In carcere si muore in attesa di giudizio di Stefano Liburdi Il Tempo, 5 marzo 2017 La denuncia di Rita Bernardini: "Effetto zero" della legge sulla custodia cautelare. Danni anche per la collettività: in 24 anni spesi 630 milioni per i risarcimenti. "Effetto zero". La legge sulla custodia cautelare non ha portato benefici. A dirlo sono i dati che non lasciano dubbi: i detenuti in attesa di giudizio sono diminuiti solo dello 0,4% e quelli in attesa del primo grado di giudizio sono rimasti addirittura invariati. La denuncia arriva da Rita Bernardini che intanto è arrivata al ventottesimo giorno di sciopero della fame. La sua protesta è iniziata dopo la notizia dell’undicesimo suicidio che si è registrato nei penitenziari italiani dall’inizio dell’anno. Colpa di una scarsa vivibilità del carcere che spesso ha come causa il sovraffollamento. Anche qui dati allarmanti sulle condizioni degli istituti in tutta Italia. "Effetto zero". Ha ancora la forza di gridarlo Rita Bernardini, nonostante siano passati 28 giorni dall’inizio del suo sciopero della fame. "Il nulla. Questo è stato l’effetto della legge sulla custodia cautelare varata nell’aprile del 2015. Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando ne ha parlato il primo marzo alla Camera definendola uno "sforzo legislativo". I detenuti in attesa di giudizio sono diminuiti dello 0,04% e quelli in attesa di 1° giudizio dello 0%: erano il 17,56% e 17,56% sono rimasti. Intanto, da un mese all’altro la popolazione detenuta è aumentata di 548 unità". La Bernardini ha iniziato la sua protesta dopo l’undicesimo suicidio avvenuto in carcere dall’inizio dell’anno. Nel mirino quel disegno di legge sulla riforma dell’ordinamento penitenziario, approvato due anni fa dalla Camera e che adesso sembra essersi smarrito tra i banchi del Senato. Il ministro Orlando rispondendo alle interrogazioni sui suicidi ha detto: "Sono noti gli sforzi legislativi, sostenuti negli ultimi tre anni (culminati nell’approvazione della legge 16 aprile 2015, n. 47), volti a rendere la custodia in carcere una misura cautelare solo estrema, da applicare in presenza di esigenze cautelari attuali e concrete, non tutelabili altrimenti". In realtà l’applicazione della norma sulla custodia cautelare, non sembra aver portato risultati apprezzabili e il ricorso alla carcerazione preventiva è ancora un sistema abusato. Basta dare un’occhiata ai dati per rendersene conto: alla sentenza Torreggiani (la Corte europea dei diritti umani condannò l’Italia per trattamenti inumani o degradanti subiti dai detenuti) dell’8 gennaio 2013, i detenuti in attesa di giudizio erano il 38,72% e quelli in attesa di primo giudizio i118,87% ; ad oggi c’è stata dunque una contrazione de13,85% di chi è in attesa di giudizio e dell’1,31% dei detenuti in attesa di 1° giudizio, contrazione lieve che però si è determinata prima della legge sulla custodia cautelare del 2015. Ma se andiamo a confrontare i dati dal momento in cui è stata varatala legge sulla custodia cautelare (16 aprile 2015), si è passati dal 34,91% al 34,87%; l’effetto quindi della legge, come detto in precedenza, ha fatto diminuire i detenuti in attesa di giudizio dello 0,04% e quelli in attesa di 1° giudizio dello 0%. Questo sistema, purtroppo consolidato e difficile da scalfire, produce danni all’individuo che viene privato della libertà. In circa la metà dei casi, chi è detenuto in attesa di giudizio, poi risulta innocente dopo il procedimento processuale. I tempi di giudizio sono infiniti: si rischia di trascorrere tre anni per avere una sentenza penale di primo grado. Danni fisici e morali, che si traducono anche in un costo per la collettività. Dal 1992 al 2016, le persone innocenti finite in galera, sono state 24.000 e l’ingiusta detenzione ha portato via 630 milioni dalle casse dello stato per pagare i risarcimenti alle vittime. Persone che comunque si porteranno per sempre i danni che il periodo di reclusione ha procurato. Quando si varca per la prima volta la soglia di un carcere, gli spazi diventano limitati, al contrario i tempi si allungano fino a diventare infiniti. L’incertezza della pena e di quando avverrà il giudizio sono fattori destabilizzanti. Ogni giorno sale l’angoscia per quella che sarà il proprio futuro e quello degli affetti lasciati a casa. In questo periodo è forte il rischio di suicidio peri nuovi arrivati. Inutile poi meravigliarsi o peggio indignarsi se qualcuno decide di legare un lenzuolo in alto da qualche parte, annodarselo al collo e poi lasciarsi cadere. Celle stracolme e senza aria di Stefano Liburdi Il Tempo, 5 marzo 2017 I dati choc del sovraffollamento dei penitenziari: 193 detenuti che nel carcere di Brescia stanno accalcati in 100 posti. 93 istituti con un sovraffollamento uguale o superiore al 120%. Fra questi, 23 hanno un sovraffollamento tra il 193% e il 150% e ben 36 istituti fra il 148% e il 130%. Numeri impressionanti che continuano la loro irrefrenabile ascesa. Sembra già lontano il 2014 quando fu approvato il decreto "svuota carceri", nato dalle sollecitazioni provenienti dal Presidente della Repubblica, dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Il testo aveva come fine quello di restituire alle persone detenute la possibilità di un effettivo esercizio dei diritti fondamentali e di affrontare il fenomeno dell’ormai endemico sovraffollamento carcerario, nel rispetto delle fondamentali istanze di sicurezza della collettività. Furono adottate misure per sfoltire le carceri, come l’ampliamento dell’affidamento in prova e sconti di pena per alcuni tipi di condanna e per detenuti meritevoli. Fu incentivato l’uso dei braccialetti elettronici e l’espulsione dei cittadini stranieri. L’Italia sembrava aver intrapreso la via della risoluzione di questo storico problema, ma a solo tre anni dall’approvazione dello "svuota carceri" la situazione è tornata ad essere preoccupante. Colpa di una giustizia lenta sia nel giudicare sia nel recepire leggi studiate appositamente per risolvere questi problemi. Almeno alcuni. Colpa anche di strutture vecchie che andrebbero abbandonate o almeno ristrutturate. Alcune, come il carcere romano di Regina Coeli, sembrano più adatte a diventare un museo che a ospitare esseri umani. Ci sono strutture che vedono celle con nove detenuti quando lo spazio sarebbe adatto a contenere quattro persone, il bagno è uno solo e per muoversi all’interno di quelle mura, è necessario fare i turni. L’ambiente che dovrebbe essere adibito a cucina, viene sfruttato per mettere altri letti a castello e così le provviste alimentari devono essere conservate nel bagno. Quando arriva l’estate manca l’aria e ci si sente soffocare. L’inverno l’umidità ti entra nelle ossa. Una detenzione così, diventa tutt’altro che rieducativa e finalizzata al reinserimento nella società del recluso, così come vorrebbe la Costituzione, ma viene percepita come meramente punitiva agendo sull’inconscio del detenuto che da carnefice si convince di essere una vittima. Convincimento che lo allontana forse in maniera definitiva da quel percorso che lo dovrebbe portare dalla cultura dell’illegalità a quello della legalità. Ma il sovraffollamento delle carceri italiane, comporta anche un notevole condizionamento, purtroppo in negativo, dell’attività lavorativa del corpo di Polizia Penitenziaria che opera al loro interno. La polizia svolge la sua funzione notte e giorno, per ventiquattro ore. Il loro è un lavoro delicato difficile, faticoso, rischioso che non è più solo quello di aprire e chiudere una cella, ma quello di vivere a contatto di gomito con chi è costretto dietro un’inferriata. A un numero di reclusi che a volte sfiora il doppio di quelli previsti, non corrisponde certo un aumento delle forze di polizia che così si ritrovano ad operare in condizioni oggettivamente difficoltose. In realtà, la capienza regolamentare (50.177) non corrisponde ai posti effettivamente disponibili. Infatti, a fronte di istituti sovraffollati, ne abbiamo ben 62 che registrano più posti disponibili che detenuti presenti e alcuni sono addirittura vuoti (Alba, Camerino e Lauro). Vengono conteggiati nella capienza regolamentare (cioè prevista dalla legge) ben 4.131 posti dove nessun detenuto viene mandato. Come mai? Che si tratti di carceri con posti inagibili o chiusi perché in ristrutturazione? Un esempio sicuro è quello di Rebibbia Penale a Roma per il quale il Ministero fornisce il dato di 446 posti mentre è certo che un padiglione di 100 posti è chiuso per lavori di rifacimento. Insomma, è come nella poesia "la statistica" di Trilussa. Certo qui non si tratta di polli per cui se uno mangia due in un anno e un altro nessuno, per la statistica ne hanno mangiato uno a testa. Qui si tratta di spazio per essere umani. Un altro dato preoccupante è il trend di questi ultimi 15 mesi: siamo passati dai 52.164 reclusi al 31 dicembre 2015 ai 55.929 del 28 febbraio scorso, un aumento medio mensile pari a 251. Neil’ ultimo mese poi, i detenuti sono aumentati di ben 548 unità. Ministro Orlando: il Papa mi ha domandato condizione detenuti Ansa, 5 marzo 2017 "Mi ha chiamato il Papa per chiedere le condizioni dei detenuti nelle nostre carceri. Non mi ha chiesto a quale cultura politica appartengo, ma se i bambini possono vedere i genitori, come funzionano gli orari di visita, è così via. E ho capito che la parola misericordia e l’altra faccia della medaglia della parola dignità". Lo ha detto a Sinistra Dem il ministro della Giustizia e candidato al congresso Pd Andrea Orlando. Cantiere giustizia a metà del guado Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2017 "Pur non ottimali" gli ultimi dati pubblicati nella relazione sull’amministrazione della giustizia 2016 "sono incoraggianti in quanto evidenziano "un tasso di ricambio superiore al 100%". In pratica, i processi esauriti superano quelli nuovi, "ed è stabile la tendenza a ridurre il numero dei processi pendenti" e la loro durata complessiva. Migliorata rispetto al passato, ma ancora segnata dall’emergenza, la Giustizia italiana ha portato a casa appena un anno fa l’importante legge delega per la riforma del processo civile, con misure come l’introduzione di sezioni specializzate per l’impresa. Ma a 12 mesi dalla fine della legislatura, siamo ancora a metà del guado per altre due norme chiave. La prima è l’attesa riforma organica delle crisi d’impresa e dell’insolvenza (e della delega sull’amministrazione straordinaria delle grandi imprese, frutto di stralcio). L’altra, finalmente in Aula al Senato dopo un lunghissimo stallo, è la controversa riforma del processo penale, con norme su tempi di prescrizione e intercettazioni. Il Governo giocherà la carta della fiducia, ma sarà necessario un ritorno alla Camera. Il Ministro Costa: "riforma del processo penale, ecco perché ho detto no al Guardasigilli" di Nando Santonastaso Il Mattino Lo scontro in Consiglio dei ministri c’è stato. E su una materia a dir poco delicata come la riforma del processo penale, voluta da Matteo Renzi sin dal suo arrivo a Palazzo Chigi e per tre anni al centro di un iter inevitabilmente complicato. Da una parte il Guardasigilli Andrea Orlando, dall’altro il ministro della Famiglia Enrico Costa: al centro l’accelerazione chiesta (e alla fine ottenuta) dal primo perché sul testo appena uscito dalla Commissione giustizia venisse messa la fiducia. Costa si è opposto e non ha alcuna intenzione di rinunciare a difendere nell’iter del provvedimento le sue ragioni. Perché si è schierato contro il voto di fiducia? "Perché penso che il testo abbia necessità di alcune modifiche prima di essere votato dal Parlamento. L’ho detto ai colleghi di governo motivando la mia richiesta con ragioni di buon senso. Siamo di fronte ad un testo molto vasto ma se poi andiamo bene a vedere sono in realtà due, soprattutto due gli aspetti di più profondo dibattito: le intercettazioni e la prescrizione". Di cui ormai si discute quasi dalla notte dei tempi senza riuscire a mettere nero su bianco... "Vero. Ma questo non vuoi dire che non ci si possa riuscire. Di intercettazioni non passa una legislatura che non se ne discuta, io stesso ricordo che ero appena arrivato in Parlamento, una decina di anni fa e sembrava cosa fatta l’approvazione della proposta Mastella, specie dopo il voto unanime della Camera, poi non se ne fece più nulla. Ci riprovò Alfano ma anche il suo tentativo fu boicottato. Con il governo Renzi e con quello guidato da Paolo Gentiloni abbiamo ritentato con la delega di arrivare al traguardo. Ma il testo così no va". Perché, ministro? "Perché nel testo viene indicato espressamente il termine di un anno per mettere a punto la materia. Ma tra un anno la legislatura sarà finita: ecco perché penso che sarebbe meglio riposizionare quella scadenza abbreviandola a tre mesi. Mi sembra un termine più ragionevole di quello dei dodici mesi che, oggettivamente, non è credibile. Ecco perché mi sarei aspettato prima un accordo su un maxi o mini-emendamento del governo e poi la decisione di mettere la fiducia". E sulla prescrizione? A nessuno sfugge che in passato tra i centristi e il Pd erano nate delle fibrillazioni. "Lo confermo, il nostro gruppo parlamentare aveva annunciato la volontà di votare contro il testo che non condivideva: contestava il fatto che sulla prescrizione c’era stato un accavallamento di allungamenti che avevano reso inaccettabile il provvedimento. Si era previsto ad esempio un allungamento dei termini di 3 anni per tutti i reati e un altro ancora solo per quelli contro la Pubblica amministrazione. Scelte discutibili: per me nessun processo dovrebbe prescriversi, un processo che si prescrive è una sconfitta per lo Stato. Ma la prescrizione è la spia più importante del destino di un procedimento. Se il giudice sa che può andare in prescrizione si affretta a riprendere il fascicolo, se sa che i termini sono più lontani quella fretta ovviamente non c’è. L’allungamento dei termini di prescrizione contribuisce a creare un’ulteriore dilatazione dei tempi del processo di cui non si sente alcun bisogno". E come andò a finire in Parlamento la sua opposizione? "Alla fine cambiammo idea perché il ministro si impegnò a modificare in maniera molto profonda quel testo. Noi siamo sempre stati leali nel sostegno al governo e ai suo i ministri ma quei cambiamenti li stiamo ancora aspettando. Ecco perché ho chiesto anche nel Consiglio dei ministri di ragionare sull’esigenza di un cambiamento importante al testo, proponendo una valutazione di merito". Il governo invece ha tirato dritto, la questione di fiducia verrà posta: che pensa di fare, ministro? "Io auspico ancora che le modifiche ci possano essere, che si arrivi cioè ad un supplemento di valutazione nell’interesse degli utenti e degli operatori della giustizia. Io ho detto la mia e anche altri colleghi ministri hanno apprezzato la trasparenza del mio intervento". Non crede che l’accelerazione sia frutto dello scontro interno nel Pd, che cioè in qualche modo l’appuntamento con le primarie alle quali partecipa lo stesso ministro Orlando possa avere influito sulla decisione di mettere la fiducia? "Mi auguro proprio di no. Io credo che il ministro Orlando si sia posto il problema di opportunità di una candidatura in una contesa così dirompente e si sia risposto che la cosa non avrebbe avuto controindicazioni". Ma non teme che questo scontro possa minare la già fragile prospettiva del governo? Il presidente uscente dell’Anm Davigo ha detto che un governo che si divide anche sulla questione di fiducia lascia perplessi. "Non è un problema di fragilità o di forza del governo. Ci sono princìpi della Costituzione su cui ho convinzioni radicate. In ogni caso non penso che le mie parole possano pesare sulla tenuta dell’esecutivo. Ma ci tengo a non entrare in contraddizione con le tesi che sostengo da una vita. Quanto al magistrato Davigo, rispetto le sue posizioni: magari ci farà una lezione su come, a casa Anm, le correnti riescono a trovare accordi su tutto". Il ministro Alfano ha detto al Pd che le tensioni delle primarie non devono pesare sull’attività di governo. "Alfano ha espresso bene la posizione, e io la rispetto come lui apprezza chi esprime motivatamente le proprie opinioni". Ma si sarà posto anche lei la domanda del secolo: quanto durerà questo governo visto che proprio