Suicidi in carcere. Orlando: situazione da non sottovalutare, ora monitoraggio giustizia.it, 4 marzo 2017 "Non siamo in una fase di emergenza, ma la situazione non è da sottovalutare. Per questo vi chiedo di poter avere un quadro completo sull’applicazione della direttiva in materia di suicidi che ho emanato nel maggio scorso". Così il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha introdotto nel pomeriggio la riunione con i vertici e i Provveditori Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria convocati per discutere appunto dei recenti comportamenti di autolesionismo verificatisi negli istituti penitenziari. La riunione si è conclusa con la decisione di procedere a un monitoraggio istituto per istituto sull’attuazione della direttiva del ministro. Eventi critici nelle carceri, l’emergenza dei numeri di Uil-Pa Penitenziari polpenuil.it, 4 marzo 2017 10.000 casi di autolesionismo e circa 11 mila manifestazioni di protesta non collettiva: gli eventi critici all’interno delle carceri sono in continuo aumento. Vicino ad un organico che decresce di pari passo all’aumentare del lavoro, delle criticità e dei nuovi sistemi di sicurezza, aumentano gli episodi che disturbano la vita all’interno degli istituti penitenziari creando problematiche ai detenuti e agli agenti in servizio. Litigi, episodi di violenza ma anche proteste ed evasioni sono fenomeni che raggiungono numeri importanti sono un segnale di come le problematiche legati alla vita nelle galere, senza gli adeguati mezzi e la professionalità del personale che vi lavora, rappresenti un vero pericolo, sia per i detenuti stessi che per i poliziotti in servizio. "Sono dati significativi, che oltre a mettere in evidenza come la disparità numerica derivante dall’alto numero di detenuti rispetto ad un organico fermo da troppo tempo, si ripercuote sulla qualità del lavoro di chi rappresenta lo Stato all’interno del carcere, devono far pensare sul ruolo delle strutture penitenziarie - sostiene Angelo Urso, segretario generale della Uil Polizia Penitenziaria. Se il carcere deve rieducare e tra le sue mura si registrano situazioni di violazioni delle regole di civile convivenza, c’è bisogno di mettere mano alla loro gestione-organizzazione. Se le persone non rispettano le regole all’interno del carcere come si può pensare che lo facciano una volta scontata la pena? Prima del reinserimento sociale bisogna pensare a progetti di educazione intramurale". Ad oggi, nei reati, il primato lo detengono gli stranieri: le colluttazioni hanno coinvolto 3.051 italiani rispetto 3.501 stranieri, così come il rapporto nei ferimenti è di 405 a 544. "La gestione dei detenuti stranieri deve essere rivista - prosegue Urso - hanno una cultura diversa dalla nostra e regole di civile convivenza differenti da quelle che abbiamo noi. Questo inquina i rapporti di relazione interna: un italiano in cella con straniero fa fatica a convivere e quando per questioni di sovraffollamento si mischiano è più facile che questi litighino tra loro. Anche all’interno dei detenuti stranieri bisognerebbe dividerli in base alle etnie: le forme di xenofobia più importanti sono quelle dei cittadini dell’est nei confronti di carcerati magrebini o provenienti dalle regioni centrali dell’Africa". Solo nei tentati omicidi gli italiani superano gli extracomunitari con un rapporto di 3 a 1. Voce da non tralasciare, invece, è quella dell’autolesionismo, una forma di protesta e allo stesso tempo una pretesa di attenzione quando le rivendicazioni del detenuto, per vari motivi non viene accettata. "Quanto più è alta la percentuale dei detenuti stranieri - spiega Urso - tanto più sono numerosi gli atti di autolesionismo. Al contrario, i suicidi sono sintomatici di un senso di appartenenza a una comunità, un senso di vergogna che nella propria patria galera porta più italiani a commettere tragici gesti". Le proteste sono un’altra situazione di disagio per la vita all’interno del carcere: oltre 100 mila persone hanno protestato. Nelle proteste "non collettive" 1.992 hanno rinunciato a vitto e terapie (la forma più diffusa di protesta) mentre 2.190 hanno sfogato la loro rabbia in danneggiamenti dei beni dell’amministrazione. Per quanto riguarda, invece, le "proteste collettive" 96.327 detenuti coinvolti, portate avanti rifiutando il cibo o con le rumorose percussioni di oggetti contro i cancelli o le inferiate. Oltre 43 mila hanno protestato contro le condizioni di vita in carcere e 52618 a favore o contro le misure legislative. Un capitolo importante lo ricopre la voce evasione. La maggioranza delle evasioni dal carcere viene effettuata da detenuti stranieri (5 a 1) mentre i casi che vedono gli italiani evadere sono quelle situazioni tipo permessi premio o da situazione di semilibertà. Voto di fiducia sulla riforma del processo penale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2017 Ieri l’autorizzazione del Cdm. Tensioni in maggioranza poi l’accordo per la calendarizzazione a metà marzo. Il Governo prova a sbloccare la riforma del processo penale e a qualificare questo scorcio finale della legislatura anche sul tema caldo della giustizia. Il Consiglio dei ministri di ieri ha dato così il via libera al voto di fiducia sul disegno di legge che da tempo langue al Senato (è comunque all’ordine del giorno, ma solo come quinto punto, della seduta dell’assemblea di martedì prossimo). Non tutto però è filato liscio visti i mal di pancia all’interno della maggioranza, anche se poi sembra essere arrivato l’accordo con Angelino Alfano per il voto a metà marzo. A uscire allo scoperto è stato uno dei componenti centristi dell’Esecutivo, il ministro della Famiglia Enrico Costa, di Alleanza popolare. Costa non ha nascosto di essere in disaccordo con la decisione e ha messo l’accento soprattutto su due elementi, che poi sono quelli che più di altri caratterizzano il testo: la revisione dei termini di prescrizione che, per Costa, allungherebbe eccessivamente i tempi del processo, e la delega sulle intercettazioni che andrebbe a scadere tra un anno quando la legislatura sarebbe già finita. In realtà il disegno di legge è di portata assai ampia e a un pacchetto di deleghe - oltre a quella sulle intercettazioni va ricordata almeno quella sull’ordinamento penitenziario e sulle condizioni procedibilità e le impugnazioni - si affianca una serie di misure rilevanti e di efficacia immediata. È il caso, per esempio, della nuova causa di estinzione del reato quando l’imputato ha riparato integralmente alle sue conseguenze oppure dell’inasprimento del trattamento sanzionatorio per i furti in abitazione, per le rapine e per gli scippi, ma anche del voto di scambio o, ancora, della reintroduzione del concordato sui motivi di appello o dei requisiti della sentenza. E tra le norme che entrerebbero subito in vigore c’è anche l’estensione del dibattimento a distanza che diventerebbe la modalità ordinaria di partecipazione per i procedimenti in tutta una serie di reati. Ma a fare discutere, con un’opposizione che già annuncia le barricate (quella della fiducia è una scelta "scandalosa e propagandistica" affermano il capogruppo di Forza Italia alla camera Renato Brunetta e in commissione Affari costituzionali Francesco Paolo Sisto), sarà soprattutto la nuova disciplina della prescrizione che non tocca tanto i termini previsti dalla legge ex Cirielli quanto agisce invece sulla sospensione stabilendo un blocco del decorso di un anno e sei mesi tra primo grado e appello in caso di condanna e sempre di un anno e sei mesi tra appello, anche in sede di rinvio, e Cassazione, sempre in caso di condanna. Fiducia sul ddl penale. Il guardasigilli: vittoria del governo di Errico Novi Il Dubbio, 4 marzo 2017 Sì alla fiducia sul ddl penale. Il governo Gentiloni fa quello che Renzi preferì evitare "per non andare contro gli amici magistrati". Ma stavolta a inalberarsi è un ministro Ncd. Perché nella riunione di ieri con cui Palazzo Chigi autorizza la blindatura della riforma, il responsabile degli Affari regionali Enrico Costa si scaglia contro la decisione: "Non si può autorizzare la questione di fiducia se non siamo tutti d’accordo". In realtà nella discussione che coinvolge anche il leader di Ncd, Angelino Alfano, a opporsi sulla riforma del processo è solo Costa. Anche se il capo del