Il carcere ha una funzione se aiuta a cogliere le occasioni di cambiamento Il Mattino di Padova, 6 marzo 2017 È strano il destino delle persone detenute: se alcuni di loro riescono a vivere la carcerazione cercando un riscatto, se studiano, se si emancipano dall’ambiente, in cui sono cresciuti, proprio grazie alla cultura, e poi scrivono, e scrivono bene, allora vuol dire (così ci dice un lettore) che c’è chi gli vuole rubare la personalità facendoli diventare tutti "laureati in Lettere e Filosofia". Le cose non stanno cosi, e la dimostrazione è proprio dalle due testimonianze che pubblichiamo, persone che io, che seguo la redazione di Ristretti Orizzonti e anche questa pagina, ho conosciuto qualche anno fa, quando sono arrivate a Padova provenienti da carceri in cui avevano fatto una detenzione passiva e priva di qualsiasi momento di crescita. Il carcere di Padova non è un’isola felice, e nessuno vuole trasformare queste persone in perfetti detenuti senza anima, loro semplicemente hanno trovato delle opportunità, dì studio prima di tutto, perché la scuola in carcere, fortunatamente, è una delle realtà che funzionano quasi ovunque, e di confronto. Ricordo che Giovanni all’inizio era confuso e Incapace di fare un discorso che avesse un minimo di logica, Io dico perché lui stesso ne parla con l’orgoglio di essere cresciuto e cambiato, e Antonio di sé racconta che era diventato muto, e a dire la verità mi si allarga il cuore oggi a leggere i LORO testi: perché di questo si tratta, di testi che hanno scritto loro, non più pieni di rabbia ma di consapevolezza e anche del piacere di essere diventati uomini diversi. Solo fallimenti con regressione È proprio vero che nessuno può cambiare da solo, mi ricordo benissimo quando circa quattro anni fa arrivai in questo istituto di pena. Pensavo che sarei stato trattato nello stesso modo in cui ero stato trattato quando ero ospite in altri penitenziari d’Italia, ma da subito capisco che qui a Padova ci trovo del nuovo, un carcere in movimento, trovo scuole, corsi, attività, ma soprattutto trovo un modo nuovo di comunicazione con le persone della società, che ascoltano le testimonianze, e anche gli errori commessi dalle persone, ristrette in questi posti. Inizio il mio percorso con paura di confrontarmi con la società. perché tanti anni di carcere fallimentare mi avevano dato solo regressione e punizione, cerco con tutte le mie energie di reagire, di uscire fuori dal mio modo di pensare, di allargare le mie conoscenze e recepire un dialogo diverso. lo che per tanti anni avevo perso l’uso del dialogo rimanendo sempre chiuso nella sezione dell’Alta Sicurezza, parlando sempre delle stesse situazioni, avendo come confronto gli stessi interlocutori e quindi finendo per farmi domande e trovare delle risposte sempre uguali. La svolta della mia crescita la devo alla salvezza di aver trovato una sede come la redazione di Ristretti Orizzonti che mi ha aperto un mondo e insegnato un modo di relazionarmi con le persone, ma soprattutto con la società, di capire che c’è modo e modo di affrontare una pena e di scontare più dignitosamente la propria condanna. Così giorno dopo giorno cerco di capire come una persona rinchiusa a vita possa rivalutare il proprio passato, mi metto in discussione accettando anche quelle domande cattive che ti fanno male ed è li che trovi il tuo demone, quello che ti terrorizza. Ma ancora una volta scopro la forza di esorcizzare quella paura riuscendo con molta fatica a capire e gestire le mie emozioni e parole. È sempre un lavoro faticoso, impegnativo, e le persone che navigano intorno a me mi fanno da guida ed è questo che accade nella vita di una persona detenuta, può capire e valorizzare un momento di svolta. Io ci credo oggi nel lavoro che faccio con la redazione, perché non si può mentire alla società che ascolta le nostre storie. Storie di disagio, di scelte di vita sbagliate, di ottusità che avevo dalla mia subcultura, oggi non mi sento più imbarazzato ad ammettere le mie responsabilità, di aver incasinato la mia vita in gioventù, e non è tanto la pena da scontare importante, ma come si deve scontare. Se vogliamo cambiare un percorso della vita di una persona detenuta c’è bisogno di consapevolezza che sono le relazioni che si stabiliscono la cosa che conta, è finito quel tempo dove solo l’odio accecava la mia rinascita di uomo, mi sento vivo anche se la mia carcerazione supera di gran lunga ogni aspettativa di essere un uomo libero essendo un ergastolano. Ma quanto meno posso sentirmi utile in qualcosa come il progetto scuola/carcere dove incontro gli studenti due tre volte alla settimana e quei piccoli interventi che faccio mi rendono una persona diversa dal contesto in cui vivevo prima. Adesso vivo una pena più dignitosa imparando sempre di più che non si può cambiare da soli, e sono pienamente convinto che il detenuto può cambiare il suo destino quando lo tolgono dal luogo in cui è vissuto penanti anni senza nessuna crescita interiore. Giovanni Zito L’impegno nel progetto scuola Oggi dopo una mattinata impegnati nel progetto scuola/carcere. che la nostra redazione sta portando avanti da parecchi anni con gli studenti del Triveneto. nel pomeriggio ci siamo ritrovati per discutere di vari temi, tra questi è stato inserito anche quello inerente l’educazione e il cambiamento del detenuto. Al termine della discussione la nostra direttrice ci ha chiesto di scrivere quale evento o quale persona ha maggiormente inciso sul nostro cambiamento. Per prima cosa voglio precisare il mio "curriculum" dietro alle sbarre. Sono in carcere da 25 anni. Dal 1992 fino al 2009 nessuno mai mi ha aiutato a intraprendere un percorso rieducativo come previsto dall’articolo 27 della nostra Costituzione. Sono stato sempre ristretto in carceri speciali con ben otto anni al regime del 41 bis. Poi. nel 2009. sono stato trasferito qui a Padova. Anche se mi trovo da allora in una sezione di Alta Sicurezza, qui mi è stata data la possibilità di iscrivermi il primo anno a un corso di scrittura generale. Successivamente ho frequentato la scuola media superiore fino al conseguimento del diploma di maturità, e oggi sono iscritto all’università. Mentre facevo le medie superiori mi è stata data anche la possibilità di frequentare la redazione di Ristretti Orizzonti, prima come gruppo d’ascolto e poi in pianta stabile. In questo spazio culturale ho avuto l’opportunità di sedere allo stesso tavolo con magistrati, giornalisti, politici, volontari. Inoltre mi è stata data anche la possibilità di partecipare, due o tre volte la settimana, all’incontro con gli studenti, un’iniziativa di confronto in cui ci raccontiamo e rispondiamo alle loro domande. Prima di frequentare queste attività ero diventato muto, non riuscivo ad esprimermi bene nei pochi discorsi che mi vedevano coinvolto. Quando vieni lasciato ad oziare dalla mattina alla sera per anni, alla fine non trovi più argomenti su cui discutere. Per esperienza diretta posso affermare che se il detenuto è messo nelle condizioni di mettersi in gioco. confrontandosi direttamente con la società esterna, riceve u n potente stimolo a cambiare e migliorarsi. Questo lo porterà quasi sicuramente, una volta uscito, a non ritornare a commettere più reati. Alla domanda che ci ha posto la nostra direttrice su cosa o quale persona ci ha fatto cambiare, per quanto mi riguarda non ho un ricordo particolare. Posso dire che tutte le persone venute a contatto con me mi hanno aiutato a migliorarmi e ognuna di loro mi ha regalato qualcosa di positivo. Riguardo al cambiamento. penso che io non sono deputato a dire se sono cambiato o meno, ma dovrebbero dirlo coloro che mi conoscono e che mi hanno frequentato in passato e continuano a farlo oggi. Antonio Papalia Di Rosa (Tribunale Sorveglianza Milano): aumento costante detenuti, rischio emergenza Corriere Quotidiano, 6 marzo 2017 Tra le cause di tali numeri, vi è di certo, osserva il magistrato, la mancata proroga della norma, in vigore fino al 31 dicembre 2015, che prevedeva la liberazione anticipata speciale, con la possibilità di sottrarre fino a 75 giorni di pena per ogni singolo semestre, a chi doveva scontare la pena per reati comuni. Esiste il rischio di una "nuova emergenza" nel sistema penitenziario italiano: dal 2016 ad oggi, il numero dei detenuti è tornato a crescere e si tratta di un "aumento costante". A rilevarlo è il presidente del tribunale di sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa, che spiega: "Nell’ultimo mese il numero di detenuti è aumentato di 548 unità; un aumento che si vede anche rispetto ai detenuti stranieri (+119) e alle donne (+16)". Il picco di presenze in carcere si era registrato nel 2013, quando i reclusi erano 62.536: da allora, il netto calo del 2014 (53.623) e del 2015 (52.164). "Poi nel 2016 c’è stata la salita con un trend progressivo: nel secondo semestre - spiega Di Rosa - ci sono stati 600 detenuti in più". Tra le cause di tali numeri, vi è di certo, osserva il magistrato, la mancata proroga della norma, in vigore fino al 31 dicembre 2015, che prevedeva la liberazione anticipata speciale, con la possibilità di sottrarre fino a 75 giorni di pena per ogni singolo semestre, a chi doveva scontare la pena per reati comuni (esclusi, dunque, quelli più gravi contemplati dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario). Certo, negli ultimi anni sono state incrementate le misure alternative, ma "i risultati non riescono a fronteggiare le sopravvenienze": i soggetti sottoposti a misure alternative sono circa 25mila e 3mila casi riguardano tossicodipendenti. "Spesso però non si riesce a individuare un domicilio o un lavoro necessari per la concessione del beneficio - osserva il presidente del tribunale di sorveglianza di Milano - nei casi di tossicodipendenza si hanno difficoltà a trovare posti nelle comunità terapeutiche. I territori dovrebbero fare di più, e servirebbero più operatori in carcere per individuare subito un percorso". Dopo la sentenza Torreggiani, pronuncia "pilota" con cui l’Europa ha richiamato l’Italia per l’emergenza carceri, nei nostri penitenziari "l’attenzione è cresciuta da parte di tutti gli operatori per la qualità del trattamento", afferma Di Rosa, ma la magistratura di sorveglianza "dovrebbe essere messa in condizione di lavorare in tempo reale", mentre il carico di lavoro e le carenze negli organici della magistratura e del personale amministrativo rappresentano un ostacolo verso questo obiettivo. "Al tribunale di sorveglianza di Milano vi sono oltre 20mila fascicoli pendenti, la Lombardia è il distretto con maggior numero di detenuti e con il maggiore divario tra il numero di presenze e la capienza regolamentare - afferma Di Rosa - io ho aumentato il numero di udienze, ma è diminuito il numero di magistrati. In organico ne sono previsti 12, ma in servizio ce ne sono solo 8, manca un terzo di forza lavoro". Di Rosa ricorda anche la situazione che si creò dopo l’indulto del 2006: "vi fu subito dopo un’immediata risalita del numero delle presenze in carcere che portò al picco di oltre 62mila detenuti. La storia insegna che se il sistema non cambia nella sostanza i numeri sono destinati a salire perché gli strumenti normativi e l’organizzazione non sono sufficienti a risolvere i problemi". Il 16 aprile a Roma la "Marcia di Pasqua per l’amnistia, l’indulto, la giustizia e la libertà" La Repubblica, 6 marzo 2017 Organizzata dal Partito Radicale e dall’associazione Nessuno tocchi Caino. Il corteo partirà da Regina Coeli per arrivare al Vaticano Si svolgerà a Roma il 16 aprile la "Marcia di Pasqua per l’amnistia, l’indulto, la giustizia e la libertà", dal carcere di Regina Coeli a piazza San Pietro in Vaticano, organizzata dal Partito Radicale e dall’associazione "Nessuno tocchi Caino". "Una nuova straordinaria mobilitazione, per ribadire la necessità di un’amnistia perché le nostre istituzioni fuoriescano dalla condizione criminale in cui si trovano rispetto alla nostra Costituzione, alla giurisdizione europea, ai diritti umani universalmente riconosciuti e alla coscienza civile del Paese", affermano i promotori. La Marcia vuole anche "ricordare che al 30 giugno del 2016 i processi pendenti erano 3.800.000 nella giustizia civile e 3.230.000 in quella penale, per un totale di 7.030.000 processi che affollano le scrivanie dei magistrati, ai quali vanno aggiunti circa un milione di procedimenti nei confronti di ignoti". Inoltre, sono circa 20.000 i detenuti che devono scontare in carcere meno di tre anni. Garante nazionale dei detenuti: presentazione della prima relazione sulle attività svolte unipd-centrodirittiumani.it, 6 marzo 2017 Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, alla