per l’accelerazione alle primarie decisa dall’ex premier Renzi la data delle elezioni più probabile sembra essere settembre. "Intanto mi faccia dire che questo governo sta lavorando molto bene e in continuità con l’esecutivo guidato da Matteo Renzi. Il presidente Gentiloni è bravo e gode della nostra massima stima, il vento liberale con il quale ha operato il suo predecessore non si è affatto interrotto e per me questo conta moltissimo. Il voto a settembre? Ma lei ce li vede ministri e parlamentari sotto il sole di agosto che vanno a cercare voti sotto gli ombrelloni?". Intanto il caso Consip sta scuotendo l’opinione pubblica e tutta la politica: al di là degli aspetti giudiziari che idea si è fatto, ministro? "Non voglio esprimermi sulla vicenda. La magistratura deve fare il proprio lavoro e farlo con completezza e puntigliosità. Quello che non mi piace nel nostro Paese è il fatto che le inchieste vengano usate come una clava contro l’avversario politico di turno. Non lamentiamoci poi se il Paese che condanna tizio o caio per un avviso di garanzia poi ne ignora poi l’assoluzione o il proscioglimento dopo dieci anni. Io in merito alle inchieste a carico di politici dei 5 Stelle a Roma ho detto subito che era un errore strumentalizzarle. La politica, e intendo dire tute le forze politiche nessuna esclusa, hanno una enorme responsabilità perché ha aumentato i processi mediatici cercando di colpire con il machete giudiziario. Io vengo dal Pdl, un po’ di esperienza al fianco di Berlusconi che di attacchi ne ha ricevuti un’infinità, me la sarò fatta, non crede?". Davigo lascia ad aprile la guida dell’Anm, al suo posto è atteso Eugenio Abbamonte Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2017 L’8 aprile Piercamillo Davigo lascerà la guida dell’Associazione nazionale magistrati. Ne ha fatto cenno lui stesso durante la riunione del Comitato direttivo centrale dell’Anm che ieri ha anche votato un documento sul nuovo "asilo veloce" nel quale si denuncia la mancanza di "adeguate risorse" per i tribunali. Davigo ha annunciato che la prossima riunione sarà proprio dedicata al suo avvicendamento: "Trentacinque giorni all’alba", ha detto con un sorriso. Il cambio ai vertici dell’Anm avviene per una rotazione già concordata quando è stata costituita la giunta guidata da Davigo tra le correnti che la compongono. Il posto dell’ex pm di Mani Pulite sarà preso molto probabilmente dal sostituto procuratore di Roma, Eugenio Albamonte, esponente di Area, il cartello delle correnti di sinistra della magistratura. Davigo passa la mano dopo un anno molto intenso e con un rapporto altalenante con il governo. Molto complesso il rapporto con l’ex premier: Davigo ha accusato Renzi di aver rivolto insulti alla magistratura, ma poi con lui ha dialogato. Fino a sbattergli in faccia "le promesse non mantenute" sull’impegno a riportare l’età pensionabile per tutti i magistrati a 72 anni. Una polemica culminata con la decisione senza precedenti dell’Anm di disertare la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario Il cambio di guardia riguarderà diversi esponenti dell’attuale giunta e il posto di segretario, oggi ricoperto da Francesco Minisci (Unicost) dovrebbe andare a Edoardo Cilenti di Magistratura indipendente. Risarcimento e parte civile, l’intreccio difficile di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 5 marzo 2017 La scelta dei genitori della diciassettenne investita da un automobilista di rifiutare l’offerta di un milione di euro è degna di rispetto. Ma elevarla come simbolo può distorcere il significato della parte civile. Legittima e degna di rispetto la scelta di genitori che, nel dolore incommensurabile per la morte della 17enne figlia investita da un automobilista poi allontanatosi, alla vigilia del processo hanno ritenuto di non accettare l’offerta di 1 milione di euro di risarcimento assicurativo. Elevare però questa scelta personale a esemplare simbolo del rigetto di chissà quale baratto tra dignità e denaro, tra amore familiare e sua monetizzazione, non solo rischia di suonare offensivo per i tanti familiari ogni giorno risarciti nei processi dagli imputati di gravi lesioni od omicidi colposi ai danni dei loro cari (sulla strada, sul lavoro, in ospedale), ma finisce anche per distorcere il significato della parte civile. Ci si costituisce nel processo penale, invece di intraprendere la separata via ordinaria della causa civile per il risarcimento del danno, o per ottenerlo in modo più efficace e rapido, o per esercitare un autonomo diritto di ricerca della prova (lista testi, controesame dell’imputato e dei suoi testi, propri consulenti tecnici). "Guardare negli occhi" l’imputato non è tra queste funzioni. L’accettazione del risarcimento non c’è motivo per cui debba essere accomunata nell’opinione pubblica a un "compromesso" o a una mercantile svendita di un patto d’onore e d’amore con la memoria di un familiare. E tantomeno avrebbe precluso il processo penale: che non è questione privata tra imputato e vittime, ma luogo dove esiste già l’accusa pubblica (il pm) ad attivarsi per provare quella responsabilità dell’imputato che poi si riverbera pure sulle istanze civili del danneggiato dal reato. E anche a costo di andare controvento - quel vento mediatico che sempre più nelle condotte confonde "colpa" (magari pur gravissima) con "dolo", nemmeno va lasciato credere che il risarcimento avrebbe innescato condanne in saldo e carambole di incomprensibili sconti di pena: sia perché non è automatico che in sentenza il risarcimento valga la concessione all’imputato di un’attenuante pari a un terzo della pena, sia perché tutt’altro che scontato in questo genere di casi è il bilanciamento dell’eventuale attenuante con le altre circostanze aggravanti contestate. Omicidio solidale, suicidio assistito e eutanasia: ciascuno ha la sua pena di Bruno de Filippis Il Manifesto, 5 marzo 2017 Fine vita. Le fattispecie di reato secondo l’ordinamento italiano. Il dibattito sul fine vita, che si è riaperto in seguito al suicidio in Svizzera di Dj Fabo accompagnato dal radicale Marco Cappato, prosegue in vari contesti. In esso, vi è chi pone al centro l’uomo ed i limiti della sua capacità di soffrire e chi, ignorando quest’ultimo dato, sposta il dibattito sul versante ideologico, proponendo tabù e visioni religiose. Ugualmente vi è chi affronta il tema pensando a cosa farebbe se fosse direttamente coinvolto e chi invece lo tratta sulla base della propria idea di cosa debbano fare gli altri e, spesso, della propria convinzione di poterli obbligare ad agire in un determinato modo. In sede di giurisdizione civile, l’intervento più rilevante resta quello della Corte di Cassazione del 2007 (caso Englaro). Con esso la Corte affermò che l’idratazione e l’alimentazione artificiale, pur non costituendo accanimento terapeutico, integrano un trattamento sanitario e che, di conseguenza, il giudice può autorizzarne l’interruzione, ove la condizione vegetativa sia irreversibile e sia accertato che il paziente, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento. Sul versante penale, il codice attualmente punisce l’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) e l’aiuto al suicidio (art. 580 c.p.). La differenza tra le due figure consiste nel fatto che, nella prima, colui che provoca la morte si sostituisca all’aspirante suicida, mentre nella seconda quest’ultimo conservi un ruolo attivo. Perché l’uno o altro reato si configuri, tuttavia, è necessario che la fattispecie non debba essere inquadrata nell’ambito di un legittimo rifiuto di trattamento terapeutico. Sono possibili due interpretazioni, le quali, nella vicenda Welby, si contrapposero emblematicamente. L’anestesista di Welby pose in essere un intervento attivo, interrompendo la ventilazione al paziente. Il gip del tribunale dispose l’imputazione coatta del medico, sostenendo che il principio costituzionale che consente di rifiutare le cure non può avere un’estensione tale da superare il limite del diritto alla vita. Il gup successivamente investito lo prosciolse, affermando che la ventilazione assistita è intervento terapeutico e che il diritto