nel pomeriggio un allenamento congiunto sul campo da rugby allestito all’interno dell’istituto, che da lungo tempo collabora con l’associazione "Ovale Oltre le Sbarre" presieduta dall’ex trequarti della Nazionale, Walter Rista, da sempre attivamente coinvolto nella promozione del rugby quale strumento di recupero sociale. Udine: "LexFest", la giustizia e l’informazione protagoniste a Cividale di Andrea Camaiora Panorama, 8 marzo 2017 Nella cittadina del Friuli, il 10-11-12 marzo, la kermesse nazionale dedicata alla giustizia e agli operatori del diritto e dell’informazione. Giornalismo e giustizia, nuovo codice della strada, lotta al terrorismo, adolescenti e l’uso consapevole del web, usi e abusi delle intercettazioni, l’evoluzione di un termine pesante come "mafia", il sistema giudiziario italiano visto sia dall’ottica statunitense che imprenditoriale, la spettacolarizzazione del processo, la questione emergente delle Litigation PR, una riflessione giuridica sul delicato tema del fine vita e sul binomio governabilità-rappresentatività. Anche quest’anno LexFest - kermesse nata da un’idea di Andrea Camaiora e organizzata dal comune di Cividale e dal team di comunicazione strategica Spin - trasforma per tre giorni, 10-11-12 marzo 2017, Cividale nella capitale della giustizia, affrontando con un taglio divulgativo numerose tematiche di attualità e con grandi protagonisti: dal sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri al direttore de L’Espresso Tommaso Cerno, dall’anchorman del Tg1 Francesco Giorgino al sostituto procuratore a Roma Antonello Racanelli, da Jean Todt (già team manager della Ferrari) al componente del cda Rai, Paolo Messa, ai giornalisti Gianni Barbacetto (Fatto Quotidiano), Alberto Matano (Rai), Andrea Biavardi (direttore di Giallo) e Giovanni Negri (Sole 24 Ore), il rettore dell’università Niccolò Cusano, Fabio Fortuna. E ancora: i componenti del Csm Antonio Leone ed Elisabetta Alberti Casellati, l’ambasciatore Philip Reeker (console Usa a Milano), il direttore del Messaggero Veneto Omar Monestier. E poi rappresentanti del settore economico come Giorgio Spaziani Testa (Confedilizia), Cosimo Pacciolla (Q8), Marco Mazzero (Ies Biogas) e Lorenzo Maria Di Vecchio (Fendi), avvocati come Elisabetta Busuito, Francesco Bruno, Matteo Benozzo, Beniamino Migliucci, Fabio Roscioli, Francesco Petrelli, Giorgio Varano. La manifestazione ospiterà anche la consegna dei primi premi LexFest: per il diritto, consegnato a Carlo Nordio, e per l’informazione, consegnato a Massimo Bordin. Interessanti l’intervento dell’avvocato Andrea Catizone su "adolescenti e uso consapevole del web" e il dibattito di domenica mattina su "Giustizia, tecnologia, privacy e regole", con Gianluca Baini (Global Service Provider Leader of Cisco), Luca Bolognini (Istituto Italiano per la Privacy e la Valorizzazione dei Dati) e Pieralberto Felettig (ad Omniadoc Spa), coordinati dall’avvocato Alberto Gava (Utopia Legal). Il programma di LexFest, attraverso numerosi contributi, intende anche affrontare il delicato binomio giustizia e business, cercando di capire come renderli effettivamente coniugabili in un Paese, il nostro, in cui è sempre più difficile intraprendere. Un’Italia stretta tra lungaggini giudiziarie e complessità burocratiche e nella quale l’ambiente viene spesso brandito come pretesto per soffocare gli investimenti, con gli stranieri che abbandonano il Belpaese. Roma: da Rebibbia al Maxxi, con "Terra Terra" donne detenute oltre le mura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 marzo 2017 Con il docu-film si inaugura oggi la sala cinematografica nella sezione femminile. Il cinema entra nel carcere femminile, così come il carcere entra nel museo nazionale. Alle ore 11, in occasione della Giornata internazionale della donna, parte la iniziativa del progetto "Salviamo la faccia" del Dipartimento per le Pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri con la scuola carceraria Cpia 1 di Roma e l’associazione "Ossigeno per l’informazione", sarà inaugurata la nuova sala cinematografica permanente da novantanove posti al Teatro di Rebibbia femminile con la proiezione, per le donne recluse, del documentario Terra Terra, realizzato dalla film maker e docente di scuola carceraria Giulia Merenda. Girato nella casa circondariale, Terra Terra vede protagoniste, fra le cinquanta detenute coinvolte nel progetto, Ursula, Berenice, Lucia, tre donne per le quali la detenzione si è trasformata in una curiosa opportunità di riscatto, personale e collettivo. Il film sarà presentato da Marco Lodoli, scrittore