partito e della Farnesina adombra l’idea che la scelta sul ddl penale "finisca per "portare nel governo lo scontro sulle primarie Pd". Costa è sempre stato molto attento sul dossier dai tempi in cui era viceministro alla Giustizia. Arriva a chiedere che venga messo a verbale il suo dissenso e a spiegarlo così al termine della riunione: "Nella riforma ci sono norme sulla prescrizione che allungano in media di 3 anni i tempi del processo. Una forzatura che va contro i principi costituzionali della ragionevole durata dei giudizi e della presunzione di innocenza, e che fa ricadere sul cittadino le inefficienze e le lentezze del sistema". Perplessità che non sembrano riflettere l’orientamento generale del Nuovo centrodestra e che d’altronde Costa aveva espresso anche all’inaugurazione dell’anno giudiziario delle Camere penali. Sulla prescrizione Orlando ribatte che "l’attuale formulazione è il risultato del miglior compromesso possibile". E in effetti rispetto alla versione uscita dalla Camera è stato ridotto di un quarto lo specifico allungamento dei termini per i reati di corruzione. È invece sopravvissuto il bonus di complessivi 3 anni dopo le eventuali condanne in primo grado e in appello: ma la prima delle due sospensioni, che dà più margine per celebrare il secondo grado, è stata ridotta da 2 anni a un anno e mezzo proprio su richiesta di Ncd. Costa è particolarmente aspro nelle critiche a Orlando e allo stesso Gentiloni, ma con argomentazioni tecniche. Il ragionamento più "politico" di Alfano svela un malessere che non riguarda solo la giustizia: il ministro degli Esteri, oltre a ricordare che la fiducia è posta su un ddl presentato da un guardasigilli ora candidato alle primarie del Pd, lamenta una freddezza del guardasigilli rispetto a una nuova futura alleanza tra dem e centristi. E la sterzata di Orlando rispetto al rapporto con l’Ncd spiega forse molto meglio della prescrizione lo scontro a Palazzo Chigi. Vero è anche che il ministro della Giustizia, poco prima di immergersi nel Consiglio dei ministri, precisa che "un’alleanza tra il Pd e la destra è un’anomalia che non si può assolutamente ripetere" ma che "altra cosa è un accordo con il centro". Di fatto pone ad Alfano una questione di identità politica, che ora il Nuovo centrodestra non è in grado di sciogliere. Alle obiezioni sull’incrocio tra primarie e attività di governo, il guardasigilli replica così ad Alfano: "La fiducia sul ddl penale non è certo una vittoria del ministro della Giustizia ma del governo: quando verrà posta a Palazzo Madama io non ci sarò, così il concetto sarà più chiaro". Il caso si estende al di fuori della maggioranza: da Forza Italia il capogruppo alla Camera Renato Brunetta e il deputato Francesco Paolo Sisto definiscono "scandalosa la fiducia, una accelerazione propagandistica di Orlando che è difficile non ricollegare alla sua candidatura alla segreteria del Pd". Certo a Palazzo Madama la tensione non mancherà. Ma le accuse di strumentalità paiono ingenerose con Orlando: che si era battuto per la fiducia sul ddl penale anche prima che il referendum travolgesse Renzi. Ora ha arricchito il provvedimento con norme che limitano le spese sulle intercettazioni e il rischio di fughe di notizie dai server dei privati che forniscono tecnologie alle Procure. Ma quando già la settimana prossima, forse, tornerà nell’aula del Senato, la vera sfida sarà tenere lontano dalla riforma la politica tout court e limitarsi a discutere di processo penale. Protezione dati per la giustizia. Un responsabile privacy nei tribunali e nelle procure di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 4 marzo 2017 Un responsabile della protezione dei dati anche nei tribunali e nelle procure. È quanto previsto dalla direttiva europea 2016/680, il cui recepimento (da attuarsi entro il 6 maggio 2018) è previsto dal disegno di legge di delegazione europea 2016, approvato in prima lettura ieri dal consiglio dei ministri. La direttiva 2016/680 fa parte del pacchetto privacy Ue composto anche dal Regolamento 2016/679, che manderà in soffitta buona parte del vigente codice della privacy. Un punto comune ai due provvedimenti è la designazione del responsabile della protezione dei dati, che ha caratteristiche specifiche per il settore giustizia. Secondo il regolamento Ue negli uffici giudiziari si dovrà designare un consulente per il controllo del rispetto a livello interno delle disposizioni sulla protezione dei dati (Rpd). I singoli stati, però, possono esentare dall’obbligo di nomina le autorità giurisdizionali e le altre autorità giudiziarie indipendenti quando esercitano le loro funzioni giurisdizionali. Il Rpd potrebbe essere un dipendente che abbia ricevuto una formazione specifica sulla normativa e la prassi in materia di protezione dei dati al fine di acquisire una conoscenza specialistica in questo settore. Il Rpd dovrà informare e consigliare in merito al rispetto degli obblighi in materia di protezione dei dati. Obblighi che hanno una particolare conformazione nel campo giudiziario, in cui la privacy è messa a confronto con la sicurezza pubblica e dei cittadini. Lo stesso regolamento attesta che la polizia e le altre autorità hanno un margine di manovra molto ampio, comprese attività quali operazioni di infiltrazione o videosorveglianza. Ma non senza limiti. Il principio da applicare è quello della proporzione: i fi ni di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, salvaguardia contro e la prevenzione di minacce alla sicurezza pubblica, devono essere previste dalla legge e devono essere una misura necessaria e proporzionata. Il ddl in esame aggiunge una speciale prescrizione al governo: prevedere per le violazioni delle disposizioni adottate a norma della direttiva l’applicazione della pena detentiva non inferiore nel minimo a mesi sei e non superiore nel massimo ad anni cinque. Market abuse. Passando ad altre materie, il governo verrà delegato ad adottare norme per l’attuazione del regolamento (Ue) n. 596/2014, relativo agli abusi di mercato. Il regolamento Mar (Market abuse regulation) prevede, a dire il vero, una serie di esenzioni, di condotte legittime e di pratiche di mercato accettate e anche la possibilità di effettuare sondaggi di mercato. Il Mar estende però le ipotesi di manipolazione del mercato anche in operatività con ordini di negoziazione effettuati da mezzi elettronici, come le strategie di negoziazione algoritmiche e ad alta frequenza. Il settore viene affidato alle cure della Consob, quale autorità competente dotata di poteri di vigilanza e di indagine e sanzionatori. Indici finanziari. La legge delegherà al governo per la predisposizione di decreti legislativi per l’attuazione del regolamento (Ue) n. 2016/1011, sugli indici usati come indici di riferimento negli strumenti finanziari e nei contratti finanziari o per misurare la performance di fondi di investimento. I parametri di riferimento, chiamati benchmark, sono gli indici che vengono utilizzati per confrontare il prezzo di strumenti finanziari o pagamenti nell’ambito di contratti finanziari. Ad esempio si possono citare il Libor e l’Euribor. Con la nuova disciplina legislativa europea si prevede un stretta sulle organizzazioni che sfornano questi indici: più controlli, dunque, sugli amministratori dei parametri, sottoposti alla supervisione delle autorità nazionali competenti. Varie. La legge di delegazione europea 2016 dispone il recepimento di molte direttive. Tra le altre, la direttiva (Ue) 2015/2302 relativa ai pacchetti turistici e ai servizi collegati; la direttiva (Ue) 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali; la direttiva (Ue) 2016/800 sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali; la direttiva (Ue) 2016/1919 sull’ammissione al patrocinio pagato dallo stato per indagati e imputati nell’ambito di procedimenti penali e per le persone ricercate nell’ambito di procedimenti di esecuzione del mandato d’arresto Ue; la direttiva (Ue) 2016/2102 relativa all’accessibilità di siti web e applicazioni mobili degli enti pubblici. "Lotta alla mafia? Non spetta alle toghe, loro devono far rispettare la legge" di Davide Varì Il Dubbio, 4 marzo 2017 La lezione del giornalista Emanuele Macaluso alla Scuola superiore della magistratura. "Ho 92 anni suonati e nella mia vita ho visto di