fine del primo anno della sua istituzione, presenterà al Parlamento la sua prima Relazione sulle attività svolte. Tale Relazione sarà illustrata alle Autorità il 21 marzo prossimo alle ore 10.00 nella Sala della Regina della Camera dei Deputati. La cerimonia sarà ospitata dalla Presidente Laura Boldrini e vedrà la presenza delle Istituzioni nazionali e internazionali con le quali il Garante nazionale coopera con il comune obiettivo della tutela dei diritti delle persone private della libertà personale. Il Garante è una figura di garanzia dei diritti delle persone private della libertà. In Italia un percorso avviato fin dal 1997 ha portato all’istituzione del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale alla fine del 2013, ma la nomina del Collegio e la costituzione dell’Ufficio, che hanno consentito l’effettiva operatività, sono avvenuti solo nei primi mesi del 2016. Si tratta di un organismo indipendente in grado di monitorare i luoghi di privazione della libertà. Lo scopo è quello di individuare eventuali criticità e trovare soluzioni per risolverle. Inoltre, presso le istituzioni sulle quali esercita il proprio controllo, il Garante nazionale ha il compito di risolvere quelle situazioni che generano occasioni di ostilità o che originano reclami proposti dalle persone ristrette. Nel caso italiano, il Garante nazionale ha altri due compiti. Il primo riguarda un obbligo derivante dalla ratifica del protocollo opzionale delle Nazioni Unite per la prevenzione della tortura, che prevede la predisposizione di un meccanismo nazionale indipendente per monitorare i luoghi di privazione della libertà, al fine di prevenire qualsiasi situazione di possibile trattamento contrario alla dignità delle persone. Il secondo riguarda il monitoraggio dei rimpatri degli stranieri extra-comunitari irregolarmente presenti sul territorio italiano e che devono essere accompagnati nei paesi di provenienza. La direttiva europea sui rimpatri (2008) prevede che ogni paese monitori la situazione con un organismo indipendente. Il Garante nazionale è costituito in collegio, composto dal presidente e da due membri, i quali restano in carica per cinque anni non prorogabili. Al momento il collegio è composto da Mauro Palma (Presidente), Daniela De Robert e Emilia Rossi. Ddl penale. La fiducia messa dal governo è "la morte del diritto processuale penale" di Orlando Sacchelli Il Giornale, 6 marzo 2017 Il presidente dei Giovani Avvocati (Aiga) Michele Vaira: "Testo non in linea con i princìpi fondamentali del giusto processo". Il Consiglio dei ministri ha autorizzato il voto di fiducia sul disegno di legge di riforma del processo penale. Immediata la protesta, sia in ambito politico che giudiziario. "La fiducia autorizzata dal Cdm - dichiarano in una nota Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera, e Francesco Paolo Sisto, capogruppo azzurro in Commissione Affari costituzionali a Montecitorio - è letteralmente scandalosa. Siamo di fronte a un’accelerazione propagandistica del ministro della Giustizia, che è difficile non collegare alla sua candidatura alla segreteria del Partito democratico". Il ministro Andrea Orlando, però, nega ogni addebito. "Non vedo cosa c’entri con il congresso del Pd. Il ddl non è il mio disegno di legge ma fu varato tre anni fa dal governo Renzi con l’unanimità di tutti i ministri. Non rivendicherò questo risultato come mio, ma lo rivendicherò come risultato di tutto il governo". Dalle stanze della politica ai tribunali ed agli studi legali, il passo è breve. "È la morte del diritto processuale italiano", tuona l’avvocato Michele Vaira, presidente di Aiga (Associazione italiana giovani avvocati), contro la scelta del governo. Una mossa che, di fatto, azzera ogni discussione e possibile miglioramento del testo in parlamento. I giovani avvocati chiedono di "stralciare" il ddl, a eccezione delle sole norme sull’ordinamento penitenziario. Ma perché questa avversione? I motivi, spiega Vaira, sono molteplici: "Il generale inasprimento delle pene previsto dalle nuove disposizioni per alcune tipologie di reato, la nuova disciplina della prescrizione, con il conseguente ed irragionevole potenziale allungamento dei tempi processuali, le norme sulla "partecipazione a distanza" al processo e la delega al governo sulle intercettazioni costituiscono solo alcuni esempi di una riforma che nel complesso rappresenta un pericoloso passo indietro sul fronte delle garanzie e dell’effettività del diritto di difesa, rispetto a cui tutta l’avvocatura non può che manifestare la sua più ferma ed assoluta contrarietà". L’improvvisa accelerazione e il venir meno del dibattito parlamentare, tra l’altro, vanno in contrasto con le ultime dichiarazioni del ministro Orlando, che in un’intervista tv aveva "sottolineato l’importanza rivestita dall’avvocato nel nostro ordinamento democratico, valorizzandone la figura in chiave anti-populista e di garante di quei diritti fondamentali della persona che invece risultano gravemente compromessi proprio dalle novità più significative della riforma". L’Aiga, che rivendica con orgoglio di aver denunciato per prima, nel mondo forense, la gravita della situazione, si appella a tutte le forze politiche e ai gruppi parlamentari: "Facciano di tutto per non approvare la riforma". E il ministro Orlando viene invitato a "rivalutare l’opportunità di insistere sull’approvazione di un testo non in linea con i princìpi fondamentali del giusto processo, da tempo scolpiti nella Costituzione della Repubblica Italiana e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo". Al vaglio ci sono anche proteste più forti da parte delle istituzioni forensi, invitate da Aiga a dichiarare urgentemente uno stato di agitazione, senza escludere più incisive forme di protesta a tutela dei diritti dei cittadini. Cinque giorni di sciopero dei penalisti - L’Unione delle Camere penali italiane intanto rende noto di avere deciso "l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale nei giorni 20, 21, 22, 23, 24 marzo 2017. "Né il processo, né i diritti dei cittadini - si legge in un comunicato - possono essere merce di scambio di alcuna contesa di potere, e tanto meno ostaggio di conflitti di natura elettorale, e appare altresì necessario scongiurare una gravissima compressione del dibattito democratico". I tempi della giustizia e la necessità di un’etica di Gianfranco Pasquino Il Tirreno, 6 marzo 2017 No, se Tiziano Renzi è colpevole di "traffico di influenze e altro", non merita nessuna "pena doppia", come ha dichiarato suo figlio Matteo, ma, semplicemente, la pena giusta. Neppure un cosiddetto giustizialista arriverebbe a raddoppiare la pena per associazione familiare. Tuttavia, se la moglie di Cesare deve essere al disopra di ogni sospetto che cosa dire e fare quando molto più che un sospetto riguarda il papà di Matteo? Il caso è serio poiché è molto probabile che chi trafficava per ottenere influenze lo facesse perché Tiziano poteva facilmente parlare con il figlio titolare di cariche politiche importanti. Nel frattempo, da parte di coloro che si definiscono garantisti, ma sono sostanzialmente degli attendisti, rifioccano le accuse di giustizia a orologeria che starebbe ticchettando per influenzare l’elezione del prossimo segretario del Partito Democratico. Bisognerebbe attendere che cosa: l’avviso di garanzia? Il rinvio a giudizio? La sentenza di primo grado? Chi ha potere politico come, nel caso delle indagini in corso, l’ex-sottosegretario del Presidente del Consiglio Renzi e attuale Ministro dello Sport, Luca Lotti, deve conservarlo fino a quale momento? Nella situazione italiana non esiste nessun accordo sui tempi e sui modi tranne che sarebbe opportuno non consentire alla magistratura, toghe rosse o no, di influenzare, se non addirittura, di determinare, la vita politica (o dei politici?). Una modesta dose di accordo dovrebbe, invece, essere raggiunta sul considerare i detentori del potere politico secondo criteri diversi da quelli applicati ai comuni cittadini. Forse se, in maniera più o meno artificiale o deliberata, si facesse meno confusione, se non si sollevassero polveroni, se quelli del Pd non dicessero a quelli del Movimento Cinque Stelle di guardare in casa loro, cosa che non assolve comunque gli esponenti del Pd dalle loro eventuali responsabilità, ci si potrebbe porre il problema relativo a quali comportamenti dei politici che, pur non essendo reati, non sono accettabili. Insomma, a quale etica dovrebbero ispirarsi e attenersi i politici e con quali criteri dovrebbero i cittadini elettori valutarne i comportamenti nella zona grigia tra uso improprio dell’influenza politica e vero e proprio reato? Nella cultura anglosassone un tempo valeva il principio che "ci sono cose che semplicemente non si fanno". Questo principio è sicuramente tuttora applicato nei paesi nordici, Scandinavia e Germania. Ma quali sono le cose che non si debbono fare, quelle che attengono più alla coscienza dei singoli che ai codici penali? Pur essendo impossibile codificare una etica della politica valida per tutti i tempi, per tutti i luoghi, per tutte le circostanze, alcuni suoi elementi sono sufficientemente chiari. Non agire nell’interesse privato/personale, meno che mai contro l’interesse pubblico/generale, deve, ovviamente, essere il principio dominante. Esibire la massima trasparenza nei comportamenti che portano a decisioni politiche, come, per esempio, le nomine a cariche e gli appalti. Accettare pienamente e senza eccezione alcuna la responsabilità di tutto quello che succede nel settore di competenza di ciascun politico. La sospensione da una carica e, spesso, anche le dimissioni, senza accompagnarle con frasi ipocrite - come "per consentire una miglior difesa" o "affinché la giustizia faccia il suo corso" o ancora meno che mai "per non creare danni al partito" - sono pratiche raccomandabili, eticamente consigliabili. Meglio, naturalmente, se sospensioni e dimissioni sono indirizzate a non danneggiare il funzionamento del governo e la qualità della democrazia. Il resto è affidato alla sensibilità e alla coscienza dei singoli nonché alle pressioni di una società che sia davvero civile. Alessia Morani: "troppo giustizialismo, ora paga il conto anche il Pd" di Elisa Calessi Libero, 6 marzo 2017 Da vent’anni, accusa Alessia Morani, deputato del Pd, di professione avvocato, esiste uno "squilibrio tra potere giudiziario e politico". E questo "mina la qualità della nostra democrazia". Per capire la bufera che sta travolgendo Matteo Renzi e il Pd, dice l’ex responsabile giustizia del partito, bisogna partire da qui. E poi dalla "reazione" di certi mondi di fronte al tentativo, fatto dal governo dell’ex premier, di toccare determinate "corporazioni". Però il quadro che emerge dall’inchiesta Consip è devastante. Soldi, ricatti, appalti, parenti. È tutto un complotto? "No. Ho la massima fiducia nella magistratura. Le inchieste devono essere fatte velocemente, così che si chiariscano eventuali ombre. Ho però una certezza: Luca Lotti è un uomo perbene. Non ho nessun dubbio che sia completamente estraneo ai fatti che gli sono attribuiti". E Tiziano Renzi? "Il tempo ci dirà chi ha ragione". C’è, però, anche un piano politico. È opportuno che il padre del presidente del Consiglio si faccia da tramite con uomini di governo per incontri con imprenditori? "Intanto bisogna stabilire se ci sono stati questi incontri e se erano finalizzati alle ipotesi di cui parla la Procura. Siamo nel campo delle tesi degli inquirenti che devono essere provate in giudizio, se ci sarà un processo. Sul piano dell’opportunità politica, quello che fa Tiziano Renzi non influisce su quello che fa Matteo Renzi. Non credo sia giusto che le eventuali colpe dei padri ricadano sui figli". Però siamo già al secondo padre indagato, dopo quello di Maria Elena Boschi. "La stessa cosa che dico per il padre di Renzi, la sostenni per quello di Maria Elena". Con il ministro Cancellieri, però, non siete stati così garantisti. "Siamo su due piani totalmente diversi. Nel caso di Cancellieri si poteva configurare un conflitto di interessi. Lotti, come lui stesso ha detto, non si è mai occupato di Consip. E comunque l’accusa che gli viene mossa riguarda la rivelazione del segreto di ufficio. Reato compiuto con cadenza settimanale con le fughe di notizie dalle procure, quando si danno notizie ai giornali. Ma di questo non parliamo mai. Però mi lasci dire una cosa". Cosa? "Purtroppo da vent’anni non siamo riusciti a trovare un equilibrio tra potere giudiziario e politico. Ed in questo conflitto la qualità della nostra democrazia è stata fortemente minata. Quello che è successo negli