Quando la giustizia non paga. In cella per errore, nessun risarcimento di Alessandro Belardetti Il Giorno, 7 marzo 2017 Ogni anno su 7mila richieste solo una minima parte viene accolta. Gli indennizzi solo per mille detenuti. E così un articolo del codice di procedura penale finisce sotto accusa. Un esercito tradito dalla giustizia. Sono circa 6mila all’anno le persone assolte in Italia che non ricevono l’indennizzo dopo aver subito una custodia cautelare ingiusta (in carcere o ai domiciliari). Tra loro c’è Raffaele Sollecito, accusato e detenuto quattro anni per il delitto di Meredith Kercher, poi assolto in Cassazione. L’anno scorso sono state 1.001 le ordinanze di pagamenti per riparazioni a ingiuste detenzioni ed errori giudiziari, pari a 42.082.096 euro. Dunque, uno su sette riceve l’indennizzo, stabilito da un tariffario governativo: 250 euro per ogni giorno in carcere, 125 euro per i domiciliari, con un massimo di 516mila euro (mentre per gli errori giudiziari non c’è limite al risarcimento). "Ma l’entità dell’indennizzo dev’essere proporzionata alle conseguenze personali e familiari dell’imputato - spiega l’avvocato Gabriele Magno, presidente dell’Associazione nazionale vittime di errori giudiziari: non può bastare un quantum al giorno perché ci sono, per esempio, danni come la perdita di guadagni dal fallimento dell’azienda di un imprenditore incarcerato". I giudici d’appello di Firenze nel caso Mez, sopraggiungendo l’assoluzione di Sollecito, hanno ammesso la sua ingiusta detenzione "ma lui ha concorso a causarla con la propria condotta dolosa o colposa". Comma uno dell’articolo 314 del codice di procedura penale: se un imputato provoca la propria ingiusta detenzione, non ha diritto all’indennizzo. "È un paracadute dello Stato, che lo usa a piacimento - prosegue il 41enne Magno. A livello costituzionale così appare più importante l’essersi, per esempio, avvalso della facoltà di non rispondere durante un interrogatorio nelle indagini, che l’essere stato assolto con formula piena. Abbiamo proposto una modifica alla legge chiedendo di cambiare l’articolo 315. Ora il soggetto assolto ha due anni per chiedere l’indennizzo, ma è un trucco: questo fa prescrivere l’errore del giudice. Un limite che va cancellato". Il giurista Giuseppe Di Federico, ex membro laico del Csm, aggiunge: "È ridicolo che si allunghi la prescrizione per le attività commesse dai cittadini e si tengano strette quelle dei giudici. Quando uno ha subito un’ingiusta detenzione l’indennizzo deve essere automatico. Rovistare nei comportamenti degli imputati per non dargli i soldi non è giusto, le loro condotte non possono giustificare la mancanza di capacità professionale nei magistrati". I distretti in cui vengono rimborsati gli indennizzi maggiori per gli errori dei magistrati sono al Sud e Centro Italia: Napoli, Catanzaro, Bari, Catania, Roma le maglie nere. Eurispes e Unione delle Camere penali italiane, analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, hanno rilevato che sono 4 milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. "Un fenomeno patologico, ma non c’è solo un colpevole: si va dalla polizia giudiziaria che crede in una pista e non batte le altre, al pm che perseguita gli indagati, fino agli avvocati che non fanno il proprio dovere. La giustizia è una bilancia, ma questi numeri gridano vendetta", analizza l’avvocato chietino. Proprio gli avvocati, però, vengono accusati di fare super guadagni con questi casi: "Nessun business, la nostra associazione è composta anche da giudici, periti, giornalisti e politici". Dal 1992 il ministero dell’Economia e Finanze ha pagato 630 milioni di euro per indennizzare quasi 25mila vittime di ingiusta detenzione, ma negli ultimi anni i risarcimenti sono calati: se nel 2015 lo Stato ha versato 37 milioni di euro, nel 2011 sono stati 47, mentre nel 2004 furono 56. "Se lo Stato deve indennizzare un’ingiusta detenzione prova imbarazzo - conclude Magno - e i soldi per i risarcimenti si trovano a fatica. Il fatto che sia la Corte d’appello dello stesso distretto che ha sbagliato il giudizio ad accogliere o rigettare l’indennizzo, limita la disponibilità del magistrato a riconoscere un errore". Petrilli: "Sei anni di carcere duro. Assolto e neppure un euro" di Alessandro Belardetti Il Giorno, 7 marzo 2017 Il racconto: richiesta respinta per un cavillo. Un calvario lungo cinque anni e otto mesi, quattro dei quali in isolamento. Giulio Petrilli venne arrestato all’Aquila quando aveva 21 anni, con l’accusa di partecipazione a banda armata con funzioni organizzative, due giorni prima di Natale del 1980. Un terrorista, insomma, per la procura e in carcere rimase quasi sei anni. Il pm Armando Spataro - specializzato in anti terrorismo - chiese per l’allora studente di Lettere undici anni di galera. In primo grado Petrilli venne condannato a otto anni, poi in Appello nel 1986 l’assoluzione, confermata tre anni dopo in Cassazione. E nessun indennizzo per ingiusta detenzione. "La Corte d’appello di Milano e la Corte di Strasburgo me l’hanno rifiutato. La prima spiegando che con le mie "cattive frequentazioni" ho avuto la colpa o il dolo di contribuire all’arresto; i giudici di Strasburgo nel 2014 non hanno dato motivazioni". Quali erano le sue "cattive frequentazioni"? "Facevo parte dei collettivi e avevo rapporti con politici. Un pentito con dichiarazioni vaghe mi accusò di essere un membro di Prima Linea e il magistrato ritenne che ero uno dei capi. Una follia, per un ventenne. A tutti gli imputati accusati ingiustamente di banda armata viene applicato il comma uno dell’articolo 314, la "colpa o dolo". La sua battaglia dopo la sconfitta alla Corte europea è finita? "Assolutamente no. Sto lottando perché quel comma venga abolito, non si possono introdurre giudizi arbitrari, è una norma solo italiana. C’è un disegno di legge di Sinistra Italiana in Parlamento, ma sta nel cassetto". La sua assoluzione è avvenuta con l’entrata in vigore dell’indennizzo per ingiusta detenzione. Sarebbe necessario introdurlo anche per le assoluzioni precedenti e rendere la norma retroattiva? "Certo, infatti c’è una proposta di legge in Parlamento per introdurre la retroattività a livello normativo. L’Aula l’ha ricevuta nel 2011, spero presto in una nuova legge". Ha ricevuto le scuse da qualcuno? "Nessuno ha chiesto scusa, mai". L’appoggio da parte delle istituzioni? "Tanti slogan, ma in concreto poco. Ho scritto a Renzi, quando era premier, non mi ha mai risposto". In cella ha vissuto in condizioni estreme? "All’epoca con quel tipo di reati ti mettevano nei carceri speciali: io ne ho vissuti tredici, stavo 23 ore al giorno in isolamento in stanze di due metri per due". Si sente vittima del "rastrellamento giudiziario" di quegli anni? "C’era una cultura dell’emergenza e non più lo Stato di diritto, le regole si erano ristrette. Non si ragionava più, per un fatto minimo entravi in prigione e non uscivi più". Cosa ha perso in quegli anni? "La giovinezza. Quando sono uscito è stata davvero dura, quella ferita non si rimargina". Cosa le resta del carcere? "In negativo la sofferenza estrema: peggio della detenzione non c’è nulla. Tocchi la paura di impazzire, si perde il senso delle cose in isolamento. In positivo, la forza che mi ha dato quella esperienza: ogni volta che adesso succede un fatto negativo nella mia vita, penso che c’è di peggio". Quanto ha speso per cercare di ottenere un risarcimento? "Dall’89 avrò buttato via oltre 200mila euro". Carcere, il teatro come ponte tra "dentro e fuori": torna la Giornata nazionale di Teresa Valiani Redattore Sociale, 7 marzo 2017 Fissata al 27 marzo l’iniziativa del Coordinamento nazionale Teatro in carcere. Il Comitato invita direzioni degli istituti, operatori e volontari a promuovere eventi tra il 20 marzo e il 30 aprile. Anteprima a Pesaro con "Yo soy Rivera" e "Amleto dei bassi". Quaranta esperienze teatrali diffuse su tutto il territorio nazionale con più di 100 istituti penitenziari coinvolti, 3 edizioni di successo e una serie di appuntamenti che ogni anno contribuiscono a cementare il rapporto tra il dentro e il fuori, facendo del teatro italiano in carcere un’eccellenza nel mondo per diffusione e qualità artistica ed educativa. Il Coordinamento nazionale Teatro in Carcere annuncia la IV edizione della Giornata Nazionale Teatro in Carcere, fissata al 27 marzo, in concomitanza con il World Theatre Day 2017 (giornata mondiale del teatro), promosso dall’International Theatre Institute (Iti) Worldwide-Unesco e dal Centro italiano dell’Iti. Tra gli appuntamenti che apriranno la rassegna, una anteprima nel carcere di Pesaro con lo spettacolo "Yo soy Rivera", la Compagnia teatrale dell’università di Caldas (Manizales/Colombia) e il regista Daniel Ariza che racconterà un’esperienza inedita realizzata in carcere in Colombia. Sempre nell’istituto penitenziario di Pesaro, il 27 marzo sarà presente Carlo Formigoni, maestro del teatro italiano che si è formato al Berliner Ensemble negli anni Sessanta e che con la Compagnia dell’Altopiano presenta lo spettacolo Amleto dei bassi". Il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere è un organismo costituito da oltre 40 esperienze teatrali diffuse su tutto il territorio nazionale, con il sostegno del ministero di Giustizia - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). All’edizione 2016 della Giornata Nazionale avevano aderito 59 istituti penitenziari, 10 altre istituzioni, tra università, scuole, uffici di esecuzione penale esterna e teatri, ed erano stati realizzati 75 eventi in 17 regioni italiane, con una iniziativa fuori dal territorio nazionale, nella Repubblica democratica del Congo, "ciascuno - si legge in una nota del Coordinamento - con la propria autonomia e la propria forza, sia all’interno che all’esterno delle carceri italiane in uno scambio tra ‘dentro e fuorì che evidenzia l’importanza di costruire ponti tra il carcere e il proprio territorio, utilizzando proprio l’arte del teatro. La IV edizione si inquadra in un più ampio e articolato programma di collaborazione previsto dal Protocollo d’Intesa sottoscritto nel 2013 e rinnovato nel 2016 insieme al ministero di Giustizia - Dap e all’università Roma Tre. Con la sottoscrizione del Protocollo si condivide e si promuove l’idea che i tempi sono maturi per cercare in modo organico una pratica più consapevole nei metodi, nelle funzioni, negli obiettivi delle arti sceniche negli istituti penitenziari. Considerata l’importanza e il rilievo nazionale e internazionale dell’iniziativa, il Coordinamento nazionale Teatro in Carcere, con il sostegno del Dap, invita le direzioni degli istituti penitenziari, le associazioni, le compagnie teatrali, i singoli operatori, gli enti e gli organismi che operano negli Istituti, a promuovere e ideare eventi, spettacoli, incontri, iniziative di confronto e dibattito "dentro e fuori" dagli Istituti. Per consentire la massima partecipazione si potranno promuovere manifestazioni nel periodo dal 20 marzo al 30 aprile 2017. Sarà a cura del Coordinamento redigere il programma/cartellone nazionale di tutte le iniziative realizzate, pubblicandole costantemente sul sito www.teatrocarcere.it. Il programma sarà pubblicizzato inoltre dai canali istituzionali del Dap e dall’Iti". "Le manifestazioni - sottolinea la nota - saranno seguite con attenzione anche dall’associazione nazionale dei Critici di Teatro e dalla rivista europea "Catarsi-Teatri delle diversità", animatrice della nascita del Coordinamento tra le esperienze. Le direzioni degli istituti penitenziari e i soggetti proponenti, sono invitati a comunicare il proprio programma di iniziative ed eventi ai seguenti indirizzi: stampa.dap@giustizia.it, teatrocarcereitalia@libero.it. Per informazioni è possibile contattare il segretario del Coordinamento, David Aguzzi, all’indirizzo: teatrocarcereitalia@libero.it". Camere Penali in protesta contro la fiducia sul voto del Ddl sul processo penale di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 7 marzo 2017 La Giunta: "niente udienze dal 20 al 24 marzo, manifestiamo contro una politica che si accinge alla gravissima scelta di porre la fiducia sul voto del ddl sul processo penale". Cinque giorni di astensione dalle udienze per protestare contro la scelta del Governo di mettere la fiducia al Ddl sul processo penale. È questa la risposta delle Camere Penali alla decisione del ministro della Giustizia Andrea Orlando di escludere la discussione in Parlamento su temi incandescenti come la riforma della prescrizione o quella delle intercettazioni telefoniche con riguardo alla possibilità di utilizzare il virus trojan. Fra i motivi di questa accelerazione, voluta espressamente da Orlando, gli avvocati vedono le imminenti primarie del Pd, alle quali il ministro vuole presentarsi con la riforma sul processo penale già approvata. "Il processo e i diritti dei cittadini non possono essere merce di scambio di alcuna contesa di potere e tanto meno ostaggi di conflitti di naturale elettorale", si legge nel comunicato a firma del presidente Beniamino Migliucci e del segretario Francesco Petrelli con cui si invitano gli avvocati ad astenersi, dal 20 al 24 marzo, dalle udienze e da ogni altra attività giudiziaria nel settore penale. Il 22 marzo è già in programma, poi, la manifestazione Nazionale a Roma. L’allungamento dei tempi della prescrizione è, come detto, uno degli argomenti sui quali gli avvocati hanno in questi anni cercato un confronto positivo con la politica, al fine di evitare che il dilagante populismo giudiziario minasse in radice le garanzie tipiche dello Stato di diritto. In un sistema dove i processi già adesso hanno una durata inconciliabile con il dettato Costituzionale, a causa dello "sproporzionato aumento delle pene edittali, si vogliono aumentare ancora di più questi tempi tramite irragionevoli meccanismi di sospensione", scrivono ancora gli avvocati penalisti. Altro aspetto dibattuto è il processo a distanza. In caso di imputati detenuti, per risparmiare sulle traduzioni, i dibattimenti si dovrebbero svolgere in video conferenza, privando così l’assistito del contatto con il proprio legale in aperta contraddizione anche con i principi base del processo accusatorio. Va detto, comunque, che prima della decisione di Orlando di porre la fiducia, il rapporto Camere penali e Governo era stato molto positivo. A Matera, in occasione dell’ultimo congresso delle Camere Penali, l’allora ex Vice Ministro della Giustizia Enrico Costa dichiarò che " è necessario andare a vedere dove maturano le prescrizioni. Abbiamo dei tribunali o delle Corti d’appello dove non ci sono, altri dove va in prescrizione il 50% dei processi. Queste situazioni hanno un’omogeneità in termini di personale e su questo occorre un esame puntuale. Fare un puro allungamento dei termini di prescrizione si tradurrebbe in un proporzionato allungamento dei tempi dei processi e