di rifiutare trattamenti sanitari fa parte dei diritti inviolabili della persona. Non essendo stata impugnata, tale ultima decisione rappresenta, allo stato, il principio giurisprudenziale di riferimento. Ogni fattispecie, tuttavia, deve essere autonomamente valutata, perdurando distinzioni tra le varie figure di eutanasia (attiva e passiva) e tra i diversi tipi di possibili di intervento, terapeutico e di sostegno. Nel caso in cui un episodio astrattamente valutabile come reato per la legge italiana sia commesso all’estero e di esso sia autore o coautore un cittadino italiano, il quale poi torni nel territorio dello Stato, la legge prevede che esso sia perseguito nel nostro Paese, se punito con una pena non inferiore nel minimo a tre anni. Ciò significa che sono astrattamente punibili in Italia sia l’omicidio del consenziente (pena minima sei anni), che l’aiuto al suicidio (pena minima cinque anni), commessi all’estero da cittadino italiano. Ovviamente, la perseguibilità del reato implica l’esame della relativa notizia di reato, ma ciò non significa che l’azione penale debba sfociare in una contestazione ed eventualmente in una condanna. Ogni elemento della fattispecie, come la volontà del soggetto e le sue condizioni, la tipologia di intervento, attivo o passivo, di interruzione o non somministrazione compiuto ed il contributo causale del cittadino italiano dovranno essere adeguatamente valutati. Il quadro descritto rende inevitabile l’auspicio che problematiche di tal tipo non siano lasciate all’interpretazione giurisprudenziale, ma siano regolate dalla legge e, in particolare, da una legge moderna, consapevole delle distinzioni che l’evoluzione scientifica ha determinato e delle vicende effettivamente accadute. La legge attualmente vigente fu elaborata in epoche lontane, sulla base di esperienze quali il trafiggere con una spada l’aspirante suicida o nel fornirgliela. *Esperto di diritto di famiglia e penale Giustizia dei minori, una riforma da valutare di Agnese Moro La Stampa, 5 marzo 2017 "Squadra che vince non si cambia". Non so se questo detto sia sempre valido nell’ambito calcistico in cui è nato e sul campo di gioco; ma certamente dovrebbe essere preso in considerazione quando si va a toccare qualcosa che è frutto di decenni di esperienza, di studi e di riflessioni; quando ha prodotto professionalità preziose e risultati più che buoni. È il caso allarmante della giustizia minorile, che sta per essere abolita da un disegno di legge già passato alla Camera e ora all’esame della Commissione Giustizia del Senato, il n. 2284 "Delega al Governo recante disposizioni per l’efficienza del processo civile". A sostituirla il "tribunale della famiglia e della persona", ancora tutto da pensare. Si legge in un appello al Parlamento sottoscritto in pochi giorni da più di 300 persone (giuristi, addetti ai lavori e non): "Il ruolo dei Tribunali e delle Procure Minorili, uffici specializzati e autonomi, è fondamentale sia negli interventi di protezione di bambini e adolescenti - vittime in diversa misura di incurie, maltrattamenti ed abusi - sia nel settore penale, nel quale il processo è caratterizzato, fin dal primo momento, da finalità educative dirette al recupero sociale dell’imputato minorenne". Ed è proprio quest’ultima la specificità più preziosa; quella di organizzare e pensare tutto in funzione del minore, orientando su di lui anche l’iter penale se c’è un reato, e pensando la pena, che solo in una ristretta minoranza di casi prevede il carcere (450 giovani detenuti; 17.000 a piede libero, affidati ai servizi sul territorio), come via di recupero. Tenendo conto della storia, delle fragilità, delle risorse di cui è portatore. E coinvolgendo la società in un’opera rieducativa che la rende comunità. Un modo di lavorare che in tanti vorrebbero fosse assunto anche da chi si occupa degli adulti che sbagliano. Un ripensamento del Parlamento è urgente; lo chiede anche con voto unanime il Consiglio Superiore della Magistratura, per evitare "le gravi disfunzioni che si determinerebbero in concreto se gli attuali uffici minorili fossero assorbiti negli uffici ordinari". Ho l’impressione che in questo, come in altri casi, sarebbe più produttivo anziché riformare "per cancellazione" riformare "per addizione" o "per contagio", proteggendo ciò che funziona e facendone il motore, solido, per cambiare altri pezzi del sistema. Mantova: nuova sala d’attesa per i figli dei detenuti Gazzetta di Mantova, 5 marzo 2017 "Attendiamoci". È il nome dell’iniziativa del Lions club Barbara Gonzaga che ieri ha inaugurato la sala di attesa del carcere. In una nuova veste dedicata ai figli dei detenuti. "Con la collaborazione del direttore e il sostegno dell’associazione Soromptimist siamo riusciti a ristrutturare uno spazio perché i figli dei detenuti affrontino l’incontro in modo positivo" dichiara Alessandra Fin, presidente dei Lions. Le visite dei familiari in carcere sono precedute da controlli che si dovrebbero svolgere in un ambiente "quasi familiare" per i bambini che attendono il genitore. "Anche se il nostro personale tratta con sensibilità queste situazioni - racconta il direttore Rossella Padula - era necessario un intervento per rendere la sala meno cupa, più accogliente". Arredi per l’infanzia, disegni colorati e giochi saranno a disposizione per intrattenere i più piccoli. Molto importante il contributo del Centro Solidarietà Carcere, che da più di vent’anni accoglie figli e familiari dei reclusi prima del colloquio. In più, svolgono attività di sostegno e insegnamento per i detenuti più giovani. "Non ci si accorge di essere in carcere - confessa Isabella Dell’Aringa, ex preside della media Bertazzolo e oggi volontaria del Csc, che aggiunge: "La scuola media interna al carcere ci dà la possibilità di incontrare ragazzi molto aperti, corretti e felici di vederci perché con le nostre lezioni interrompiamo per un po’ il loro isolamento". Milano: la star di Masterchef Cracco dà i voti al ristorante del carcere di Bollate di Paolo Foschini Corriere della Sera, 5 marzo 2017 In teoria dovrebbero bastare i numeri. Su cento detenuti che a fine pena escono dal carcere di Bollate quelli che prima o poi ci tornano sono solo 17. La media nazionale è 68. Il segreto è così semplice da non essere un segreto: si chiama lavoro. A Bollate se ne fanno tanti, ma uno è così speciale da renderlo l’unico carcere al mondo in cui la gente fa la fila per andarci: è un ristorante, e ieri ci è andato anche Cracco. Si chiama con poco sforzo di fantasia "InGalera" ma la fantasia, al netto dei poster di Fuga da Alcatraz e così via appesi qua e là, è tutta nei piatti: fatelo voi un cheese-cake dentro una bolla di ghiaccio verde ("Tanta roba", dirà Cracco) e poi provateci a ironizzare sul sogno di un ristorante stellato dentro una prigione. Aperto dal martedì al sabato, pranzo e cena, prenotazione obbligatoria (InGalera.it) e chiamate in anticipo perché da un anno è quasi sempre esaurito: servizi su New York Times, Nbc, giornalisti specializzati che arrivano dal Giappone. Tre detenuti in cucina (lo chef Davide, il sous-chef Federico, il pasticcere Mirko), tre detenuti in sala a correre per servire fino a 50 coperti. Idea nata come tante altre che a Bollate presero a spuntare ai tempi della direttrice Lucia Castellano e che il suo successore Massimo Parisi ha portato avanti e moltiplicato: la serra, i cavalli, le officine, la vecchia cooperativa di catering, imparare un lavoro dentro per costruirsene uno fuori, diciamo che il principio è questo. La coop Abc catering era partita nel 2004 e lavorava su commissione per fuori. Il salto per trasformarla in un locale gourmet è arrivato un anno fa e Silvia Polleri, che è stata mente e guida di tutto, non nasconde l’orgoglio: "In un anno abbiamo servito diecimila persone, speriamo di continuare". A Torino e Genova stanno provando a copiarla, ma hanno ancora strada da fare. "Una esperienza da estendere in altre carceri", dice in effetti il ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina, che le finestre di Bollate le ha viste mille volte nei mesi dell’Expo (il vecchio Children Park è appena