ultimi anni in Emilia Romagna è sconcertante". Si riferisce a Vasco Errani? "Non solo. Errani dopo la condanna in appello si è dimesso e poi è stato assolto in Cassazione. Le primarie che hanno visto i due protagonisti, Stefano Bonaccini e Matteo Richetti, indagati per lo stesso reato e poi uno archiviato, l’altro assolto". La sinistra, però, ha spesso cavalcato questo squilibrio. "È vero. Abbiamo passato gli ultimi vent’anni a fare la guerra a Berlusconi sul piano giudiziario, smarrendo la mission di un partito, che è di fare proposte. Abbiamo nutrito il nostro popolo con il giustizialismo e oggi in parte lo scontiamo. Però questo squilibrio va risolto. Non si può disprezzare il principio costituzionale della presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio". Prodi cadde dopo l’inchiesta su Mastella, Berlusconi dopo il processo sulle Olgettine. "E a quante Olgettine bis, ter, quater siamo arrivati?". Quater credo. E ora tocca a Renzi. C’è un filo? "Io non credo alla giustizia a fini politici o a orologeria. Credo, però, che dobbiamo trovare un equilibrio tra i due poteri". Bisogna riformare la giustizia? "Bisogna fare in modo che un avviso di garanzia torni a essere uno strumento a tutela dell’indagato, non un’onta pubblica. Stefano Graziano, Salvatore Margiotta, Filippo Penati, Errani: c’è un lungo elenco di politici indagati, imputati e poi assolti. Tutti dovrebbero riflettere. La politica, la magistratura e anche l’informazione". Però anche Gianni Cuperlo e Michele Emiliano hanno chiesto le dimissioni di Lotti. "Sciacalli", come ha detto qualcuno? "Non parlo di sciacalli perché sono brutti animali. Ma la speculazione politica su vicende di questo tipo, specie se riguardano un tuo compagno di partito, la eviterei". Lasciamo stare il piano giudiziario, ma sono stati fatti errori dal cosiddetto Giglio Magico? "Nessuno è immune da errori naturalmente. Chi come noi fa politica incontra continuamente persone, imprenditori, associazioni. E anche il nostro compito: ascoltare le esigenze delle persone, prendere informazioni e provare a dare soluzioni. Tornando al cosiddetto Giglio Magico che è una invenzione giornalistica e stando ai fatti non mi pare ci siano situazioni inopportune". Non è stato un errore mettersi intorno sempre vecchie conoscenze? "Ciascuno di noi si circonda delle persone di cui ha più fiducia. Io, per esempio, mi sono circondata di gente del mio territorio. Conosce qualcuno che si circonda di nemici? E poi non è vero che Matteo ha un cerchio ristretto ai fiorentini, prova ne è che tra i ministri voluti da lui ci sono persone che non vengono da quel mondo, ma che provengono dalle minoranze come De Vincenti, Teresa Bellanova, Maurizio Martina". Non sarebbe stato meglio se Lotti e Boschi, dopo il referendum costituzionale, si fossero dimessi, come ha fatto Renzi? "Sono valutazioni che ha fatto il presidente del Consiglio Gentiloni insieme a Luca e a Maria Elena. Le reputo persone molto valide e capaci. Non ci vedo nulla di strano che facciano parte della squadra di governo". Pensa sia in atto un attacco a Renzi e al renzismo? "Dopo la sconfitta del 4 dicembre sicuramente si sono intensificati gli attacchi a Renzi e al gruppo dirigente che ha guidato il Paese in questi anni. Quando si vanno a toccare gli interessi di qualcuno, poi questo qualcuno reagisce. Il nostro è un Paese a struttura borbonica. La filosofia della riforma costituzionale e delle politiche del governo era di scardinare questa struttura. Noi veniamo da una storia antica di corporazioni che non sono mai state sconfitte, ma, anzi, nel tempo si sono rafforzate. In questi anni di governo abbiamo provato a toccarle. Ora c’è la reazione". Si riferisce alla magistratura? "Escludo che queste inchieste abbiano finalità politica, ma è innegabile che quando siamo intervenuti su ferie e pensioni dei magistrati abbiamo visto, soprattutto da parte dell’Anm, forti resistenze". Ci sono anche altri mondi che stanno "reagendo" contro Renzi? "È evidente che ci sono alcuni ambienti a cui non siamo particolarmente simpatici. Ma mi fermo qui". Ha senso fare un congresso che finirà per essere travolto dalle polemiche giudiziarie? Non sarebbe stato meglio rinviarlo? "Ma per favore. No. Siccome c’è qualcosa di più importante di noi stessi, cioè il destino dell’Italia e dell’Europa, il congresso dobbiamo farlo nei tempi stabiliti. Io sosterrò convintamente Matteo Renzi per affrontare le sfide future che saranno difficili, perché il centrodestra è agguerrito e il M5S incombe". Intanto, però, molti scendono dal carro di Renzi. Ultimo, il veltroniano Andrea Martella. "Sono scelte che rispetto, a volte anche condizionate dal futuro personale. Per me sono importanti i renziani dell’ultima ora, quelli che stanno vicino a Matteo non quando è al massimo del successo, ma nei momenti di difficoltà. E io sono tra quelli". Nel frattempo ci risiamo con le tessere pagate o gonfiate. Possibile che a ogni tesseramento o primarie nel Pd si ripeta questa storia? "In un grande partito possono purtroppo accadere cose del genere su cui interveniamo sempre con prontezza: mi pare siamo gli unici rimasti a fare congressi mentre altri pensano che la politica si faccia a colpi di post sui blog o di click su una piattaforma web. Non è giusto, però, mettere sotto accusa un intero partito per alcuni casi, a fronte di migliaia di circoli che agiscono nella totale correttezza. Il nostro è un partito sano e grande. Vadano fuori quelli che si comportano male. Ma rispettiamo i tanti militanti che si comportano in modo trasparente". Cosa ne pensa di Orlando? "Ha fatto bene a candidarsi, perché parla ad alcuni iscritti e sostenitori che magari non si riconoscono nella linea di Renzi". E i DP di Bersani? Il Pd si alleerà prima o poi con loro? "Mi è molto dispiaciuto quando nostri compagni di strada hanno deciso di farne un’altra. Non so se ci rincontreremo. Io sono convinta che Renzi vincerà il congresso. Loro hanno una pregiudiziale nei suoi confronti. Quindi mi pare difficile". Lei è stata spesso oggetto di insulti. Sui sociale non solo. Si è mai pentita di fare la parlamentare? "No. A me gli insulti caricano. Mi convincono che sto facendo la cosa giusta". Lei è una pasdaran della guerra ai grillini. Non passa giorno senza che ci combatta. Qual è il loro punto di forza e di debolezza? "Il punto di forza è di dire esattamente quello che le persone vogliono sentirsi dire. Raccolgono i problemi delle persone e li trasformano in slogan politici. La debolezza è che non danno soluzioni. Basta vedere Roma, emblema della loro incapacità a trovare soluzioni concrete. E poi mi fa arrabbiare gente come Di Maio". Perché? "È entrato in Parlamento grazie a 189 click, probabilmente il suo condominio, e oggi si erge a grande statista. Non ha fatto neanche un giorno in consiglio comunale, è un fuoricorso cronico e pensa di poter guidare questo Paese. Attendo dal M5S la mozione di sfiducia per la Raggi nonché la campagna #Raggi confessa ora che è comparso l’assessore Mazzoli tra i fogli nella monnezza". Giustizia costosa. Crollano i ricorsi, ma aumentano quelli di opposizione ai pagamenti Quotidiano di Puglia, 6 marzo 2017 Il dato più eclatante è la riduzione dei ricorsi: -41% di contenziosi in un anno. Colpa molto dei costi aumentati per sostenere una causa. Ma l’inaugurazione dell’anno giudiziario del Tar offre anche altre valutazioni: raddoppiati i contenziosi relativi alle ingiunzioni di pagamento alle Pubbliche amministrazioni. Un richiamo alle Pubbliche amministrazioni, perché gestiscano la cosa pubblica con trasparenza ed efficienza, sollevando il Tar e la giustizia da un ruolo improprio di "supplenza", specie nei settori dell’energia e del welfare. Uno a imprenditori e commercianti, perché denuncino le illegalità di cui vengono a conoscenza. Uno, ancora, ai legislatori che sfornano leggi "cattive", con pochi articoli e centinaia di commi. Sono stati questi i passaggi fondamentali della relazione d’apertura dell’anno giudiziario al Tar fatta dal presidente del tribunale Antonio Pasca. Una relazione molto "politica", che ha voluto dare una lettura d’insieme del sistema, più che soffermarsi sui risultati, pure lusinghieri, del lavoro svolto dai giudici amministrativi per le province di Lecce, Brindisi e Taranto. La mattinata di sabato, nella sede giudiziaria di via Rubichi, cuore del centro storico del capoluogo salentino, è stata l’occasione per fare un bilancio dell’attività giudiziaria 2016 e delineare quella del 2017. Per quanto riguarda l’anno scorso, è crollato il numero dei ricorsi presentati. In particolare si segnala un meno 41% di contenziosi per un totale di 1.899 ricorsi depositati: un po’ per la Legge di Stabilità 2015 che ha modificato le regole del processo amministrativo, snellendone le procedure, e molto per il fatto che sono aumentati i costi per avviare e sostenere una causa. Più che raddoppiati i contenziosi relativi alle ingiunzioni di pagamento alle Pubbliche amministrazioni e i ricorsi legati alle competizioni elettorali. Flessione netta, invece, per i contenziosi relativi all’eccessiva durata dei processi, che negli ultimi cinque anni erano passati da 97 a 1.890 - giungendo a costituire il 58,8% del totale dei ricorsi depositati al Tar - e che invece, sempre grazie alla Legge di Stabilità 2015, si sono notevolmente ridotti "con ricadute positive sulle casse dello Stato" ha evidenziato il presidente Pasca. Basti dire che soltanto nel 2015, per risarcire i cittadini che hanno dovuto attendere anni per una sentenza, lo Stato ha speso 12,5 milioni di euro per le sentenze emesse dal Tar salentino. Pasca ha "bacchettato" le amministrazioni pubbliche, per l’ancora troppo elevato numero di contenziosi riguardanti l’accesso agli atti pubblici, i silenzi e i ritardi della Pa e i giudizi di ottemperanza, cioè quelli aperti perché ministeri, Comuni, Province e Regione non hanno dato esecuzione a una sentenza. "Tutti aspetti sintomatici della mala amministrazione, con costi a carico delle casse pubbliche - ha sottolineato Pasca - e, quindi, con profili rilevanti ai fini del danno erariale. In questo caso il giudice dovrà trasmettere atti alla Procura generale della Corte dei Conti o alla Procura della Repubblica". Si moltiplicano i ricorsi in tema di concessioni demaniali marittime, "un settore che riveste una rilevanza strategica, anche sul piano occupazionale, in ragione della sua peculiare caratterizzazione morfologica e per effetto della conseguente vocazione turistico-balneare" e restano elevati anche quelli riguardanti gli appalti pubblici. Soprattutto, ha detto il presidente del Tar, per vizi delle leggi che vengono varate da Parlamento e Regione. "Si conferma come prassi consolidata - ha detto - l’uso di legiferare in modo caotico e prolisso, con un uso improprio del linguaggio tecnico e leggi di pochi articoli e centinaia di commi, ingenerando notevoli problemi alle amministrazioni con ricadute negative sulle casse dello Stato". Due gli esempi, entrambi significativi: la legge regionale che ha imposto ai Comuni di non procedere all’aggiudicazione dei servizi di raccolta dei rifiuti fino all’istituzione degli Ato, "determinando il ricorso alle ordinanze urgenti per la proroga del servizio" e poi le norme sugli appalti per servizi, per partecipare ai quali i requisiti sono così elevati e sbagliati da aver "deter- minato l’insorgere di situazioni di quasi monopolio o di cartello, incidendo negativamente non solo sul regime di libera concorrenza, ma limitando la libertà di iniziativa economica e l’accesso al mercato di nuovi soggetti, principi invece fondamentali nell’ordinamento europeo". Leggi cattive "determinano indirettamente l’attecchimento di situazioni di illegalità". E le illegalità vanno denunciate: qui la "strigliata" al mondo produttivo: "Si sente spesso invocare a gran voce una risposta di legalità che ponga fine al malcostume dilagante, al dilagante fenomeno della corruzione e dell’attività amministrativa collusa, ma nessuno può pretendere una legalità calata dall’alto. La legalità va praticata da ciascuno come sacrificio e ciascuno deve fare pulizia dentro e fuori la propria casa e ciò vale, in special modo, per operatori finanziari, commercianti, imprenditori e le loro associazioni che devono prontamente denunciare". I parenti delle vittime sono poveri. E il giudice congela il risarcimento di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 6 marzo 2017 L’ordinanza a Torino: "Se la Cassazione ribalta il verdetto, non tornano i soldi". Chiedete a qualunque banchiere o esperto di finanza. Confermerà che è più facile riavere indietro i soldi prestati a un povero che quelli dati a un ricco. Il