tutto. Eppure, parlare a dei giovani magistrati mi emoziona, mi commuove". Se qualcuno avesse detto a Emanuele Macaluso che un giorno sarebbe stato invitato dalla Scuola superiore della magistratura per tenere una lezione sulla mafia, la politica e la giustizia, lui, vecchio comunista siciliano, lo avrebbe fulminato con una "tagliata", magari facendo spallucce e voltandosi dall’altra parte. E invece è accaduto. E così il grande suggeritore di Giorgio Napolitano, si dice infatti che i suoi saggi consigli abbiano accompagnato il settennato e mezzo del presidente più "politico" degli ultimi anni, si è ritrovato, emozionato come un ragazzino alla prime armi, a dover spiegare a un nugolo di imberbi magistrati il complicatissimo rapporto tra politica e magistratura italiana. E allora conviene partire dalla fine, dalle parole con cui Macaluso ha chiuso il suo lungo e suggestivo intervento: "Eravamo all’inizio degli anni 80. Achille Occhetto era il segretario regionale del Pci siciliano e nel corso del suo intervento per l’inaugurazione dell’anno giudiziario invitò tutti, magistrati compresi, a combattere contro la mafia. Poi prese la parola il presidente della Corte d’Appello di Palermo che con grande serenità e chiarezza spiegò al giovane Occhetto e a noi tutti, che la magistratura non doveva fare nessunissima lotta, neanche contro la mafia: "La magistratura deve applicare le leggi e basta", disse". Ma questa è solo la conclusione dell’intervento di Macaluso. Per più di un’ora il vecchio comunista ha raccontato episodi chiave della storia della Sicilia e del nostro Paese. A cominciare dal fascismo e da Mussolini che "quando presentò il Listone in Sicilia si affacciò con i mafiosi sui balconi delle piazze, salvo poi inviare il prefetto Mori che perseguitò figli, moglie e genitori dei latitanti o presunti tali". E poi la liberazione e lo sbarco alleato, che divenne il momento in cui si saldò l’alleanza tra Stato, Chiesa, latifondo e Cosa nostra. E l’avvento della Dc col ricordo di Giuseppe Alessi: "Grande avvocato antifascista e primo presidente della regione Siciliana, che rifiutò di iscrivere i mafiosi nella Dc e per questo fu "minacciato" dal vescovo in persona". Poi Alessi si dimise, o fu fatto dimettere, e arrivò Arcangelo Cammarata che con i mafiosi era decisamente più disponibile e malleabile. E quel blocco di potere tra Chiesa, Stato, latifondo e mafia si rafforzò con le grandi lotte contadine. E a quel punto Macaluso ha spiegato ai giovani magistrati chi era Placido Rizzotto: "Un combattente che io conobbi e che fu ucciso dalla mafia perché lottava al fianco dei contadini". E se è vero che Rizzotto fu ucciso dalla mafia, è soprattutto vero che a tradirlo furono gli uomini dello Stato. A cominciare da un giovane ufficiale di nome Carlo Alberto Dalla Chiesa, il futuro generale Dalla Chiesa, il quale al processo sulla morte di Rizzotto dichiarò che quel delitto non aveva nulla a che vedere con la politica e con la mafia. "Ma io capisco quella sua posizione, allora c’era un unico grande nemico: il comunismo". Ma anche i giudici ebbero un ruolo in quel sistema. Anche pezzi di magistratura fecero parte di quel blocco di potere. "Il giudice Guido Lo Schiavo teorizzò in un libro quel legame: "Dire che la mafia disprezza la polizia e la magistratura è un’inesattezza - scrisse Lo Schiavo, la mafia ha sempre rispettato la giustizia e la magistratura, si è inchinata alle sue sentenza collaborando anche alla cattura dei banditi". Ma qualcosa iniziava a cambiare, tanto che nel 1978 la procura di Palermo fu affidata a Gaetano Costa: "Un uomo rigoroso, colto, onestissimo. Un amico che pur avendo le sue idee non si iscrisse mai a Magistratura democratica per mantenere la sua indipendenza. Ma Costa fu isolato - ha raccontato Macaluso - tanto che quando preparava mandati di arresto per i mafiosi nessun aggiunto li firmava con lui. E questa fu la sua condanna". Poi arrivò la generazione che si era laureata nel 1968 e allora la magistratura cambiò davvero e quel patto osceno venne meno: "E fu proprio la fine di quell’alleanza che determinò l’inizio del terrorismo mafioso che raggiunse il culmine negli anni 90". Ma di lì in poi Cosa nostra inizia a perdere. "Io credo che la mafia siciliana abbia perso - ha infatti ribadito alla platea di giovani magistrati Macaluso. Questo non vuol dire che la mafia non c’è più. Io ritengo che le cose siano cambiate, che i mafiosi non hanno più il potere e il ruolo che hanno avuto in passato". Poi la frase finale, il congedo da quella platea così particolare: "I giudici non fanno battaglie, i giudici devono far rispettare la legge. Non lasciate che la politica scarichi su di voi questa responsabilità". E chissà se qualcuno ascolterà le parole di un vecchio comunista. Sul contenzioso necessario evitare approcci di parte Di Antonio Damascelli Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2017 Il primo presidente della Suprema Corte di cassazione nel corso del suo discorso in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario tributario, dopo aver illustrato i dati numerici delle pendenze dei ricorsi, alimentati per buona parte dalla materia tributaria, tanto da allontanare lo spettro che la Cassazione civile possa trasformarsi in Cassazione tributaria, ha responsabilmente invocato l’impegno dell’agenzia delle Entrate e dell’avvocatura a chiudere le controversie inutili. Per gli avvocati tributaristi che si identificano in Uncat la risposta e la piena disponibilità corrono su due piani: di metodo e di funzione. Sotto il primo profilo non appare condivisibile la proposta e, a quanto pare (si veda Il Sole 24 Ore del 28 febbraio), l’iniziativa avviata dall’Agenzia di collaborare con la Corte allo scopo di ottenere sentenze pilota e di migliorare la performance delle vittorie (nove su dieci). A parte la sorpresa e la generalità assoluta del dato (si tratta di sentenze di diritto sostanziale, processuale, di inammissibilità?), non pare corretto a Uncat affrontare la questione in termini agonistici, come se ci trovassimo a giocare in un torneo di sport. La posizione dell’Agenzia di avviare unilateralmente la collaborazione con la Corte per ottenere sentenze pilota non è corretta ed è contraria ai principi fondamentali del processo ispirato alla parità delle parti. Essa non risolve il problema di come gestire il presente e smaltire l’arretrato. Cioè non si risolve il problema del processo e del giusto processo, poiché passare da nove a uno a dieci a zero premierà i dirigenti, ma non farà venir meno il peso specifico dei ricorsi se non cambia l’approccio culturale al problema. Si è proprio certi che, una volta ottenuta una sentenza pilota, i processi si sgonfieranno e per opera di chi, visto che le parti processuali sono almeno due? Non sembra che il metodo sia il più idoneo, atteso che, come tutti sanno, l’amministrazione ha sempre affidato a proprie circolari mutamenti di prassi ogni qual volta si sia consolidata la giurisprudenza su un certo tema. Dal punto di vista metodologico, pertanto, il percorso non può che essere comune alla parti perché, sia pur da posizioni distinte, amministrazione e avvocatura hanno entrambi una funzione costituzionale da assolvere all’interno del processo: assicurare la giustizia. Se gli avvocati, almeno in sede di legittimità, sono gli unici difensori tecnici abilitati alla difesa, discende che il coté funzionale del nostro problema va affrontato eliminando le aporie del sistema processuale così come attualmente organizzato, e rappresentando le seguenti priorità: 1 salvaguardia della giurisdizione tributaria e mantenimento delle attuali commissioni, i cui giudici devono essere assegnati a tempo pieno per assicurarne la professionalità; 1 passaggio delle commissioni di merito dal Mef - dal quale dipendono anche economicamente sia una delle parti processuali che i giudici - alla presidenza del Consiglio dei ministri o del ministero di Giustizia, affinché sia garantita la terzietà; 1 selezione, sin dal primo grado, dei difensori tecnici, perché un buon difensore rende anche un buon giudice. Ovviamente non si tratta di opzione corporativa. Questo piccolo ma essenziale passaggio di funzioni sarebbe in grado di offrire qualità dei giudizi di merito e qualità delle sentenze. Al cospetto di una sentenza redatta