questo nessuno lo vuole". "Magistrato dei migranti". Arrivano sezioni di tribunale specializzate di Marzia Paolucci Italia Oggi, 7 marzo 2017 Saranno sezioni di tribunale specializzate in immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini Ue, quelle previste dal Governo per "accelerare i procedimenti di protezione internazionale e per il contrasto dell’immigrazione illegale", recita il titolo del testo oggetto di decreto d’urgenza del Consiglio dei ministri il 17 febbraio scorso. Ora la parola passa alle Camere per la conversione in legge e non sarà così facile portare a casa la legge visto che già all’interno della magistratura e non solo, ci sono almeno un paio di visioni diverse sul tema. Con il rigetto della richiesta di protezione internazionale per il migrante da parte della Commissione territoriale, organo amministrativo coordinato dal Ministero dell’interno, il migrante può ricorrere alla magistratura di primo grado. E d’ora in avanti, a queste sezioni specializzate in immigrazione che dovranno dimostrare dimestichezza con i concetti di asilo politico rilasciato al riconoscimento dello stato di rifugiato, protezione sussidiaria o umanitaria. La loro competenza entra in gioco in caso di mancato riconoscimento del permesso di soggiorno, contro il provvedimento di allontanamento dal territorio nazionale per motivi di pubblica sicurezza, in caso di controversie su riconoscimento e revoca dello status di rifugiato o avente diritto a protezione sussidiaria o umanitaria. Il decreto legge numero 13/2017 conferisce ai loro magistrati competenze specifiche: frequenza di uno dei corsi ad hoc organizzati dalla Scuola superiore della magistratura o esperienza nella trattazione di cause analoghe in materia di protezione internazionale per almeno due anni. Le sedi di queste sezioni specializzate saranno quelle dei tribunali di Bari, Bologna, Brescia, Cagliari, Catania, Catanzaro Firenze, Lecce, Milano, Palermo, Roma, Napoli, Torino e Venezia. L’organizzazione delle sezioni spetterà al Consiglio superiore della magistratura. Il respingimento della richiesta di asilo nel nostro paese non sarà più appellabile, ci sarà un solo grado di giudizio, quello delle sezioni specializzate e poi la strada del ricorso in Cassazione esperibile entro trenta giorni dal decreto di rigetto. Si cerca così di velocizzare l’intero iter di attesa. I vecchi Cie - Centri di identificazione ed espulsione - saranno sostituiti dai Centri di permanenza per il rimpatrio che secondo quanto stabilisce l’articolo 19 del decreto, saranno distribuiti sull’intero territorio nazionale fuori dai centri abitati ma in siti facilmente raggiungibili. Se per Magistratura democratica il decreto legge è "un’occasione mancata per gravi criticità": uso di videoregistrazioni e salto dell’appello, a favore si schiera Magistratura Indipendente. "Bene", riporta una nota di Mi, "la creazione di 14 sezioni di tribunale specializzate prevista dal decreto legge, non risultano però aumenti di organico, di conseguenza occorrerà sostenere un carico maggiore nei tribunali in cui è stata accentrata la competenza". Prudente la posizione del Csm di cui è a breve atteso il parere sul decreto legge: "Siamo favorevoli alla specializzazione perché garantisce la qualità e la velocità della risposta giurisdizionale, va garantita in tutti gli Uffici anche in quelli che non vedranno l’istituzione della sezione specializzata per lo smaltimento dell’arretrato, così come il principio di non esclusività nell’attribuzione di questi affari", ha detto il consigliere Francesco Cananzi della settima commissione presentando le linee guida in tema di protezione internazionale". E sull’appello ha considerato: "Nel 2016 sono stati accolti il 35% dei procedimenti di primo grado e il 26% dei ricorsi in appello. C’è da chiedersi, alla luce del decreto Migranti, se il primo grado garantirà una qualità di risposta tale da sopperire alla mancanza del grado in appello. Su questo il consiglio si pronuncerà con un parere. Ma", anticipa, "resta un dato oggettivo: l’aumento dei rigetti da parte delle commissioni territoriali si traduce inevitabilmente nell’aumento dei ricorsi al tribunale". Assolto Morad, siriano accusato di terrorismo. Ora è nel Cie per essere espulso... in Siria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 marzo 2017 È stato assolto dopo un anno e due mesi di carcere con l’accusa di terrorismo, ma ora il 22enne siriano rischia di essere rimpatriato nel suo Paese di origine dov’è scappato dal regime di Assad. Si tratta di Morad Al Ghazawi ed era finito sulle pagine dei giornali come "l’uomo con il passaporto dell’Isis in tasca". Nel dicembre del 2015 sbarcò a Pozzallo su una nave con 534 migranti e l’accoglienza non è stata come l’avrebbe immaginata: fu arrestato con l’accusa di terrorismo e in particolar modo ritenuto di essere legato a una formazione jihadista vicina a Daesh. Le prove? Un documento in arabo ritenuto un "passaporto dello Stato Islamico" - poi rivelatosi una bufala - rinvenuto nel suo telefono e approssimative traduzioni di messaggi in arabo. Eppure, nonostante la precarietà delle prove, persino il procuratore nazionale dell’antimafia Franco Roberti aveva dedicato una pagina sul suo libro "Il contrario della paura" a questo caso di arresto per associazione con finalità di terrorismo internazionale: "Insomma, quest’uomo era quasi certamente un terrorista", così riassumeva soffermandosi sul passaporto. Il documento in questione, grazie ai giornalisti di Meridionews, in realtà si è scoperto che si trattava di una beffarda parodia on line che girava già dal 2014. Il giovane siriano sarebbe stato incastrato anche da un’altra presunta prova: la frase "Allah è grande, ma l’Isis di più", trovata anch’essa su un cellulare che aveva con sé. Ma, come hanno spiegato gli investigatori a Meridionews, "a pronunciarla non sarebbe stato l’arrestato". Altri errori si sono aggiunti a questa incresciosa vicenda. Murad Al Ghazawi, infatti, per la giustizia italiana è stato registrato come Mourad El Ghazzaoui, a causa di trascrizioni contrastanti realizzate dagli interpreti durante le procedure di identificazione al centro d’accoglienza di Pozzallo: il risultato è che per quasi un anno la famiglia che risiede in Germania non gli ha potuto fare visita in carcere, nonostante l’autorizzazione del giudice, a causa delle differenze tra il nome di Al Ghazawi e quello dei suoi familiari. Nonostante le prove che facevano acqua da tutte le parti, l’accusa dei pm era rimasta intatta fino alla fine. "L’imputato è inserito in un’organizzazione di matrice terroristica. Lo dicono i suoi contatti Facebook, gli scambi di messaggi con Abu Nader dei Martiri di Daraa che mostrano un’ispirazione consona a quella dell’Isis, le foto con le invocazioni ad Allah che, sebbene non terroristiche di per sé, rispondono a una certa ideologia". Il ragazzo, collegato in video conferenza dal carcere di Sassari, aveva provato a spiegare: "Sono foto dei nostri parenti e amici torturati e uccisi dal regime. Qualunque siriano le tiene sul cellulare per fare vedere al mondo cosa succede nella nostra terra". Un conflitto a cui ha preso parte anche Mofid Abu Nader, "un amico di famiglia, una persona normale fino a quando non ha dovuto imbracciare le armi per difendere la sua città dai militari di Assad". Intanto in aula venivano mostrati alcuni video custoditi dalla Digos di Ragusa e dalla polizia postale di Catania, tra i quali uno dove veniva mostrato un uomo travestito da terrorista, con una barba chiaramente finta, che tiene in mano due pugnali e un fucile, forse giocattolo, il quale dice in arabo qualcosa dal tono minaccioso. Fino a quando non esce di scena, sculettando in favore di telecamera. Una chiara parodia insomma. Tutte queste "prove" hanno portato il giudice ad assolvere il siriano. Però, come scrive Meridionews, il travaglio di Morad Al Ghazawi non finisce qui. Il giudice del tribunale di Caltanissetta, Giancarlo Cascino, pronuncia la sentenza di assoluzione per Morad Al Ghazawi e dispone la scarcerazione immediata e il rilascio del nulla osta per il decreto di espulsione. A quel punto viene accompagnato alla questura di Sassari per ricevere il documento di espulsione. Lì però qualcosa si inceppa e viene trattenuto per una giornata intera e ci passa anche la notte. Alla fine l’hanno trasferito nel Cie di Caltanissetta per essere identificato e poi espulso. Il timore è che possa essere rimpatriato in Siria dove è ricercato dal regime visto la sua reticenza alla leva e il fatto che i suoi familiari sono vicini all’esercito libero che si oppone ad Assad. "Al Ghazawi potrebbe chiedere l’accesso alla procedura di asilo con richiesta di rilocazione in un altro Paese europeo dove si trovano i familiari", spiega a Meridionews Fulvio Vassallo Paleologo, docente di Diritto d’asilo all’università di Palermo. Un adempimento che potrebbe essere disposto anche all’interno del Cie, trattandosi di un cittadino siriano in fuga dalla guerra. Dopo le stragi terroristiche, le normative in materia di attività di proselitismo, istigazione e apologia del terrorismo attraverso il web hanno subìto una stretta. Stando alle disposizioni del decreto antiterrorismo varato dall’allora ministro dell’interno Alfano, chi mantiene una condotta apologetica potrebbe dover rispondere di un reato con pene aumentate fino a due terzi nel caso in cui i reati di terrorismo siano compiuti attraverso strumenti informatici o telematici. Le manifestazioni di apprezzamento, o di adesione, attraverso l’apposizione del mi piace o del condividi (laddove si tratti di Facebook), ovvero della stellina o del retweet (laddove si tratti di Twitter) - secondo le direttive poste dalla Procura di Genova - possono costituire uno spunto investigativo suscettibile di approfondimento (attraverso accertamenti preliminari da adottare di iniziativa) sulla base di intese precostituite tra Polizia Postale e Digos. Insomma, scatta una indagine. Allo stato attuale non è chiarito se il coinvolgimento a pagine Facebook di gruppi terroristici sia effettivamente apologia o istigazione alla criminalità. Basta però un "mi piace" per costituire un viatico che conduce a step successivi di indagine: intercettazioni, perquisizioni, interrogatori. I più colpiti sono ovviamente gli extracomunitari. Casi del genere sono all’ordine del giorno. Problemi che però alcuni giudici cominciano a sollevare. Ad esempio, tre mesi fa, la corte d’Assise di Pisa, nell’assolvere un 26enne marocchino accusato di istigazione su Facebook, aveva ravvisato come "l’accresciuto coefficiente di angoscia collettiva", determinato da "concomitanti episodi delittuosi di tale matrice", avesse "pesantemente condizionato l’attività di indagine". Un condizionamento "probabilmente inconscio" che, per i giudici, avrebbe fatto interpretare i post sul web "fuori dal contesto, e alla luce di elementi di sospetto elevati al rango di verità indiscutibili" I magistrati e gli illeciti che copiano i peccati. Ecco quello di "protervia" di Stefano Zurlo Il Giornale, 7 marzo 2017 Non solo "traffico di influenze", la Corte dei conti lancia un’altra formula creativa. Dentista notissimo. Professore universitario e primario al San Gerardo di Monza. Pioniere nell’utilizzo delle cellule staminali per contrastare le malattie paradentali. Ma evidentemente troppo desideroso di monetizzare la propria abilità. La Corte dei conti della Lombardia scolpisce con parole efficaci e durissime la figura di questo cattedratico: "Dolo di protervia". Dove l’illecito ha i tratti drammatici e quasi irredimibili del peccato mortale. Tre parole che sono la pesantissima didascalia sotto il monumento "all’autorevolezza scientifica", l’espressione è coniata dalla stessa magistratura contabile, del camice bianco che per quattro anni, dal 2011 al 2014, ha violato le regole aprendo uno studio privato e raggiungendo fatturati stellari. Quasi sette milioni di euro. Numeri impressionanti, da industria, ma che fanno a pugni con gli impegni presi a suo tempo, quando il luminare si era impegnato a lavorare a tempo pieno per l’ospedale di Monza e l’università di Milano Bicocca. Eppure la catena di montaggio, aperta contro le regole, è andata avanti per un quadriennio finché il doppio regime "abusivo" è stato scoperto da un controllo dei Nas. E ora la sentenza si abbatte con furia linguistica, raffinata ma forse sopra le righe, sul docente trasformandolo con quell’immagine quasi dantesca nell’icona dell’arroganza che disprezza le leggi e le piega alla propria convenienza e al proprio tornaconto: "Disattendere e aggirare il limpido e univoco quadro normativo in materia, non trova giustificazioni, scusanti o esimenti sotto alcun profilo, configurando un vero e proprio dolo di protervia, ascrivibile a chi pur avendo effettuato una volontaria e testuale scelta per il regime intramoenia non vi si conformi doverosamente". Insomma, la colpa del professore è quella di aver giocato su due tavoli, firmando un’esclusiva a tempo pieno con l’ospedale e l’università, che infatti lasciano spazi per la professione privata, ma poi aprendo una struttura in concorrenza con gli stessi. Nessuna evasione fiscale, per capirci, ma semmai una truffa, reato per cui il professore era stato indagato dalla Procura in un’indagine poi archiviata. In ogni caso il primario - prosegue il verdetto - "ha cumulato illegittimamente benefici economici retributivi di status a tempo pieno e di esclusiva intramoenia, con attività esterne espletabili semplicemente, legittimamente optando per altro regime a tempo definito, extramoenia". Al di là delle formule latineggianti e un tantino ostiche, si capisce che il primario si considerava un talento al disopra della norma e come tale si comportava. Sommando l’intramoenia all’extramoenia. Ora arriva il conto. Salatissimo e in linea con gli incassi record del luminare. Il professore dovrà versare all’Università di Milano Bicocca 3.970.169,46 euro a fronte di un fatturato complessivo, nel quadriennio sotto esame, di 6.971.324,77 euro. Non basta perché altre voci, a cominciare dal danno patito dal San Gerardo, vengono conteggiate dai giudici contabili nel verdetto. Importi molto meno rilevanti, ma il totale supera ampiamente il muro dei 4 milioni di euro. Con ogni probabilità il dentista cercherà di fermare la macchina dello Stato, giocando la carta dell’ appello. Si vedrà. Resta quella definizione, "dolo di protervia", che sembra figlia dell’indignazione, la interpreta e quasi la cavalca. Fino a marchiare, ai confini fra diritto e etica, il condannato. Chi abusa di alcol e assume droga non può patteggiare di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2017 Giudice per le indagini preliminari di Genova, ordinanza 7 febbraio 2017. Le pene precedenti all’entrata in vigore (25 marzo 2016) dell’omicidio stradale consentivano di irrogare sanzioni adeguate alla gravità dei