e insegnante. Nella stessa giornata sarà trasmesso alle ore 18 al Maxxi di Roma, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo. Ciò rientra nell’ambito della mostra "Please come back. Il mondo come prigione?" a cura di Hou Hanru e Luigia Lonardelli dove 26 artisti, attraverso 50 opere, mettono in luce le problematiche relative al controllo tipiche della società contemporanea. L’esposizione prende il titolo dall’opera omonima del collettivo Claire Fontaine, nata da una riflessione degli autori sulla società come spazio di reclusione e il modo inquietante in cui ne facciamo parte. Partendo da queste considerazioni la mostra assume come centro d’indagine la società contemporanea sotto il controllo di un sistema di potere. Nella stessa occasione, sarà mostrato il cortometraggio Naufragio con spettatore di Fabio Cavalli, Menzione Speciale della Giuria del Premio Migrarti alla 73a Mostra del cinema di Venezia. Il corto è stato girato fra il carcere di Rebibbia e quello di Cassino, i protagonisti sono i detenuti-attori della Compagnia che diede vita al famoso film vincitore dell’Orso d’oro al Festival di Berlino Cesare deve morire. La mostra si comporrà di tre sezioni: Dietro le mura, Fuori dalle mura e Oltre i muri. Interessante la prima sezione. Ovvero "Dietro le mura", dove saranno protagonisti artisti che hanno fatto una esperienza diretta della prigione, sia perché sono stati reclusi, sia perché ne hanno fatto il soggetto del proprio lavoro, sia perché sono cresciuti in ambienti caratterizzati da questa presenza ingombrante. Tra questi Berna Reale con un video che racconta la luce della torcia olimpica all’interno delle carceri brasiliane, Harun Farocki che utilizza i filmati delle videocamere di sorveglianza del carcere di massima sicurezza di Corcoran in California e le interviste di Gianfranco Baruchello ai detenuti delle carceri di Rebibbia e Civitavecchia. In "Fuori dalle mura" troveremo le opere di quegli artisti che hanno compiuto una riflessione sulle prigioni che non possiamo vedere, sui regimi di sorveglianza, capaci di trasformare le città contemporanee in vere e proprie "prigioni a cielo aperto". Tra questi, Superstudio, che con il suo "Monumento Continuo" aveva profeticamente immaginato un modello di urbanizzazione globale alternativo alla Natura o Mikhael Subotzky che presenta materiali video forniti dalla polizia di Johannesburg. C’è anche Lin Yilin con la sua performance riproduce invece una scena di privazione della libertà per testare le reazioni dei cittadini della città cinese di Haikou e di Parigi, mentre Ra Di Martino trasforma Bolzano nel fondale di una messa in scena con finti carri armati. L’ultima sezione, "Oltre i muri", ospiterà una rassegna di varie opere d’arte che rappresentano il sistema di sorveglianza come "pratica organizzativa dominante" nato dopo l’attacco alle torri gemelle dell’ 11 settembre 2001. Tra le opere presenti, la "guerra al terrore" di Jenny Holzer e il progetto di Simon Denny ispirato alle rivelazioni di Snowden. Di questa mostra ne ha parlato bene il ministro Andrea Orlando durante la presentazione: "È molto importante che l’arte proponga una riflessione su questi temi, perché è uno strumento che può andare nel profondo. Non si crea sicurezza alzando i muri!". E ha concluso approfittando del tema sulla prigione e sicurezza: "È un collettivo e gigantesco esorcismo la convinzione che il carcere sia un elemento di rassicurazione per la società". Un 8 marzo dalla parte delle donne che difendono i diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 8 marzo 2017 Sebbene siano trascorsi 18 anni dall’adozione della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui difensori dei diritti umani, questi ultimi, in ogni parte del mondo, continuano ad andare incontro ogni giorno ad arresti, minacce, torture e uccisioni. Secondo i dati di FrontLine Defenders, nel 2016 sono stati uccisi 282 difensori dei diritti umani in 25 paesi; 39 erano donne. Come Berta Càceres, di cui abbiamo ricordato qui, pochi giorni fa, l’anniversario dell’assassinio. O come altre cinque donne: Bibata Ouedraogo, che in Burkina Faso lavora per la promozione dei diritti delle donne; Su Changlan, accusata in Cina di incitamento alla sovversione contro lo stato; Eren Keskin, un’avvocata turca che difende i diritti umani; Máxima Acuña, una contadina peruviana che si batte per difendere il suo territorio dalla costruzione di una miniera; Helen Knott, una portavoce delle comunità native canadesi di Peace River Valley che si oppongono alla costruzione di una diga idroelettrica sui loro