correttamente (esame delle questioni pregiudiziali, preliminari e di merito e motivazione sufficiente) sia l’amministrazione che la parte privata probabilmente penserebbero tre volte e non due soltanto prima di ricorrere per cassazione. Dal proprio canto l’amministrazione dovrà capovolgere l’analisi del provvedimento in funzione dell’impugnazione, mettendo da parte una sorta di "morale dogmatica" (perché poi si rischiano le spese) che spersonalizza la decisione per effettuare una valutazione essenzialmente tecnica. Il difensore tecnico, a propria volta, avrà facile ingresso nella mens e nel portafogli della parte assistita per farle capire l’inutilità e la dannosità di proseguire il giudizio. In conclusione, Uncat ritiene che certe battaglie non si possano vincere da soli e ritiene, altresì, che senza un cambiamento di cultura e, soprattutto, senza smorzare falsi ideologismi, che vedono i contribuenti tutti etichettati come evasori e l’amministrazione come persecutrice, non si vada da nessuna parte. Sorvegliato speciale per due anni, Strasburgo condanna l’Italia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 marzo 2017 Angelo De Tommaso ha fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Sotto accusa la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza adottata in Italia. A farlo è la grande camera della Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza di parziale condanna all’Italia a seguito di un ricorso presentato da Angelo De Tommaso. Un caso che farà giurisprudenza. Vediamo i fatti. Il 22 maggio 2007 la Procura della Repubblica di Bari ha ritenuto che De Tommaso debba essere sottoposto a una misura di sorveglianza per due anni e impone una misura obbligatoria. Il pubblico ministero ha sostenuto che aveva precedenti penali per traffico di droga, fuga e possesso illegale di armi, era in contatto con alcuni criminali ed era un individuo pericoloso. De Tommaso ha impugnato la misure del pm, sostenendo che vi era stato un caso di scambio di identità e che nessuna accusa penale era stata portata contro di lui. In una decisione dell’11 aprile 2008 il Tribunale distrettuale di Bari ha posto De Tommaso sotto misura di sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per due anni. L’ufficio giudiziario ha dichiarato che i requisiti stabiliti dalla legge erano stati soddisfatti, non essendoci dubbio che egli era pericoloso. A parere della Corte distrettuale, De Tommaso ha tendenze criminali, e le prove hanno dimostrato che egli aveva tratto beneficio da reati e che la maggior parte dei suoi mezzi di sussistenza provenivano da attività criminali. Fra le prescrizioni imposte dal Tribunale è il caso di ricordarne alcune: doveva "condurre una vita onesta e rispettosa della legge", "evitare di entrare in relazione con pregiu- dicati", "evitare di frequentare bar, discoteche, sale giochi, manifestazioni pubbliche". Il 14 luglio 2008 De Tommaso fa ricorso alla Corte d’Appello di Bari. I giudici gli hanno dato ragione e hanno revocato il provvedimento riscontrando che non rappresenta una vera e propria pericolosità sociale. Per conseguenza, la misura viene disapplicata a partire dal gennaio 2009. La Corte d’Appello ha anche sottolineato che i reati attribuiti a De Tommaso non erano stati commessi da lui, ma da un’altra persona con lo stesso nome. Infine, la Corte ha dichiarato che il tribunale di Bari aveva omesso di valutare l’impatto dello scopo riabilitativo della pena inflitta. A quel punto, per la misura applicata in precedenza, De Tommaso ha deciso di fare ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo invocando nell’ordine: la violazione dell’art. 5 (la misura di prevenzione avrebbe leso il proprio diritto alla libertà); violazione dell’art. 2 (la misura avrebbe altresì ingiustamente impedito di godere della libertà di circolazione); violazione dell’art. 6 (il processo sarebbe stato ingiusto sotto il duplice profilo dell’assenza di una pubblica udienza e di altre censure di iniquità) e violazione dell’art. 13 (lo Stato italiano non avrebbe garantito un rimedio effettivo contro il provvedimento di applicazione della misura). Per il massimo organo giurisdizionale della Corte europea dei diritti dell’uomo, la misura di prevenzione della sorveglianza speciale imposta al ricorrente non era equiparabile a una privazione della libertà personale, con la conseguenza che non è stato violato l’articolo 5 della Convenzione europea sul diritto alla libertà personale, ma riconosce una violazione dell’articolo 2 sulla libertà di circolazione. Quello che non convince la Corte è l’applicazione di misure preventive senza che gli individui possano sapere con chiarezza quali comportamenti, ritenuti pericolosi per società, possono far scattare l’applicazione dei provvedimenti. Di conseguenza, poiché la legge in vigore all’epoca della vicenda non aveva indicato con precisione le condizioni di applicazione e, tenendo conto dell’ampio margine di discrezionalità concesso alle autorità nazionali competenti, l’Italia ha violato la Convenzione, con una evidente ingerenza nel diritto alla libertà di circolazione. "Tanto più - ricorda la corte di Strasburgo nella sentenza - che al ricorrente non era stato imputato un comportamento o un’attività criminale specifica perché il tribunale competente aveva soltanto richiamato il fatto che aveva frequentazioni assidue con criminali importanti". Che cos’è la sorveglianza speciale? È un insieme di misure di prevenzione applicabili a soggetti ritenuti socialmente pericolosi e finalizzate a prevenire la commissione di reati. Le misure di prevenzione sono piuttosto numerose anche perché sono state aumentate dal legislatore con successivi interventi in materia di lotta al terrorismo, al traffico degli stupefacenti e alla criminalità organizzata. La sorveglianza speciale viene applicata principalmente nei confronti di tre categorie di persone: per coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi; per coloro che per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; per coloro che, in base al comportamento, debba ritenersi che siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica. Nel 2011 tale misura è stata estesa ad altre categorie di persone, quali ad esempio gli indiziati di appartenere alle associazioni mafiose o coloro che, operanti in gruppo od isolatamente, pongono in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato. L’applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale può essere proposta dal questore, dal procuratore nazionale antimafia, dal procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove dimora la persona e dal direttore del distretto nazionale antimafia. La proposta è presentata al presidente del Tribunale del capoluogo della provincia in cui la persona dimora il quale fisserà la data dell’udienza che, di norma, si svolge senza la presenza del pubblico, a meno che l’interessato chieda che si svolga pubblicamente. A seguito dell’udienza, il giudice stabilirà se applicare o meno la misura di prevenzione della sorveglianza speciale e, qualora la disponga, nel provvedimento stabilirà la durata che non può essere inferiore ad un anno né superiore a cinque. Alla sorveglianza speciale può essere aggiunto, a seconda delle circostanze, il divieto di soggiorno in uno o più comuni o province, o alternativamente l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale. La sorveglianza speciale, da quanto è stata legiferata, è al centro di discussione tra costituzionalisti. Due sono le scuole di pensiero. Quella prevalente è teso ad affermare la compatibilità delle misure di prevenzione con la Costituzione, quella minoritaria invece è volto ad affermarne l’incompatibilità. Secondo quest’ultimo orientamento, la Costituzione - in particolar modo l’articolo 13 - non consentirebbe misure di prevenzione che restringano la libertà personale. Secondo la scuola di pensiero prevalente, invece, prevenire il reato è compito imprescindibile dello Stato, sicché deve essere riconosciuta la doverosità costituzionale di tali misure. I silenzi colpevoli sulla tirannia del potere giudiziario di Giuliano Ferrara Il Foglio, 4 marzo 2017 L’orrore di un’opinione pubblica che legittima la guerra dei giudici contro l’autonomia della politica. L’argomento non passa. Questo giornale ne ha fatto