fatti e alla successiva condotta di vita del suo autore. Con buona pace di chi ha invocato norme più severe, lamentando impunità diffusa causata da pene troppo basse ed eccessiva discrezionalità dei giudici. Questa è la riflessione che stimola una recente ordinanza (7 febbraio 2017), pronunciata dal giudice per l’udienza preliminare di Genova, Cinzia Perroni, nell’ambito di un processo per un incidente mortale del gennaio 2016: come da richiesta dell’avvocato di parte civile, Giuseppe Maria Gallo, è stata respinta la richiesta di patteggiamento a due anni di reclusione, con pena sospesa e concessione delle attenuanti generiche, avanzata - col parere favorevole della Procura - da un imputato abituale assuntore di alcol e droghe che, guidando con valori molti alti di alcol nel sangue, aveva causato la morte di una persona. Le pene previste dell’omicidio stradale non sono applicabili ai fatti precedenti al 25 marzo in virtù del favor rei. Ma l’ordinanza genovese è la prova che le vecchie pene - che rimangono applicabili agli incidenti stradali mortali verificatisi ante 25 marzo - non precludevano sanzioni in concreto adeguate alla gravità del reato. L’articolo 589, comma 3, del Codice penale prevedeva il carcere da tre a 10 anni per chi cagionava la morte di una persona con violazione di norme sulla circolazione stradale e assunzione di alcol e/o droghe. In base a tale premessa, il giudice genovese ha ritenuto che, nel caso concreto: la pena base concordata da accusa e difesa non era "congrua all’estrema gravità del fatto"; non c’erano i presupposti per concedere le attenuanti generiche all’imputato, non essendoci "motivi diversi dalla semplice incensuratezza"; non poteva essere riconosciuta l’attenuante del risarcimento del danno "in assenza di documentazione che lo comprovi". Ma è alla valutazione delle condotta di vita dell’imputato successiva all’incidente mortale che il giudice dedica maggiore analisi critica, spiegando efficacemente le ragioni del no alla sospensione condizionale della pena. Non sono infatti emerse "sufficienti garanzie che l’imputato si asterrà in futuro dalla commissione di ulteriori reati". Ciò in quanto "è soggetto dedito all’assunzione smodata di alcolici e di sostanze stupefacenti" e non è risultato che "abbia intrapreso un percorso di riabilitazione tale per cui possa escludersi il rischio di reiterazione di comportamenti analoghi", nonostante "precedenti di polizia per manifesta ubriachezza, detenzione di sostanze stupefacenti e furto aggravato ed essere stato contravvenzionato moltissime volte per violazioni al Codice della strada". Le vecchie norme potevano dunque offrire un’adeguata risposta a un fenomeno di grave allarme sociale come le morti su strada, lasciando però al giudice la necessaria discrezionalità per calibrare la pena in modo proporzionato alla gravità del reato e alla condotta successiva dell’imputato. Come prevede la finalità rieducativa che la Costituzione attribuisce alla pena. Nello stesso tribunale ne bis in idem anche con sentenza non definitiva di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2017 Tribunale di Genova - Sentenza del 27 gennaio 2017 n. 67. Anche se la sentenza è stata appellata, e dunque non è definitiva, si applica il principio del ne bis in idem qualora i processi oltre a riguardare il medesimo fatto e la medesima persona provengano dallo stesso ufficio del Pm e siano giudicati da magistrati della stessa sede. Lo ha stabilito il Tribunale di Genova, con la sentenza del 27 gennaio 2017 n. 67, dichiarando non promuovibile l’azione penale per percosse contro la moglie nei confronti di un marito separato. L’imputato era accusato di aver colpito, il 2 dicembre 2011, la moglie con pugni e schiaffi, strattonandola e sollevandola di peso, così procurandole lesioni personali guaribili in cinque giorni, ed anche per aver appeso ai mobili fogli dattiloscritti contenti minacce, quali:"non ti darò pace neanche quando sarai morta sarò il tuo incubo peggiore". E la persona offesa, nel dibattimento, aveva confermato di essere stata picchiata ed intimidita dal marito con cui era sposata dal 1984 e da cui si era separata, senza divorziare, nel 2010. Il difensore, però, nel corso del procedimento ha prodotto la sentenza del 18 aprile 2016 n. 1820, emessa sempre dal tribunale di Genova "per più fatti analoghi a quelli per cui oggi si procede, sempre in danno dell’ex coniuge, in un periodo compreso dall’agosto 2011 al maggio 2012". Tuttavia, osserva il Tribunale, contro tale sentenza è stato proposto appello. Ora, come è noto, il giudicato penale, o principio del ne bis in idem, garantisce all’imputato già condannato o assolto "con sentenza definitiva" di non essere di nuovo processato per il medesimo fatto. E le Sezioni Unite (n. 34655/2005) hanno escluso l’applicabilità del principio alle sentenze non ancora passate in giudicato, ritenendo imprescindibile il requisito. Secondo un altro orientamento di legittimità "quando pendono più procedimenti in fasi diverse contro lo stesso imputato e per il medesimo fatto, è competente il giudice del processo che si trova nella fase più avanzata, disponendosi l’unificazione dei procedimenti mediante assorbimento, così applicando il criterio della progressione". Tale orientamento però è stato censurato sempre dalla Cassazione che ha rilevato come la disciplina degli articoli 28 seguenti del Cpp, per i conflitti di giurisdizione e competenza, "è dettata per regolare i casi di contemporanea pendenza di identici procedimenti innanzi a sedi diverse, e non già in fasi o gradi diversi (o giudici) della medesima sede giudiziaria". Come nel caso affrontato, in cui c’è la "contemporanea pendenza di identici processi nei confronti dello stesso imputato, in gradi diversi (Tribunale e Corte di Appello) della medesima sede". Il Tribunale ha dunque applicato il principio per cui "le situazioni di litispendenza, non riconducibili nell’ambito dei conflitti di competenza (di cui all’art. 28 c.p.p.), devono essere risolte dichiarando nel secondo processo, pur in mancanza di una sentenza irrevocabile, l’impromovibilità dell’azione penale in applicazione della preclusione fondata sul principio generale del ne bis in idem, sempreché i due processi (come nel caso in esame) abbiano ad oggetto il medesimo fatto attribuito alla stessa persona, siano stati instaurati ad iniziativa dello stesso ufficio del pubblico ministero e siano devoluti, anche se in fasi o in gradi diversi, alla cognizione di giudici della stessa sede giudiziaria". Per cui il giudice ha dichiarato il "non luogo a procedere per impromovibilità dell’azione penale nei confronti dell’imputato già giudicato per gli stessi fatti con sentenza del tribunale di Genova, sezione monocratica, numero 1820 del 24 marzo 2016". Niente sospensione dalle funzioni per il sindaco di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2017 Corte di cassazione - Sentenza 10940/2017. Non ci sono margini. La sospensione dalla funzione di sindaco non è possibile. Neppure dopo la legge Severino e la ancora più recente riforma dei reati contro la pubblica amministrazione. Il Codice penale parla chiaro e vieta l’applicazione della misura per tutti gli "uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare". Lo chiarisce, con una punta di rammarico, una Corte di cassazione che, con la sentenza n. 10940 depositata ieri, ha annullato l’ordinanza del giudice del riesame di Bari che aveva invece sospeso dall’esercizio delle funzioni di sindaco un politico al quale erano contestati i reati di induzione indebita e violenza privata. La Cassazione mette in evidenza come la disposizione, articolo 289,comma 3 del Codice di procedura penale, sia estremamente stringente e, nello stesso, tempo, abbia sollevato nella dottrina un dibattito acceso. Si introduce infatti una sorta di immunità o esenzione dalla misura interdittiva proprio in un settore come quello dei delitti contro la Pa dove, più di altri forse, l’applicazione della sospensione potrebbe avere un’efficacia importante. A volere tacere dell’incoerenza di un sistema che ammette nei confronti dei titolari di uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare forme di restrizione della liberta personale anche detentive e, nello stesso tempo, lascia in vigore una sorta di "scudo" da provvedimenti interdittivi. Certo, la Cassazione si è mossa per un bilanciamento tra rispetto della volontà legislativa e tutela del principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. La norma del Codice non può cioè essere interpretata, avverte la sentenza, come una sorta di salvacondotto cautelare. E tuttavia la disposizione è passata indenne attraverso i due principali interventi di riforma che hanno investito la materia in questi anni: la legge Severino e la legge n. 47 del 2015. Il riesame di Bari, dopo aver valutato l’esistenza degli indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari, ha ritenuto sufficiente applicare una misura interdittiva al posto di quella più pesante, detentiva, chiesta dal pm. Ha cioè applicato la sospensione, ritenendo che le condotte delittuose poste in essere, secondo il quadro accusatorio, fossero legate in maniera indissolubile all’esercizio della funzione. Un errore che non può non essere corretto e che porta all’annullamento dell’ordinanza, anche perché il divieto ha una portata ampia e si estende anche ai casi in cui la sospensione è adottata al posto di un’altra misura coercitiva precedentemente adottata. Gli elementi distintivi della frode informatica quale autonoma figura di reato Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2017 Reati contro il patrimonio - Delitti contro il patrimonio mediante frode - Frode informatica - Configurabilità - Alternatività delle condotte fraudolente - Contenuti. Il reato di frode informatica, di cui all’art. 640-ter del codice penale, si caratterizza, rispetto al reato di truffa, per la specificazione delle condotte fraudolente. Sono previste infatti due distinte condotte alternative: la prima è finalizzata ad alterare, in qualsiasi modo, il funzionamento di un sistema informatico o telematico; la seconda si concretizza invece in un intervento sine iure con qualsiasi modalità su dati, informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico. Alla prima fattispecie sono riconducibili tutte le ipotesi in cui viene compromesso il regolare svolgimento di un sistema informatico o telematico, mentre la seconda si concretizza in una illecita condotta intrusiva ma non alterativa del sistema stesso. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 24 febbraio 2017 n. 9191. Reati contro il patrimonio - Delitti contro il patrimonio mediante frode - Frode informatica - Configurabilità - Fattispecie. Incorre nel reato di frode informatica colui che, servendosi di una carta di credito falsificata e di un codice di accesso fraudolentemente captato in precedenza, penetri abusivamente in un sistema informatico bancario ed effettui illecite operazioni di trasferimento fondi, tra cui quella di prelievo di contanti attraverso i servizi di cassa continua. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 9 novembre 2016 n. 46981. Reati contro il patrimonio - Delitti contro il patrimonio mediante frode - Frode informatica - Configurabilità - Fattispecie. Risponde del reato di ricettazione chi acquisti una macchina da gioco elettronico il cui sistema telematico sia stato alterato ex articolo 640 ter c.p., senza aver concorso nel suddetto reato. Ove, il suddetto soggetto, successivamente, utilizzi quella macchina, risponde anche del reato di frode informatica posto che la condotta di alterazione del sistema telematico si realizza ogni volta che si attivi il meccanismo fraudolento da altri installato consentendo, quindi, all’agente di procurare a sé un ingiusto profitto con altrui danno. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 23 dicembre 2016 n. 54715. Reati contro il patrimonio - Delitti contro il patrimonio mediante frode - Frode informatica - Configurabilità - Intervento senza diritto su dati e informazioni contenuti in un sistema informatico - Fattispecie. Nel reato di frode informatica, la seconda delle due condotte alternative previste dall’articolo 640-ter c.p. è costituita dall’intervento "senza diritto con qualsiasi modalità su dati, informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico (...)": si tratta di un reato a forma libera che, finalizzato pur sempre all’ottenimento di un ingiusto profitto con altrui danno, si concretizza in una illecita condotta intensiva ma non alterativa del sistema informatico o telematico". (Nel caso di specie la Suprema Corte ha ritenuto sussumibile nella suddetta ipotesi la condotta di un dipendente dell’Agenzia delle entrate, che, sebbene detenesse la password che gli consentiva l’accesso al sistema informatico, non aveva certamente "il diritto" di manomettere la posizione contributiva dei contribuenti effettuando degli sgravi non dovuti e non giustificati dalle evidenze in possesso dell’Agenzia delle Entrate. La Corte ha altresì ritenuto che non potesse dubitarsi che tale condotta fosse destinata a realizzare un ingiusto profitto, se non direttamente all’agente, quanto meno ai contribuenti beneficiati dagli sgravi fiscali illecitamente operati, con corrispondente danno per l’erario). • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 22 marzo 2013 n. 13475. Reati contro il patrimonio - Delitti contro il patrimonio mediante frode - Frode informatica - Alterazione di sistema informatico - Configurabilità - Delitti di danneggiamento informatico - Differenze. Per alterazione di un sistema informatico, inteso come complesso di apparecchiature destinate a compiere una qualsiasi funzione utile all’uomo, attraverso l’utilizzazione (anche parziale) di tecnologie informatiche, deve intendersi ogni attività o omissione che, attraverso la manipolazione dei dati informatici, incida sul regolare svolgimento del processo di elaborazione e/o trasmissione dei suddetti dati, quindi, sia sull’hardware che sul software. In altri termini, il sistema continua a funzionare, ma in modo alterato rispetto a quello programmato: il che consente di differenziare la frode informatica dai delitti di danneggiamento informatico (artt. 635-bis, 635-ter, 635-quater e 635-quinquies c.p.) non solo perché in quest’ultimi manca ogni riferimento all’ingiusto profitto ma anche perché l’elemento materiale dei suddetti reati è costituito dal mero danneggiamento dei sistemi informatici o telematici e, quindi, da una condotta finalizzata ad impedire che il sistema funzioni o perché il medesimo è reso inservibile (attraverso la distruzione o danneggiamento) o perché se ne ostacola gravemente il funzionamento. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 22 marzo 2013 n. 13475. Reati contro il patrimonio - Delitti contro il patrimonio mediante frode - Frode informatica - Truffa - Elementi distintivi - Soggetto passivo - Ingiusto profitto - Elemento comune. Il reato di frode informatica si differenzia dal reato di truffa perché l’attività fraudolenta dell’agente investe non la persona (soggetto passivo), di cui difetta l’induzione in errore, bensì il sistema informatico di pertinenza della medesima, attraverso la manipolazione di detto sistema. Anche nel reato di frode informatica, quindi, l’ingiusto profitto costituisce elemento costitutivo. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 11 marzo 2011 n. 9891. Roma: suicida in cella, allarme inascoltato di Michela Allegri Il Messaggero, 7 marzo 2017 Pochi giorni prima che Valerio G. si togliesse la vita un perito psichiatrico lo aveva definito "ad alto rischio". La Procura indaga per accertare eventuali responsabilità: il ventenne era a Regina Coeli ma doveva essere in una Rems. Una tragedia annunciata. Un allarme rimasto inascoltato, lanciato da un perito in un’aula di tribunale. Il suicidio di Valerio G., il ventiduenne che si è tolto la vita a Regina Coeli il 24 febbraio, poteva forse essere evitato. Agli atti dell’inchiesta del pm Attilio Pisani, che procede per omicidio colposo, è finita una denuncia shock depositata dal legale di Valerio, l’avvocato Claudia Serafini. Il 14 febbraio, durante un’udienza a carico del ragazzo, il perito psichiatrico Gabriele Mandarelli ha dichiarato a verbale che il giovane era "ad alto rischio suicidario", una condizione che lo rendeva incompatibile con il regime carcerario. Lo stesso specialista era stato ancora più esplicito nel settembre 2016, quando il ventiduenne era stato arrestato dopo essere fuggito da una comunità di recupero. In quell’occasione, lo psichiatra aveva visitato Valerio, che gli aveva parlato di precedenti tentativi di suicidio. Il medico aveva scritto in una perizia che "la letteratura scientifica è chiara: i soggetti che arrivano a un suicidio, prima hanno messo in atto dei gesti dimostrativi". Per lo specialista, sul banco degli imputati c’era un ragazzo problematico, con le spalle appesantite da un passato tormentato. Nel 2014, il giovane era stato dichiarato incapace di intendere e di volere dal perito nominato dal Tribunale dei minorenni. Due anni dopo, nel 2016, la Corte d’Appello era arrivata alla stessa conclusione: Valerio era stato assolto dall’accusa di rapina per vizio totale di mente. I giudici lo avevano quindi mandato in comunità. Nel settembre dello scorso anno era fuggito, ed era stato fermato al termine di un inseguimento da film. Processato per resistenza a pubblico ufficiale, il 14 febbraio è stato condannato a 4 mesi di reclusione con rito abbreviato. Valerio avrebbe dovuto scontare la pena in una Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza. In questa fase, per la Procura, potrebbe essere stato commesso un errore macroscopico. Visto che nella Rems non c’era posto, la Polizia Penitenziaria ha trasferito il ragazzo a Regina Coeli. Venti giorni dopo l’ultima udienza, il giovane si è tolto la vita. I punti da chiarire sono tanti. La Procura indaga su possibili falle nel sistema di sicurezza del carcere. Valerio, infatti, era sottoposto a regime di massima sorveglianza, che impone controlli ogni 15 minuti da parte degli agenti penitenziari. Nessuno si è accorto che, durante la notte, Valerio ha legato le lenzuola a forma di cappio progettando di uccidersi. A scoprire il cadavere, i compagni di cella del ventiduenne, due ragazzi italiani che sono già stati ascoltati dai carabinieri nel Nucleo di polizia giudiziaria di piazzale Clodio. I detenuti hanno raccontato che, mentre Valerio si toglieva la vita, entrambi stavano dormendo. Uno dei due ha sentito un rumore e si è svegliato. Ha tentato di salvare il ragazzo, ma era troppo tardi. I militari stanno anche sentendo gli agenti e a breve depositeranno al pm un’informativa. "Durante l’ultima udienza ho espressamente chiesto che Valerio venisse mandato ai domiciliari. Ora la Procura dovrà stabilire se esitano responsabilità", ha dichiarato l’avvocato Serafini. Roma: detenuto morto suicida, l’ipotesi dei mancati controlli ogni 15 minuti di Giulio De Santis Corriere della Sera, 7 marzo 2017 La certezza sono i pochi istanti impiegati a morire. Il dubbio è come V.G., il ragazzo affetto da seri problemi psichici suicidatosi il 24 febbraio nella sua cella di Regina Coeli, sia riuscito trovare il modo e il tempo di eludere la sorveglianza del personale carcerario, obbligato a controllare ogni quarto d’ora cosa facesse in cella. La tesi del pm Attilio Pisani è che i tempi tra una verifica e l’altra non siano stati rispettati. Una distrazione fatale che avrebbe consentito al 22enne di prepararsi a togliersi la vita legando alla grata del bagno un brandello di lenzuola con l’obiettivo portato a termine con successo di impiccarsi. L’ipotesi d’accusa dell’inchiesta, ancora senza indagati, è di omicidio colposo per omissione. Lo stato di salute mentale del ragazzo era precario: ecco perché era stata imposta la grande sorveglianza che prevede controlli in cella ogni 15 minuti da parte della polizia penitenziaria. E a rileggere cosa avvenne durante l’ultima udienza del processo dove V. era imputato, sembra di essere al cospetto della cronaca di una morte annunciata con dieci giorni d’anticipo. Era il 14 febbraio quando Gabriele Mandarelli, l’esperto nominato dal giudice monocratico per la redazione di una perizia psichiatrica su V., disse che "il paziente è ad alto rischio suicidario". Parole ponderate: lo specialista sapeva che il ragazzo aveva un passato tormentato fin dall’adolescenza. Il giovane era accusato di resistenza, lesioni e danneggiamento compiuti durante una fuga da una comunità terapeutica. Condannato alla fine del processo a 4 mesi con rito abbreviato, il giudice Anna Maria Pazienza ne aveva stabilito la scarcerazione, disponendo la misura di sicurezza di 6 mesi presso il Rems (Residenza esecuzione misure di sicurezza, struttura di detenzione alternativi al carcere). Il giovane fu ricondotto invece a Regina Coeli, nonostante la decisione diversa del magistrato. Perché? Domanda cui dovrà dare una risposta il pm, sapendo che il legale di V., l’avvocato Claudia Serafini, temeva per il ritorno in carcere del suo assistito. Il difensore aveva presentato un’istanza affinché il ragazzo trascorresse il periodo di attesa in casa. Un suggerimento che, se adottato secondo l’avvocato Serafini, avrebbe evitato il dramma. Sant’Angelo dei Lombardi (Av): varato il Protocollo per il reinserimento dei detenuti Il Mattino, 7 marzo 2017 La Casa circondariale di Sant’Angelo dei Lombardi diventa struttura pilota a livello nazionale per sperimentare i servizi di supporto per l’inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro. Il Ministero della Giustizia ha disposto la costituzione di un gruppo di lavoro nazionale, "avente il precipuo compito di attuare e monitorare, presso gli istituti penitenziari pilota di Trani, Sant’Angelo dei Lombardi e Milano Opera, la sperimentazione delle modalità di applicazione del decreto legislativo 150/2015", si legge nel provvedimento del presidente di Palazzo Caracciolo, Domenico Gambacorta, relativo alla sottoscrizione di un protocollo d’intesa tra le Province, alle quali afferiscono i Centri per l’Impiego territorialmente competenti, e i penitenziari interessati, "al fine di approfondire eventuali criticità riscontrabili nell’attuazione della riforma del lavoro in ambito penitenziario". Nel progetto che riguarda l’Irpinia è stato previsto anche il coinvolgimento del garante provinciale dei detenuti, Carlo Mele. Con cadenza settimanale, un addetto del Centro per l’impiego di Sant’Angelo dei Lombardi incontrerà gli ospiti del penitenziario per effettuare colloqui di orientamento finalizzati ad individuare percorsi per l’inserimento nel mondo del lavoro. Al detenuto saranno offerti anche altri servizi che riguardano l’assistenza a trecentosessanta gradi. Dall’iscrizione alle liste per Garanzia Giovani, alla richiesta dell’assegno di ricollocamento. Sono previste, inoltre, iniziative di carattere formativo. Tutte attività di supporto che potranno essere utili agli ospiti della casa circondariale altirpina per trovare occupazione o attingere ai sussidi di disoccupazione. Dopo la fase di sperimentazione, i servizi "secondo i piani del Ministero della Giustizia" dovrebbero entrare a regime in tutte le carceri. Il protocollo d’intesa è stato sottoscritto tra il presidente della Provincia, Domenico Gambacorta, e il direttore della casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, Massimiliano Forgione. Il penitenziario si conferma struttura modello a livello nazionale per il reinserimento sociale dei detenuti, molti dei quali sono già impegnati in attività lavorative all’interno del penitenziario che vanno dalle arti tipografiche, alla ceramica, fino alla produzione di vini. Monza: la Commissione regionale in visita al carcere "bene l’attenzione ai detenuti" omnimilano.it, 7 marzo 2017 La Commissione Speciale per la situazione carceraria in Lombardia, presieduta da Fabio Fanetti (Lista Maroni), ha visitato questa mattina la casa circondariale di Monza. Erano presenti i Consiglieri Mario Mantovani (Forza Italia), Carolina Toia (Lista Maroni), Michele Busi (Patto Civico), Paola Macchi (M5S), Laura Barzaghi ed Enrico Brambilla (Pd). A fornire i dati sulla situazione del penitenziario e a rispondere alle domande dei consiglieri erano presenti la direttrice del carcere, Maria Pitaniello e Francesca Valenzi, direttrice dell’Ufficio detenuti e trattamento del Prap. La visita era stata richiesta dalla Consigliere Paola Macchi anche per un confronto sul numero dei suicidi. "Dal 2011 ad oggi si sono verificati 3 episodi", hanno chiarito Pitaniello e Valenzi, di fatto smentendo alcuni dati circolati nei mesi scorsi che parlavano di 8 decessi per suicidio negli ultimi cinque anni (ai 3 detenuti che si sono tolti la vita, vanno poi sommati altri 6 decessi dal 2011 per cause naturali). Dopo l’episodio di novembre 2016 è stata aumentata la presenza di medici psichiatri, mentre le ore di supporto psicologico sono sempre state in linea con i protocolli. Attualmente il carcere di Monza accoglie 626 detenuti (nel 2011 erano 888): di questi il 50% sono stranieri (comunitari ed extracomunitari). Oltre 300 detenuti sono tossicodipendenti. 70 reclusi sono occupati in attività lavorative, altri 50 saranno a breve impegnati in un servizio di call center. Tra i servizi che occupano i detenuti figurano la lavanderia, il pastificio, la sartoria, un reparto assemblaggio. I periodi di permanenza all’esterno delle celle, che coinvolgono la quasi totalità della popolazione carceraria, variano da 5 a 12 ore giornaliere e prevedono diverse attività socio-ricreative, alcune programmate ad hoc per detenuti con disagio psichico (danza-terapia e arte-terapia). 286 detenuti stanno scontando una pena definitiva, la maggior parte dei restanti sono in attesa di giudizio. Oltre all’assistenza psicologica fornita all’interno per detenuti e personale, è attivo uno sportello psicologico per gli agenti di polizia penitenziaria e per il personale del carcere presso l’ospedale San Gerardo di Monza. 34 i detenuti attualmente ospitati presso il reparto infermeria. "La situazione è sotto controllo sia dal punto di vista organizzativo che dell’attenzione agli aspetti sanitari e psicologici, anche grazie alla stretta e preziosa collaborazione con Ats e Asst - ha dichiarato il Presidente della Commissione Fabio Fanetti. Positive sono le possibilità di lavoro offerte all’interno della struttura e anche il sostegno ai detenuti attraverso i laboratori di danza e arte. Dal 1 marzo sono state potenziate le ore di presenza di psichiatri che affiancano il lavoro degli psicologi, e questo è un aspetto fondamentale dell’assistenza. Le inevitabili criticità di queste strutture, non devono far passare in secondo piano la qualità del lavoro messo in campo dalla direttrice, dalla Polizia penitenziaria, dai medici e da tutto il personale occupato. Non dimentichiamo che la progressiva chiusura degli Opg ha riversato in carcere molte situazioni delicate". Sondrio: un pastificio gestito dai detenuti, l’esperimento della Casa circondariale Adnkronos, 7 marzo 2017 Sarà presentato al pubblico mercoledì 8 marzo il pastificio già operativo all’interno della casa circondariale di Sondrio. L’appuntamento è alle ore 19.30 a Sondrio in località Sassella presso il ristorante "La Spia", dove si terrà anche una degustazione guidata dallo chef Marcello Ferrarini con la collaborazione di quattro persone detenute che hanno seguito il corso di formazione. Il presidente della Commissione speciale Carceri lombarda Fabio Fanetti ha aderito all’iniziativa rivolgendo "un plauso alla direttrice e agli imprenditori coinvolti; la formazione dei detenuti e il loro reinserimento nella società - ha detto Fanetti - sono fattori importanti e qualificanti. Tutto questo lavoro influisce sulla riduzione della recidiva e quindi porta benefici sia ai detenuti che allo Stato perché comporta una sensibile riduzione dei reati e quindi anche un importante risparmio sulla spesa pubblica". È un progetto "molto significativo che ha visto il lavoro di tanti operatori e di tante agenzie esterne. Bim Adda, Fondazione Pro Valtellina e Confartigianato hanno sostenuto concretamente e con entusiasmo la Cooperativa Ippogrifo", sottolinea la direttrice della casa circondariale di Sondrio Stefania Mussio. "Abbiamo voluto realizzare un prodotto di qualità, che fosse fin da subito inteso come un ‘buon prodottò: vorremmo pertanto che le persone del territorio, che possono avere un interesse nella distribuzione e nella pubblicità del prodotto, possano conoscerlo, gustarlo, apprezzarlo e così stimolarne la vendita e la diffusione", conclude. Il progetto del pastificio ha avuto inizio anni fa con una riconversione di una autorimessa su iniziativa del Provveditorato di Milano e della Provincia di Sondrio. La cooperativa Ippogrifo a cui è affidata la gestione dell’attività ha accolto con favore l’invito del carcere e delle istituzioni locali a impiegare personale detenuto, con risultati da subito significativi e incoraggianti. Bollate (Mi): detenuti in libera uscita per azioni di volontariato di Edoardo Stucchi recsando.it, 7 marzo 2017 Continua nel carcere di Bollate il progetto di rieducazione dei reclusi. Dopo le iniziative sporadiche all’Idroscalo e per l’emergenza profughi ora gli "articoli 21" lavorano all’oratorio di Bruzzano. Il carcere di Bollate si rivela sempre più un luogo di rieducazione piuttosto che di costrizione. Lo dimostrano le numerose attività alle quali partecipano i detenuti, non soltanto all’interno dell’ospedale, ma anche all’esterno. A confermare la tendenza di questo carcere modello è stata la visita di uno chef stellato come Carlo Cracco al ristorante gestito dai detenuti