territori ancestrali. Donne che, insieme a tante altre, hanno deciso di dedicare la loro vita alla battaglia quotidiana per la realizzazione dei diritti umani di tutti. Donne coraggiose che vengono minacciate, vessate, insultate, umiliate, censurate, marginalizzate, picchiate, imprigionate, perseguitate penalmente per il loro lavoro in difesa dei diritti umani; per aver sfidato gli stereotipi di genere, le strutture del potere e del profitto, le norme sociali e i valori patriarcali, religiosi e tradizionali; o per aver rivendicato i diritti sessuali e riproduttivi e i diritti ambientali e dei popoli nativi. Dall’8 marzo, Giornata internazionale della donna, e fino a metà maggio, Amnesty International Italia mobiliterà la società civile per realizzare fiori di carta, gesto simbolico di solidarietà con le donne che difendono i diritti umani e per far sottoscrivere la petizione rivolta al governo italiano affinché riconosca il ruolo di coloro che difendono i diritti umani e si adoperi con azioni concrete a favore delle donne legittimando, proteggendo e promuovendo il loro lavoro di difesa dei diritti umani. Anche le scuole che partecipano al progetto "Scuole amiche dei diritti umani" e le scuole secondarie di secondo grado vicine ad Amnesty International approfondiranno i diritti delle donne attraverso incontri, laboratori ed eventi e si attiveranno realizzando l’origami simbolo della giornata. Inoltre, fino al 12 marzo in 50 città italiane, accanto ad Amnesty International Italia ci sarà Altromercato - la maggiore organizzazione del commercio equo e solidale del nostro paese - per parlare insieme di diritti delle donne di tutto il mondo. Migranti. Se il diritto scivola nell’ipocrisia di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 8 marzo 2017 È solo una coincidenza temporale quella che lega la decisione ungherese di porre in stato di detenzione indiscriminatamente tutti i migranti che arrivano alle sue frontiere e una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in tema di asilo. Quest’ultima non è la base che giustifica la nuova legge ungherese, che per la sua automaticità e mancanza di proporzione produrrà violazione degli obblighi europei e internazionali di protezione di coloro che attendono una decisione sulla loro domanda di asilo. Entrambe però riguardano i modi di gestire l’attuale vicenda migratoria, in cui il diritto dei singoli si inserisce in un fenomeno di massa. La Corte di Giustizia ha ieri risposto a un quesito postole dal giudice belga dei contenziosi relativi agli stranieri. Il quesito riguardava il "codice dei visti" e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che tra l’altro prevede il diritto di asilo. Il giudice belga chiedeva se il diritto dell’Unione fosse applicabile e comportasse l’obbligo dello Stato di assicurare protezione anche a chi si trovava fuori della sua giurisdizione: una famiglia siriana di Aleppo aveva presentato all’ambasciata belga in Libano una domanda di visto per entrare nel territorio belga e poi, per i rischi che corrono in Siria, chiedervi asilo. I ricorrenti sostenevano che il diritto di asilo garantito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione implica il dovere degli Stati membri di concedere in ogni caso una protezione internazionale, unico mezzo per evitare il rischio d’esser esposti a trattamenti inumani nel Paese di origine. Il Belgio sosteneva invece che il diritto dell’Unione e quello internazionale non obbligano ad ammettere nel proprio territorio un cittadino di un Paese terzo; l’obbligo si limita a vietare il respingimento di chi, giunto nello Stato, sarebbe esposto al rischio di tortura o trattamenti inumani. Secondo lo Stato belga la Convenzione europea dei diritti umani e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea si applicano soltanto a chi si trova nella giurisdizione degli Stati membri e non a coloro che aspirano ad esservi ammessi. Nel procedimento davanti la Corte di giustizia sono intervenuti ben tredici Stati membri dell’Unione, oltre al Belgio e alla Commissione europea. Non è intervenuta l’Italia, nonostante che l’importanza del caso lo consigliasse e la questione riguardi tutti gli Stati membri dell’Unione e quindi anche l’Italia. La Corte ha adottato la posizione sostenuta degli Stati intervenuti e ha affermato che il diritto dell’Unione non è applicabile nella situazione dei ricorrenti, che è invece regolata unicamente dal diritto nazionale (belga nella specie). Naturalmente gli Stati membri possono estendere la protezione anche a casi come quelli oggetto del giudizio della Corte, ma