fondatore della Grameen bank Muhammad Yunus, pioniere del micro-credito moderno che ha consentito a molti contadini del terzo mondo di uscire dalla povertà, e con meno di un decimo delle sofferenze delle banche commerciali, ha avuto per questo il premio Nobel. La cosa non è servita tuttavia a evitare che la terza sezione civile della Corte d’appello di Torino adottasse qualche settimana fa un’ordinanza che lascia di stucco: sospendendo il pagamento di un risarcimento a cui era stata condannata una compagnia assicurativa in favore di alcuni danneggiati perché questi sono indigenti. La ragione? Semplice: siccome sono poveri, nel caso in cui la successiva sentenza di Cassazione a cui l’assicurazione ha fatto ricorso ribaltasse la decisione, nessuno garantisce che sarebbero in grado di restituire le somme. Non bastasse, tutto questo succede dopo un calvario legale già durato più di otto anni. È il 4 maggio del 2008, ora di pranzo. Due vetture si scontrano frontalmente a Barletta sulla bretella che porta alla statale 16 bis. L’impatto è tremendo. Muoiono sul colpo due tifosi sfegatati poco più che trentenni del Barletta calcio che milita in serie D: stanno andando allo stadio per assistere all’ultima partita di campionato. La vicenda è straziante. Ci sono di mezzo dei figli piccolissimi, e la situazione economica delle famiglie si fa molto complicata. Al punto che la giovane consorte di una delle vittime viene ammessa al patrocinio a spese dello Stato previsto per i non abbienti. Ma se le circostanze sono già di per sé penose, quella che succede sul piano legale non lo è da meno. Le richieste di risarcimento che vedono coinvolte due compagnie, l’elvetica Zurich insurance e l’Italiana assicurazioni, innescano ovviamente una serie di contenziosi giudiziari, nel quali si inseriscono anche i familiari delle persone decedute e i tre feriti, uno dei quali è stato ricoverato in rianimazione. La sede processuale per giunta viene stabilita a Torino, il che complica ancora di più le cose per chi attende di essere risarcito. Qualche soldino in effetti arriva, piccoli acconti in attesa che la giustizia lumaca decida. Finalmente, 8 anni e tre mesi dopo l’incidente, arriva la sentenza della Corte d’appello torinese, che riconosce il diritto ai danneggiati a intascare le somme stabilite dai periti. Il totale si aggira intorno al milione e mezzo, da distribuire fra una quindicina di persone. La faccenda sembrerebbe finita lì, ma la Zurich, che deve sborsare quasi 800 mila euro, chiede agli stessi giudici che l’hanno condannata la sospensione dei pagamenti fino a quando la Cassazione non si sarà definitivamente pronunciata. Un ricorso basato sulle considerazioni che gli eredi di una delle vittime "avevano addotto gravi difficoltà economiche", mentre fra gli altri beneficiari c’era chi "aveva subito procedura esecutiva" e chi "aveva chiesto l’anticipazione di denaro sul presupposto della loro disastrosa situazione economica". Due mesi dopo, all’inizio di quest’anno, ecco l’ordinanza: il ricorso viene accolto, anche se in parte. Nel senso che la sospensione viene accordata per i pagamenti dovuti agli indigenti (fra cui la moglie di una delle vittime) ma non invece per quello dovuto a uno dei feriti nell’incidente. Perché lui lavora e ha un reddito fisso: quindi un domani sarà nelle condizioni di restituire eventualmente i soldi alla compagnia. La morale? Per incassare un risarcimento dopo un decennio, se sei povero devi aspettare la Cassazione. Se invece hai un reddito, puoi intascarlo subito. Commenta amaramente l’avvocato Fabio Mastrorosa che con Ruggiero Menunni e Paolo Lionetti rappresentava le parti lese: "Non mi pare una decisione che rispetti l’uguaglianza dei cittadini sancita dalla Costituzione. Credo sia difficile accettare che dopo 9 anni, con un padre e un marito morto, figli ancora piccoli e moglie già privati dell’affetto e del sostentamento economico non possano avere nemmeno il risarcimento che gli spetta". Legittimo non recapitare al detenuto la lettera della moglie scritta con grafia illeggibile quotidianogiuridico.it, 6 marzo 2017 Cassazione penale, sezione I, sentenza 22 febbraio 2017, n. 8766. Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso l’ordinanza con cui il tribunale di sorveglianza aveva rigettato il reclamo proposto da un detenuto in riferimento al provvedimento di trattenimento di una missiva, indirizzata all’uomo dalla moglie, che era stato adottato nei suoi confronti dalla direzione della struttura penitenziaria dove si trovava recluso, la Corte di Cassazione (sentenza 22 febbraio 2017, n. 8766) - nel respingere la tesi difensiva secondo cui non si sarebbe tenuto conto dell’effettivo contenuto della missiva trattenuta e delle comunicazioni esclusivamente private che vi erano sottese, ha diversamente ribadito il principio per cui in tema di controllo sulla corrispondenza del detenuto sottoposto a regime di detenzione speciale, la decisione di non inoltro può essere legittimamente motivata sulla base di elementi concreti che facciano ragionevolmente dubitare che il contenuto effettivo della missiva sia quello che appare dalla semplice lettura del testo. Legge "Pinto", niente risarcimento se il ritardo riguarda l’esecuzione penale di Antonino Porracciolo Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2017 Corte d’appello di Bari, decreto del 29 giugno 2016. Cognizione ed esecuzione penale non vanno considerate unitariamente ai fini dell’equa riparazione prevista dalla legge Pinto (89/2001). Lo ricorda la Corte d’appello di Bari (consigliere Gaeta) in un decreto del 29 giugno 2016. Il procedimento scaturisce dalla richiesta di indennizzo per eccessiva durata di un processo penale, concluso con sentenza di condanna passata in giudicato nell’aprile 2003; negli anni la procura della Repubblica aveva poi emesso ripetute sospensioni dell’ordine di esecuzione della pena e successive revoche, sino a quando, nel maggio 2016, aveva ordinato una nuova esecuzione con contestuale sospensione. Nel respingere la domanda, la corte osserva che, sul rapporto tra giudizio civile di cognizione e processo di esecuzione ai fini dell’equo indennizzo, la Cassazione ha chiarito, con la sentenza 9142/2016, che le due fasi devono essere considerate unitariamente o separatamente "in base alla condotta di parte, allo scopo di preservare la certezza delle situazioni giuridiche e di evitarne l’esercizio abusivo". In particolare, la parte può chiedere che i due processi siano valutati unitariamente (e dunque "considerati come unicum") se si "sia attivata per l’esecuzione nel termine di sei mesi dalla definizione del procedimento di cognizione" (articolo 4 della legge 89/2001). Se, invece, ha lasciato trascorrere quel termine, non può più far valere un’irragionevole durata del giudizio di cognizione, "essendovi soluzione di continuità rispetto al successivo procedimento di esecuzione". La valutazione unitaria dei procedimenti, consentita in ambito civile a certe condizioni, non è mai ammessa nel rapporto tra cognizione ed esecuzione penale. Infatti, per il creditore-attore vittorioso, l’esecuzione civile rappresenta la logica prosecuzione del giudizio che ha accertato il suo diritto. Al contrario, per l’imputato condannato in via definitiva, l’esecuzione penale non costituisce la continuazione della cognizione penale; anzi, conclude il decreto, il condannato ha "interesse alla non esecuzione" della pena. Così la corte d’appello ha dichiarato tardiva la domanda di indennizzo per l’eccessiva durata del processo penale di cognizione, in quanto proposta oltre il termine di sei mesi dal momento del passaggio in giudicato della sentenza. Ha dichiarato improponibile la domanda di equa riparazione per la fase esecutiva, essendo ancora "sub iudice la questione dell’esecuzione o meno della pena irrogata". Il provvedimento in esame è conforme alla giurisprudenza della Cassazione. Infatti, con la sentenza 10307/2010, la Corte suprema ha chiarito che il ritardo nell’emissione dell’ordine di esecuzione della pena non attribuisce al condannato il diritto all’equa riparazione, "non essendovi ancora, in tal caso, alcun procedimento della cui durata irragionevole si possa discutere"; ciò perché il procedimento di esecuzione si apre solo con l’iniziativa del pubblico ministero e non automaticamente con il passaggio in giudicato della sentenza di condanna. Il giudice dell’esecuzione non può aumentare la pena dei reati-satellite di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2017 Corte di Cassazione - Sezioni Unite - Sentenza 10 febbraio 2017 n 6296. Il giudice dell’esecuzione, in sede di applicazione della disciplina del reato continuato, oltre a dover rispettare quanto al risultato finale della pena i limiti fissati dal comma 2 dell’articolo 671 del Cpp, onde evitare di incorrere nella violazione del divieto di reformatio in peius non può neppure quantificare gli aumenti di pena per i reati-satellite in misura superiore a quelli fissati dal giudice della cognizione con la sentenza irrevocabile di condanna. Questo il principio espresso dalle sezioni Unite con la sentenza 10 febbraio 2017 n. 6296 Il caso - La Corte, nel risolvere la questione, ha ritenuto non vi fosse contrasto con altra decisione sempre delle sezioni Unite, laddove si è di recente affermato che non viola il divieto di reformatio in peius ex articolo 597, comma 3, del Cppil giudice di rinvio che, individuata la violazione più grave ex articolo 81, comma 2, del Cpin conformità a quanto stabilito nella sentenza della Corte di cassazione, pronunciata su ricorso del solo imputato, apporti per uno dei reati in continuazione un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore (sezioni Unite, 27 marzo 2014, C.: in tale occasione, a supporto, la Corte ha valorizzato il disposto dell’articolo 597, comma 4, del Cpp, laddove se ne è tratto il convincimento che il legislatore ha preso in considerazione, come termine di riferimento e vincolo per il nuovo giudice, soltanto la pena "complessiva" e non certo i singoli segmenti - o passaggi di giudizio - che hanno concorso a determinare quella pena, così accreditando la logica che il nuovo giudizio sul punto conta solo, agli effetti di interesse, nel suo approdo conclusivo). Infatti, hanno stavolta osservato le sezioni Unite, la conclusione in precedenza assunta è intervenuta a proposito della decisione del giudice di secondo grado, il quale ha cognizione piena del fatto e del grado di colpevolezza dell’imputato, mentre completamente diversa è la valutazione consentita al giudice dell’esecuzione, il quale è privo di quel grado di conoscenza del fatto e della colpevolezza dell’imputato proprio solo del giudice della cognizione. Ciò che spiega quindi, secondo la sentenza in esame, che rientra nello schema giuridico del giudizio di merito e della fase di gravame la possibilità, per il giudice dell’appello, di ritenere più o meno grave una condotta e, con riferimento all’articolo 597 del Cpp, fermo restando il limite massimo della pena, in tale ambito graduare le pene in misura diversa da quella fissata dal giudice di primo grado; potestà, invece, inibita al giudice dell’esecuzione nell’applicazione della disciplina di cui all’articolo 671 del Cpp. Niente violazione obblighi assistenza se il minore non rimane privo di mezzi di sussistenza di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2017 Corte di Cassazione - Sezione V - Sentenza 25 gennaio 2017 n. 3831. In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’espressione "mezzi di sussistenza" di cui all’articolo 570, comma 2, numero 2, del Cp, esprime un concetto diverso dall’assegno di mantenimento stabilito dal giudice civile, essendo in materia penale rilevante solo ciò che è necessario per la sopravvivenza del familiare dell’obbligato nel momento storico in cui il fatto avviene. Pertanto il giudice, ai fini della responsabilità, non può limitarsi ad apprezzare l’omesso versamento dell’assegno stabilito in sede civile, dovendosi interrogare sugli effetti della condotta, ossia sull’eventuale venir meno dei mezzi di sussistenza dei familiari, e deve altresì verificare se la mancata corresponsione delle somme dovute non sia da attribuire a uno stato di indigenza assoluta da parte dell’obbligato, giacché in tal caso l’indisponibilità di mezzi, se accertata e verificatasi incolpevolmente, esclude il reato, valendo come esimente, purché si tratti di una situazione di persistente, oggettiva e incolpevole indisponibilità di introiti. Lo ha precisato la sezione V della Cassazione con la sentenza 3831/2017. I giudici di legittimità nella specie, hanno annullato con rinvio la sentenza di condanna, basata sul