che si chiama "In Galera", che ha conquistato le pagine di giornali di tutto il mondo, oltre a migliaia di commensali che in un anno hanno frequentato e gustato i cibi del ristorante dietro le sbarre. Ma poiché lo spirito di chi dirigeva prima il carcere (Lucia Castellino) e ora (Massimo Parisi) è di imparare un lavoro dentro per costruirne uno fuori, alcuni detenuti, grazie alla libertà che concede loro l’art. 21, hanno fondato l’Associazione articolo 21 e gestiscono all’esterno attività di solidarietà. I beneficiari sono i parrocchiani della chiesa della Beata Vergine Assunte nel quartiere Bruzzano di Milano. Grazie all’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, infatti, i detenuti nel percorso di rieducazione, possono svolgere attività lavorativa fuori dal carcere, in seguito a una verifica dei requisiti da parte del direttore del carcere e del giudice di sorveglianza. E a Bollate questa possibilità è una prassi e ormai i detenuti che ne usufruiscono dicono "sono un articolo 21". La scoperta del volontariato l’hanno fatta alcuni detenuti che l’anno scorso sono andati a pulire l’Idroscalo. Dopo questa esperienza, alcuni di loro si sono chiesti se era possibile fare opera di volontariato con continuità. La risposta è stata affermativa e sostenuti dalla loro educatrice e con il permesso del direttore del carcere, i detenuti hanno fondato l’Associazione articolo 21 che ha permesso loro di conoscere dal 2014 ad oggi alcune realtà della parrocchia di Affori e di Bruzzano in occasione dell’emergenza profughi, opera che è continuata nel 2015 e nel 2016 all’oratorio di Bruzzano, istituzione che si è da subito resa disponibile per accogliere i profughi. Da queste esperienze sporadiche è nata un’attività di supporto continuativa presso l’oratorio di Bruzzano che ha affidato loro la pulizia dei locali dell’oratorio, del palazzetto dello sport, degli spogliatoi, il taglio dell’erba, l’imbiancatura e la manutenzione muraria di alcuni locali. Nessuno di loro si è tirato indietro quando c’è stato da pulire da masserizie gli scantinati dell’oratorio. Ora due volontari detenuti vanno in oratorio il martedì e il giovedì per 3 ore, mentre al sabato ne arrivano sei e ci stanno tutto il giorno, pranzo compreso con volontari della parrocchia. In qualche caso i detenuti possono incontrare qui i parenti. Ma chi sono questi detenuti in semi libertà? Sono uomini dai 24 ai 66 anni e per molti di loro è la prima uscita dal carcere dopo 6-7 anni di reclusione. Alcuni sono schivi nei rapporti con la popolazione, altri sono più espansivi, ma di fatto sono contenti dell’accoglienza che ricevono. Si sentono come a casa e sono nate molte relazioni di amicizia e stima. In un primo tempo la partecipazione a questa iniziativa è stata presa da alcuni di loro come un modo per "evadere" dal carcere, ma poi si sono resi conto dell’aria serena che si respira in oratorio e per loro è diventato un impegno sacrosanto. Roma: ha 80 anni l’angelo dei bimbi in cella che "regala" la vita di Viviana Daloiso Avvenire, 7 marzo 2017 Gioia Passarelli, una passione sconfinata per i bambini che vivono in carcere con le madri. Abitano le periferie esistenziali della Terra: la quotidianità nelle carceri, il dramma dei migranti, la solitudine delle donne vessate dalla violenza, la desolazione dei luoghi distrutti dalle calamità naturali. E con la loro forza sincera e instancabile di donne, di madri, di sorelle, quelle periferie le cambiano, le rinnovano. C’è un universo femminile che l’8 marzo andrebbe festeggiato per quel che di più fa per il mondo, non per quel che di meno dal mondo riceve. In questo universo la battaglia per farsi sentire è per i diritti degli altri, da difendere a costo della vita, e della vita intera. "La donna è per portare armonia - ha detto papa Francesco qualche settimana fa -. Senza la donna non c’è armonia. Uomo e donna non sono uguali, non sono uno superiore all’altro: no. Soltanto che l’uomo non porta l’armonia: è lei. È lei che porta quella armonia che ci insegna ad accarezzare, ad amare con tenerezza e che fa del mondo una cosa bella". Ecco la storia di Gioia Passarelli, l’angelo dei bimbi in cella. A ottant’anni, Gioia Passarelli, ci è arrivata "perché mi sono dedicata agli altri sempre". Giorno e notte la parola rimbomba in testa, "gli altri", da quella benedetta estate del 1984 in cui la sua vecchia compagna di liceo, nel frattempo diventata vicedirettrice del carcere di Rebibbia, la chiama e le chiede l’impossibile: "Gioia vieni ad aiutarmi, ho bisogno di un’insegnante di latino per i detenuti". Lei ride, "figurati". Ma alla fine, ai primi di settembre, eccola davanti alle porte del carcere. "È lì che la mia vita è cambiata. A Rebibbia ci sono rimasta 4 anni, alla fine del ciclo (i ragazzi si diplomavano alla scuola magistrale) mi venne anche consegnata una targa: "Detenuta ad honoris causa". Il titolo vale mille volte la laurea in Legge, che finisce in soffitta. Il passo dalla sezione maschile a quella femminile è breve. E lì, tra le donne detenute di Rebibbia, c’è il grande amore di Gioia, la fatica d’una vita, la passione sconfinata: i loro bambini. Costretti dalla legge a vivere con le mamme, dietro le sbarre, i loro primi mille giorni di vita. "Tutte le volte che conosco qualcuno cerco di spiegarglielo subito, cosa vuol dire, nascere e trascorrere i primi tre anni di vita in cella". È di questi piccoli che, dagli anni Novanta, si occupa l’associazione "A Roma insieme-Leda Colombini", di cui Gioia è presidente e anima. "La volle Leda, una parlamentare del Pci impegnata strenuamente per i diritti dei carcerati, nel 1991. Già dal 1994 tutte le nostre forze erano concentrate sui bimbi". Nasce così il progetto "Conoscere e giocare per crescere": l’idea è quella di seguire quotidianamente le mamme e i piccoli dietro le sbarre con attività di animazione, dai laboratori di pittura ai cicli di lettura. Presto arriva il "sabato in libertà", con le volontarie (oggi un’ottantina) che portano fuori i piccoli: una gita al parco, un giro al supermercato, una visita al museo. Poi ci si appoggia agli amici, alle famiglie, ai nonni: tutti vogliono aiutare quei bimbi a scoprire la vita, e il sabato si va al mare, in montagna, e alle mamme in cella si chiede se si può tenerli fuori anche la domenica, e il lunedì. "Loro, intanto, hanno il tempo per raccontarsi. Per ricostruirsi. Trovano dignità sapendo che i loro figli sono liberi, e amati. Diventano donne e madri attraverso il bene degli altri, nella fiducia". Oggi a Rebibbia ci sono 8 bimbi. Per Gioia, che ha dieci nipoti suoi ("tutti impegnati nel sociale, come i miei tre figli. L’amore per gli altri era talmente grande da doverlo condividere"), sono una seconda famiglia. La terza è quella dei bimbi che a Rebibbia sono passati, che l’hanno incontrata e che tornano a trovarla, insieme alle volontarie dell’associazione: "L’ultima di Michel, che adesso va alle medie, è che vuol diventare paleontologo". L’emozione sbiadisce: "Il Comune ci aveva dato i fondi per un pulmino. Li portiamo al nido, i nostri bimbi, tutti i giorni. Poi ce li ha tolti. Siamo andati avanti con una donazione della Caritas ma adesso non ci sono più soldi". Rabbia? Macché. "Siamo partiti con una campagna di crowd-funding. Adesso gli altri, forse, faranno la loro parte per Gioia. Cagliari: la denuncia di Caligaris (Sdr) "due fratellini in cella con la mamma" Ristretti Orizzonti, 7 marzo 2017 "Nonostante le dichiarazioni dei Ministri e le norme vigenti, due fratellini - una bimba di 4 anni e un bimbo di 8 mesi - sono rinchiusi da cinque giorni con la loro madre in una cella della Casa Circondariale di Cagliari-Uta. Dispiace osservare che, ancora una volta, l’assenza di strutture alternative impedisce ai piccoli di stare in un ambiente idoneo alla loro età. La legge prevede infatti che la custodia cautelare per le madri con figli minori di sei anni, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, deve avvenire in un Icam o in una casa famiglia protetta. In assenza di luoghi idonei, è però impossibile, attuare una misura differente dal carcere". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento ai piccoli reclusi nella sezione femminile nell’Istituto "Ettore Scalas". "Non si può neppure dimenticare - sottolinea - che nella stessa sezione del Penitenziario cagliaritano si trova rinchiusa anche una donna al sesto mese di gravidanza. Si tratta di situazioni che destano preoccupazione e richiedono un costante monitoraggio da parte delle Agenti, degli Infermieri e dei Medici nonché il ricorso a visite specialistiche esterne. Il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria devono trovare soluzioni alternative alla detenzione permettendo al Magistrato di poter valutare meglio quale dispositivo utilizzare. Fermo restando che i bambini non possono rinunciare alla luce del sole e ai giochi con i loro coetanei e che la distanza del Penitenziario di Uta dal centro urbano limita anche la possibilità per i volontari di accompagnare i piccoli all’asilo". Roma: il carcere femminile raccontato al CityFest, un programma di proiezioni e incontri cinecitta.com, 7 marzo 2017 A partire da mercoledì 8 marzo, la Fondazione Cinema per Roma avvierà una collaborazione con Rebibbia Femminile allo scopo di realizzare un programma di proiezioni e incontri all’interno di una delle Case Circondariali fra le più grandi d’Europa. Alle ore 11, in occasione della Giornata internazionale della donna, come prima iniziativa del progetto Salviamo la faccia del Dipartimento per le Pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri con la scuola carceraria Cpia 1 di Roma e l’associazione "Ossigeno per l’Informazione", sarà inaugurata la nuova sala cinematografica permanente da novantanove posti presso il Teatro di Rebibbia Femminile con la proiezione, per le donne recluse, del documentario Terra Terra, realizzato dalla film-maker e docente di scuola carceraria Giulia Merenda. Girato nella Casa Circondariale, il film vede protagoniste, fra le cinquanta detenute coinvolte nel progetto, Ursula, Berenice, Lucia, tre donne per le quali la detenzione si è trasformata in una curiosa opportunità di riscatto, personale e collettivo. Il film sarà presentato da Marco Lodoli, scrittore e insegnante. Nella stessa giornata, alle ore 18, Terra Terra sarà inoltre proiettato presso il Museo nazionale delle arti del XXI secolo, nell’ambito di Cinema al Maxxi e della sezione Exhibit "Please Come Back. Il mondo come prigione?": all’evento, curato da Mario Sesti, parteciperanno la regista, Giulia Merenda, la direttrice della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia, Ida Del Grosso, e B., una delle detenute protagoniste del documentario. Nella stessa occasione, sarà mostrato il cortometraggio Naufragio con spettatore di Fabio Cavalli, Menzione Speciale della Giuria del Premio Migrarti alla 73a Mostra del Cinema di Venezia. Il corto è stato girato fra il carcere di Rebibbia e quello di Cassino; i protagonisti sono i detenuti-attori della Compagnia che diede vita a "Cesare deve morire". L’ingresso al Maxxi è gratuito previo ritiro del biglietto omaggio, disponibile il giorno dell’evento, a partire dalle ore 16 presso la biglietteria del Maxxi fino a esaurimento posti (massimo due biglietti a persona). La collaborazione con Rebibbia Femminile rientra nell’ambito di CityFest, il programma di attività annuali voluto da Piera Detassis, presidente della Fondazione Cinema per Roma, con l’obiettivo di diffondere la cultura cinematografica in tutta la Capitale, in concorso con le più importanti realtà del territorio. La sinergia proseguirà nei prossimi mesi anche con la messa a punto di specifici eventi dedicati alle donne recluse e ai loro figli, in collaborazione con Alice nella città. Le attività con Rebibbia Femminile si affiancano a quelle, già realizzate nei mesi scorsi, con Rebibbia Nuovo Complesso: una rassegna per detenuti e pubblico durante la scorsa edizione della Festa del Cinema e, successivamente, la proiezione del film Fiore alla presenza del regista Claudio Giovannesi. Castrovillari (Cs): la Cisl Calabria l’8 marzo in carcere con uno spettacolo teatrale ildispaccio.it, 7 marzo 2017 Un modo diverso di festeggiare le donne l’8 marzo. Portare in carcere i disagi sopportati lungo i secoli e raccontare ai detenuti ed alle detenute quanto è avvenuto in Calabria contro le donne e contro i bambini negli ultimi trent’anni. Il Coordinamento Donne Regionale della Cisl, diretto da Nausica Sbarra, propone, mercoledì 8, all’interno del penitenziario di Castrovillari, lo spettacolo teatrale "#Iodamorenonmuoio" tratto dall’omonimo libro del giornalista e scrittore calabrese Arcangelo Badolati. L’io recitante della piece è lo stesso Badolati accompagnato in scena dall’attrice Federica Montanelli, allieva prediletta di Enzo Garinei una delle figure più importanti del teatro italiano. "Abbiamo scelto di portare la cultura e il teatro d’impegno sociale nel penitenziario dove sono pure detenuti i sex offenders" dichiara Nausica Sbarra "per far comprendere quanto inutile sia il ricorso alla violenza e dimostrare, al contrario, come l’amore vero sia fatto di condivisione e reciproca solidarietà e non di possesso e costanti soprusi. Lo spettacolo racconta il dramma vissuto dalle donne cresciute negli ambienti della ‘ndrangheta come di quelle uccise da ex mariti ed ex fidanzati. È un pugno nello stomaco che offre, tuttavia, anche molti messaggi di speranza. Lo schema della rappresentazione" spiega Nausica Sbarra "è il racconto del giornalista e scrittore calabrese, accompagnato da musiche, cui si alterna la recitazione di brani tratti da atti giudiziari o da capolavori della letteratura mondiale a cura dell’attrice Federica Montanelli. L’atmosfera diviene subito molto suggestiva e il messaggio lanciato è chiaro: la bellezza della cultura, dell’arte, della pittura, del sapere è l’unico antidoto da opporre alla subcultura della violenza. Più si conoscono le parole dei poeti, i pensieri dei filosofi, le tele degli artisti, più l’animo diviene sensibile e dolce e non lascia perciò spazio alla crudeltà tipica di chi stalkerizza, stupra o uccide. Nella piece s’incrociano i fatti di cronaca con le pagine più significative della storia e della letteratura svelando le tante analogie esistenti tra il passato e il presente. Badolati ripercorre in scena, accompagnato dalla voce recitante della Montanelli, le esistenze di donne ribelli come Maria Concetta Cacciola, Tita Buccafusca e Giuseppa Mercuri; di donne assassinate come Roberta Lanzino, Maria Rosaria Sessa, Fabiana Luzzi; di mamme uccise dai figli come Patrizia Schettini e Patrizia Crivellaro; di donne "schiave" come Ruza Sanis costretta a battere sulle strade della Penisola. E, poi, di donne straordinarie come Antigone, Artemisia Gentileschi, Isabella Morra, Beatrice Cenci, Giovanna d’Arco, Olympe de Gouge, Ipazia