non ne sono obbligati dal diritto dell’Unione. Si possono immaginare le conseguenze di una decisione diversa da parte della Corte di giustizia: enorme è il numero delle persone nel mondo che vivono in condizioni che lo standard europeo direbbe inumane, o rischiano torture e la morte e a tutte gli Stati dell’Unione avrebbero dovuto consentire l’ingresso e la protezione. Impossibile. Fisicamente impossibile contrastare così l’atrocità delle condizioni di vita di così tante persone. Tuttavia vi è qualche cosa di moralmente incoerente nel diritto di asilo e di protezione umanitaria che obbliga gli Stati solo nei confronti di chi - spesso a rischio della vita e di pene infinite - riesce a raggiungere i luoghi in cui gli Stati esercitano la loro giurisdizione: territorio nazionale, acque territoriali, navi, zone di transito e altre aree amministrate dallo Stato. In particolare gli Stati non possono respingere o espellere in blocco, collettivamente, gruppi di stranieri senza prima esaminare per ciascuno se corrano rischio di trattamenti inumani. Ma nelle masse di persone che premono ai confini, si sa che vi sono persone che, per la situazione nei Paesi di origine, corrono quel rischio. Eppure se non riescono a raggiungere i luoghi di responsabilità nazionale dello Stato (per l’Italia ovviamente pensiamo a Lampedusa e alle navi che pattugliano il Mediterraneo) non vi è obbligo di accoglierli. E allora gli Stati fanno di tutto per impedirne l’arrivo, anche con iniziative e accordi internazionali in cui necessità e ipocrisia si mescolano, come quando, per lasciare i migranti nella responsabilità altrui, si afferma che i migranti saranno comunque fermati in luoghi e campi in cui (come in Libia?) il loro trattamento sarebbe umano. Migranti. Per la Corte Ue Stati non obbligati a concedere visti umanitari di Beda Romano Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2017 La Corte europea di Giustizia ha dato oggi ragione al governo belga che si è rifiutato di concedere un visto umanitario a una famiglia di siriani che voleva trasferirsi in Europa. La vicenda, che ha suscitato polemiche nel paese, conferma indirettamente il principio secondo il quale responsabile del diritto d’asilo in Europa è il paese di primo sbarco. La sentenza è vincolante e definitiva; va in direzione opposta rispetto al parere dell’avvocato generale. Secondo la decisione della magistratura comunitaria, un paese non è obbligato a concedere un visto umanitario a chi vuole chiedere asilo sul territorio di quello Stato. La sentenza dà ragione al segretario di Stato all’immigrazione, l’autonomista fiammingo Theo Francken, che in queste settimane si è opposto alla concessione del visto perché avrebbe creato "un pericoloso precedente" e avrebbe fatto perdere al Belgio "il controllo delle sue frontiere". La richiesta era stata presentata da una famiglia di Aleppo, due genitori e tre bambini. Le autorità belghe avevano rifiutato la concessione perché nella domanda di visto territoriale a scopo limitato avevano letto il tentativo di risiedere nel paese per un periodo oltre i 90 giorni. "Permettere ai cittadini di paesi terzi - si legge nella sentenza - di presentare domanda di visto per ottenere protezione internazionale nel paese membro di loro scelta metterebbe a rischio il sistema" di asilo europeo. Attualmente, il Principio di Dublino prevede che responsabile dell’asilo sia il paese di primo sbarco. Dinanzi all’arrivo massiccio di rifugiati dalla Siria e dalla Libia in Italia e in Grecia, la Commissione europea ha presentato una riforma che prevede il ricollocamento delle persone in tutta Europa. Il negoziato diplomatico va a rilento per l’opposizione di molti paesi, soprattutto dell’Est Europa. La sentenza in sé si basa sulle regole attuali, e non ostacola (ma neppure aiuta) la trattativa in corso. Una decisione in senso contraria a quella presa oggi e quindi in linea con il precedente parere non vincolante dell’avvocato generale della Corte europea di Giustizia, avrebbe permesso ai rifugiati di scegliere direttamente il paese europeo in cui chiedere asilo, presentando domanda in un qualsiasi consolato in giro per il mondo. La concessione di questi visti umanitari è chiesta da tempo da molte organizzazioni umanitarie e associazioni non governative. Migranti. Ius soli, rispunta il ddl al Senato. E ha i numeri per passare di Monica Rubino La Repubblica, 8 marzo 2017 I tempi però si allungano: in aula non prima di aprile. La relatrice Lo Moro (Mdp): "No a porre la fiducia sul provvedimento". Rispunta all’ordine del giorno del Senato il ddl