mero dato di fatto che l’obbligato non aveva versato al figlio minore e alla moglie l’assegno divorzile fissato in euro 350 mensili, avendo il giudice omesso di accertare il venir meno dei mezzi di sussistenza, tenuto conto del fatto che la moglie lavorava e guadagnava euro 1500 mensili, nonché di tener conto delle concrete capacità patrimoniali dell’obbligato che aveva addotto di avere perso il lavoro e di essere stato costretto a ricorrere all’ospitalità della madre; sotto quest’ultimo profilo la Cassazione ha precisato che, in osservanza dei criteri di distribuzione dell’onere della prova, all’imputato compete un onere di allegazione, mentre è compito della pubblica accusa dimostrare che egli, aveva, invece, la concreta possibilità di adempiere, e pur tuttavia a tale obbligo si era volontariamente sottratto. Le caratteristiche del reato - Proprium del reato di violazione degli obblighi familiari (articolo 570, comma 2, numero 2, del Cp) e i rapporti tra tale reato e le statuizioni alimentari adottate dal giudice civile. In vero, il reato di cui all’articolo 570, comma 2, numero 2, del Cp, consiste nel fare mancare ai soggetti in esso indicati (discendenti in età minore, coniuge) i mezzi di sussistenza, che vanno individuati in ciò che è strettamente indispensabile alla vita, come il vitto, l’abitazione, i canoni per le ordinarie utenze, i medicinali, il vestiario, le spese per l’istruzione dei figli (da apprezzarsi, in concreto, in rapporto alle reali capacità economiche e al regime personale del soggetto obbligato). La nozione di mezzi di sussistenza non si identifica, comunque, con quelle, tipicamente civilistiche, di mantenimento e di alimenti, giacché in queste rientra anche ciò che è soltanto utile o che è conforme alla condizione dell’alimentando, oltre che proporzionale alle sostanze dell’obbligato: le determinazioni del giudice civile sul punto (in particolare, quelle adottate in sede di separazione coniugale) mirano, del resto, a garantire (almeno tendenzialmente) all’avente diritto alla prestazione di mantenimento il livello di vita precedente. Da ciò discende che, ai fini della configurabilità del reato di cui all’articolo 570 del Cp, non sussiste alcuna correlazione tra i mezzi di sussistenza e l’assegno di mantenimento fissato dal giudice civile in sede di separazione: la mancata o minore corresponsione dell’assegno stabilito dal giudice civile non è sufficiente, di per sé, a dimostrare la responsabilità penale, se non è accompagnata dalla prova che, in ragione dell’omissione, sono venuti meno i mezzi di sussistenza all’avente diritto. Pertanto, per la configurabilità del reato, non basta addurre l’inadempimento, totale o parziale, ma deve positivamente dimostrarsi, in primo luogo, che tale inadempimento ha finito con l’incidere negativamente sulla soddisfazione integrale delle indispensabili esigenze di vita dell’avente diritto alla prestazione. Deve essere chiaro, per intenderci, che il quantum stabilito in sede civile per l’assegno non fa stato in sede penale, fondandosi il presupposto oggettivo del reato su parametri del tutto diversi. In questa prospettiva, per integrare la prova dell’avvenuta mancanza dei mezzi di sussistenza occorre la dimostrazione, anche, dello stato di bisogno dell’avente diritto. Prova che presenta aspetti del tutto peculiari e semplificati allorquando il soggetto passivo non disponga di redditi propri, come normalmente avviene nel caso di minori, onde la decurtazione, totale o parziale, dell’assegno, finisce con l’incidere necessariamente sull’adempimento dell’obbligazione alimentare e integra gli estremi del reato, avendo l’effetto inevitabile di far mancare i mezzi di sussistenza all’avente diritto. Mentre deve escludersi la configurabilità del reato di cui all’articolo 570 del Cp, pur in presenza di un’omessa o parziale corresponsione dell’assegno di mantenimento stabilito in sede civile, in ogni caso in cui, nonostante l’inadempimento totale o parziale da parte dell’agente, il soggetto passivo non sia rimasto privo di mezzi di sussistenza, come avviene nel caso in cui egli disponga di redditi personali sufficienti ad assicurare il soddisfacimento dei bisogni primari o nel caso in cui la minor somma corrisposta dall’obbligato sia comunque sufficiente a tal fine. Latina: serve un nuovo carcere, ennesima denuncia contro il sovraffollamento latinacorriere.it, 6 marzo 2017 "Meglio una nuova struttura che quella attuale del vecchio del carcere di Latina". Battere il ferro quando è ancora caldo: è di pochi giorni fa l’incontro tra il Ministero della Giustizia Andrea Orlando, il senatore pontino Claudio Moscardelli e il sindaco di Latina Damiano Coletta durante il quale all’attenzione del Governo è stata posta la necessità per il capoluogo pontino di una nuova casa circondariale da realizzare lontano dal centro urbano, e oggi la Fns Cisl provinciale e regionale rilancia. "Un nuovo istituto è indispensabile sia per i detenuti, attualmente sono in una struttura vecchia e sovraffollata e poco rispettosa della dignità umana, che per il personale di Polizia Penitenziaria, i luoghi dove lavorano certo non possono definirsi accettabili e non hanno i confort rispetto ad altri di recente costruzione come quello di Rieti, automatizzazione cancelli etc etc." Anche il segretario generale aggiunto Fns Cisl Latina, Gianni Tramentozzi, auspica una nuova sede più confortevole per il personale e più spazi per i detenuti con una maggiore sicurezza prevedendo quindi anche sistemi di video-sorveglianza interna ai reparti (maschile e femminile). La casa circondariale di Latina risulta a livello nazionale superiore al limite del 120% e quindi tra i 20 istituti più affollati, infatti risulta 12° in posizione con il 157,89% (76 detenuti previsti ma ve ne sono 120). Un sovraffollamento che si registra anche a livello regionale paria a 984 detenuti considerato che 6.219 risultano essere i detenuti reclusi nei 14 Istituti del Lazio, dato del 28 febbraio 2017, rispetto ad una capienza regolamentare di detenuti prevista di 5.235. Aumenta, quindi, il sovraffollamento rispetto anche al mese di dicembre 2016 che risultava essere di 871 detenuti. Preoccupa - fa sapere il segretario generale aggiunto di Fns Cisl del Lazio, Massimo Costantino - il sovraffollamento negli istituti di: Viterbo (+169); CC Cassino (+91) CC Frosinone (+128) NC Civitavecchia (+90) CCF Rebibbia (+55), NC Rebibbia (+ 244) CC Regina Coeli (+299)Velletri (+182), NC Rieti(+22). Il sindacato segnala l’importante ruolo svolto dalla Polizia penitenziaria che frequentemente trova: cellulari in cella, ultimo caso di alcuni giorni fa nel carcere Lazzaria di Velletri (23 febbraio) e quello della Terza Casa Circondariale Rebibbia (18 febbraio). "Preoccupa anche il fatto che in molti istituti del Lazio vi sono molti detenuti per ordine e sicurezza provenienti da vari istituti, anche Abruzzesi, oltre ad ospitare casi complicati e noti ai fatti di cronaca e soggetti con gravi problemi di salute i quali creano criticità aggiuntive", si legge in una nota del sindacato in cui si aggiunge anche un episodio avvenuto il 24 febbraio: un giovane detenuto italiano, di 22 anni, si è suicidato impiccandosi con un lenzuolo alla grata del bagno nel carcere romano di Regina Coeli: "Il tutto è accaduto alle 23 nella seconda sezione terzo piano -sezione dove erano presenti 167 detenuti. Vittima un detenuto problematico che era evaso per ben tre volte dalla Rems di Ceccano". "Il personale risulta sottodimensionato - afferma Costantino - rispetto alle esigenze reali. Attualmente mancano nel Lazio 465 unità (4.052 previste rispetto agli attuali 3.587). Purtroppo evidenziamo come seppur vi sono stati interventi legislativi nelle carceri restano i soliti problemi, sovraffollamento dei detenuti e cronica carenza di personale di Polizia Penitenziaria". "A distanza di tre anni dal decreto svuota carceri - conclude il sindacato - le nostre carceri tornano sovraffollate. In ambito nazionale, 191 istituti, vi sono 55.381 reclusi rispetto ai previsti 50.174 cioè un esubero pari a 5.207. Pur apprezzando le nuove normative in tema di esecuzione penale, istituendo il nuovo Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità, i risultati concreti tardano ad arrivare". In quanto a Latina, Moscardelli aveva riferito che il Governo ha predisposto un piano di interventi per l’edilizia penitenziaria e che quindi il Ministro Orlando "ha espresso una volontà positiva e l’esistenza delle condizioni necessarie per dotare Latina di una nuova struttura". Cuneo: iniziati i lavori nel carcere di Alba, presto la riapertura La Stampa, 6 marzo 2017 I lavori al carcere di Alba sono partiti. Un primo, modesto intervento quasi "in economia", ma che permetterà di riaprire al più presto il reparto dei collaboratori di giustizia. Ovvero, l’edificio che ospita 38 celle singole, separato dalla struttura principale del "Giuseppe Montalto", ricavato dall’antica sezione femminile e ristrutturato nel 2014 per accogliere i pentiti. A fine gennaio, durante un sopralluogo voluto dall’europarlamentare Alberto Cirio per conoscere le novità sul futuro della casa di reclusione chiusa dal 5 gennaio 2016 per un’epidemia di legionella, la direttrice Giuseppina Piscioneri aveva anticipato che il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, aveva chiesto una relazione dettagliata sulla situazione strutturale, "per accelerare l’apertura del reparto in attesa degli interventi all’intero edificio". "Così è stato - conferma la direttrice. I lavori sono iniziati qualche giorno fa e, se tutto andrà come da programma, l’area riaprirà al più presto". Quali i lavori in corso? "È stata collegata una nuova caldaia e la prossima settimana verificheranno le temperature dell’acqua. Per quanto riguarda le assegnazioni dei detenuti, ci atterremo alle indicazioni del Dipartimento. A quel punto, si potrà provvedere anche al rientro di gran parte degli agenti che oggi, con estrema difficoltà, sono sottoposti a viaggi quotidiani nelle strutture di Saluzzo, Asti e Alessandria". Pare che per adesso la ristrutturazione abbia comportato una spesa di poche migliaia di euro. Molto più impegnativo, in termini di tempo e finanze (la spesa messa nel capitolo di bilancio del ministero era di 2 milioni di euro), il lavoro che dovrà essere intrapreso nelle quattro sezioni comuni. Alla visita di gennaio era presente anche il garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano, che da mesi segue la vicenda con il collega del Comune di Alba, Alessandro Prandi. "Innanzitutto, grazie al capo del dipartimento Consolo per questa forte presa di posizione - dicono -. In una lettera in cui erano riportati i passaggi di raccordo fra Roma e Torino, è stato proprio lui a indicare la data del 26 febbraio entro cui decidere un intervento. Siamo fiduciosi che con il suo interessamento personale e la disponibilità dimostrata dalle forze locali, si andrà presto nella giusta direzione. Ora occorre monitorare i lavori". Secondo i report regionali, 8 istituti penitenziari su 12 in Piemonte sono sovraffollati, quindi Alba non dovrebbe attendere molto per riavere i suoi detenuti. A seguire il caso, oltre a Cirio che si dice "felice di aver smosso le acque con una provocazione" (quella di un possibile adattamento della struttura come centro di accoglienza), anche l’avvocato albese Roberto Ponzio, nominato da 70 agenti per essere tutelati: "Con questo micro-intervento si realizza quanto avevano proposto mesi fa gli agenti e si cancellano i rumors su nuove destinazioni d’uso. Con una spesa modesta si potrà riaprire un reparto che, associato a quello interno dei semi-liberi, potrà accogliere circa 70 detenuti e consentire il rientro a decine di lavoratori costretti ora a disagevoli trasferte". Cagliari: l’8 marzo Sdr e Fidapa nel carcere di Uta con "un sorriso oltre le sbarre" Ristretti Orizzonti, 6 marzo 2017 Le diverse problematiche relative alla detenzione femminile e all’importante ruolo delle Agenti penitenziarie saranno anche quest’anno al centro dell’iniziativa "Un sorriso oltre le sbarre", la manifestazione promossa e organizzata dall’associazione culturale "Socialismo Diritti Riforme" e dalla sezione cagliaritana della Fidapa in occasione della Festa Internazionale della Donna. Tema dell’appuntamento, giunto all’ottava edizione, è la salute femminile con particolare riferimento alle patologie del seno grazie alla disponibilità del dott. Massimo Dessena, chirurgo oncologo, segretario della Società Italiana di Chirurgia Oncologica (Sico), che svolge la sua attività presso l’ospedale Oncologico dell’Azienda Brotzu. Nel programma è prevista anche una visita senologica alle