una delle sue battaglie ultraventennali, senza distinzioni lungo le linee della destra e della sinistra, senza privilegiare l’amico e cercare di distruggere il nemico, ma l’argomento non passa. L’idea in apparenza semplice che i magistrati possono e devono fissare i limiti legali dell’azione pubblica e politica, ma la procedura deve garantire la loro imparzialità assoluta e la tutela del diritto dei cittadini di essere loro stessi a decidere chi li rappresenta e chi li governa, ecco, è un’idea che nessuno si fiderebbe di considerare sbagliata ma nessuno, eccetto minime minoranze, ha il coraggio o più banalmente la voglia di affermare e difendere. C’è un caso Fillon-Berlusconi a dimostrarlo. Berlusconi è un imprenditore cresciuto nella giungla, e ha "i beni al sole", come mi disse Craxi segnalandolo come il suo punto debole in quanto nuovo soggetto della politica. Va bene. È un outsider, uno che ha rubato ai politici il loro mestiere e lo ha messo sottosopra incarnando per primo il maggioritario e il suo linguaggio, senza aver fatto alcuna gavetta in Parlamento e nei partiti, senza una tradizione o ideologia di partenza chiare, solide. Francois Fillon è il contrario. Un insider, da trentacinque anni è un politico gollista, tradizione sicura e robusta. È un tipico gavettaro, di origini provinciali (la Sarthe), uno che ha vissuto nella sua famiglia politica tutte le esperienze di tirocinio, da sindaco a deputato, da primo ministro a capocorrente, da candidato alle primarie a candidato presidenziale per scelta della base, milioni di voti. Berlusconi è un uomo di spettacolo e di sé ha sempre fatto spettacolo. Fillon ha la faccia seria, una tenuta composta, è addirittura il prototipo dell’uomo politico convenzionale della destra gollista francese, lo è nel portamento, nell’esperienza, nell’abito, nello stile. Entrambi hanno dei punti deboli, chiunque li ha. Entrambi sono stati oggetto di indagini e iniziative giudiziarie, Fillon è all’inizio, Berlusconi va verso la fine. L’italiano si muove nell’informalità del nostro modo di vivere, il francese è il massimo della formalizzazione. Eppure, di fronte alla collisione tra le procedure dell’ordinamento giudiziario e il loro status di rappresentanti dell’elettorato in una democrazia rappresentativa fondata sulla divisione dei poteri, hanno usato le stesse parole: è un assassinio politico, la procedura è politicizzata ad personam, è leso il diritto democratico del popolo. Anche a sinistra, quando è toccato a grandi e piccoli attori del teatro di sinistra (dall’Italia all’Europa al Brasile), si è ascoltata in diverse forme la stessa eco. Ma al dunque, quando sia colpito l’avversario, la scena è sempre la stessa: nessuno (piccole eccezioni) accetta il fatto che esista un problema oggettivo, di funzionamento della democrazia liberale, i politici dell’altra parte, di tutte le altre parti, manovrano per ottenere un vantaggio provvisorio richiamandosi all’eguaglianza davanti alla legge e alla tolleranza zero, incuranti del fatto che domani toccherà a loro (è una regola, questa, praticamente senza eccezioni), e i guru dell’intelligenza e dei media, i testimoni del tempo, tacciono o svicolano o si mantengono in prudente riserva (mica tutti sono Sabino Cassese). Per non parlare dell’interesse dei mass media a suonare la grancassa. Oggi in Francia Fillon è solo con i suoi sostenitori di base, finché dura, e tutti, dagli avversari interni che vogliono sostituirlo a quelli esterni che gioiscono per la sua difficoltà, ignorano il dovere di questa riflessione oggettiva sul prepotere della procedura giudiziaria che è capace di stroncare il potere democratico nel suo esercizio senza tanti complimenti, in solitario, in base al privilegio dell’autonomia del magistrato, quell’autonomia che dovrebbe rispettare in modi compatibili, senza rinunciare a sé stessa e al suo dovere di tutelare l’impero della legge ma senza sostituirlo alla sovranità popolare, l’eletto del popolo o il candidato. L’argomento non passa. È falso? Può essere. In questo caso dovremmo accettare che l’iniziativa di un magistrato sta al di sopra del voto popolare e dell’autonomia del sistema politico liberaldemocratico dal potere di un ordinamento non elettivo. In realtà, come sappiamo, e come per esempio ha spiegato bene Cassese, quello che si auto-comprende e si proclama integriamo etico del magistrato di fronte a questioni di legalità è molto spesso, in modo sospetto, una forma di populismo giudiziario o giustizialista che si manifesta nella indiretta o diretta implicazione del ceto togato nel "fare politica", anche con coinvolgimenti personali spettacolari in ruoli di parlamentare, di ministro, di sindaco o governatore, invece che essere "bocca della legge", e di una legge che rispetta la divisione dei poteri. La verità è questa ma l’aria che tira, fra codardia delle classi dirigenti, pressione del pensiero dominante e presunti interessi particolari, la spazza via facile. La vera colpa di Renzi è non aver riformato la giustizia di Davide Giacalone Il Giornale, 4 marzo 2017 Quando s’imparerà a non confondere le accuse con i giudizi, i procuratori con i giudici, i racconti dei coinvolti con le prove, e quando s’imparerà a non farlo a intermittenza, a seconda che gli interessati siano sodali o avversari, non sarà mai troppo presto. Lo esige il rispetto, letterale e sostanziale, del diritto. Altrimenti s’impicca la giustizia al giustizialismo. Così come un sospettato, un indagato e un imputato non per questo sono colpevoli, così anche la pulizia della vita pubblica e politica non può essere compito della giustizia penale. Non nel senso che non se ne debba occupare, ma che altri dovrebbero provvedere. A cominciare dai partiti, se esistessero come tali. Tante teste politiche vacanti, invece, trovano voce nello strillare appresso alle inchieste penali. Complice un mondo dell’informazione che rilancia le inchieste che non riesce, non sa o non vuole a fare. Lo spettacolo sì ripete in questi giorni, con riferimento a quanto si muove attorno a Matteo Renzi. Con una particolarità: a usare e gonfiare il valore politico delle inchieste penali non sono gli avversari esterni, a questo giro mediamente cauti, ma quelli interni. La giustizia faccia il suo corso, come si dice. La politica non si scalmani in sala d’attesa. Ci sono, però, due responsabilità di Renzi, per delineare le quali non c’è alcun bisogno di grufolare fra le carte giudiziarie. La prima: l’ennesima occasione persa di riformare e far funzionare la giustizia italiana. Il fatto che a contendergli la segreteria del Pd siano il ministro della giustizia e un magistrato in aspettativa, per giunta testimone nei procedimenti che oggi lo lambiscono, è un dettaglio che riassume la tragedia. Far funzionare la giustizia non significa metterle la mordicchia e impedirle di offendere la politica, ma l’esatto opposto: renderla efficace, con tempi accettabili, talché i colpevoli non restino impuniti e gli innocenti non siano assassinati da verdetti postumi. Non ci si arriverà mai, in queste condizioni. Non sarà mai possibile se ai magistrati sarà consentito continuare a esibirsi e candidarsi. Se chi esercita il delicato e irrinunciabile ruolo dell’accusa non risponde mai dei propri errori. Se chi accusa e chi giudica restano colleghi. Queste cose Renzi le sa, ma ha commesso l’errore di chi lo ha preceduto: ha temporeggiato, blandito, s’è buttato sulle cose inutili (ricordare le ferie?), salvo poi finire nel mirino ed esserne paralizzato. La seconda responsabilità consiste nel fatto che se fai vedere a tutti che le nomine pubbliche sono frutto di un ristretto cerchio amicale, i portatori d’interessi s’industrieranno ad avere agganci vernacolari. Non bisogna avere paura degli interessi organizzati, purché le procedure siano trasparenti. Fermo restando che l’enormità della spesa pubblica è il gran volano della corruzione. In quel mondo c’è abbondante millantato credito, moltitudini che vendono quel che non hanno, lasciandone traccia nella logorrea ammiccante. Ma se i millantatori contendono il ruolo ai lobbisti (che dovrebbero essere cosa non solo lecita, ma utile), se dai loro servigi si può sperare di trarre più utilità che dalla rappresentazione schietta dei propri desideri è perché politici e nominati fanno a gara a chi strizza