sullo Ius soli, ovvero la riforma della cittadinanza per i nati in Italia da genitori stranieri. La legge, già approvata alla Camera nell’ottobre del 2015, è ferma a Palazzo Madama da oltre un anno. Ma l’iter si allunga: entro fine marzo (con un mese di ritardo rispetto alle previsioni dei proponenti) il provvedimento dovrebbe essere finalmente licenziato dalla commissione Affari Costituzionali, dove si sta tentando di raggiungere un accordo sulla riduzione dei migliaia di emendamenti annunciati dalla Lega. L’obiettivo è calendarizzare il testo in aula ad aprile anche se tutti i problemi non riuscissero ad essere risolti in commissione, così come aveva promesso il presidente del Senato Pietro Grasso. Intanto si prova a fare i conti per capire se il ddl ha i numeri per passare. Facendo un po’ di calcoli, la partita si giocherà sul filo dei voti. Favorevoli alla riforma della cittadinanza sono i 99 senatori del Pd, i 14 scissionisti del Movimento Progressisti Democratici (fra cui c’è anche la relatrice della legge, la ex dem Doris Lo Moro), i 27 centristi alfaniani, i 19 senatori del gruppo Per le Autonomie (in cui è presente ad esempio la Svp, Südtiroler Volkspartei) e gli 8 senatori di Sinistra italiana, con a capo Loredana De Petris, presenti nel gruppo Misto. Il totale dei pro riforma è dunque 167. Tra i contrari vanno considerati i 12 senatori della Lega e i 42 di Forza Italia, per un totale di 54. Ma a questi potrebbero aggiungersi i voti del gruppo M5S, che alla Camera si era astenuto. Tuttavia al Senato le regole sono diverse: l’astensione equivale a voto contrario. Dunque i 54 no di Lega-FI, uniti ai 35 dei Cinque Stelle, potrebbero diventare 89. Nel gruppo degli incerti, infine, si annoverano i 14 senatori di Gal, i 9 fittiani (Conservatori e riformisti, per i quali "non ci deve essere nessun automatismo come negli Usa, ma sia l’ultimo passaggio di un lungo percorso"), i 25 rimanenti del gruppo Misto (esclusa Sinistra italiana per l’appunto), e i 16 di Ala, sebbene alcuni di questi come Vincenzo D’Anna si siano dichiarati apertamente favorevoli. In totale fanno 64. Sebbene stentati, alla fine i numeri per l’approvazione dovrebbero esserci. Se per ipotesi tutti gli incerti votassero no, assieme all’astensione del M5S, sarebbero comunque 167 favorevoli contro 153 contrari. Del resto la posizione dei Cinque Stelle sullo Ius soli è stata ribadita pochi giorni fa dallo stesso Beppe Grillo che, in un post sul suo blog datato 24 febbraio, riprende integralmente un altro intervento sullo stesso tema risalente al 2013: "Chi vuole al compimento del 18simo anno di età può decidere di diventare cittadino italiano - scrive il fondatore del Movimento. Questa regola può naturalmente essere cambiata, ma solo attraverso un referendum nel quale si spiegano gli effetti di uno ius soli dalla nascita. Una decisione che può cambiare nel tempo la geografia del Paese non può essere lasciata a un gruppetto di parlamentari e di politici in campagna elettorale permanente". Viceversa lo ius soli è diventato uno dei cavalli di battaglia del gruppo Mdp, i senatori scissionisti del Pd. Lo stesso Massimo D’Alema ieri in Toscana con il governatore Enrico Rossi, ha elencato la legge fra le richieste più incalzanti "da parte del quarto gruppo parlamentare all’esecutivo". L’idea è di portare prima possibile il testo in aula, sulla spinta del sì di Palazzo Madama al ddl sui minori stranieri non accompagnati. La relatrice Lo Moro non teme una bocciatura del ddl: "Sui numeri sono fiduciosa, in commissione c’è un clima di dialogo". Ma chiarisce: "Non condivido assolutamente la proposta di Matteo Orfini di porre la fiducia sul provvedimento. Una scelta del genere significherebbe alterare la volontà dei parlamentari. Questa legge deve essere approvata da chi ci crede". La "cura ungherese": prigione sistematica per tutti i migranti di Victor Castaldi Il Dubbio, 8 marzo 2017 Una misura durissima che chiude ancora di più le porte dell’Europa ai rifugiati in uno dei paesi all’avanguardia nel neo-populismo anti-immigrazione che imperversa nel Vecchio continente e non solo. Una misura in linea con lo spirito dei tempi anche se per nulla rispettosa dei diritti umani e delle cosiddette convenzioni internazionali. Ieri mattina è stata approvata a grande maggioranza da parte del Parlamento ungherese la reintroduzione della detenzione sistematica per i migranti che giungono nel paese. La misura era stata soppressa nel 2013 per le pressioni dell’Unione europea e dell’alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr). La legge è stata adottata