detenute che ne faranno richiesta. La delegazione, coordinata da Maria Grazia Caligaris (Sdr) e Liliana Floris (Fidapa), incontrerà dunque mercoledì 8 marzo alle ore 10 le donne private della libertà e le Agenti in servizio nella Casa Circondariale "Ettore Scalas" di Cagliari-Uta. A ciascuna detenuta sarà donato un pacchetto con prodotti per la cura personale, anche grazie alla generosità di alcune farmacie. Una pianta inoltre sarà a disposizione della sezione femminile del Villaggio Penitenziario. Interverranno all’appuntamento il Direttore dell’Istituto Marco Porcu, la Comandante Alessandra Uscidda, il responsabile dell’Area Educativa Claudio Massa. Saranno altresì presenti il coordinatore sanitario della Casa Circondariale Antonio Piras e la responsabile della Sanità Penitenziaria della Assl Paola Sanna. "La visita nella sezione femminile, concordata con la Direzione dell’Istituto e con l’area educativa, vuole rappresentare, in una giornata speciale dedicata alle donne - affermano Caligaris e Floris - un momento di vicinanza dell’opinione pubblica verso chi sta pagando il debito con la società. Si tratta però anche di un’occasione per conoscere più da vicino la realtà detentiva e il lavoro di chi vive quotidianamente all’interno della struttura. Per il secondo anno consecutivo, aldilà della solidarietà, abbiamo inoltre voluto richiamare l’attenzione sulle patologie del seno. Il nostro è un messaggio di attenzione verso chi si trova in difficoltà e di speranza nella convinzione che l’esclusione dalla vita sociale è temporanea e occorre costruire strumenti di conoscenza solidi e duraturi per il ritorno alla libertà". Alla manifestazione dell’8 marzo seguirà il giorno successivo (giovedì 9 marzo - ore 16,30 - Sala Convegni - Fondazione di Sardegna) il Premio Solidarietà Donna che sarà assegnato alla prof.ssa Elisabetta Atzeni. Milano: un asilo per i bimbi detenuti con le mamme nel carcere di Opera? Agenpress, 6 marzo 2017 Milano potrebbe avere il suo prossimo asilo nido all’interno del carcere di Opera. Una struttura quasi pronta all’uso è presente nell’istituto ed è stata visionata ieri da Simonetta D’Amico, consigliera comunale Pd a Milano insieme a Gianni Rubagotti, iscritto al Partito Radicale e l’avvocato Paola Ponte insieme al Direttore Giacinto Siciliano durante una visita all’istituto organizzata dal Partito Radicale. "Uno spazio che è stato inaugurato 4 anni fa che è un asilo nido dedicato ai dipendenti del carcere e che è stato però utilizzato solo in parte." ha dichiarato D’Amico "L’idea che secondo me è da portare avanti è quella di convenzionarlo col Comune di Milano e di poter aprire questo asilo nido anche ai cittadini milanesi. È una struttura bellissima, bisogna visitarla per rendersene conto, e sarebbe una opportunità sia dal punto di vista delle famiglie, perché sarebbe un costo inferiore rispetto a un asilo nido in zona centrale, e per far vivere il carcere sotto un punto di vista diverso". Lo spazio inoltre è videosorvegliato, dando quindi massime garanzie ai genitori sul comportamento degli educatori presenti, e avrebbe costi molto ridotti per il comune. La delegazione ha incontrato alcuni dei detenuti che hanno digiunato durante la Marcia per l’Amnistia dello scorso novembre informandoli sullo sciopero della fame di oramai 3 settimane di Rita Bernardini e Lucio Berté per chiedere lo stralcio di alcune norme della riforma della giustizia per garantirne l’approvazione in questa legislatura. Lucio Berté digiuna inoltre per chiedere il rispetto di una mozione votata all’unanimità dal Consiglio Regionale lombardo che chiede che la Asl durante le visite nelle carceri controlli anche le cartelle cliniche dei detenuti. La delegazione ha visitato alcuni dei detenuti anziani, alcuni dei quali ultraottantenni e con forti problemi fisici, un detenuto marocchino su sedia a rotelle in seguito a un ictus e che ha problemi di memoria. Nell’ottica di rieducare i detenuti attraverso il lavoro sta per essere ampliato il panificio interno del carcere e nella ex-gelateria verrà aperto un pastificio che servirà altri istituti penitenziari. Grazie anche alla collaborazione con atenei milanesi alcuni detenuti seguono corsi universitari, in generale già dalla loro entrata nell’istituto si cerca di instradare i detenuti verso percorsi formativi. Palermo: sommossa all’Ipm Malaspina, detenuti si barricano nella sala comune Adnkronos, 6 marzo 2017 Sommossa di un gruppo di detenuti al carcere minorile Malaspina di Palermo, dove una decina di giovanissimi carcerati, nella tarda serata di ieri, si sono barricati per alcune ore nella sala comune. Intervenuta una pattuglia della Polizia, ma anche i Vigili del fuoco, che hanno sedato la protesta. Poco prima dell’una di notte, i ragazzi hanno riaperto la stanza in cui si erano chiusi e sono tornati pacificamente nelle loro celle. Secondo quanto apprende l’Adnkronos, i giovani detenuti chiedevano più permessi e cibo migliore. Milano: i detenuti di San Vittore scrivono al Pontefice che il 25 marzo pranzerà con loro di Paolo Foschini Corriere della Sera, 6 marzo 2017 Il sito della Curia ambrosiana lo sottolinea col rilievo che merita: il prossimo 25 marzo, con la visita di Francesco a Milano, sarà la prima volta che un Papa entra nel carcere di San Vittore. Vescovi ce n’è stati tanti, è vero. E pure pontefici in visita altrove, da Regina Coeli a Rebibbia dove Wojtyla incontrò anche il suo attentatore Ali Agca, allo stesso Francesco che di detenuti ne ha incontrati un mare e anche all’estero ha visto prigioni tremende, a cominciare da quelle argentine. Ma per San Vittore è la prima volta e Bergoglio ha chiesto anche in questo caso quel che ha chiesto sempre: che non sia una visita formale, che ci sia tempo per parlare, per stare "a tu per tu" col maggior numero di persone possibile. E infatti starà lì per due ore a partire dalle 11.30, pranzando con loro. "Il Papa viene per i detenuti - ha ricordato la direttrice Gloria Manzelli - ma anche per chi lavora con impegno e dedizione nell’Istituto penitenziario. Lasceremo che le persone incontrino Francesco senza il filtro dell’organizzazione, perché possa essere un incontro di anime". Il cappellano don Marco Recalcati ha spiegato che "per quanto possibile abbiamo chiesto di non selezionare i detenuti ma che pur dietro le sbarre, da lontano o mentre passa in rotonda, tutti riescano a sentire le parole del Papa e a vederlo". Nella rotonda centrale ne incontrerà un centinaio, altri cento saranno a tavola con lui al Terzo raggio. Molti stanno preparando doni da lasciargli. Alcuni, nel frattempo, hanno deciso di scrivergli. Natalino Vallone Mi chiamo Natalino, sono originario della Calabria e ho perso la mia famiglia in 30 lunghi anni di carcere. È la seconda volta che entro. Da dicembre porto in corpo il cuore di un donatore, spero riposi in pace. Al mio risveglio dopo il trapianto ho visto nella mia stanza due figure che piangevano. Erano i genitori di chi mi aveva dato il cuore. Da allora mi sono sempre vicini e ringrazio Dio di avermi dato la possibilità di una nuova famiglia. Sono felice di vivere di nuovo insieme a tutti. Un caro saluto. Massimo Scarpat Ciao Francesco scusa se non uso appellativi ma una volta che supererai i cancelli di San Vittore sarai un fratello anche per me, che qui mi trovo da un po’ di tempo e che non ho fede. Voglio solo dirti che ho peccato, ho rubato la serenità alla mia mamma e ho ucciso la fiducia di mio padre. Ma loro non mi hanno abbandonato. Così è in loro che ora rivolgo la mia ritrovata fede. Così ho capito che non è importante in cosa credi, l’importante è avere la fortuna di poter credere in qualcuno. Grazie per ogni singolo passo che farai in queste mura. Grazie di rappresentare l’amore e non necessariamente solo una religione. Alfredo Giacoppo Se potessi parlare a papa Francesco qui a San Vittore gli chiederei di fare un miracolo: di perdonare tutti i miei sbagli e tutte quelle volte che ho fatto del male, di farmi tornare bambino con i ricordi vissuti e di non fare più quelle brutte azioni che mi hanno allontanato dalla mia famiglia e mi hanno portato dove sono ora. Vorrei davvero potere ricominciare tutto. Mustapha Sekouri Abbiamo fedi differenti. Ma tu caro Francesco quando preghi per i carcerati non fai distinzioni di sesso, di razza, soprattutto di religione. Così mi sento accolto anch’io nelle tue preghiere e se potessi chiederti qualcosa sarebbe un regalo bellissimo sentirti fare una preghiera al cielo per noi fratelli musulmani detenuti nelle carceri italiane, lontani da casa e dai nostri affetti. Tu anche a noi di religione diversa ispiri fiducia con bellissime parole che riuniscono in fratellanza tutte le religioni. Ti prego di continuare a trasmettere fede, perché la fede può aiutare anche quelli che come noi hanno sbagliato a trovare la forza per combattere e per uscire dalle nostre dipendenze distruttive. Grazie Francesco da un fratello musulmano. Fatjoni Francesco ciao. Nelle tue parole che da San Pietro arrivano anche a noi detenuti di San Vittore emerge una forte partecipazione emotiva alle sofferenze umane. Purtroppo ci arrivano anche immagini cariche di dolore, immigrati, terremotati, e le infinite situazioni di estrema povertà. Ma tutto questo viene mitigato dalla gioia trasmessa dal tuo sorriso che ci fa dimenticare anche solo per un momento angoscia e tristezza. Grazie di donare con la tua visita una briciola d’amore eterno a noi detenuti sospesi nel limbo tra il bene e il male. Moutabbid Abdelkbir Carissimo Papa, mi trovo detenuto nel reparto dei tossicodipendenti di San Vittore chiamato La Nave. Sono qui per pagare il mio debito con la giustizia, ma allo stesso modo per riuscire a curare la mia patologia della sostanza. Le chiedo di fare una preghiera per darmi la forza di portare a termine la mia situazione, per un benessere mio e di mia sorella che è in attesa della mia prima nipotina: vorrei godermela fuori da queste mura visto tutto il sacrificio che fa ogni settimana per venirmi a trovare. Anche se sono musulmano, una parte di me crede in lei. Angelo Longo Mio caro Papa semplice. Chi se lo sarebbe aspettato, a volte la vita è proprio strana, di incontrarci in questo percorso carcerario. Sarà un’altra esperienza che chiuderò in me. La mia famiglia me lo diceva sempre: da un’esperienza negativa ne può derivare una positiva, e questa ne è la prova. Quel che ti chiedo è di farci cantare per te la benedetta canzone "Hay un amigo en mi" per condividere con te le nostre emozioni e la musica che cantiamo col nostro coro qui a San Vittore. Come dice Madre Teresa quello che facciamo è solo una goccia nell’oceano, ma se non ci fosse quella anche l’oceano mancherebbe. Te saludo mi querido Papa Simple. Ghanim Larbi Sono un papà di religione musulmana, detenuto nella casa circondariale di San Vittore. Sto scontando la mia condanna per colpa della mia tossicodipendenza. Quel che non vedo giusto è che la giustizia colpisce purtroppo non solo chi ha sbagliato, come me, ma anche i suoi affetti familiari. Così per un mio errore i miei due bambini non possono più vedermi. Ti chiedo una preghiera per potere riavvicinarmi a loro. Mi affido a te perché sei il Papa del popolo e della famiglia unita. Grazie. Fabrizio Saderi Ciao Francesco, detto il Papa! Mi dicono che presto verrai a San Vittore. Non so cosa tu abbia combinato per finire qui con noi, ma sta di fatto che ti abbiamo già preparato un letto al quarto piano del terzo reparto: le lenzuola ci sono già, devi solo procurarti il pigiama. Se poi quando dormi russi dimmelo, che mi procuro i tappi per le orecchie. Per il resto c’è tutto: caffè, sigarette e un piatto di pasta non mancano mai. Mi dicono anche che usi vestirti di bianco. Ti consiglio colori più scuri: sai, qui c’è tanta polvere, la candeggina scarseggia, e i capi bianchi non durano molto. Per ora è tutto, ti aspettiamo. Ciao Fra! Belluno: pallavolo in carcere, "così lo sport aiuta i detenuti" di Valentina Voi Corriere delle Alpi, 6 marzo 2017 Marco Imperatore lavora come volontario a Baldenich "Si crea con un clima di fiducia tra di loro e con noi". Rispetto delle regole, gioco di squadra, solidarietà. In una parola, sport. Sono questi i valori che il Centro Sportivo Italiano cerca di portare dentro il carcere di Baldenich attraverso la pallavolo. Ogni sabato, dalla scorsa estate, un professore di educazione fisica e un volontario portano dentro la casa circondariale la loro esperienza e la loro voglia di mettersi in gioco per insegnare ai detenuti a giocare a pallavolo. "L’attività fisica dura un paio d’ore" spiega Marco Imperatore, "e cerchiamo sempre di farla all’esterno". Ventun anni, laureando in