l’occhio in modo più furbesco. Da inutili fessi, nel migliore dei casi. Governare e non rimediare è una colpa. Nominare e poi intrattenere è una colpa. Con o senza reato. Chi paga i costi della giustizia malata di Deborah Cianfanelli agenziaradicale.com, 4 marzo 2017 Era l’ottobre del 2014 quando, con Marco Pannella, Laura Arconti e Rita Bernardini depositammo un esposto alla Procura Regionale della Corte dei Conti del Lazio con il quale denunciavamo lo spreco di denaro pubblico ed il danno erariale causato da un sistema giustizia che non funziona. Chiedevamo alla procura di fare luce in merito all’esatto ammontare del danno. Ad oggi non sono stati fatti passi avanti, e ancora resta ignoto l’importo di ciò che gli italiani sono costretti a pagare per far fronte alle innumerevoli e costanti violazioni delle norme della convenzione europea dei diritti dell’uomo poste in essere in modo reiterato dal nostro Stato. Nell’esposto veniva evidenziato in modo particolareggiato come lo stato di assoluta illegalità del sistema giustizia italiano abbia ormai delle enormi ripercussioni sull’economia nazionale, andando ad incidere fortemente sul debito pubblico. Ad oggi la situazione è rimasta invariata, se non peggiorata, dal momento che, a partire dal censimento sulla giustizia civile voluto dal Ministero della Giustizia, continuano a non emergere le cifre richieste e che i cittadini continuano a pagare. Anzi, assistiamo ad un forte dispendio di energie al fine di celare il vero problema. Torno a ricordare che l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sancisce il diritto di ognuno ad ottenere giustizia in termini ragionevoli. Dalla cronica irragionevole durata dei processi in Italia consegue il diritto, per chi li ha subiti, a chiedere ed ottenere un congruo risarcimento ai sensi della Legge Pinto. Tale rimedio meramente risarcitorio doveva essere temporaneo, in attesa di riforme strutturali in grado di rendere i processi più veloci e quindi conformi alla convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nei quindici anni di vigenza della legge Pinto non si è avuta però alcuna riforma in grado di evitare il reiterarsi della violazione e lo Stato italiano si rende moroso anche rispetto a detti risarcimenti. Sul bilancio del Ministero della Giustizia gravano quindi pesantemente i costi dei risarcimenti che hanno avuto nel corso degli anni un andamento crescente. Già nel 2007 la commissione tecnica per la Finanza Pubblica (Ctfp) rilevava che tale contenzioso era una delle voci di spesa più significative (ed una delle cause principali di indebitamento) del ministero della Giustizia: era costato negli ultimi cinque anni circa 41,5 milioni di euro, di cui 17,9 nel solo 2006. La commissione evidenziava come l’inefficienza del sistema giustizia non rappresenta soltanto un costo sociale, ma la fonte di costi rilevanti per il sistema produttivo in termini di crescita e produttività, soprattutto in sistemi di mercato aperti e concorrenziali. L’incertezza sui tempi delle decisioni ed il loro procrastinarsi in tempi non ragionevoli, ha ripercussioni distorsive sulle transazioni commerciali e sulle decisioni di investimento Torino: il Garante dei detenuti "da giustizia di attesa a giustizia di iniziativa" di Monica Gallo La Repubblica, 4 marzo 2017 L’importanza di cambiare paradigma nel trattamento delle persone detenute per ridurre la recidiva, al momento tra le più alte di Europa. Più attività e meno applicazioni burocratica. Sin dal momento della mia nomina ero consapevole dell’importanza e delle difficoltà del ruolo del Garante delle persone private della libertà personale, così come delle responsabilità e delle sfide che mi aspettavano. Sono stati diciassette mesi di intenso lavoro, di incontri, di ascolto, di mediazione ma soprattutto di colloqui con le persone ristrette. Sono stati mesi di iniziativa. Ed è proprio dal termine, "iniziativa", che vorrei partire per una riflessione maturata in questo periodo trascorso ad osservare, analizzare e ascoltare. Nei nostri carceri la persona che vi è detenuta non viene solo limitata nella libertà personale (come prevede l’ordinamento penitenziario), ma le viene sottratta ogni autonomia decisionale. La persona in carcere si deve costantemente adattare per sottostare agli "ordini di servizio", che variano in un tempo brevissimo. Ha bisogno dell’istituzione per mangiare, per uscire all’aria, per fare un’istanza, per aprire o chiudere la porta della cella, per spegnere o accendere la luce. Deve continuamente sottostare alle iniziative altrui, non le è dato in alcun modo di proporne e di promuoverne. Deve affidarsi alle cure sanitarie senza mai poter scegliere liberamente come e quando curarsi. Viene trasferita senza essere interpellata, così da un giorno all’altro si trova in un altro carcere, con nuovi "ordini di servizio", in nuovi scenari che la costringono a una revisione improvvisa delle precedenti abitudini. L’Istituzione, pressoché tutta, intende il proprio ruolo - diversamente da quanto scritto nella legge dell’ordinamento penitenziario che ha compiuto nel luglio scorso "solo" 41 anni - come finalizzato a "deresponsabilizzare la persona in carcere". Si innesca così un meccanismo di autocontrollo che genera uomini e donne sempre più paralizzati all’interno della struttura carceraria. La persona da detenuta attende che accada ciò che gli operatori hanno eventualmente deciso per lei, in balia di una giustizia di attesa, non di una giustizia di iniziativa. Per cambiare paradigma sarebbe sufficiente un coinvolgimento attivo della persona in carcere attraverso processi di integrazione in grado di mantenere inalterata la propria capacità di prendere iniziative. Le relazioni intramurarie si sviluppano sempre attraverso dinamiche prive di possibilità di scelta, di autonomia e responsabilità, generando soggetti dai comportamenti sempre più antisociali, come dimostra il tasso di recidiva del 70 per cento, tra i più alti, se non il più alto in Europa. L’Istituzione dovrebbe consegnare alle persone che finiscono in carcere la capacità di ricollocarsi nella società attraverso la possibilità di mantenere la propria autonomia, lo sviluppo delle proprie competenze e l’opportunità di prendere iniziative in relazione al mantenimento della propria personalità. Pietro Buffa nel suo ultimo libro "Umanizzare il Carcere" sottolinea la necessità di porre attenzione e sostegno alla volitività e agli interessi delle persone di elaborare percorsi in grado di sviluppare in maniera adeguata queste componenti. L’autore sostiene che si debba sempre di più concretizzare l’offerta di interventi diretti a sostenere gli interessi umani, culturali e professionali della persona detenuta e che quindi l’umanizzazione e la restituzione di una dignità effettiva è proporzionale alla quantità e alla qualità dell’offerta "trattamentale". Il pensiero di Buffa pone al centro la necessità di offrire percorsi a sostegno della volitività di ciascuno, non accenna però al fatto che sia la stessa persona in carcere a prendere iniziative al riguardo, lasciando spazio all’espressione volontaria degli individui. Il diritto di prendere iniziative metterebbe chi si trova in carcere in una condizione differente dando forma ad una diretta partecipazione ai contenuti e agli obiettivi della reclusione. È con questa ottica di giustizia di iniziativa che stiamo cercando di rispondere alle sempre più numerose richieste di colloquio che ci provengono dalle persone presenti nel carcere di Torino. La procedura non si limita più al mero ascolto del presunto diritto violato, ma tende a mettere in pratica un percorso condiviso che vede la persona detenuta chiamata a essere l’attore principale nella possibile soluzione del suo problema. Sussiste, al momento, una difficoltà di fondo: la mancanza di condivisione del cambio culturale necessario, tutti troppo abituati a interagire erogando servizi e prestazioni, stabilite e di routine nei confronti della persona ristretta, protagonista e vittima di una giustizia che è solo di attesa. Bologna: bando del Comune per individuare il nuovo Garante per i diritti dei detenuti bologna2000.it, 4 marzo 2017 Il Comune di Bologna ha aperto il bando per individuare il nuovo Garante per i diritti delle persone private della libertà personale, visto