con 138 voti a favore, 6 contrari e 22 astenuti. La norma prevede che i migranti vengano collocati in "zone di transito" alle frontiere con la Serbia e la Croazia, dove saranno detenuti in attesa dell’esame della domanda di asilo. "Siamo in stato d’assedio ha detto il premier ungherese, Viktor Orban. La tempesta migratoria non è finita, si è soltanto provvisoriamente calmata". Budapest è decisamente contraria alla politica Ue di ricollocazione dei migranti nei diversi paesi dell’Unione e Orban ha definito l’immigrazione "un veleno" e "un cavallo di Troia per il terrorismo". Le nuove misure si applicheranno non soltanto a chi arriverà prossimamente nel paese, ma anche a quanti già vi si trovano e che a febbraio risultavano essere poco meno di seicento. I migranti verranno alloggiati in container, che potranno lasciare soltanto se decideranno di fare ritorno al loro paese d’origine. Nel 2016 circa 30 mila migranti hanno fatto richiesta d’asilo dopo il loro arrivo in Ungheria. La maggior parte però ha proseguito il viaggio verso altri paesi europei e soltanto 425 hanno ottenuto asilo. L’Ungheria sta costruendo la seconda barriera anti- migranti alla frontiera con la Serbia, equipaggiata con telecamere di sorveglianza e rilevatori termici d’allarme. Ferma la presa di posizione dell’Unhcr, secondo cui la nuova legge "viola gli obblighi dell’Ungheria di fronte alle leggi europee e internazionali. In pratica - si rileva - i richiedenti asilo, bambini compresi, saranno detenuti anche per lunghi periodi in container in campi presso la frontiera circondati dal filo spinato". Secondo le leggi internazionali e comunitarie, la detenzione dei richiedenti asilo è giustificata solo se non si posso realizzare misure alternative ragionevoli. Ancora più rabbiose le parole di Amnesty International: "Il nuovo pacchetto di misure adottato dall’Ungheria è solo l’ultimo atto di una repressione aggressiva e feroce contro rifugiati e migranti", tuona Gauri van Gulik, vice direttore di Amnesty per l’Europa: "Prevedere di detenere automaticamente alcune delle persone più vulnerabili del mondo all’interno di container dietro recinzioni di filo spinato, a volte per mesi e mesi, supera ogni limite. Queste misure saranno riservate anche ai bambini, in flagrante violazione del diritto internazionale ed europeo. Le norme consentiranno inoltre ai rifugiati di essere rimpatriati forzatamente in Serbia senza un giusto processo. Stiamo sollecitando l’Unione europea a rafforzare e dimostrare l’Ungheria che tali misure illegali e profondamente disumane hanno delle conseguenze". Ungheria. Migranti detenuti nei container circondati da filo spinato di Ottavia Spaggiari Vita, 8 marzo 2017 In Ungheria tutti i migranti, anche i minori non accompagnati, saranno costretti a vivere in container di metallo, all’interno di centri detenzione circondati da filo spinato. A stabilirlo un provvedimento votato martedì dal Parlamento ungherese. "Un cavallo di Troia per il terrorismo". Così il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha definito le migrazioni, dichiarando così il successo del risultato del voto di questa mattina, che prevede la detenzione obbligatoria di tutti i richiedenti asilo. Una decisione quella del parlamento ungherese passata con 138 voti a favore, 6 contro e 22 astenuti, che però si scontra con la società civile del Paese e internazionale. A sollevare le proteste delle associazioni che si occupano di diritti umani e civili, anche le modalità di detenzione. Secondo il provvedimento, infatti, tutti i migranti, compresi i minori non accompagnati, saranno costretti a vivere all’interno di container di metallo, in campi circondati da filo spinato, fino al risultato della propria richiesta di asilo. Unica possibilità per chi vuole allontanarsi: il ritorno in Serbia o Croazia, i due principali Paesi di ingresso. Fino ad oggi per i richiedenti asilo in Ungheria, le settimane di detenzione erano quattro, applicabili solo a chi veniva fermato entro 5 miglia dalla frontiera, i minori non accompagnati sotto i 14 anni venivano invece presi in carico dai servizi sociali. Nel 2015 ad arrivare nel Paese, secondo i dati del governo, sono stati 391mila migranti in transito, di cui 177mila hanno presentato richiesta d’asilo ma solo 5mila sono rimasti nel Paese fino al completamento della procedura di richiesta asilo. In un comunicato, l’Unhcr ha denunciato la nuova legge ungherese come una violazione del diritto internazionale e dell’Unione Europea, secondo cui "la detenzione di rifugiati e richiedenti asilo può essere giustificata solo