Scienze motorie e tanta voglia di guardare il mondo senza pregiudizi. Marco ha raccontato la sua esperienza ad una platea di ragazzi presenti ieri al convegno "Sport legalità carcere" organizzato dal Centro Sportivo Italiano insieme all’associazione Jabar al teatro del Centro Giovanni XXIII. "Ho raccontato la mia esperienza in Camerun" spiega Marco, "dove le carceri sono decisamente diverse da quelle italiane". Una realtà che il giovane, originario di Vodo di Cadore, ha imparato a conoscere: ogni fine settimana dedica il suo tempo al volontariato tra le mura della casa circondariale di Baldenich. "Il nostro scopo è portare all’interno del carcere i valori dello sport" spiega, "che sono quelli della solidarietà e del rispetto delle regole. Inoltre l’attività fisica aiuta i detenuti a scaricare la tensione. Alle nostre attività partecipano circa 20 detenuti, un numero che varia a seconda del clima e anche dell’umore. Ma con la bella stagione siamo riusciti anche ad organizzare delle partite con le squadre al completo. La pallavolo è uno sport di squadra, facile da gestire e da organizzare. Basta una rete ed è fatta". Marco porta dentro le mura di Baldenich "felicità e fiducia". Queste sono le sensazioni che i volti dei detenuti restituiscono ai compagni e ai volontari. "Lo sport rilassa, alla fine della partita c’è anche più voglia di parlare". Al convegno ha partecipato anche l’associazione Jabar, che ha recentemente fondato una rivista firmata dai detenuti, sulla scia di quanto accade già a Padova. "La percezione che abbiamo è che la città non sappia di avere un carcere" spiega Elisa Corrà dell’associazione Jabar, "noi abbiamo cercato di spiegare le sensazioni provate dentro il carcere, come ad esempio il passare del tempo. Quella del Csi è un’ottima iniziativa che consente di fare comunità". Tecnicamente il carcere di Baldenich è una "casa circondariale" dove vengono detenute persone in attesa di giudizio o quelle condannate a pene inferiori ai cinque anni. Oltre alla rivista, l’associazione vorrebbe dare ulteriore voce ai detenuti. "Ci piacerebbe organizzare eventi in carcere" spiega Elisa, "per il momento non è stato possibile farlo ma sarebbe un modo per far conoscere la casa circondariale alla città". Brescia: incontrare la fragilità, la danza contemporanea in carcere di Sara Gvero pequodrivista.com, 6 marzo 2017 Nella casa di reclusione di Brescia Verziano l’associazione Compagnia Lyria svolge un laboratorio di danza contemporanea per detenuti e liberi cittadini. Giulia Gussago, direttrice artistica del progetto, ci parla dell’evoluzione e degli esiti di un lavoro che unisce scoperta di sé e incontro con l’altro. Come nasce progetto Verziano? Ho iniziato a pensare a un progetto in carcere nel 2010 e con Compagnia Lyria abbiamo iniziato nell’ottobre 2011 la prima esperienza rivolta alla sezione femminile. Dal 2012 l’attività è rivolta anche alla sezione maschile, creando un momento d’incontro molto importante tra uomini e donne. All’inizio lo spettacolo finale era dato esclusivamente nella struttura, poi abbiamo pensato di offrire alla cittadinanza l’occasione di osservare gli esiti del lavoro. L’anno scorso lo spettacolo è stato ospitato dal Teatro Sociale di Brescia con un tutto esaurito e i detenuti hanno avuto l’occasione di uscire dal carcere per incontrare finalmente un pubblico diverso. Così per il percorso: prima rivolto solo ai detenuti, nel tempo ho ritenuto utile far sì che questi potessero incontrare i cittadini e viceversa, in un percorso di valore a doppio senso. Sul sito spiegate che il vostro obiettivo è quello di sensibilizzare il pubblico all’ "integrazione tra realtà carceraria e società civile", sottolineando la necessità di un processo reciproco… Credo sia impossibile immaginare una "rieducazione" dei detenuti senza un lavoro di sensibilizzazione di chi poi dovrà accoglierli: dare la possibilità ai cittadini di conoscere le persone che sono dentro è un modo necessario per far sì che si cambi il punto di vista, e quindi eventualmente il pregiudizio. Per i detenuti tutto ciò crea fiducia in una società che in futuro potrà accoglierli. In questa relazione e scambio, può avvenire una trasformazione. Esporsi, prendere un rischio: senza questo il resto è solo teoria, piani inapplicabili nella vita delle persone. Ha detto che l’ultimo spettacolo ha fatto il tutto esaurito, la risposta al vostro lavoro sembra dunque positiva… In questi sei anni abbiamo creato occasioni di presentazione dello spettacolo, conferenze, video e riviste: abbiamo cercato di creare curiosità e la risposta che abbiamo avuto ha dato ragione del percorso che abbiamo fatto. I cittadini e i detenuti che partecipano al lavoro sono i veicoli più importanti: molti hanno portato parenti e amici, alcune persone sono venute da molto lontano per assistere. Tre anni fa con lo spettacolo eravamo in un chiostro, il pubblico era disposto per terra su dei cuscini, a pochi metri di distanza. Una persona che usciva dopo molti anni di detenzione mi disse: "Quando si sono accese le luci e ho visto il pubblico così vicino che applaudiva, mi sono sentito orgoglioso di questo percorso, di aver dimostrato che anch’io posso fare qualcosa di buono". Crede che osservare questi risultati spinga le istituzioni a ripensare la detenzione in un’ottica di valorizzazione dell’individuo, piuttosto che di pena o rieducazione? Il tema delle istituzioni è sempre un po’ scivoloso: c’è l’istituzione e ci sono le persone che la dirigono. Durante il nostro primo incontro la dottoressa Lucrezi (Paola Lucrezi, direttrice di Verziano, ndr) mi disse: "Io credo che la cultura e l’arte siano gli strumenti da usare per il recupero di queste persone alla socialità". Tutti i passi che sono stati fatti - far accedere decine di cittadini durante i laboratori nel carcere e duecentocinquanta persone agli spettacoli, organizzare insieme alla polizia penitenziaria la scorta per coloro che non possono uscire autonomamente per le prove dello spettacolo al teatro stabile, programmare i turni degli agenti… è un lavoro veramente grande e chiede una vera convinzione dal parte del direttore del carcere e di tutti i collaboratori. Sono davvero felice di aver avuto questo fortunatissimo incontro e che ci sia questa istituzione nella nostra città. Quali strumenti particolari offre la danza contemporanea per il vostro lavoro? Io uso i principi del metodo Feldenkrais, che trovo estremamente utili per dare alle persone la possibilità di sentirsi nel movimento e collegare l’esperienza artistica alla quotidianità. Trovo che la danza contemporanea sia uno strumento ottimo per rendere la persona capace di ascoltarsi, e di conseguenza rendersi sensibile al mondo. C’è tanto bisogno di raccontarsi, tra i detenuti e non solo: il mio lavoro è quello di creare il contesto, lanciare dei sassolini e vedere cosa torna indietro in termini di materiale artistico, per poi comporlo, ricomporlo o scomporlo e creare un prodotto piacevole da vedere. Questa è la mia idea di utilizzo di danza, che sconfina dove è necessario: abbiamo fatto lavori di scrittura, o con il colore; non escludo nulla. A volte a chi prende coraggio nello scrivere, mentre si sente impacciato nel muoversi, chiedo di esprimere il testo con un movimento: dopo che ne ha fatto uno può farne due, dieci, mille… non c’è più problema. Quindi il suo ruolo è quello di scoprire le "aperture" di ogni persona? Si, il mio specifico ruolo è questo: insegnare come si allunga un braccio o si solleva una gamba da terra è del tutto marginale. Il percorso del far esprimere ai partecipanti quello che c’è ed elaborarlo rende meraviglioso anche un piccolo gesto se vissuto dalla persona che lo fa con presenza, convinzione. Per me questa è la potenza dell’atto artistico. Troppo spesso vado a vedere spettacoli in grandi teatri con compagnie di fantastici danzatori e mi manca qualcosa quando esco, e mi chiedo: che cosa aggiunge questo alla vita di tutti noi che abbiamo messo a disposizione un’ora della nostra esistenza? A me parla invece di più una persona curva o con la pancia che però è convinta di fare quel gesto, è tutta lì… Parliamo quindi di fragilità, una qualità che fa paura, ma anche una risorsa importante… La fragilità ci rimanda all’idea di qualcosa che si può rompere rapidamente o a cui è necessario dare una cura particolare perché altrimenti ci può distruggere. Penso alla fragilità che si prova durante la convalescenza dopo una malattia, quando sappiamo che stiamo andando verso la guarigione ma non l’abbiamo conquistata completamente: è una fase meravigliosa perché si hanno illuminazioni, comprensioni riguardo alla fortuna di esser in salute e si vivono gioie molto profonde per cose banali. Passando dalla fragilità si trova una vera e profonda potenza, un potere: se le resistiamo non riusciamo ad accedere ad un’esperienza che ci possa spingere più in là. Einstein diceva: "Devo essere disposto a smettere di essere ciò che sono per poter diventare ciò che sarò": in questo la fragilità può aiutarci. Castrovillari (Cs): l’8 marzo nel carcere lo spettacolo teatrale "#Iodamorenonmuoio" veritasnews24.it, 6 marzo 2017 Un modo diverso di festeggiare le donne l’8 marzo. Portare in carcere i disagi sopportati lungo i secoli e raccontare ai detenuti ed alle detenute quanto è avvenuto in Calabria contro le donne e contro i bambini negli ultimi trent’anni. Il Coordinamento Donne Regionale della Cisl, diretto da Nausica Sbarra, propone, mercoledì 8, all’interno del penitenziario di Castrovillari, lo spettacolo teatrale "#Iodamorenonmuoio" tratto dall’omonimo libro del giornalista e scrittore calabrese Arcangelo Badolati. L’io recitante della pièce è lo stesso Badolati accompagnato in scena dall’attrice Federica Montanelli, allieva prediletta di Enzo Garinei una delle figure più importanti del teatro italiano. "Abbiamo scelto di portare la cultura e il teatro d’impegno sociale nel penitenziario dove sono pure detenuti i sex offenders" dichiara Nausica Sbarra "per far comprendere quanto inutile sia il ricorso alla violenza e dimostrare, al contrario, come l’amore vero sia fatto di condivisione e reciproca solidarietà e non di possesso e costanti soprusi. Lo spettacolo racconta il dramma vissuto dalle donne cresciute negli ambienti della ‘ndrangheta come di quelle uccise da ex mariti ed ex fidanzati. È un pugno nello stomaco che offre, tuttavia, anche molti messaggi di speranza. Lo schema della rappresentazione" spiega Nausica Sbarra "è il racconto del giornalista e scrittore calabrese, accompagnato da musiche, cui si alterna la recitazione di brani tratti da atti giudiziari o da capolavori della letteratura mondiale a cura dell’attrice Federica Montanelli. L’atmosfera diviene subito molto suggestiva e il messaggio lanciato è chiaro: la bellezza della cultura, dell’arte, della pittura, del sapere è l’unico antidoto da opporre alla subcultura della violenza. Più si conoscono le parole dei poeti, i pensieri dei filosofi, le tele degli artisti, più l’animo diviene sensibile e dolce e non lascia perciò spazio alla crudeltà tipica di chi stalkerizza, stupra o uccide. Nella piece s’incrociano i fatti di cronaca con le pagine più significative della storia e della letteratura svelando le tante analogie esistenti tra il passato e il presente. Badolati ripercorre in scena, accompagnato dalla voce recitante della Montanelli, le esistenze di donne ribelli come Maria Concetta Cacciola, Tita Buccafusca e Giuseppa Mercuri; di donne assassinate come Roberta Lanzino, Maria Rosaria Sessa, Fabiana Luzzi; di mamme uccise dai figli come Patrizia Schettini e Patrizia Crivellaro; di donne "schiave" come Ruza Sanis costretta a battere sulle strade della Penisola. E, poi, di donne straordinarie come Antigone, Artemisia Gentileschi, Isabella Morra, Beatrice Cenci, Giovanna d’Arco, Olympe de Gouge, Ipazia d’Alessandria, Oriana Fallaci, Margherita Sarfatti, Alda Merini. Lo spettacolo regala pure un’ampia finestra sugli uomini che hanno cantato l’amore: Dante, Shakespeare, D’Annunzio, Cocteau, Fò, Ungaretti, Hikmet, Prevert. Questo tipo d’impegno a favore delle donne in un mondo difficile come quello carcerario" conclude Nausica Sbarra, "è una scommessa che vogliamo vincere". Migranti. Murad, 14 mesi in carcere per una traduzione sbagliata di Valerio Evangelista frontierenews.it, 6 marzo 2017 Un profugo siriano è stato costretto a una vera e propria odissea giudiziaria a causa di indagini grossolane e scarsa conoscenza del contesto siriano da parte della procura di Catania. Il 4 dicembre 2015 sbarcava a Pozzallo Murad Al Ghazawi, un siriano oggi 22enne in fuga dalla tragedia del suo paese. Arrivato in Italia, l’accoglienza