dall’altra parte della strada, ai cento detenuti che lavorarono all’esposizione bastava attraversare) e ieri la ha viste per la prima volta da dentro, accompagnando nella sua visita la star di Masterchef. Tartare di manzo con fragoline sotto spirito, cubetti di merluzzo con una salsina pilpil che "solo per fare questa - dirà ancora Cracco - ci vuole uno studio mica da tutti: bravi è dire poco, sono professionisti". Tanto in cucina quanto ai tavoli, come Said e gli altri. E lo chef Davide, quando il ristorante è chiuso, va a insegnare l’arte in una comunità per minori. Aspettando, come gli altri, di uscire un giorno e tornar qui solo a mangiare. Napoli: la street art rende liberi di Fulvio Bufi La Lettura, 5 marzo 2017 Continua il lavoro di Blu sull’ex Opg "È la missione dei graffiti: spezzare catene". Nella primavera del 1979 un gruppo di ragazzi napoletani occupò un capannone sulla collina del Vomero, deciso a trasformarlo in un centro sociale autogestito. Lo battezzarono Jessica, in omaggio a un brano della Allman Brothers Band e si ritrovarono lì a suonare, ballare, discutere di politica, fumare, fare l’amore, convinti che sarebbe stato per sempre. Invece durò pochi giorni, poi una mattina trovarono la polizia e dieci file cementate di mattoni di tufo a chiudere l’ingresso. Di Jessica rimaneva solo un grande muro e per lasciarne una testimonianza ci voleva fantasia. Ma pure se quelli erano gli anni della fantasia al potere, i ragazzi di allora non ne ebbero abbastanza e si limitarono a una scritta nera con la bomboletta spray. Molti anni dopo sarebbe toccato ai loro figli fare quello che non fecero loro: colorare la ribellione, preferire le immagini agli slogan: i disegni, i dipinti. L’arte, quella della strada. Oggi il clima è cambiato, i centri sociali autogestiti raramente rischiano lo sfratto o, peggio ancora, lo sgombero. A Napoli, poi, lo scontro è a livello zero, chi ha occupato si è ritrovato il sindaco dalla propria parte e può andare avanti senza brutte sorprese. Certo così è più facile resistere, ma diventa quasi complicato coniugare arte e ribellione, esprimere attraverso l’immagine disegnata il proprio essere altro, e soprattutto essere contro. La differenza, però, possono farla i luoghi. A cinquecento metri in linea d’aria da quel tentativo di centro sociale in bianco e nero degli anni Settanta oggi ce n’è uno che forse è il più pacificato d’Italia, perché i ragazzi che lo gestiscono non hanno contro nessuno: non l’amministrazione, non la questura, non il quartiere (Materdei) che anzi è in stretta sintonia con loro e partecipa a tutte le iniziative. Ma è anche uno dei più ribelli perché ha portato luce dove c’era buio, gioia dove c’era dolore, libertà dove c’era prigionia. Ospitava l’ospedale psichiatrico giudiziario, l’ex convento di Sant’Eframo diventato oggi centro sociale. Si chiama Je so’ pazzo, non in onore di Pino Daniele ma di chi ci ha vissuto da recluso, e la sua storia, anzi la storia della sua trasformazione, è raccontata dal più grande murale di Napoli, che occupa un’intera facciata dell’antico palazzo, si estende su almeno metà dell’altra ed è destinato a continuare per tutto lo spazio della parete. È opera di Blu, lo street artist emiliano, tra i più quotati al mondo, che a Bologna e a Berlino ha cancellato i suoi disegni per impedire che finissero in una mostra e per protestare contro la speculazione immobiliare sui luoghi che lui aveva dipinto. Per i ragazzi di Je so’ pazzo coinvolgerlo è stato semplice. Blu - che come Banksy tiene celata la sua identità, si sa solo che ha una trentina d’anni e si chiama Nico - è uno di loro, uno come loro: a Bologna frequenta il centro sociale Xm24 e della sua arte ha fatto un atto politico. Pensano le stesse cose e parlano la stessa lingua. E ovviamente hanno la stessa concezione ribelle dell’arte. "La street art è necessariamente ribelle perché le opere mettono in discussione alcune convenzioni, leggi e norme che regolano l’utilizzo dello spazio pubblico, in particolare in contesti urbani", sostiene Andrea Baldini, toscano, docente all’Art Institute dell’Università cinese di Nanjing, che alla pittura sui muri ha dedicato parecchi studi, tra cui uno in cui affronta l’argomento partendo dagli affreschi di Pompei per arrivare fino ai graffiti contemporanei. Scopo di artisti come Banksy, Blu, e tutti gli altri, aggiunge, è utilizzare "in modi inaspettati le strade, i muri, e le altre superfici visibili della città, trasformando il paesaggio urbano in un luogo di espressione libera e spontanea". E certo è inaspettata quell’immagine che non si può non vedere quando si attraversa uno degli incroci più trafficati di Napoli, tra via Salvator Rosa, via Imbriani e il Cavone, dove i veleni dei gas di scarico prima o poi faranno danni anche al grande disegno. Che, per citare le parole del professor Baldini, è espressione libera e spontanea ma soprattutto ribelle, perché Blu ricostruisce a modo suo che cos’era quel luogo prima che diventasse un centro sociale e che cosa è successo per trasformarlo. Sì, d’accordo, c’è stata una legge che ha chiuso gli Opg, ma questa è cronaca, non tocca all’artista occuparsene. Lui racconta la reclusione e anche la contenzione. E racconta la liberazione. È un recluso l’uomo verde con la divisa a strisce orizzontali. Non vestivano così i detenuti negli Opg, ma quell’immagine richiama subito la prigionia, e poi serve pure per metterci su il numero di matricola che non è scelto a caso: 1312 ha un significato preciso, perché sostituendo alle cifre le lettere corrispondenti nell’alfabeto, quel numero diventa Acab, All cops are bastards, e la ribellione diventa antagonismo. Lo stesso di certe curve e di certi ultrà, ma evidentemente anche lo stesso cui fa riferimento l’artista. Che svoltato l’angolo del palazzo, descrive l’abisso degli Opg. Stavolta il recluso è rosso, e bianca è la camicia di forza che gli hanno fatto indossare. E accanto a lui c’è l’agente penitenziario, che qui è la guardia, in senso dispregiativo, non si discute: verde, cattivo, con il berretto azzurro e un occhio da pirata. E decine di chiavi davanti a sé. Che però non gli servono più a niente: perché il recluso con la divisa a strisce ha spezzato le catene delle manette e con le mani libere ora sta per togliersi anche la maglia, e l’altro ha strappato a morsi la camicia di forza, le cinghie di cuoio sono a pezzi, è tranciato perfino il ferro delle fibbie. Il disegno finisce con un altro uomo che spunta da dietro, o forse è un mostro, non si capisce. Ma non finisce qui. Blu tornerà a Napoli, rimonterà la carrucola con cui va su e giù, infilerà la tuta e il cappuccio e ricomincerà a raccontare a colori che cos’erano i manicomi giudiziari, che solo un’ipocrisia verbale aveva trasformato in ospedali psichiatrici. La street art può raccontare tutto questo perché lo fa abitualmente: "All’Aquila, nel post-terremoto, l’abbiamo vista utilizzata, sia con il progetto Mettiamoci una pezza sia con il ReActo Festival, per mettere in discussione la legislazione speciale", ricorda Baldini. "E pure a Francoforte, durante la costruzione del nuovo quartier generale della Banca Centrale Europea, il progetto Under Art Construction ha trasformato l’area di un distretto finanziario in un luogo di protesta contro le politiche finanziarie dominanti". Viene in mente una frase celebre contenuta nel libro L’uomo in rivolta. Scrive Albert Camus: "La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno della bellezza". Ecco, forse la street art non vuole essere bellezza. Ma vuole fare le rivoluzioni. Ancona: "Poesistere,: versi al di là dalle sbarre marchigiane vivereancona.it, 5 marzo 2017 Il carcere di Montacuto Verrà presentato mercoledì 8 marzo presso il carcere di Montacuto il libro con i testi vincitori del concorso organizzato dall’Officina associazione culturale Onlus e promosso dal Rotary Club Ancona Conero e dal Rotary Club Ancona 25-35. A partecipare, i detenuti dei due istituti del capoluogo Parole che aprono gli animi ed escono dalle sbarre, trovando la carta e diventando libro. Sono quelle dei testi che i detenuti dei due istituti di pena di Ancona, la Casa