che il 23 luglio prossimo scadrà il mandato dell’attuale Garante, Elisabetta Laganà, eletta il 23 luglio del 2012. La Presidenza del Consiglio comunale ha avviato l’iter per individuare la nuova figura: c’è tempo fino al 31 marzo per avanzare le candidature. "Con l’apertura del bando - afferma la Presidente del Consiglio comunale, Luisa Guidone - confermiamo l’adozione di una procedura aperta e trasparente. Desidero ringraziare la Garante in carica, Elisabetta Laganà, che ha svolto il suo compito in questi anni con passione e competenza. Il Garante per i diritti delle persone private della libertà personale è figura molto importante per il Consiglio comunale, che già in questi primi mesi di mandato ha dimostrato di essere molto sensibile a questi temi. La Presidenza del Consiglio infatti, in accordo con tutti i Gruppi consiliari, ha già chiesto di calendarizzare visite nelle carceri della città: su questo è mio preciso impegno lavorare e il nuovo Garante sarà, insieme al Consiglio, protagonista di questo percorso". Il Garante per i diritti delle persone private della libertà personale, previsto dallo Statuto del Comune di Bologna ed eletto dal Consiglio comunale è una figura istituzionale che opera in piena libertà ed indipendenza per il rispetto della dignità delle persone private della libertà personale; negli istituti di pena vigila sul rispetto dei diritti, attivandosi nei casi di compressione o mancato esercizio di essi al fine di sollecitare ogni utile intervento presso le istituzioni competenti. Svolge attività di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani e sulla finalità rieducativa della pena, avvicinando la comunità locale al carcere. Napoli: dai volontari in carcere l’aiuto per il reinserimento dei detenuti di Carmela Cassese Redattore Sociale, 4 marzo 2017 Parte un corso di 8 giornate promosso dal Csv di Napoli per favorire l’impegno sociale nei penitenziari. Obiettivo, avvicinare la realtà carceraria alla vita del cittadino e dare continuità ai progetti avviati dietro le sbarre. Partirà il 16 marzo il nuovo il corso di formazione gratuito "Carcere e volontariato", promosso dal Csv di Napoli e provincia. Un percorso formativo che vuole avvicinare la realtà carceraria alla vita del cittadino comune. Mission dell’iniziativa è stimolare l’interesse verso il volontariato penitenziario, fornendo ai partecipanti le competenze di base per operare in questo ambito di intervento. Gli incontri, in totale 8, si terranno a Napoli presso il Centro europeo studi di Nisida. "Per chi è costretto a vivere nelle strutture penitenziarie - dichiarano i promotori - è importante realizzare interazione e rete con il territorio. Questo tipo di esperienze permette di ampliare e creare sinergie, e questo è l’obiettivo principale, perché quello che si riesce a fare all’interno del carcere con l’aiuto della cittadinanza deve poter avere anche una continuità fuori, e ciò si realizza anche creando nuove sensibilità e competenze attorno a quelli che sono i problemi delle persone detenute". "Percorsi di questo tipo - afferma don Fabio De Luca, - sono necessari soprattutto considerando i tempi in cui viviamo, caratterizzati da un’assenza dello stato sociale fortissima. Non è un caso che spesso la chiesa si sostituisca allo Stato, non per sua volontà, nell’aiutare persone che si ritrovano in particolari difficoltà. Il volontariato, in questo caso, può fare tantissimo. Questi giovani che escono dal carcere e che non hanno nessun punto di riferimento hanno la necessità di avere qualcuno che li guidi, sostenga ed assista e che aiuti loro ad avviare un reinserimento sano e pulito all’interno della società. Hanno bisogno di input positivi, di uno spunto nuovo che può senz’altro arrivare dal volontariato". Al corso interverranno in qualità di formatori: Chiara Masi (dirigente del carcere di Poggioreale), Isabella Mastropasqua (dirigente del Dipartimento Giustizia minorile e di comunità del ministero della Giustizia), Pasquale Calemme (presidente Cnca Campania), Ornella Favero (presidente Conferenza nazionale volontariato giustizia), Rodolfo Matto (presidente dell’associazione Italiana di yoga della risata) Genoveffo Pirozzi (docente di psicologia generale ed applicata presso l’Iis G. Piscopo di Arzano), don Fabio De Luca (cappellano dell’Istituto minorile di Nisida), don Gennaro Pagano (direttore del Centro educativo diocesano Regina Pacis). Trento: incontri in carcere tra giuristi e detenuti alla scoperta della Costituzione buongiornosuedtirol.it, 4 marzo 2017 Un gruppo di giuristi dell’Università di Trento terrà lezioni ai carcerati su diritto alla salute, libertà personale e altri principi costituzionali. Il diritto può contribuire a costruire consapevolezza e integrazione anche in un ambiente come il carcere. Ne è convinto un gruppo di giuristi dell’Università di Trento che da lunedì 6 marzo terrà un ciclo di lezioni sulla Costituzione a Spini di Gardolo. La Facoltà di Giurisprudenza e l’Apas (Associazione Provinciale di Aiuto Sociale per i detenuti, gli ex-detenuti e le loro famiglie), infatti, hanno stipulato una convenzione, in base alla quale alcuni professori e ricercatori della Facoltà svolgeranno un programma di lezioni nel carcere di Spini di Gardolo sul tema "Da cosa partire per integrare: riflessione sulla Costituzione". "In questo modo - spiega Carlo Casonato, responsabile del progetto per la Facoltà - cercheremo di instaurare un dialogo a più voci centrato su alcuni principi costituzionali che possono concretamente servire da strumenti di emancipazione e integrazione dei detenuti nella vita sia dentro sia fuori del carcere. L’obiettivo è rendere per quanto possibile concreto lo scopo rieducativo della pena, così come previsto dall’articolo 27 della nostra Costituzione". Matilde Bellingeri e Aaron Giazzon, promotori dell’iniziativa per Apas in accordo con la direzione della Casa circondariale di Trento, sottolineano l’importanza di esperienze formative come questa nell’ottica dei percorsi di rieducazione e reinserimento dei detenuti. Il ciclo di lezioni proseguirà poi fino al 22 maggio trattando del diritto alla salute, del principio di eguaglianza, della libertà personale, del lavoro e della libertà religiosa. Gli incontri termineranno con un laboratorio sperimentale, in cui i partecipanti scriveranno un testo sulla base delle riflessioni e delle conoscenze acquisite. I volontari e operatori di Apas coinvolti sono Matilde Bellingeri, Aaron Giazzon e Roberta Lona. I docenti saranno Lucia Busatta, Carlo Casonato, Emanuele Corn, Chiara Cristofolini, Stefano Paternoster, Simone Penasa, Riccardo Salomone e Marta Tomasi. Padova: inaugurato l’anno accademico per i detenuti universitari Il Mattino di Padova, 4 marzo 2017 Il badge per i nuovi iscritti, le autorità accademiche a incoraggiare gli studenti, gli applausi dei presenti e infine l’esilarante spettacolo di Andrea Di Marco per alleggerire la giornata: non mancava niente, ieri, all’inaugurazione dell’anno accademico nel polo carcerario di via Due Palazzi. Il progetto, che accompagna i detenuti dall’iscrizione alla laurea, continua ormai da tredici anni e vanta già più di trenta dottori. Un esempio senza pari in tutta Italia: "Recentemente" ha spiegato il rettore Rosario Rizzuto di fronte all’attenta platea, "mi ha chiamato il rettore della Federico II di Napoli, nonché presidente della Conferenza italiana dei rettori, Gaetano Manfredi. Voleva avviare a Napoli un progetto equivalente e ha chiamato me per avere informazioni, perché quello padovano è considerato il golden standard nazionale. Ho accettato con orgoglio i suoi complimenti, ma ora li rivolgo a chi lavora ogni giorno per rendere questo esperimento un modello di eccellenza: docenti volontari, tutor, tecnici amministrativi, personale del carcere e studenti". La realtà carceraria è molto sfaccettata: l’offerta formativa è ampia e copre quasi tutti i corsi di laurea. Quasi, perché alcuni, come Medicina, prevedono troppi laboratori per poter essere seguiti a distanza. Un ostacolo che in realtà riguarda molte materie, anche meno pratiche, e che la professoressa Francesca Vianello, appassionata guida del progetto, spera di poter superare in futuro: "Magari organizzando dei corsi proprio in carcere, per chi non può uscire". Intanto gli iscritti