d’Alessandria, Oriana Fallaci, Margherita Sarfatti, Alda Merini. Lo spettacolo regala pure un’ampia finestra sugli uomini che hanno cantato l’amore: Dante, Shakespeare, D’Annunzio, Cocteau, Fò, Ungaretti, Hikmet, Prevert. Questo tipo d’impegno a favore delle donne in un mondo difficile come quello carcerario" conclude Nausica Sbarra, "è una scommessa che vogliamo vincere". Il pianeta delle armi. Mai così tante dalla Guerra fredda di Giampaolo Cadalanu la Repubblica, 7 marzo 2017 Una spesa cresciuta di oltre l’otto per cento in 5 anni: la vendita degli strumenti bellici conosce un’altra pericolosa stagione. Un pianeta armato fino ai denti, come non succedeva dai tempi della Guerra fredda: il riarmo globale non ha soltanto il volto di Donald Trump o l’espressione glaciale di Vladimir Putin, ha lo sguardo allucinato di tanti nuovi nazionalisti, a partire da quelli dei Paesi asiatici, che si avviano a diventare il mercato più florido per il commercio di strumenti di morte. Negli ultimi cinque anni l’aumento di spesa in sistemi d’arma "pesanti" è stato vertiginoso: i dati del Sipri, l’istituto svedese che ne registra l’andamento, parlano di una crescita dell’8,4 per cento, livello che non si raggiungeva dal 1990, quando ancora il mondo era diviso in blocchi contrapposti, prima dello scioglimento dell’Urss. E l’aumento è più significativo perché la spesa globale resta stabile. Questo vuol dire che la quota destinata agli armamenti cresce rispetto alle spese di gestione: personale, addestramento, eccetera. Nei fatti, è un segnale inquietante. Gli acquirenti più scatenati sono India, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Cina e Algeria, che da soli hanno comprato il 34 per cento di tutte le armi vendute. Asia e Oceania hanno rastrellato il 43 per cento, in Medio Oriente è finito il 29 per cento degli armamenti, l’Europa ne ha comprato l’11, America e Africa son rimaste a livelli più bassi. L’Italia è al 25esimo posto, con acquisti da Usa, Germania, Israele. È ovvio che gli acquisti internazionali non corrispondono agli investimenti: chi ha un apparato industriale immenso, come gli Stati Uniti, alimenta la macchina bellica senza necessità di affacciarsi sul mercato mondiale. In testa alla classifica delle vendite ci sono Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Germania, che hanno realizzato il 74 per cento del totale, con Usa e Russia che da soli raggiungono il 56 per cento. Negli ultimi cinque anni la Germania ha registrato una frenata (oltre un terzo di vendite in meno), mentre la Francia vede una leggera flessione (meno 5,6 per cento). Gli altri vanno a gonfie vele, con fatturati in crescita. L’Italia è all’ottavo posto, con il 2,7 per cento (nel quinquennio precedente era del 2,4). L’esame dei dati aggregati, con acquirenti e venditori assieme, dimostra che la vecchia logica dei blocchi ha lasciato tracce. Se Washington vende soprattutto ad Arabia, Emirati e Turchia, Mosca conta sugli acquisti di India, Vietnam e Cina. Pechino ha un mercato soprattutto asiatico, mentre per Parigi il denaro non ha odore: i primi tre clienti sono Egitto, Cina ed Emirati. Trasversale anche il mercato dell’Italia, che ha venduto soprattutto a Turchia, Algeria e Angola. Nel 2015 la spesa globale in armamenti ha raggiunto 1676 miliardi di dollari, con un lieve aumento rispetto all’anno precedente. La cifra equivale al 2,3 per cento del Prodotto interno lordo mondiale. Usa, Cina, Arabia Saudita, Russia e Gran Bretagna sono i Paesi che hanno investito di più. Gli Stati Uniti hanno ridotto leggermente la spesa, che resta però la più elevata del pianeta, pari a 596 miliardi di dollari. È il 36 per cento della spesa totale, e cioè è superiore secondo le stime del Sipri agli investimenti sommati dei dieci Paesi che seguono nella classifica. Fra le tendenze generali, la maggior spesa di Asia, Medio Oriente ed Europa dell’Est, e il calo degli investimenti nei Paesi con un’economia dipendente dal petrolio, legato al crollo dei prezzi del greggio. Secondo l’Osservatorio Milex sulle spese militari, il nostro Paese per il 2015 ha stanziato 22 miliardi di euro, che comprendono anche le uscite per il personale (stipendi e pensioni) e una quota di quelle per l’Arma dei carabinieri. L’Italia si attesta sull’1,18 del Pil (dati della Difesa, per Milex la quota è dell’1,4). Ma le cifre più significative, secondo l’Osservatorio, sono quelle dedicate ai sistemi d’arma: fra Difesa e ministero per lo Sviluppo economico, nel 2016 sono stati investiti in armamenti circa 5133 milioni di euro. Nel 2017 dovrebbero essere 5639: l’aumento di spesa in armamenti è di oltre mezzo miliardo. L’inquinamento ambientale ogni anno uccide 1,7 milioni di bambini nel mondo di Luca Fazio Il Manifesto, 7 marzo 2017 Smog, fumo passivo, acqua non potabile e strutture sanitarie non adeguate secondo due rapporti dell’Oms sono responsabili del 26% di tutti i decessi di bambini nel mondo. 570 mila piccoli muoiono a causa di infezioni polmonari riconducibili all’aria avvelenata dall’attività umana. Il sistema ambiente, il livello più alto di bene comune da cui dipendiamo, nonostante venga costantemente monitorato da rapporti sempre più allarmanti sembra destinato a una rovina irreversibile. Gli ultimi due studi provengono dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e dicono che il diffuso degrado degli ecosistemi sta compromettendo gravemente la salute dei bambini. Nei paesi in via di sviluppo e in quelli ad economia avanzata. Il dato su cui ragionare è questo: più di una morte su quattro tra i bambini sotto ai 5 anni è attribuibile a cause ambientali (1 milione e 700 mila bambini, il 26% dei 5,9 milioni di decessi all’anno). La stima è contenuta in due rapporti. Un mondo sostenibile in eredità: atlante della salute infantile e dell’ambiente e Non inquinate il mio avvenire: l’impatto ambientale sulla salute infantile. La prima analisi dell’Oms conferma che le cause dei decessi più frequenti - diarrea, malaria e polmonite - si potrebbero prevenire attraverso un accesso più equo all’acqua potabile e ai combustibili puliti (non tossici) per cucinare. Nel secondo rapporto, invece, l’Oms traccia un quadro dei fattori ambientali più nocivi e individua le cinque cause principali della morte dei bambini. "Un ambiente inquinato è mortale - spiega Margaret Chan, direttrice generale dell’Oms - in particolare per i bambini piccoli. I bambini piccoli sono particolarmente vulnerabili all’inquinamento dell’aria e dell’acqua perché i loro organi e il loro sistema immunitario sono in via di sviluppo e i loro organismi, in particolare le vie respiratorie, sono di piccole dimensioni". Le sostanze inquinanti, si legge nello studio pubblicato ieri, cominciano ad agire già nel grembo materno e aumentano il rischio di parto prematuro. Neonati e bambini in età prescolare esposti ad alte concentrazioni di smog, sia outdoor che indoor, e al fumo passivo (piccoli milanesi, romani o torinesi, per esempio) corrono un rischio maggiore di contrarre polmoniti e per tutta la vita si ammaleranno più facilmente di malattie respiratorie croniche, come l’asma. È accertato che l’inquinamento atmosferico aumenta anche il rischio permanente di malattie cardiache, ictus e cancro. Il secondo rapporto si sofferma in particolare sulle principali cause di morte al di sotto dei 5 anni e il dato più sconvolgente riguarda proprio lo smog: 570.000 bambini ogni anno muoiono di infezioni respiratorie riconducibili all’inquinamento dell’aria. 361.000 bambini perdono la vita a causa della diarrea provocata dalle acque inquinate. 270.000 muoiono durante il primo mese di vita per condizioni "ambientali" (tra cui la prematurità) che potrebbero essere evitate garantendo a tutti l’accesso all’acqua potabile ed a strutture sanitarie adeguate. 200.000 sono i decessi causati dalla malaria e lo stesso numero di bambini muore a causa di "lesioni involontarie" attribuibili all’ambiente (annegamenti, cadute, avvelenamenti). "Un ambiente inquinato - spiega Maria Neira, direttrice Oms del Dipartimento di sanità pubblica - si traduce in un pesante tributo pagato dai nostri figli in termine di salute. Investire nella rimozione dei rischi ambientali, come il miglioramento delle acque o l’utilizzo di carburanti più puliti, si tradurrà in benefici per la salute di massa". L’agenzia dell’Onu segnala anche alcuni rischi "emergenti". Come i rifiuti dell’industria elettronica che secondo l’Oms espongono i bambini a sostanze tossiche che possono comportare "una riduzione delle loro capacità intellettive, deficit di attenzione, danni ai polmoni e cancro" (si prevede un aumento dei rifiuti elettronici del 19% tra il 2014 e il 2018 fino a raggiungere i 50 milioni di tonnellate). Impensabile anche non dover fare i conti con i cambiamenti climatici: l’aumento delle temperature e dei livelli di diossido di carbonio favoriscono la crescita di pollini e di conseguenza l’asma tra i bambini (l’11-14% dei bambini dai cinque anni in su nel mondo manifesta sintomi di asma). A completare il quadro ci sono poi le esposizioni a sostanze chimiche attraverso cibo e acqua. Fluoruri, piombo, mercurio e pesticidi sono già entrati nella catena alimentare. Se questo è il quadro, viene da chiedersi come potranno essere raggiunti gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdg) che l’Onu ha assegnato al pianeta coinvolgendo tutti i paesi affinché entro il 2030 nessun bambino muoia a causa dell’inquinamento ambientale. Il programma fissato dall’Oms c’è: ridurre l’inquinamento dell’aria, potabilizzare l’acqua, intervenire sulle case, le scuole, le strutture sanitarie, l’urbanistica, i trasporti, l’agricoltura, e ancora puntare sulle energie pulite ed invertire il cambiamento climatico abbandonando le energie fossili. Un cambio di paradigma che si pone un gradino al di sopra di una rivoluzione politica, culturale ed economica che forse nemmeno l’enciclica "Laudato si", di Papa Bergoglio. Chi comincia? Migranti. Risate mentre il ghetto va a fuoco: indaga la polizia di Michelangelo Borrillo Corriere della Sera, 7 marzo 2017 Mentre le baracche del Gran Ghetto di Rignano Garganico vanno a fuoco, senza lasciare scampo a due immigrati, nel sottofondo di un video si sentono distintamente delle risate. Per la polizia le nuove immagini rilanciano la pista dell’incendio doloso. Una risata, mentre le fiamme divampano, che avvalora l’ipotesi del dolo. Nell’incendio che nella notte tra il 2 e il 3 marzo ha distrutto il Gran Ghetto tra Foggia e San Severo, nel Tavoliere delle Puglie, uccidendo due giovani cittadini del Mali, spunta un video. Con un audio che si conclude con delle risate: dinanzi alle baracche in fiamme si sentono alcuni migranti parlare nella loro lingua di origine. E poi persone che ridono. "Stiamo cercando di capire chi ridesse, chi ci fosse, cosa facessero e cosa si dicessero", spiega il questore di Foggia, Piernicola Antonio Silvis. Il video, mostrato dal Tg1 sabato scorso e visibile in versione integrale su corriere.it, è stato acquisito dalla polizia scientifica. E crescono così le probabilità che si sia trattato di un rogo doloso. "Potrebbe essere un incendio di natura dolosa", sottolinea Silvis - il questore autore di romanzi noir, l’ultimo dei quali è Formicae - senza, però, trarre conclusioni ed evidenziando che i sospetti si concentrano su "7-8 soggetti che conosciamo bene. Probabilmente non volevano uccidere, ma queste situazioni possono degenerare. Anche i Vigili del fuoco propendono per l’ipotesi dolosa, ma non hanno certezze". La protesta degli abitanti del Gran Ghetto nasce dalla decisione di sgombero derivante da un’indagine della Direzione distrettuale antimafia di Bari per presunte infiltrazioni mafiose. I caporali non ci stanno e minacciano disordini e rappresaglie. "Dal racconto che ci hanno fatto i migranti - spiega Stefano Fumarulo, dirigente delle Politiche per le migrazioni della Regione Puglia - i "capinero" hanno minacciato gli abitanti del Gran Ghetto assicurando che, nel caso si fossero trasferiti nelle strutture regionali, non avrebbero più lavorato. E in aggiunta le loro baracche, sarebbero andate a fuoco, con tutti i loro averi". Insomma, niente più casa né lavoro, per quanto si trattasse di una vita da schiavi. Schiavi dei campi e schiave degli uomini: nel periodo estivo, quello della raccolta dei pomodori, vivevano nel Gran Ghetto del Tavoliere, da circa 20 anni, circa tremila africani provenienti da Senegal, Mali e Burkina Faso. Gli schiavi dei campi, gli uomini, venivano sfruttati per la loro forza: le donne, schiave degli uomini, per la prostituzione. Il listino prezzi, per i braccianti africani, prevedeva il pagamento ai caporali di 5 euro per il trasporto con il furgone a cui si aggiungeva un "pizzo" di 0,5 euro per ogni cassone da 3 quintali (pagato 4,5 euro). Nei furgoni - nel caldo della provincia più torrida d’Italia (fino a 47 gradi in estate, soltanto Siviglia e l’Andalusia in Europa raggiungono quelle temperature) - si stipavano persino in venti: considerando che ogni bracciante riusciva a riempire fino a 15 cassoni, il caporale incassava per ogni trasporto 250 euro al giorno (100 per il trasporto e 150 per il "pizzo" sui cassoni). Con due viaggi, l’incasso arrivava a 500 euro. Insomma, una miniera a cui i caporali non volevano e i braccianti non potevano rinunciare: per questo l’inferno del Gran Ghetto era diventato, per gli africani, l’unico posto dove poter continuare a vivere. O sopravvivere. E per lo stesso motivo c’è il rischio che nuove piccole baraccopoli sorgano nelle campagne vicine all’area di 5mila metri quadrati appena sgomberata. "Non tutti i migranti - spiega il segretario della Cgil di Foggia, Maurizio Carmeno - sono voluti andare nelle due strutture messe a disposizione della Regione Puglia: pensano di avere problemi a trovare lavoro". La situazione, quindi, è in continuo movimento. Tanto più che lo sgombero del Gran Ghetto si intreccia con la vicenda degli spari contro i mezzi della polizia avvenuta, sempre a San Severo, nella notte tra il 4 e il 5 marzo: c’è anche la possibilità che chi ha sparato abbia reagito allo sgombero. Ieri è stato a Foggia il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. Per testimoniare che lo Stato c’è. Migranti. Rignano di oggi come gli ultimi di Steinbeck di Giorgio Nebbia Il Manifesto, 7 marzo 2017 Nei giorni scorsi un incendio e due morti hanno richiamato di nuovo l’attenzione dell’opinione pubblica sul ghetto di Rignano Garganico (vicino Foggia), un gruppo di miserabili baracche abusive occupate da molti anni da lavoratori stagionali e ora distrutte con le ruspe. Quello di Rignano è solo uno delle centinaia di rifugi precari per lavoratori che si spostano da un luogo all’altro per la raccolta di prodotti agricoli, con miserabili paghe, esposti al ricatto dei "caporali". Non ci sono dati statistici sul numero di lavoratori extracomunitari, ma anche