sulla base di un numero limitato di ragioni, e solo laddove si consideri necessaria, ragionevole e adeguata" mentre "I minori non devono mai essere detenuti in nessun caso. La detenzione non costituisce in alcuna circostanza il miglior interesse di un minore". Droghe: In Olanda i coffee-shop coltiveranno legalmente la cannabis di Massimiliano Sfregola Il Manifesto, 8 marzo 2017 La Camera dei deputati olandese ha approvato, lo scorso 21 febbraio, un disegno di legge presentato dai liberal-progressisti del D66 che depenalizza la coltivazione di cannabis. Nel 1976 la decriminalizzazione del consumo aveva spianato la strada al celebre esperimento di tolleranza dei coffee shop e ora, 41 anni dopo, una risicata maggioranza parlamentare ha consentito di chiudere finalmente il cerchio, regolamentando la coltivazione. Cannabis legalizzata, quindi? No, per l’Opiumwet - la legge olandese sulle droghe - la cannabis rimane formalmente illegale. Tuttavia, se il Senato darà il via libera, il governo potrà rilasciare, tramite i comuni, delle licenze che consentiranno ad alcuni coltivatori professionisti di produrre marijuana. Il regime di tolleranza, riservato fino ad oggi ai consumatori, verrà quindi esteso anche ad alcuni coltivatori autorizzati. Oggi la normativa olandese sulle droghe, pur considerandola una infrazione, non persegue la vendita di derivati della cannabis (fino a 5 grammi) a cittadini maggiorenni all’interno dei coffee shop ma non disciplina la coltivazione e quindi il loro approvvigionamento (il cosiddetto back door). I coffee shop, quindi, sono costretti per le scorte a rivolgersi al mercato nero, determinando una pericolosa contiguità con le organizzazioni criminali. L’intenzione dei proponenti della riforma è di assecondare le richieste di molti sindaci, affidando ai comuni - come già accade per i coffee shop - il compito di monitorare la produzione di cannabis e la distribuzione nei punti vendita. Con la legge, votata con un blitz parlamentare dai partiti di sinistra e dal Vnl, una piccola formazione populista, viene anche introdotto il principio di tassazione della marijuana e l’obbligo di implementare un protocollo che ne valuti qualità e percentuale di Thc. Nel corso degli ultimi anni le municipalità hanno esercitato un pressing enorme con il governo chiedendo di poter sperimentare la coltivazione e la distribuzione ai coffee shop, ma l’esecutivo guidato dal liberale Mark Rutte aveva sempre bocciato ogni richiesta: le convenzioni internazionali, aveva ripetuto il ministro della giustizia, non consentono di legalizzare la coltivazione. Cosi i liberal-progressisti del D66 sono riusciti a sfruttare l’ultima seduta parlamentare prima dello scioglimento delle camere, approfittando dell’occasione di una maggioranza di deputati favorevole. La difficile situazione nel sud del paese, dove il fenomeno degli scontri tra gang rivali per il controllo del mercato all’ingrosso ha raggiunto dimensioni preoccupanti, ha convinto i deputati a forzare la mano per l’approvazione del testo di legge e l’apertura di un canale di produzione regolamentato per togliere alla criminalità, almeno, la quota di cannabis destinata ai coffee shop. La norma, approvata il mese scorso in barba al Governo, rappresenta quindi un cambio di rotta rispetto alla politica recente dalle istituzioni olandesi in materia di cannabis. Dal 2012 ad oggi, infatti, l’adozione del pass per limitare i turisti nei coffee shop dei comuni frontalieri e altri provvedimenti restrittivi, hanno messo a dura prova l’esperimento di tolleranza, senza mai intervenire sulla questione dell’approvvigionamento. L’appello dei sindaci di Amsterdam, Rotterdam e Den Haag, che da tempo chiedono di poter rilasciare licenze sperimentali per la coltivazione, era stato fino ad oggi ignorato. Le elezioni della settimana prossima ci diranno se questa iniziativa pagherà anche in termini di voti, e se le forze democratiche olandesi sapranno tener testa all’ascesa, che pare irrefrenabile nei sondaggi, di Geert Wilders leader xenofobo del Partito olandese per la libertà. L’inferno senza fine dello Yemen, centinaia di vittime in meno di 48 ore di Antonella Napoli articolo21.org, 8 marzo 2017 Un’operazione senza precedenti sta decimando centinaia di yemeniti da oltre 48 ore. Decine di bombardamenti di droni e aerei Usa, raid di elicotteri e, seppur smentite dal Pentagono, incursioni delle forze speciali sul terreno, si stanno abbattendo non solo sui miliziani di Al Qaeda in Yemen ma anche sulla popolazione civile. Il tutto mentre sette milioni di persone sono in grave carenza di