Circondariale di Montacuto e la Casa di Reclusione di Barcaglione, hanno scritto per il concorso di poesia dal titolo ‘Poesisterè. Un progetto che, organizzato dall’Officina associazione culturale Onlus di Ancona e promosso dal Rotary Club Ancona Conero con la collaborazione del Rotary Club Ancona 25-35, arriva ora al suo apice e alla sua conclusione con la presentazione, mercoledì 8 marzo presso il carcere di Montacuto, del volume che raccoglie i testi dei dodici vincitori. Laboratori di poesia e scrittura per avvicinare i detenuti alla parola scritta e alla lettura, supervisione della stesura delle poesie e, successivamente alla valutazione dei testi, produzione del libro. Di tutto questo si è occupata l’Officina associazione culturale Onlus grazie alla preziosa organizzazione del Rotary, mentre una giuria appositamente selezionata per l’occasione ha, invece, valutato tutte le poesie prodotte e ha decretato i 12 vincitori. Non solo. Il progetto ha coinvolto attivamente anche molti giovani. Da un lato, gli studenti del liceo Savoia di Ancona, che hanno conferito una targa speciale a quella che, tra le 12 vincitrici, era secondo loro la ‘migliore poesià. Dall’altro, i giovani del Rotaract che conferiranno, anch’essi, il premio a quello che considerano il testo migliore. Una partecipazione, questa dei giovani della città, che dà al progetto ‘Poesisterè un valore aggiunto: quello di educare alla legalità e di fare prevenzione delle cause che portano al carcere, attraverso la conoscenza, le emozioni e l’arte poetica. Alla presentazione, mercoledì 8 marzo, saranno presenti la direttrice dell’istituto di Montacuto, Santa Lebboroni, che, insieme al suo collega Maurizio Pennelli, direttore del carcere di Barcaglione, ha sempre dimostrato una attiva collaborazione e partecipazione al progetto; il personale educativo e della sicurezza dell’istituto; esponenti del Rotary club e alcuni allievi del liceo Savoia; i membri dell’Officina e, soprattutto, loro: le persone private della libertà personale che, attraverso la parola scritta, hanno avuto la possibilità di liberare e comunicare emozioni e storie. A beneficio di tutti. Una seconda presentazione del volume si terrà il 12 aprile presso l’istituto di Barcaglione. Officina associazione culturale Onlus Napoli: "Oltre le mura dell’indifferenza", report finale calcetto nel carcere di Secondigliano Ristretti Orizzonti, 5 marzo 2017 "Oltre le mura dell’indifferenza", il progetto promosso dall’associazione "La Mansarda" presieduta da Samuele Ciambriello, nel Carcere di Secondigliano ha visto la finale tra due sezioni del reparto Mediterraneo. Ha vinto il torneo:"Diamo un calcio all’indifferenza" la sesta sezione e si è aggiudicata sia la coppa che sette magliette del calcio Napoli offerte dagli store Robe di Kappa di via Chiaia e corso Garibaldi in Napoli. Il torneo di calcetto iniziato da qualche settimana ha visto la partecipazione di tante squadre: una capitanata da Antonio Insigne, fratello del noto Lorenzo Insigne, 2 squadra del Liceo Mazzini di Napoli, la squadra dell’Ordine dei giornalisti della Campania e 6 squadre di detenuti. L’agape fraterna, successiva alla finale, che ha visto la partecipazione dei detenuti, delle volontarie dell’associazione La mansarda e degli studenti del Liceo Mazzini di Napoli ha concluso un progetto dall’alto valore civico e sociale. Nel teatro del reparto Mediterraneo dove si è consumata il pranzo c’era un popolo speciale in festa. Per il presidente de La Mansarda Samuele Ciambriello" Anche oggi abbiamo vissuto una giornata di gioia, di emozione, di condivisione, animati dalla misericordia che ci anima nel nostro percorso e dal desiderio di aiutare i detenuti a ritrovarsi. Reclusi, ma non esclusi. Queste iniziative sono una zattera per i detenuti e un percorso di solidarietà e di liberazione per chi vi partecipa. Occasioni per i detenuti per ritrovarsi, rappacificarsi con la società che hanno offeso. È una scelta dinamica di condivisione." Siena: Tullio Solenghi incontra i detenuti del carcere di Santo Spirito ienafree.it, 5 marzo 2017 L’altro ieri, venerdì 3 marzo alle 11:20 circa, le porte del carcere di Santo Spirito si sono aperti all’attore e autore Tullio Solenghi. Sì proprio lui, il Solenghi del Trio Lopez Marchesini Solenghi. E immagino la soddisfazione (seppure tardiva) di migliaia di professori di lettere degli anni ‘90 nel vedere finalmente consegnato alle forze dell’ordine uno dei principali (se non il principale) autori del vituperio del romanzo italiano per eccellenza, dei Promessi Sposi. È colpa sua (e dei suoi complici) se pensando a Don Abbondio la prima (e forse unica) immagine che si forma nella testa (di chi ha almeno una quarantina d’anni) è quella di un cagnolino timoroso con la lingua di fuori che scodinzola, abbaia, fa il bagnetto... se pensando a Lucia vediamo una donna bellissima dai capelli neri con uno strano diadema con le luci a intermittenza in testa... se pensando alla monaca di Monza.... ecco pensiamo appunto a questo. E se pensando a Bella Figheira... no no fermi tutti, lei non c’era. Se pensiamo a lei siamo proprio in mala fede! In realtà Tullio non è stato arrestato. Si è consegnato spontaneamente e senza opporre la minima resistenza per incontrare i detenuti del carcere della nostra città nel piccolo teatro della struttura. Si siede su una sedia al centro del palco. Ha un pubblico nuovo. Molti sono stranieri e non lo conoscono. Non è lì per esibirsi. Vuole raccontare e raccontarsi. I detenuti, inizialmente un po’ timorosi, cominciano con le domande di routine: se è la prima volta che entra in un carcere, che opinione ha dei detenuti, come ha iniziato a fare teatro, come si fa a capire se uno ha la stoffa per farlo, quanto conta l’empatia con il pubblico... L’artista parla, risponde, racconta aneddoti tratti dalla sua lunghissima esperienza nel mondo del teatro e della televisione. Dai pubblici freddi (i cosiddetti pubblici "Findus") alle platee più accoglienti, dall’amicizia con Troisi (l’altro geometra, come lui, del palcoscenico) fino - ma era inevitabile - alla storia del Trio. Proprio il Trio, quell’incredibile sodalizio artistico che fece registrare 14 milioni di spettatori alla prima puntata dei famigerati e già citati "Promessi sposi". Parla delle censure subite in Rai con la gag di Komeini. E poi di lei. Di Anna Marchesini. Di quanto sia stato duro da mandare giù quell’addio della scorsa Estate. Erano diventati Grandi insieme. Il trio. Lopez Marchesini Solenghi. E allora quest’attimo di nostalgica tristezza viene colto anche da quella parte del pubblico che il nome di Anna lo sente solo oggi per la prima volta. E il teatro, con un silenzio composto, sembra quasi stringersi in un abbraccio attorno l’artista, visibilmente provato. Adesso la sintonia con la platea è completa. I detenuti chiedono consigli su come si può entrare in un personaggio senza esserne "posseduti", come affrontare la paura di un debutto e se c’è un modo per allontanarla una volta per tutte. Tullio risponde colpo su colpo senza mai perdere il controllo della situazione e la discussione (non priva di colpi di scena!) prosegue senza sosta e senza soluzione di continuità per circa un’ora. I detenuti vorrebbero fare ancora decine di domande. Dalle risposte, anche gli stranieri hanno intuito la grandezza dell’artista che hanno davanti. Ma è ora di pranzo. Si deve andare. Il carcere, come il teatro, ha i suoi tempi ben precisi da rispettare. Si deve, ancora una volta, chiudere il sipario su un bel momento di condivisione di esperienze di vita, di scambio di emozioni, di umanità varia. Sarà difficile per tutto il carcere di Santo Spirito dimenticare questa giornata con Tullio Solenghi. Si proprio lui, il Solenghi di Lopez-Marchesini-Solenghi, ma soprattutto con un uomo che, con una semplicità disarmante, si è messo in condivisione e a disposizione di una platea di curiosi, sconclusionati ed emozionatissimi detenuti. Migranti. Fuori dal Gran Ghetto di Rignano, senza un’alternativa di Gianmario Leone Il Manifesto, 5 marzo 2017 Abbattuto quel che restava delle baracche, dopo l’incendio costato la vita a due giovani. Nelle