comunitari, che vengono o vivono nel nostro paese, alcuni regolari, altri clandestini, e sulle loro abitazioni, talvolta rifugi precari, talvolta case sovraffollate, affittate a prezzi esosi. Gli italiani hanno bisogno di questi lavoratori ma li detestano se addirittura non li odiano, e manca una politica che renda meno disumana la situazione di questo nostro "prossimo". Si tratta di persone che abbandonano i loro paesi e le loro famiglie a causa dell’impoverimento delle loro terre, talvolta per colpa dei mutamenti climatici, che fuggono dalla miseria, talvolta dai conflitti o dalle persecuzioni etniche, o dalla mancanza di lavoro per la chiusura di fabbriche o miniere. Poveri che premono ai confini dei paesi nei quali sperano di avere occupazione e che li respingono e costringono a vivere in ghetti, appunto come quello di Rignano. Storie di miseri che hanno segnato tutto il Novecento e questo secolo e che sono sommerse, non hanno voce. Una qualche mobilitazione di intellettuali in loro difesa si ebbe ottanta anni fa negli Stati Uniti, durante la grande crisi iniziata nel 1929. Negli anni venti del Novecento si era verificata una grande tragedia ecologica; le terre, una volta fertili, degli stati centrali, Oklahoma, Arkansas, Texas, del grande paese, erano state sottoposte a eccessivo sfruttamento; tempeste di vento asportavano la poca terra fertile ancora rimasta, i piccoli agricoltori non potevano più pagare i debiti e le banche si appropriavano della loro terre per destinarle a colture intensive. Milioni di famiglie furono gettate nella miseria e costrette ad emigrare ad ovest verso la fertile California, dove speravano di trovare lavoro. Qui i grandi proprietari terrieri si servivano di "caporali", proprio come da noi oggi, per reclutare operai disposti a lavorare alle paghe più basse, senza sicurezza, in ricoveri di fortuna. Nel 1933 gli americani elessero alla presidenza degli Stati uniti Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), un anziano signore colpito in giovane età dalla poliomielite, ridotto a muoversi in carrozzella, ma determinato a far uscire il suo paese dalla crisi con un nuovo patto sociale, il "New Deal". Per affrontare il problema dei migranti Roosevelt, poche settimane dopo l’insediamento, nominò Rexford Tugwell (1891-1979), professore di economia alla Columbia University, una eccezionale figura di difensore dei diritti civili, a capo della "Rural Resettlement Administration", l’agenzia federale col compito di creare dei villaggi di accoglienza dei lavoratori immigrati in California e di aiutarli a ottenere lavoro sfuggendo al ricatto dei proprietari terrieri e dei loro sgherri. Una testimonianza di questa impresa è stata data da John Steinbeck (1902-1968), giornalista del San Francisco News, che aveva lavorato come contadino insieme ai migranti e ne conosceva quindi dolori e difficoltà. Il suo giornale pubblicò nel 1936 una serie di articoli di denuncia col titolo: "Gli zingari dei campi" (Harvest Gypsies), che furono poi trasformati nel romanzo Furore (1939) da cui fu tratto l’omonimo film del 1940 con la regia di John Ford e l’interpretazione di Henry Fonda. È la storia della famiglia Joad costretta ad abbandonare la piccola fattoria dell’Oklahoma e ad affrontare, su uno scalcinato furgoncino, carico delle poche masserizie, la lunga strada verso ovest; dopo varie peripezie e dopo aver attraversato l’ostile deserto dell’Arizona, all’arrivo in California gli Joad si scontrano con la dura realtà: i "caporali", le basse paghe, l’ostilità degli abitanti e della polizia, passando da un ghetto all’altro alla ricerca di un ricovero. Finalmente la famiglia raggiunge uno dei campi della Resettlement Administration dove sembra trovino un momento di quiete, acqua corrente, gabinetti e delle docce con acqua calda. I proprietari terrieri mandano dei provocatori per creare disordini nella speranza di far intervenire la polizia per cercare di smantellare quel campo che faceva sfuggire gli immigrati allo sfruttamento. La Rural Resettlement Admninistration fu da molti considerata una iniziativa "comunista" che Roosevelt però difese con coraggio. Il libro Furore finisce con una pagina di commovente solidarietà; proprio quando sembra che stia finendo il lungo calvario, Rosa, la più giovane dei Joad, perde il bambino di cui era incinta e offre il latte del proprio seno ad un vecchio che sta per morire disidratato e che rinasce col latte che era destinato al bambino morto. Furore è una parabola di quanto è sotto i nostri occhi di questi tempi. Alla base delle migrazioni ci sono sempre, direttamente o indirettamente, crisi ambientali. Oggi la siccità e le inondazioni spingono persone e popoli dall’Africa e dall’Asia verso l’Europa, alla ricerca di condizioni migliori di vita per se e per i propri figli. Anche da noi, come nella California dei Joad, gli abitanti, ricchi egoisti o poveri anch’essi, li respingono o costringono a lavori spesso disumani; gli immigrati nei campi: lavorano in fabbriche inquinanti e pericolose, in cantieri edili su impalcature insicure, esposti al caporalato e alla criminalità, costretti in rifugi che sono adatti più a bestie che ad esseri umani, in una società incapace di indignarsi benché sia grazie a loro che possiamo avere cibo abbondante sulle nostre tavole. "Muoiono di fame perché noi si possa mangiare", oggi come nel 1938 quando Edith Lowry scrisse il suo celebre libro. La lotta al caporalato e alla precarietà del lavoro dovrebbe essere la bandiera di qualsiasi governo civile e non è questione di soldi ma di visione sociale, vogliamo dire cristiana?, della politica. Droghe. La Silicon Valley della cannabis di Davide Frattini Corriere della Sera, 7 marzo 2017 In Israele un milione di persone l’ha provata: ora il consumo sarà depenalizzato. È il 2° Paese al mondo per uso medico. Molti scommettono sul nuovo business (scientifico). Quattro anni fa Yair Lapid aveva rischiato di lasciare la politica ancora prima di entrarci. L’aver negato di aver rollato qualche spinello in gioventù sarebbe stata la prova fumante - secondo i critici - che anche il più nuovo tra i leader di partito aveva imparato a mentire quanto quelli vecchi. Che avesse provato l’erba da ragazzo lo avevano rivelato gli ex compagni di liceo ai giornalisti. Adesso Lapid sceglierebbe forse di rispondere senza ansie a chi gli chieda conto di quelle aspirazioni giovanili. E con lui il milione di israeliani che fa uso di marijuana: il governo conservatore ha deciso di decriminalizzarlo, chi viene fermato dalla polizia perché sta fumando in pubblico riceverà una multa di 1.000 shekel (quasi 255 euro). L’ammenda diventa doppia la seconda volta, fino a quattro segnalazioni: solo allora il consumatore può essere perseguito. Resta illegale comprare o vendere l’erba e il progetto deve passare il voto del parlamento. Il piano sostiene la necessità di spostare gli interventi dalla criminalizzazione all’educazione, con campagne che spieghino i danni causati dell’abuso. Un minore che venga fermato può essere indagato solo se si rifiuta di partecipare a un programma di trattamento. Il pioniere e le serre per gli scienziati - Israele è già il secondo Paese al mondo nella distribuzione della cannabis terapeutica, oltre 400 chili al mese per 18 mila pazienti: basta la ricetta scritta da un medico autorizzato, basta lamentarsi del mal di schiena che non lascia dormire o dell’ansia per la Sindrome da disordine postraumatico, molto diffusa in una nazione da sempre in guerra. Tra i palazzoni di Rishon Letzion, a pochi chilometri da Tel Aviv, il ministero dell’Agricoltura ha costruito per quasi 2 milioni di euro le serre da mettere a disposizione degli scienziati per studiare gli usi medicinali della pianta. L’obiettivo è anche creare la prima banca genetica al mondo che permetta di registrare i brevetti per i trattamenti. Perché come spiega il professor Raphael Mechoulam "la canapa rappresenta un tesoro farmacologico ancora da scoprire, finché non è possibile garantire la proprietà intellettuale le case farmaceutiche esitano a investire nella ricerca". Ex rettore dell’Università ebraica a Gerusalemme, è stato lui negli anni Sessanta a identificare e isolare i principi attivi e ancora oggi a 86 anni continua gli esperimenti di biochimica nel laboratorio dell’ospedale Hadassah. Nei magazzini del vecchio porto di Tel Aviv si ritrovano fra due settimane gli avventurieri, inventori e innovatori di un mercato globale che solo negli Stati Uniti vale 7,1 miliardi di dollari: start-up come la israeliana Syqe che produce un inalatore capace di fornire la dose necessaria di marijuana fino ai microgrammi. Alla fiera Cannatech si discute di infusi e tisane, di coltivazione biodinamica, di botanica e biologia, di investimenti sulle idee migliori in stile Silicon Valley. Le critiche - La riforma per la depenalizzazione spinta dal governo di Bibi Netanyahu non è considerata sufficiente dagli attivisti della sinistra radicale ("una presa in giro") e da deputati dell’ultradestra come Moshe Feiglin, tra i leader dei coloni religiosi oltranzisti. Per primo ha proposto una legge che rendesse la marijuana medica disponibile a tutti i malati senza dover passare attraverso la burocrazia sanitaria o le intromissioni delle grandi compagnie farmaceutiche nella libera ricerca, la moglie è stata colpita dal Parkinson e ne fa uso a casa: "Dio ci ha dato questa pianta benefica - ha scritto qualche anno fa in un commento sul quotidiano Yedioth Ahronoth, il più venduto nel Paese - ed è lui a detenere il brevetto". Egitto. Caso Regeni: l’ambasciatore non deve tornare al Cairo di Riccardo Noury* Il Manifesto, 7 marzo 2017 La mossa di ritirare il nostro diplomatico è il principale strumento di pressione per ottenere piena collaborazione da parte dalle autorità egiziane. Non è un coro particolarmente numeroso, quello delle voci che periodicamente si levano in favore del ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo, che nella capitale egiziana manca dall’aprile 2016, richiamato temporaneamente dalla Farnesina. Ricordiamolo, a causa dell’allora assente, e oggi ancora tardiva e insufficiente, collaborazione delle autorità giudiziarie egiziane alle indagini della procura di Roma sulla sparizione, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni. Ma numeroso quel coro rischia di diventarlo, e con argomentazioni decisamente discutibili. Ieri sul Corriere della Sera ha preso la parola l’ambasciatore Antonio Zanardi Landi. Scrive Zanardi Landi che a chiedere il ritorno dell’ambasciatore è "un leader molto rispettato nel mondo delle Ong, Nino Sergi": dunque, già per questo varrebbe la pena di parlarne. Tuttavia la posizione di Sergi - peraltro espressa a titolo personale e non come presidente onorario di Intersos - al momento non trova seguito tra le organizzazioni non governative italiane. L’ipotesi, che alla Farnesina non dispiacerebbe affatto, di una società civile, ossia del mondo teoricamente più solidale con Giulio, divisa sul "che fare", se non addirittura rassegnata alla "battaglia persa" o all’accontentarsi del poco o nulla che abbiamo ricevuto dal Cairo, è dunque inesistente. Gli argomenti di chi sostiene che è giunto il momento di riconsiderare la questione - conditi in alcuni casi da ipocrite parole di solidarietà per "i genitori del povero Giulio", chiamati per nome, loro e il loro figlio, da persone che mai li hanno conosciuti - sono in sintesi tre: il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo favorirebbe la ricerca della verità sulla fine di Giulio Regeni; consentirebbe di gestire una serie di complessi dossier (immigrazione, Libia, terrorismo) nel pieno delle normali relazioni diplomatiche; aiuterebbe la ripresa degli scambi commerciali ed economici. Ma su questi ultimi, non passa giorno senza che il principale soggetto economico italiano in Egitto, ossia Eni, affermi che nonostante i rapporti tesi tra le due diplomazie le sue attività vanno benissimo. Quanto ai dossier, posto che sulla Libia Egitto e Italia hanno posizioni diverse e che su immigrazione e terrorismo col Cairo ci dialoga ampiamente l’Unione europea, perché mai dovremmo rinunciare, per una volta che è stata presa, a una posizione di principio - quella per cui i diritti umani si tutelano anche, quando necessario, con pressioni diplomatiche particolarmente intense e durature nel tempo - per riaffermare il primato di quella cinica real-politik cara alla politica estera italiana e non solo, per cui i diritti umani non devono essere d’intralcio alla piena cooperazione intergovernativa? Dovremmo fare come Francia e Germania, per una volta modelli da imitare? Ma no, ci viene detto, giammai. Altro che real-politik. L’argomento forte è il seguente, eminentemente apodittico: se l’ambasciatore italiano torna al Cairo, la verità è più vicina! Chiariamo alcune cose. La misura consistente nel ritiro dell’ambasciatore italiano al Cairo non è stata un capriccio: si giustificava - come più volte ricordato da Amnesty International, Antigone, A Buon Diritto e Coalizione italiana libertà e diritti civili - e dovrebbe ancora oggi giustificarsi con la gravità attribuita dalle istituzioni italiane all’omicidio di Giulio Regeni. Se non ci fosse stata, saremmo a un punto della vicenda ancora più arretrato rispetto a quello attuale, in cui si prospetta qualche vaga responsabilità di funzionari della sicurezza egiziana che avrebbero concorso a eliminare Giulio agendo individualmente, isolatamente e senza una catena di comando. A fronte della insufficiente e tardiva collaborazione giudiziaria da parte egiziana, il rientro dell’ambasciatore sarebbe inteso dal Cairo come segno di un ritorno alla normalità, un messaggio di soddisfazione da parte dell’Italia per i risultati di tale collaborazione, o addirittura come l’annuncio di una disponibilità alla rapida chiusura del caso, in senso sia diplomatico che giudiziario. Magari con quella "verità di comodo" che ufficialmente le istituzioni italiane non vogliono. Ecco perché quella misura deve essere tuttora mantenuta come principale strumento di pressione per ottenere piena collaborazione da parte dalle autorità egiziane. Fortunatamente, centinaia di migliaia di persone, in Italia e nel mondo, continuano a credere che la ricerca della verità per un cittadino italiano barbaramente ucciso al Cairo dovrebbe essere priorità per tutti. *Portavoce di Amnesty International-Italia Siria. La generazione perduta di Francesca Paci La Stampa, 7 marzo 2017 Il nuovo rapporto di Save the Children fotografa i traumi dei bambini, i più fragili tra le vittime della peggior crisi umanitaria dalla seconda guerra mondiale. Mahmood, Saeed, Layla, Mos’ab, Zainab, Ahmed e Ibrahim sono gli occhi della guerra, quelli che continuano a guardarci anche quando la matematica prende il sopravvento e i numeri della morte stendono sulle nostre coscienze il velo della distanza impersonale. I