cibo e più di 2 milioni di bambini sotto i 5 anni soffrono di malnutrizione acuta, di cui quasi mezzo milione è in fin di vita. Secondo Save the children nove zone del paese, inclusa Hodeida, sono classificate IPC-4 (Integrated Food Security Phase Classification), l’ultimo livello di emergenza prima della carestia. A ciò si affianca l’inesistenza di un sistema ospedaliero, con oltre metà delle strutture medico-sanitarie, in 16 dei 22 governatorati monitorati, inservibili o solo parzialmente funzionanti, e 14,8 milioni di persone, inclusi 8,1 milioni di bambini, senza i servizi minimi di base. La recrudescenza del conflitto è solo l’ultima conseguenza della fase di maggiore ‘aggressività’ nella regione inaugurata dalla presidenza Trump dopo il primo attacco lo scorso 29 gennaio, in cui tra l’altro era rimasto ucciso un Navy Seal. L’azione militare delle forze armate statunitensi è concentrata in un triangolo tra le province meridionali di Bayda, Shabwa e Abyan, dove Al Qaeda ha rafforzato negli ultimi anni la sua presenza, approfittando della guerra civile in corso tra il governo del presidente Abd Rabbo Mansur Hadi, riconosciuto internazionalmente e vicino all’Arabia Saudita, e i ribelli sciiti Houthi, alleati dell’Iran. Fonti locali affermano che gli attacchi concentrati sulla cittadina di Wadi Yabsham per stanare il Numero 2 della cosiddetta Al Qaeda nella Penisola Arabica (Aqpa), Saad Atef, sono costati la vita ad almeno 30 civili. Bombardamenti sono segnalati anche nel distretto di Yakla, nella provincia di Bayda, teatro della prima operazione a terra autorizzata dall’amministrazione Trump alla fine di gennaio. In quella occasione, oltre al militare statunitense Ryan Owens, rimasero uccisi 16 yemeniti, tra i quali dieci bambini. Oltre alle conseguenze dirette della guerra sulla popolazione, le ong che operano in Yemen lanciano un’ulteriore accusa. L’Arabia Saudita e i suoi alleati stanno ostacolando da mesi la consegna degli aiuti alla gente stremata e sfollata. In particolare Save the Children rivela che, nonostante la carestia stia minacciando buona parte del paese e il sistema sanitario sia sull’orlo del collasso, il lavoro delle organizzazioni umanitarie è volutamente sabotato. L’ong internazionale sostiene che da settimane non possono raggiungere migliaia di persone per garantire loro assistenza sanitaria urgente, ritardi che hanno causato la morte di molti bambini che si sarebbero potuti salvare. Solo tra gennaio e febbraio 2017, continua Save the Children, la coalizione Saudita ha impedito che tre grosse spedizioni di farmaci salvavita arrivassero nel principale porto dello Yemen, ad Hodeida, obbligandole a cambiare destinazione e ritardando così il loro arrivo di quasi tre mesi. Il carico consisteva in aiuti indispensabili per 300.000 persone, compresi antibiotici, equipaggiamento chirurgico, farmaci per il trattamento di malaria e colera, e approvvigionamenti per i bambini malnutriti. Impedendo la consegna degli aiuti è stato limitato fortemente il livello di assistenza nelle strutture sanitarie sostenute da Save the Children ed è stato anche impedito che le unità sanitarie mobili potessero raggiungere le comunità rurali dove non esiste assistenza medica. Nell’ultimo caso, una spedizione di 2 tonnellate di aiuti ed equipaggiamenti medico-sanitari destinati a quasi 40mila persone, compresi 14mila bambini sotto i 5 anni, doveva sbarcare al porto di Hodeida il 2 dicembre 2016. È stata invece trattenuta al largo del porto e poi ri-direzionata dalla coalizione Saudita al piccolo porto di Aden dove è sbarcata 83 giorni dopo. Inoltre, dal porto di Aden, per poter raggiungere le persone in emergenza, gli aiuti devono attraversare per via terrestre zone di combattimento, mettendo a rischio sia gli aiuti che gli operatori umanitari. Questi ritardi stanno uccidendo i bambini. "Gli operatori umanitari sono alle prese con epidemie di colera, e bambini colpiti da diarrea, morbillo, malaria e malnutrizione, e potrebbero essere curati con gli aiuti bloccati invece dalla coalizione Saudita, che sta usando il controllo di queste spedizioni come un’arma di guerra", ha dichiarato Grant Pritchard, direttore in Yemen dell’Organizzazione internazionale dedicata dal 1919 a salvare i bambini in pericolo e tutelarne i diritti. La coalizione ha anche rifiutato l’accesso al porto di Hodeida di 4 nuove gru messe a disposizione dal Word Food Program dell’Onu, che avrebbero potuto facilitare enormemente le operazioni di scarico degli approvvigionamenti. E intanto nel paese si continua a morire. Sotto le bombe e per fame.