due strutture della Regione non c’è posto per tutti. La Flai Cgil: agire per l’accoglienza. Il Gran Ghetto di Rignano Garganico non c’è più. Le tre ruspe della polizia ambientale della Regione Puglia hanno lavorato ininterrottamente per tutta la giornata di ieri, per eseguire il decreto di revoca della facoltà d’uso emanato dalla Direzione distrettuale antimafia presso il Tribunale di Bari, abbattendo ciò che restava delle oltre 700 baracche di lamiere e cartone, nelle quali nella notte di venerdì hanno perso la vita due giovani maliani. A presidiare il ghetto polizia, carabinieri e vigili del fuoco che hanno messo in sicurezza l’area, vista anche la presenza di numerose bombole di gas. Nei prossimi giorni partirà la bonifica ambientale, da parte dell’Arpa Puglia, del terreno che negli ultimi 20 anni ha ospitato migliaia di braccianti agricoli, in una delle più grande baraccopoli del sud Italia. Sulla morte di Mamadou Konate e Nouhou Doumbia, di 33 e 36 anni, la Procura di Foggia indaga per omicidio e incendio colposo al momento a carico di ignoti. L’ipotesi al vaglio del procuratore Leone de Castris e della pm Alessandra Fini, titolari dell’inchiesta, è che le fiamme possano essere divampate da una stufa o da uno dei fornelli che i migranti lasciano solitamente accesi durante la notte per riscaldarsi. Saranno però soltanto le autopsie e gli altri accertamenti ancora in corso da parte delle forze dell’ordine, a fornire ulteriori elementi d’indagine e a chiarire l’esatta origine e dinamica di quanto accaduto nella notte tra il 2 e il 3 marzo: molti abitanti del ghetto sostengono che l’incendio sarebbe stato appiccato apposta per favorire il loro sgombero più velocemente. Del resto, non sarebbe la prima volta che accade: spesso in passato è successo che in vista di un intervento annunciato nei vari ghetti si verificassero incendi di natura dolosa. Il clima intorno al ghetto e tra i braccianti resta quindi molto teso. Oltre un centinaio di loro si sono rifiutati di abbandonare quel luogo che per loro significa soltanto una cosa: lavoro. E quindi l’unico modo per sopravvivere. Seppur in schiavitù. Hanno preferito dormire all’addiaccio sotto i grandi ulivi presenti all’entrata del ghetto, dopo aver portato con se quei pochi oggetti sopravvissuti all’incendio. La maggior parte dei lavoratori stagionali, sfruttati da un sistema malato gestito dai caporali per conto di produttori che forniscono il prodotto ai grandi gruppi commerciali, sono stati trasferiti provvisoriamente nelle due strutture allestite dalla Regione Puglia presso il comune di San Severo, dove però non c’è posto per tutti, visto che possono contenere al massimo 320 persone. Le associazioni del luogo così come i comitati di lotta e la Flai Cgil Puglia infatti, nelle ultime ore hanno smorzato i toni di entusiasmo mostrati dal governatore pugliese Michele Emiliano e dal Movimento 5 Stelle per l’avvenuto sgombero. "Quante morti dovranno ancora avvenire per convincerci che predisporre un’accoglienza ed integrazione dignitosa è l’unica via percorribile contro la vergogna dei ghetti?" si chiedono alla Flai Cgil. "Non è accettabile che i migranti siano utilizzati come bestie da soma, sfruttate all’inverosimile nei campi, quindi funzionali a un certo tipo di economia produttiva contro la quale combattiamo da sempre, senza uno straccio di inclusione decorosa" ricorda il sindacato. "Ci chiediamo quanto ancora dovremo aspettare per quel Piano di accoglienza dei lavoratori stagionali che la Legge 199/2016 prevedeva di adottare entro 60 giorni dalla sua entrata in vigore! Sgomberare i ghetti senza alternative per chi ci vive è miope. I due lavoratori maliani morti chiedono a chi ha la responsabilità di agire subito e seriamente". Secondo il sindacato pugliese della Cgil, nelle ultime settimane nel ghetto erano presenti 500 lavoratori stagionali impiegati nella raccolta della verdura: ma lo scorso 1 marzo, nel corso del censimento effettuato dai tecnici della Regione che ha preceduto lo sgombero, furono registrate appena 95 persone. Emiliano ha però promesso che in breve tempo saranno predisposte le modalità per cui ogni lavoratore che dovesse venire in Puglia "troverà un alloggio civile, con l’aiuto di tutte le organizzazioni, delle imprese agricole e dello Stato, per far sì che il collocamento in agricoltura non sia nelle mani dei capi neri che controllavano mafiosamente quel campo". I ghetti, soltanto in Puglia, sono oltre una trentina. C’è ancora tanto da fare. Turchia. Dal giornalista in cella al referendum, è scontro aperto tra Ankara e Berlino di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 5 marzo 2017 Erdogan accusa la Germania di "coprire i terroristi", i tedeschi (e gli olandesi) bloccano i comizi dei politici turchi a sostegno della riforma costituzionale. Chissà cosa succederà oggi in Germania quando il ministro dell’economia di Ankara Nihat Zeybekci si presenterà a Colonia per tenere un comizio sui contenuti del referendum costituzionale che si terrà in Turchia il prossimo 16 aprile. Il comune ha cancellato l’evento per motivi di ordine pubblico ma Zeybekci ha garantito ugualmente la sua presenza: "È nostro dovere combattere questa battaglia. La vittoria appartiene ad Allah. Se non ci danno il permesso, andremo casa per casa". Ad Ankara si stanno convincendo che l’Europa voglia boicottare il voto costituzionale, che darebbe poteri straordinari al presidente Recep Tayyip Erdogan, dopo che Germania e Olanda hanno annullato alcuni eventi con le comunità turche locali, previsti in questi giorni. E che l’Austria ha annunciato di voler fare altrettanto. "Il suolo olandese - ha dichiarato il premier Mark Rutte - non è il posto per campagne politiche di altri Paesi". Il ministro degli Esteri di Ankara Mevlüt Cavusoglu ha giudicato inaccettabili le decisioni di Amsterdam e Berlino: "Dov’è la democrazia? Dov’è la libertà di espressione? - ha detto -. Nessuno ci può trattenere, noi andremo dove vorremo e incontreremo i nostri cittadini". Per il ministro della Giustiza turco Bekir Bozdag è "piuttosto chiaro" che molti Paesi della Ue "si oppongono al cambiamento del sistema politico in Turchia perché non vogliono che diventiamo stabili e forti". Mentre il premier Bilal Yildirim ha parlato di "decisione sciagurata che va contro la democrazia". Ieri una telefonata tra il premier turco e la cancelliera tedesca Angela Merkel è servita a calmare un po’ gli animi, almeno con Berlino. E mercoledì prossimo, l’8 marzo, è previsto un incontro in Germania tra il ministro degli Esteri turco Cavusoglu e il suo omologo tedesco Sigmar Gabriel. Di certo si discuterà anche di Deniz Yücel, il corrispondente del giornale tedesco Die Welt detenuto in Turchia dal 14 febbraio. Il giornalista, che ha la doppia cittadinanza, è stato accusato dal presidente Erdogan in persona di essere "un esponente del Pkk e una spia tedesca coperto dall’ambasciata di Germania dove si è nascosto per un mese". Dito puntato anche su Berlino: "In Germania - ha detto Erdogan -vivono migliaia di terroristi del Pkk di cui ci viene negata l’estradizione". Di certo l’annullamento di tre comizi di esponenti politici turchi sul suolo tedesco non ha aiutato il corrispondente di Die Welt. Quando il ministro della Giustizia turco Bekir Bozdag ha saputo che il comune di Gaggenau nel BadenWuerttemberg gli negava lo spazio per l’evento è volato direttamente a casa da Strasburgo, annullando anche l’incontro con il suo omologo tedesco Heiko Maas, che avrebbe voluto incontrarlo proprio per parlare del reporter. E questo nonostante la cancelliera Angela Merkel abbia chiarito che le disdette dei comizi elettorali per i ministri turchi, a Gaggenau e Colonia, erano state decise "a livello comunale" e non federale. In Germania vivono circa 3 milioni di turchi, un bacino elettorale importante cui l’Akp di Erdogan non intende sicuramente rinunciare. Filippine. "La finta guerra alla droga del presidente è un crimine contro l’umanità" di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 5 marzo 2017 La denuncia di Human Rights Watch. Sono più di settemila le vittime delle uccisioni sommarie compiute da