loro volti e le loro storie sono state immortalate da Save the Children in un rapporto scioccante intitolato "Ferite invisibili" che raccoglie i traumi di 458 minori sfollati dentro la Siria e che viene presentato questa mattina, a una settimana dal sesto anniversario della coraggiosa quanto sfortunata rivolta contro il regime di Damasco (perché tale fu l’inizio della attuale carneficina siriana). Cosa mettereste nella borsa da viaggio dovendo scegliere qualcosa di cui non potete fare a meno?, hanno chiesto i volontari ai ragazzini in una delle prime fasi dello studio, quella preliminare, per rompere il ghiaccio. Le loro risposte sono la sintesi di una generazione perduta: Kamal, 11 anni, di Aleppo, si porterebbe "un carro armato per distruggere tutti gli areoplani", Arwa, 15 anni, vorrebbe "una scuola e degli insegnanti per poter continuare a imparare", Ashraf, 8 anni, menziona il padre ucciso perché era il solo a farlo divertire. Potendo scegliere invece qualcosa da impacchettare e far sparire per sempre Omar, 15 anni, cita "le bombe che sembrano giochi ed esplodono nelle mani dei bambini", Aisha, 8 anni, eliminerebbe "tutte le armi", Fadi, 15 anni, sogna di cancellare "la paura" e Bashir, 15 anni, mette in cima alla lista "la povertà" perché proprio non ce la fa più a reggere il freddo e la fame. I dati di Save the Children sono spaventosi. E non perché non si sappia che la Siria è la peggiore crisi umanitaria dalla seconda guerra mondiale (quasi 7 milioni di sfollati interni, 4,9 milioni di rifugiati, 4,6 milioni intrappolate in aree sotto assedio, 5,8 milioni di bambini bisognosi di aiuto, almeno 250 mila morti fino all’inizio del 2014 quando le Nazioni Unite hanno deciso di non contarli più). Ma perché a forza di vedere in tv le immagini dei piccoli profughi con gli zainetti simili a quelli dei nostri figli ci siamo un po’ assuefatti, secondo un’attitudine voyeuristica da cui metteva in guardia Susan Sontag nel libro "Regarding the Pain of Others". E allora un pugno nello stomaco può servire: oltre 3 milioni di siriani hanno meno di sei anni e conoscono altro che la guerra, uno ogni 4 bambini che ancora sono nel paese è ad alto rischio di disordini mentali, circa tre milioni vivono in aree di combattimenti violenti. Lo studio - realizzato quasi interamente nelle aree controllate dall’opposizione ma con una sezione dedicata ai disordini mentali nella Siria governativa - è lungo, dettagliato, accompagnato dai commenti di psicologi, psichiatri, educatori, insegnanti. La sintesi disegna un orizzonte blindato. Secondo l’89% dei genitori i bambini sono diventati più nevrotici e aggressivi, secondo il 71% hanno sviluppato problemi nel trattenere la pipì. Due terzi dei piccoli intervistati hanno perso almeno una persona cara, uno su quattro non ha nessuno da cui rifugiarsi quando ha paura, uno su due ha visto moltiplicarsi gli abusi domestici, il 51% degli adolescenti ammette di ricorrere a delle droghe per vincere l’ansia e, a detta degli insegnanti, il 48% sta perdendo la capacità di parlare fluentemente. Evocano la morte, tengono lo sguardo nel nulla, urlano, faticano ad addormentarsi ma anche a svegliarsi, vorrebbero evadere dalla realtà: i casi di suicidio sono in crescita. Si chiama "toxic stress", spiega la dottoressa Alexandra Chem, esperta di salute mentale ad Harvard. È un fenomeno drammaticamente in crescita da almeno 20 anni, da quando la proporzione di vittime civili dei conflitti armati è passata dal 5% al 90%. Si può curare. Ma, dopo sei anni di guerra, "molti bambini siriani hanno perso tempo critico e i danni possono essere irreversibili". Il risultato sono le loro sensazioni: "Sono sempre arrabbiato", "Ho paura di uscire", "Se improvvisamente non sentissi i bombardamenti mi sentirei perso", "Sono triste quando arriva il tempo delle vacanze perché non ho più scuola, genitori, niente". La scuola ritorna negli incubi dei bambini, è la normalità perduta. In sei anni ci sono stati oltre 4 mila attacchi alle scuole, quasi due al giorno. Una scuola su tre è fuori uso, molte delle altre sono diventate tendopoli per sfollati. Oltre 150 mila tra insegnanti e educatori hanno lasciato il paese (dove un tempo il tasso di alfabetizzazione era del 95%). Metà degli adulti interpellati ha visto bambini arruolati, inquadrati ai check point, armati. Accanto ai piccoli soldati ci sono poi le piccole spose, rapite e violate a 11 anni se non addirittura consegnate dai genitori per lucro o per la convinzione che un marito sia pur sempre una protezione. Qualcosa si può ancora fare, chiosa Save the Children. Possono farla le Nazioni Unite, le diplomazie, i mediatori internazionali. Possono farla i governi se i loro popoli non distolgono lo sguardo. Libia. La guerra (silenziosa) per i pozzi di petrolio di rolla scolari La Stampa, 7 marzo 2017 A rischio i successi ottenuti dalla Compagnia petrolifera nazionale negli ultimi mesi. Non si ferma la guerra per i pozzi di petrolio in Libia. Nuovi scontri, iniziati venerdì, mettono a rischio i successi ottenuti dalla Compagnia petrolifera nazionale negli ultimi mesi. Dall’estate, la situazione della sicurezza attorno alle maggiori installazioni energetiche era migliorata: da un minimo storico di quasi 200 mila barili al giorno, la Libia è arrivata a produrne 700mila nelle scorse settimane. È molto meno rispetto alla quota prodotta prima della rivoluzione del 2011 - 1,6 milioni -, ma è certo un successo per un Paese instabile, ancora diviso geograficamente e politicamente tra l’Ovest del governo di Fayez al-Sarraj, sostenuto dalle Nazioni Unite, e l’Est del generale Khalifa Haftar. È proprio il generale a essere di nuovo al centro degli eventi in queste ore. Le sue forze - l’autoproclamato Esercito nazionale libico - stanno tentando da venerdì di riottenere il controllo di due dei maggiori porti petroliferi del Paese: EsSider e Ras Lanuf, in Cirenaica. I rivali sono i membri di una milizia - le Brigate per la Difesa di Bengasi - allontanate dalla città di Bengasi proprio dalle truppe del generale. Haftar e i suoi uomini a settembre avevano conquistato questi porti assieme a quelli di Zueitina e Brega, per due anni nelle mani di un altro gruppo armato che aveva bloccato il loro funzionamento. Dopo aver tentato di vendere indipendentemente il greggio, Haftar ha iniziato a collaborare pochi mesi fa con la Compagnia nazionale del petrolio libica, la Noc. I soldi delle rendite energetiche dell’Est finiscono dunque, come quelli dell’Ovest, nelle casse della Banca centrale, assieme alla società energetica nazionale una delle poche istituzioni a muoversi trasversalmente rispetto alle divisioni politiche. La perdita del controllo dei porti petroliferi dell’Est è un colpo duro per quello che è considerato l’uomo forte della Libia, Haftar, il generale che mantiene in vita lo stallo politico. In realtà, le implicazioni della battaglia di queste ore vanno molto oltre, spiega a La Stampa Mattia Toaldo, esperto di Libia dello European Council on Foreign Relations. Per prima cosa, il successo dell’attacco di venerdì da parte delle Brigate di Difesa di Bengasi - non una forza numericamente importante - "dimostra quanto sia esigua la forza militare di Haftar. L’attacco sarebbe avvenuto quando un paio di suoi aerei erano fermi: abbattuti o in riparazione. Su una flotta di dieci/quindici velivoli questo fa la differenza". In secondo luogo, "c’è un riattivarsi del fronte radicale anti-gheddafiano". Le Brigate per la Difesa di Bengasi non sono direttamente legate all’ex premier Khalifa Gwell - che ha già tentato due volte negli scorsi mesi di spodestare senza successo Sarraj a Tripoli - ma "politicamente, nella regione, giocano dalla stessa parte: con la Turchia e il Qatar". In terzo luogo, sia a Est sia a Ovest, questa nuova offensiva sarà sfruttata per "sostenere l’inopportunità di qualsiasi dialogo: "Perché dialogare adesso con Haftar, se è in difficoltà?", si diranno a Tripoli?". E infine, "non si è visto finora nessun sostegno a Haftar da parte dei suoi tradizionali alleati - Emirati arabi ed Egitto -. In altri casi c’è stato: questo avviene a due settimane dallo sgarbo di Haftar nei confronti del presidente egiziano AbdelFattah al-Sisi. Il generale non ha voluto infatti sedersi al Cairo con Sarraj", in un incontro organizzato con la mediazione egiziana. I combattimenti per i pozzi dell’est non sono un colpo soltanto per Haftar, ma anche e soprattutto per gli equilibri della Libia stessa. Attraverso gli sforzi dei mesi passati della Compagnia petrolifera nazionale la produzione di greggio è più che triplicata. I vertici della Noc hanno portato a termine lenti e difficili negoziati tra clan, tribù e milizie per la riapertura di pozzi sia a Ovest sia a Est, garantendo così una ripresa dell’estrazione congelata da anni. Secondo un membro del board della Noc, Jadalla Alaokali, dall’inizio degli ultimi combattimenti, però, la produzione è già passata da 700mila a 663mila barili al giorno. La Waha Oil Company, compagnia libica che pompa greggio verso EsSider, ha infatti tagliato l’output per precauzione. E i due porti per l’esportazione attorno cui si combatte restano chiusi. Le installazioni petrolifere "non devono diventare una merce di scambio", ha detto in un comunicato il presidente della Noc, Mustafa Sanalla, convinto che la stabilizzazione della Libia passi attraverso la ripresa economica, e quindi petrolifera. Filippine. I preti-coraggio sfidano Duterte di Paolo Affatato La Stampa, 7 marzo 2017 Sensibilizzano l’opinione pubblica e promuovono una "resistenza non-convenzionale". Le chiese aprono le porte a dissidenti e latitanti, come nell’era Marcos. Guardare la realtà con gli occhi del Vangelo. Anche attraverso un teleobiettivo. Armato della sua inseparabile macchina fotografica, Ciriaco Santiago, religioso filippino dell’Ordine dei Redentoristi, ha trovato una forma tutta personale di missione, mentre la cronaca riporta in evidenza la campagna di esecuzioni extragiudiziali in corso contro spacciatori di droga e tossicodipendenti, con le sue drammatiche conseguenze. Si tratta della nota crociata anti-droga lanciata dal presidente Rodrigo Duterte, che ha mietuto in otto mesi di governo oltre 7.600 vittime, 2.500 delle quali uccise dalla polizia (in presunti scontri a fuoco con i criminali), e altre 5mila giustiziate da "squadroni di vigilantes" che, secondo un recente rapporto di Amnesty International, sono al soldo delle forze dell’ordine per fare il "lavoro sporco" e ripulire le strade dalla criminalità con metodi sbrigativi, e senza passare per le lungaggini della giustizia ordinaria o di un legale processo. Una vera e propria "Licenza di uccidere", come si intitola l’ultimo rapporto dell’Ong Human Rights Watch, pubblicato agi inizi di marzo, che parla di "crimini contro l’umanità". Ogni sera Santiago, da provetto prete-fotoreporter, gira per i meandri della città e frequenta le aree malfamate dell’area metropolitana di Manila per documentare la violenza. Le scene ritratte sono raccapriccianti. Cadaveri abbandonati in una pozza di sangue. Corpi mutilati o con segni di torture. Adolescenti crivellati di colpi alle spalle. "Far conoscere questa barbarie legalizzata è un lavoro umanitario, prima che di cronaca", nota fratello Santiago che intende contribuire a "coscientizzare l’opinione pubblica sulle flagranti violazioni dello stato di diritto e della legalità, per fermare la strage". "Il giornalismo può servire davvero all’interesse pubblico e al bene della comunità", spiega a Vatican Insider. Anche perché con le sue foto i Redentoristi hanno realizzato una mostra fotografica in grandi pannelli esposti all’ingresso del santuario di Baclaran, una chiesa molto popolare a Manila. E, accanto alla reazione di sdegno dei fedeli, non è tardata quella violenta di bande che nottetempo hanno rubato o distrutto quegli scomodi pannelli. Il forte dissenso della Chiesa cattolica filippina verso i metodi "da giustiziere" di Duterte è ormai noto. Tanti e diversi sono stati i pronunciamenti di cardinali, vescovi e preti, e l’ultima "marcia per la vita", tenutasi un mese fa a Manila, si è trasformata in un vivace corteo di protesta di 10mila fedeli contro i metodi del presidente, promotore di un "regno del terrore" assimilabile alla dittatura di Ferdinando Marcos. I nuovi provvedimenti legislativi annunciati dal governo - come il ripristino della pena di morte o l’abbassamento della soglia di età per la responsabilità penale fino a 9 anni - non fanno altro che aumentare l’attrito e il divario tra gerarchia cattolica e governo. La Chiesa specifica che "non è contro Duterte" ma che ritiene i diritti umani, la giustizia, il rispetto della vita valori di estrema importanza. Ma le parole non bastano. La comunità dei battezzati ha cercato strade concrete per frenare l’ondata di esecuzioni che insanguina il paese. È nata così la campagna "Porte aperte" nelle chiese filippine, che hanno iniziato ad accogliere latitanti e tossicodipendenti che rischiano di essere uccisi a sangue freddo. A Quezon City, quartiere della metro-Manila - la metropoli formata dall’insieme di 15 città - il carmelitano Gilbert Billena è uno dei preti-coraggio che ospitano tra le mura delle parrocchia i nuovi "rifugiati". Billena è coinvolto nell’associazione "Rise Up" ("Alzatevi"), nata proprio con lo scopo di resistere alla campagna anti-droga, definita "illegale, immorale, disumana". Con lui vi sono altri sacerdoti che sfidano apertamente Duterte in quella che è stata definita una "resistenza non-convenzionale": Amando Picardal dal pulpito non perde occasione per denunciare il presidente come "assetato di sangue" e "in preda al complesso del Messia"; altri come il missionario belga Hans Stapel o l’irlandese Shay Cullen sono impegnati a guidare comunità di recupero per tossicodipendenti: un’opera paradigmatica per mostrare al governo che la via per condurre una "guerra alla droga" è la sensibilizzazione culturale e la riabilitazione dei drogati, non la loro soppressione. Da questa convinzione nasce l’impegno a ospitare i "nuovi rifugiati" nelle chiese, secondo una tradizione adottata durante l’era Marcos, quando gli edifici sacri erano porto franco per attivisti, giornalisti, politici e intellettuali dichiarati "nemici dello stato". È quanto è accaduto pochi giorni fa alla senatrice Leila de Lima, fiera oppositrice politica di Duterte. Ex Ministro per la Giustizia nel governo del predecessore di Duterte, Benigno Aquino jr, de Lima è stata arrestata con la grave accusa di complicità con i boss del narcotraffico, sulla base di testimonianze del suo autista, e rischia l’ergastolo. La donna, a capo della commissione per i diritti umani che da anni aveva puntato il dito contro il Presidente in carica, si dichiara innocente e grida al complotto. La vicenda segna un "passaggio di Rubicone" nell’era Duterte: inizia la repressione della dissidenza politica.