non è stata come l’avrebbe immaginata: ritenuto legato ad una formazione jihadista vicina a Daesh, il giovane è stato detenuto per un anno con l’accusa di terrorismo. Pochi giorni fa la sentenza: assolto "per insufficienza e/o contraddittorietà della prova". Il passaporto dello stato islamico - Nel telefono di Murad è stato trovato un documento in arabo ritenuto un "passaporto dello Stato Islamico", un "lasciapassare per jihadisti per muoversi in Europa" o un "diploma dell’Isis", a seconda delle interpretazioni. In realtà la "dichiarazione di non miscredenza", così è intitolato il documento, è stato rilasciato a nome di un certo "Mamo Al Jaziri". Un errore che un’accurata traduzione avrebbe subito messo in risalto. E dopo una breve ricerca online (che avrebbe potuto e dovuto fare chi di dovere) si scopre che tale Mamo è un musicista siriano di Rumaylan che vive a Stoccolma. Contattato da MeridioNews, ha dichiarato: "Sono un artista e tutti sanno che ho origine curde. In quanto curdo, sono contro il terrorismo. Quindi è una bugia e non escludo che si tratti di uno scherzo". Nel documento, che poi la polizia giudiziaria ha constatato essere un fotomontaggio, c’è anche un’immagine che circola online dall’estate 2014, ben oltre un anno prima che Murad arrivasse a Pozzallo. Il giovane siriano, originario di Dar’a, sarebbe stato incastrato anche da un’altra presunta prova: la frase "Allah è grande, ma l’Isis di più", trovata anch’essa su un cellulare che aveva con sé. Ma, come spiegano a MeridioNews gli investigatori, "a pronunciarla non sarebbe stato l’arrestato". Nella "Guantánamo d’Italia" - Quello del presunto documento rilasciato a tale Mamo Al Jaziri non è stata l’unica leggerezza dei traduttori coinvolti: Murad Al Ghazawi, infatti, per la giustizia italiana è registrato come Mourad El Ghazzaoui, a causa di trascrizioni contrastanti realizzate dagli interpreti durante le procedure di identificazione al centro d’accoglienza di Pozzallo. Un errore che è stato Murad a pagare. Per quasi un anno la famiglia non gli ha potuto fare visita, nonostante l’autorizzazione del giudice, a causa delle differenze tra il nome di Al Ghazawi e quello dei suoi familiari. All’epoca il giovane siriano si trovava nel penitenziario di Rossano Calabro, insieme a persone accusate di terrorismo e a condannati in via definitiva per mafia. Un carcere conosciuto anche come "la Guantánamo d’Italia", in cui verrebbero violati alcuni diritti alla difesa. "Gli avvocati", ha dichiarato a Radio Radicale Giovanni Cavallero, ex legale di Murad, "possono parlare con i loro clienti soltanto due giorni a settimana per due ore. Quando sono andato lì, il colloquio con il mio assistito si è svolto nella sala degli incontri con i familiari, alla presenza degli agenti della polizia penitenziaria". La fuga dalla Siria - Il passaporto di Murad (quello vero) rivela che avrebbe lasciato il suo paese nel 2013, decisamente prima della nascita dell’Isis e del suo radicamento in Siria. Lasciata Dar’a per sfuggire alle repressioni del regime, il ragazzo aveva cercato di arrivare in Germania - per raggiungere dei familiari che vi vivevano da anni - attraversando l’Egitto, poi la Libia e infine arrivando in Italia, su un barcone di profughi. L’assoluzione - La sentenza è stata emessa dal Gup Giancarlo Cascino per "insufficienza e/o contraddittorietà della prova", a conclusione del processo col rito abbreviato. Murad Al Ghazawi, poi difeso dall’avvocato Luca Ruaro, rischiava una condanna a quattro anni di reclusione. Dimostrata l’infondatezza delle "prove" e la sua relativa non colpevolezza, a breve Murad potrà forse raggiungere, finalmente, la sua famiglia a Stoccarda. Egitto. Se vogliamo giustizia per Giulio Regeni, rimandiamo il nostro ambasciatore di Antonio Zanardi Landi* Corriere della Sera, 6 marzo 2017 Ancora non riusciamo a capire quale sia stato il perverso meccanismo che ha portato alla tragedia di Giulio Regeni e della sua famiglia che, in un Paese che tende ad esporre troppo le emozioni, anche le più private, è diventata un esempio di dolore composto e di dignità. La vicenda presenta elementi incomprensibili, ad iniziare dal perché gli assassini abbiano voluto far ritrovare il corpo martoriato di Giulio e proprio nel giorno in cui il Ministro dello Sviluppo Economico italiano era in visita al Cairo con una folta delegazione di imprenditori. Mentre le indagini faticosamente proseguono, grazie anche alla pazienza e alla caparbia volontà del Procuratore della Repubblica di Roma, le relazioni tra il governo italiano e quello egiziano sono virtualmente sospese, pur se molte sono le imprese italiane che in quel paese producono, commerciano e investono. La settimana scorsa si è avuto uno sviluppo importante: a chiedere il ritorno di un ambasciatore d’Italia al Cairo è stato un leader molto rispettato nel mondo delle Ong, Nino Sergi. Non credo che la sua voce possa rimanere inascoltata. L’Egitto, un Paese oggi in crisi profonda, è ridivenuto centrale nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, chiamato a svolgere un ruolo attivo nella ricerca di una soluzione alla crisi libica, per il controllo dei flussi migratori, per il contrasto a Daesh. Con una Libia, un Iraq, uno Yemen, una Somalia nello stato in cui si trovano, con una Siria in guerra civile, l’Europa e il mondo non si possono permettere un Egitto instabile. Piaccia o no, abbiamo tutti bisogno di un Egitto cooperativo, pacifico, ragionevolmente prospero, abbastanza forte per far fronte alle tante crisi che incombono intorno a lui. Se ne sono accorti tutti i principali attori a livello mondiale ed europeo: dal Fondo Monetario Internazionale a Washington, da Pechino a Mosca. La Cancelliera tedesca, al Cairo sino a ieri. Il Ministro degli Esteri egiziano sarà oggi a Bruxelles per incontrare i Ministri riuniti per il Consiglio Affari Esteri. L’Italia come tale al Cairo non c’è. Quello che è stato storicamente il primo partner per l’Egitto, ha deciso di ritirarsi e di astenersi. Ma pensiamo davvero che sia saggio e concepibile astenersi dal comunicare con un Paese impegnato nella lotta contro il terrorismo, coinvolto nella gestione della crisi libica, in equilibrio tra l’Occidente ed i Sauditi, gli Emirati ed il Qatar, una Turchia che ha sostenuto la Fratellanza Musulmana, una Siria che in Egitto ha un centinaio di migliaia di rifugiati, un Iraq con cui condivide una grande parte di storia comune? L’argomento decisivo a favore di una ripresa di contatti a livello più alto è la considerazione che l’Italia, che per tanto tempo è stata il primo partner commerciale e politico dei Paesi della riva Sud, non può non essere presente là dove si parla del futuro del Mediterraneo. E come non guardare con interesse l’iniziativa di Egitto, Algeria e Tunisia per trovare una soluzione alla crisi che contrappone Tripoli a Tobruk, Isis e milizie tribali? Non vorremo essere assenti, con le nostre Università, le nostre imprese, le nostre Ong da un Paese dove, con la ricerca di modelli sociali e valoriali che possano essere più forti di quelli del fondamentalismo terrorista, si decidono gli equilibri futuri del mondo? Il dialogo è segno di forza e non di debolezza. Romano Prodi, parlando proprio della situazione che si è venuta a creare con l’Egitto, l’ha sottolineato alcuni giorni fa con grande lucidità e conoscenza dei fatti, intervenendo alla Biblioteca della Camera ad un convegno dedicato all’Africa. Credo che il nostro ambasciatore vada rimandato al Cairo subito. Con un mandato preciso di fare di tutto e di più perché del caso Regeni si trovino i responsabili, perché Regeni diventi il simbolo della necessità di apertura, di trasparenza e di democratizzazione di quel Paese. E nello stesso tempo fare in modo che l’Italia ritorni ad essere per l’Egitto il partner politico di riferimento in Europa. Che non si abbandoni la memoria di Giulio Regeni, che si tenga conto del dolore della famiglia lo si potrà dimostrare anche con grandi gesti nel campo della cultura, della ricerca e della solidarietà. Chi ha sino ad oggi chiesto la ripresa delle relazioni a livello pieno con il Cairo è spesso stato accusato di essere un seguace di una moderna Realpolitik. Forse è vero, ma dobbiamo accordarci sul significato dei termini e capire che perseguire oggi questo tipo di Realpolitik vuol dire principalmente non ignorare i fatti obbiettivi che vediamo davanti a noi e cercare di avere meno morti, meno torture, meno infamie domani. *Ambasciatore, ha guidato le sedi diplomatiche a Mosca, Santa Sede, Belgrado Stati Uniti. In Arkansas otto esecuzioni in 10 giorni, altrimenti scadono i farmaci di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 6 marzo 2017 È una macabra corsa contro il tempo quella che lo Stato dell’Arkansas ha deciso di intraprendere a causa dello scadere dei farmaci con cui si mettono a morte i detenuti condannati alla pena capitale. A finire sotto le mani del boia tra il 17 e il 27 aprile - come racconta il New York Times - saranno otto uomini: quattro afroamericani e quattro di razza bianca. Pescati tra i 34 detenuti che attualmente si trovano nel braccio della morte nello stato del sud. In Arkansas le esecuzioni erano state sospese dal 2005 a causa di una serie di ricorsi legali, oltre che per la difficoltà di reperire i farmaci letali. Tutte e otto le persone che aspettano di essere giustiziate sono state condannate per omicidi perpetrati tra il 1989 e il 1999. È passato molto tempo. Ma il governatore dell’Arkansas, Asa Hutchinson, repubblicano, ha ribadito l’ineluttabilità di così tante esecuzioni in così poco tempo, per i dubbi sulla possibilità in futuro di avere farmaci disponibili. Farmaci la cui esportazione in Usa è stata vietata dagli Stati europei, contrari alla pena capitale. L’Arizona, per esempio, l’anno scorso ha annunciato che avrebbe tolto un tranquillante dal cocktail letale perché non era più reperibile. "Le circostanze ci costringono a questa tabella di marcia, mi piacerebbe avere mesi e anni di tempo ma non è questa la situazione. E le famiglie delle vittime si meritano di arrivare a una conclusione" ha detto Hutchinson che è stato eletto nel 2015. Se l’Arkansas manterrà la tabella di marcia prevista, due esecuzioni in quattro date diverse nell’arco di 10 giorni, stabilirà un record negativo: nessuno Stato dal 1977, quando gli Usa hanno reintrodotto la pena di morte, ha ucciso un numero così alto di persone. Nel 1997 ci è andato vicino il Texas con 8 condanne eseguite tra maggio e giugno. Le associazioni per la difesa sei diritti civili sono sul piede di guerra e sperano ancora di cambiare il corso degli eventi. "Ognuno di questi detenuti ha dei diritti - afferma l’American Civil Liberties Union - e ogni esecuzione è un processo che va pianificato e gestito nei dettagli caso per caso. E questo, sulla base di una programmazione così stringente, è impossibile". Azerbaigian. Denuncia la tortura, due anni di carcere al blogger Mehman Huseynov di Riccardo Noury Corriere della Sera, 6 marzo 2017 Venerdì 3 marzo un tribunale dell’Azerbaigian ha condannato a due anni di carcere Mehman Huseynov, 28 anni, noto blogger, fotoreporter e attivista per i diritti umani, per "diffamazione". Il "diffamato" è un agente di polizia che Huseynov aveva denunciato come autore delle torture che il blogger aveva subito in una stazione di polizia, la notte tra il 9 e il 10 gennaio. Invece di indagare sulle torture che, secondo molti ex detenuti, si verificherebbero nelle stazioni di polizia e nelle prigioni, il governo azero preferisce mettere sotto il tappeto il problema e condannare chi lo denuncia. Huseynov non è sconosciuto alle autorità. Nel 2012 era stato uno dei protagonisti della campagna per far conoscere all’Europa le violazioni dei diritti umani nel suo paese in occasione del concorso canoro Eurovision Song. Arrestato per "vandalismo", se l’era cavata con la confisca del passaporto. Di lì a poco, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa avrebbe esaminato un rapporto sulla situazione dei diritti umani, poi bocciato in quello che è passato alla storia come lo scandalo della "diplomazia del caviale". Il 21 febbraio, Huseynov ha criticato la nomina della "first lady" Mehriban Aliyeva alla carica di vice-presidente. E pure questo non deve aver fatto un gran piacere. Con Huseynov, sale a 13 il numero dei blogger, dei giornalisti e di altri operatori dell’informazione in carcere. Amnesty International considera Huseynov un prigioniero di coscienza e ha chiesto al governo dell’Azerbaigian di rilasciarlo. Altre 23 organizzazioni non governative per la libertà di stampa hanno sottoscritto un appello congiunto per la sua scarcerazione.