soldati e mercenari nelle aree più povere di Manila. Una carneficina che poco ha a vedere con il traffico di stupefacenti. Non si ferma l’orrore per le strade della capitale filippina. Dal 30 giugno 2016 il clima di terrore che ha avvolto Manila continua a crescere come a crescere è il numero delle vittime cadute sotto i colpi della polizia o di mercenari senza processo e senza una motivazione plausibile. Così, dopo la denuncia di Amnesty, ora anche la Ong americana Human Rights Watch (Hrw) punta il dito contro il governo di Rodrigo Duterte e la sua presunta "guerra alla droga", che vede cadere sotto i colpi illeciti delle forze di sicurezza persone povere, vissute nei bassifondi di Manila e solo in alcuni casi consumatori di sostanze stupefacenti. Maschere e droga. Alcuni parenti delle vittime o testimoni involontari hanno raccontato di uomini dal volto coperto con maschere che hanno ucciso a sangue freddo, anche entrando nelle case dei sospettati e che sembravano in stretta collaborazione con i governativi. In altri casi invece le testimonianze raccolte parlano di agenti di polizia i quali, dopo aver ucciso i civili, hanno lasciato vicino ai cadaveri munizioni, droga e armi per simulare una prova. Sempre gli agenti, una volta interrogati, hanno giustificato le loro azioni come atti di legittima difesa. Oltre agli omicidi in strada, Hrw ha raccolto anche prove circa la morte di sospettati presi in custodia dalla polizia risultati poi come "morti sotto inchiesta" o come "cadaveri ritrovati". Licenza di uccidere. Gli analisti della Ong americana, nel report "Licenza di uccidere" hanno raccolto voci che parlano di agenti di polizia e mercenari assoldati dal governo Duterte, il quale continua a giustificare le uccisioni extragiudiziari come atti dovuti nella guerra contro lo spaccio. Per tracciare il quadro della situazione, i ricercatori hanno intervistato 28 familiari di vittime, ma anche giornalisti, attivisti e studiato i rapporti della polizia di Manila. "Le nostre indagini sulla "guerra alla droga" nelle Filippine hanno provato come sia diventata una routine comprovata per la polizia filippina quella di uccidere i sospetti a sangue freddo e poi coprire il loro crimine posizionando droga e armi vicino al cadavere - ha detto Peter Bouckaert, direttore della sezione "Emergenze" di Human Rights Watch e autore del rapporto - Il ruolo del presidente Duterte in questi omicidi lo rende in ultima analisi, responsabile della morte di migliaia di persone". Il castigatore dei poveri. Inseritosi nella politica filippina da outsider, date le sue umili origini, Duterte ha voluto imporre la sua figura forte e assai sopra le righe anche attraverso discorsi pubblici in cui "il castigatore" si è deliberatamente fatto beffa dei diritti umani e dei limiti da essi imposti alla sua crociata contro la droga. Con il passare dei mesi e l’aumentare delle morti extragiudiziari (a febbraio erano circa 7000) il pugno di ferro di Duterte non sembra allentarsi. Sebbene continui ad essere chiamata "guerra alla droga", quella del "Trump delle Filippine" sembra più una guerra contro i poveri. Altro che signori della droga e ricchi mercanti, a cadere sotto i colpi delle forze di sicurezza sono in prevalenza persone di bassa estrazione sociale, provenienti dai quartieri più poveri di Manila. "Dietro la facciata dell’operazioni antidroga, la polizia filippina con il benestare di Duterte ha ucciso migliaia di filippini - continua Bouckaert - Molte uccisioni si assomigliano e svelano un modello di comportamento illecito da parte della polizia". Crimini contro l’umanità. Sebbene non siano ancora state scoperte prove concrete che colleghino il presidente alle uccisioni extragiudiziali, l’organizzazione non governativa sottolinea come le continue istigazioni da parte di Duterte a uccisioni sommarie come armi della sua guerra al narcotraffico potrebbero comprometterlo. "La "Guerra alla droga" di Duterte - conclude Bouckaert - dovrebbe essere intesa più propriamente come un crimine contro l’umanità, dato il costante accanimento contro i più poveri. Se da un lato l’indignazione locale unita alle pressioni globali o ad un’inchiesta internazionale porranno fine a questi omicidi, dall’altro si spera che prima o poi i responsabili siano assicurati alla giustizia". Giordania: Amman giustizia 15 condannati Il Manifesto, 5 marzo 2017 Esecuzione di massa di prigionieri accusati di attacchi dal 2003 al 2016: la monarchia hashemita ha sempre più paura del "contagio" islamista e si riavvicina alla Siria di Assad. Due anni dopo le ultime pene capitali, rappresaglia all’uccisione del pilota al-Kasasbeh, bruciato vivo dall’Isis, il regno hashemita torna al cappio: ieri 15 giordani sono stati giustiziati nel carcere di Swaqa, 70 km da Amman. Dieci di loro erano accusati di terrorismo, cinque di violenze sessuali. L’ampio arco di tempo coperto dalle esecuzioni di ieri svela la maggiore paura della Giordania verso il terrorismo islamista: i 10 giustiziati erano stati condannati per sei attacchi diversi, dall’attentato all’ambasciata di Amman in Iraq del 2003 (il più vecchio) all’omicidio dello scrittore Nahid Hattar, lo scorso settembre (il più recente). Un’esecuzione di massa, condannata dalle organizzazioni per i diritti umani, che accende i riflettori su un paese che ha cercato di tenersi lontano dal caos che investe la regione dalla seconda guerra del Golfo e dall’avanzata di gruppi jihadisti che ai suoi confini dettano legge. Ma la Giordania non ne è immune e lo sa. Per questo negli ultimi mesi, sotto traccia, sta modificando la propria strategia regionale, soprattutto nei confronti della vicina Siria. Pur restando uno dei caposaldi mediorientali della coalizione a guida Usa, Amman ha abbandonato le iniziali richieste di un cambio al governo di Damasco: sempre più lontana da Turchia e Arabia Saudita (tanto da non essere più nemmeno nominato dal presidente Assad come sponsor delle opposizioni), re Abdallah punta ad una Siria stabile, un governo forte che possa controllare i confini. L’ultimo spettacolare attacco, a dicembre, nel sito storico di Karak (14 morti) ha ricordato alla monarchia hashemita di essere circondata da paesi destabilizzati da guerre esterne. Così si spiega il repentino pugno di ferro che ieri, con 15 impiccagioni, ha mostrato il suo volto peggiore. E si spiegano i raid aerei di pochi giorni fa nel sud della Siria contro postazioni islamiste e l’arresto in due mesi di 700 presunti miliziani islamisti. Somalia. 110 morti di fame in 48 ore di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 5 marzo 2017 Milioni di persone sono minacciati da un’ondata di siccità che ha colpito la Somalia. Il primo ministro somalo Ali Khaire ha denunciato la morte per fame di almeno 110 persone nelle ultime 48 ore nella sola regione di Bay, nel sud-ovest del Paese devastato dalla carestia. È la prima volta che il governo somalo fornisce una cifra da quando, martedì, ha dichiarato lo stato di calamità nazionale. Secondo l’Onu, almeno 5 milioni di persone nel Corno d’Africa hanno bisogno di aiuti alimentari a causa della siccità e della conseguente carestia. La Somalia è una delle quattro nazioni per cui le Nazioni Unite hanno lanciato una raccolta fondi da 4,4 miliardi di dollari nel tentativo di evitare la diffusione della carestia. Gli altri Paesi sono la Nigeria, il Sud Sudan e lo Yemen. Negli ultimi giorni migliaia di persone hanno lasciato la regione di Bay per rifugiarsi nella capitale Mogadiscio nella speranza di trovare cibo. I bambini malnutriti sarebbero 363mila tra cui 71mila casi gravi. La mancanza di acqua pulita favorisce anche la diffusione del colera e di altre malattie. "La carestia mette la vita di queste persone a repentaglio anche perché più facilmente soggette allo sfruttamento, ad abusi dei diritti umani e all’essere reclutati dai network terroristi" ha detto il governo somalo. Secondo l’Onu per uscire dalla crisi la Somalia avrebbe bisogno di 864 milioni dollari in modo da garantire l’assistenza a 3,9 milioni di persone mentre il World Food Program ha presentato un piano da 26 milioni di dollari per fronteggiare la carestia.