aumentano, quest’anno si è laureato il primo ingegnere e a breve dovrebbe partire un progetto di studio inerente al turismo culturale. Se ne occuperà Roberto Conocchiari, che racconta l’iniziativa con entusiasmo: "Vorrei restituire qualcosa alla società, per ringraziare di questa possibilità che mi è stata data. Ho pensato a dei percorsi turistici a Venezia, dedicati ai ciechi: i tour tradizionali per loro non sono fruibili, ma bastano pochi accorgimenti per rendere tutto a loro misura". Tra gli studenti di Progettazione e gestione del turismo culturali, insieme a Conocchiari, c’è anche Donato Bilancia, reo confesso di 17 omicidi. Dopo il diploma all’Einaudi Gramsci si è subito iscritto all’università e durante il primo semestre ha già dato tre esami, passati tutti con buoni risultati. Grosseto: carceri in Italia, a Castiglione della Pescaia un convegno del Lions per parlarne ilgiunco.net, 4 marzo 2017 Sabato 4 marzo alle ore 17, nella sala consiliare di Castiglione della Pescaia, il Lions Club Salebrum affronterà per la seconda volta il tema della realtà carceraria italiana. A due anni di distanza dal convegno "Carceri. Un problema", che mise a nudo gli aspetti problematici di tutti i giorni nella conduzione ed amministrazione degli istituti di pena e che ebbe un grande successo e valse al club numerosi attestati di stima per il coraggio nel trattare un tema così spinoso, la questione rimane di stringente attualità. Sabato 4 marzo, quindi, il club ha organizzato il convegno pubblico dal titolo "Promozione della Salute negli Istituti di Pena". Saranno presenti il direttore della casa circondariale di Massa Marittima Carlo Mazzerbo ed i musico terapisti Maria Grazia Bianchi, Alessandro Spadafina e Luciano Mammana. Il convegno porrà particolare attenzione all’efficacia dei laboratori di musicoterapia come mezzo per migliorare la qualità della vita delle persone recluse. Aprirà l’incontro Carlo Mazzerbo che evidenzierà le principali problematiche della vita nelle carceri. Dopo una introduzione alla musicoterapia da parte di Maria Grazia Bianchi, musicoterapista e direttrice della Scuola di Musica Chelli di Grosseto, interverranno Alessandro Spadafina, psicologo e musicoterapista di Firenze che ha realizzato laboratori di musicoterapia nella casa circondariale di San Gimignano, e Luciano Mammana, di Pisa, musicoterapista per oltre 10 anni nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo. Il convegno è aperto a tutti e con ingresso libero. Al termine, ai partecipanti che ne faranno richiesta, verrà rilasciato un attestato di partecipazione. Roma: "carcere è territorio", l’Uisp promuove diritti e cittadinanza per tutti uisp.it, 4 marzo 2017 Si è tenuto a Roma il seminario nazionale Uisp sulle attività e i progetti realizzati all’interno di carceri e istituti minorili italiani, Una sfida quotidiana e non un improvviso abracadabra. "Una sfida alla solitudine, alle difficoltà. Ai fantasmi del passato…l’importante è che questo tempo sia davvero tuo, non sia un regalo o un’elemosina di altri": la definisce così l’attività sportiva in carcere Valerio Piccioni, giornalista, nella prefazione al libro Uisp del 1998 "Le porte aperte". Il libro raccontava un decennio di esperienze Uisp in carcere attraverso le testimonianze da una dozzina di città. E già, non c’è nulla da inventare, è tutto scritto: l’attività Uisp nelle carceri è iniziata a metà degli ‘80, trent’anni fa. Una riflessione che non ha mai smesso di produrre saperi, esperienze, sensibilità. Se ne è parlato a Roma lo scorso 1 marzo, in occasione dell’incontro nazionale "Carcere è territorio", promosso dalle politiche sociali, educative e giovanili Uisp. Il cui responsabile, Fabrizio De Meo, in apertura ha sintetizzato così gli obiettivi Uisp: "Con le nostre attività cerchiamo di rendere meno impermeabili le mura dell’istituzione carceraria". L’Uisp non ha mai smesso di crederci, ha continuato a formare operatori, a costruire ponti, a realizzare progetti negli istituti penitenziari e nei minorili di tutta Italia, una trentina di città in tutto, delle quali 24 parteciperanno a Vivicittà il 9 aprile. Una realtà parallela che, quantitativamente, ha quasi raggiunto il numero delle città che correranno "fuori". Un dentro e un fuori che l’Uisp ha sempre cercato di superare. Perché il carcere è territorio, "per provare a disarticolare alcune procedure - ha proseguito De Meo - perché l’Uisp è attore e regista sul territorio, perché oggi si aprono scenari nuovi visto che, superata la fase del sovraffollamento, oggi viviamo quella dell’esecuzione esterna di pena. Questo può significare che, se prima il tema dell’isolamento come cifra di un fenomeno riguardava soltanto le carceri, adesso si sta trasferendo alle città stesse". "Quando l’Uisp entra in un carcere con un progetto, con Vivicittà o con gli educatori per le attività - ha detto nel suo intervento Vincenzo Manco, presidente nazionale Uisp - lo fa con l’intento di ricostruire cittadinanza. Siamo soggetti sussidiari alle politiche e alle istituzioni pubbliche, ma al primo posto poniamo il tema dei diritti. Il tema del ruolo della pena lo viviamo in maniera laica, non è nostro compito dire al detenuto: ti aiutiamo a non sbagliare più. Noi gli diciamo: ti aiutiamo a recuperare cittadinanza, rispetto, dignità. Una riabilitazione sociale che passa attraverso le attività sportive, ludiche, relazionali ed espressive che proponiamo". Il progetto più recente è Terzo tempo, che l’Uisp ha promosso negli Ipm in una decina di città. "Un progetto che ha prodotto implementazione strutturale all’interno degli istituti per quanto riguarda gli spazi destinati all’attività sportiva e sociale - ha detto Marta Giammaria, responsabile progetti Uisp - inoltre ha prodotto innovazione e sperimentazioni in nuovi contesti". Gli operatori, i volontari e i dirigenti Uisp presenti al seminario hanno portato esperienze e confrontato i modelli di comunicazione e di intervento nelle varie città, raccontando come ognuno ha cercato di rompere il diaframma tra dentro e fuori. Fare attività integrata, questa è la formula Uisp: in alcuni casi i ragazzi e i detenuti vengono portati fuori e inseriti nelle attività Uisp, dalle camminate di Catanzaro a Vivicittà nelle carceri. In altri casi c’è chi vorrebbe farlo, come Davide che ama il tennis e dal carcere di Bollate scrive al presidente dell’Uisp Milano, Michele Manno (leggi la lettera). In altri ancora, come nel minorile di Nisida, a Napoli, l’intervento Uisp ha portato all’interno del minorile attività sperimentate all’esterno, come danze e fitness. Un esperimento riuscito a tal punto che il Congresso regionale Uisp Campania si è svolto all’interno del penitenziario minorile. E adesso, è stato detto, il tema è come proseguire con questi progetti, sapendosi misurare anche con temi nuovi come quello del lavoro. Lecce: biblioteca per bambini in carcere, partita la raccolta libri libreriamo.it, 4 marzo 2017 È partita in cinque librerie di Lecce la campagna di donazione di libri per sostenere la biblioteca dei bambini che sta per nascere nel Carcere di Borgo San Nicola, nella periferia del capoluogo salentino. La biblioteca è uno degli interventi che l’associazione Fermenti Lattici realizzerà nell’ambito di "Giallo, rosso e blu - I bambini colorano Borgo San Nicola", progetto che si è aggiudicato il bando nazionale "Infanzia Prima", promosso da Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariplo e Fondazione con il Sud, con l’accompagnamento scientifico di Fondazione Zancan in collaborazione con Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo. Unica iniziativa pugliese tra le dieci assegnatarie del bando, nasce con l’obiettivo di avviare un sistema di accoglienza per i bambini in visita nel carcere leccese allo scopo di favorire una frequentazione meno traumatica e offrire tempi e spazi di condivisione insieme alla propria famiglia. La biblioteca, la cui inaugurazione è prevista alla fine di marzo, sarà creata da zero insieme ai genitori detenuti, in base alle indicazioni che i bambini hanno fornito durante il laboratorio di progettazione partecipata in corso da gennaio nella sala d’attesa del carcere. Per sostenere l’iniziativa l’associazione Fermenti Lattici lancia, dunque, una campagna di donazione di libri per l’infanzia che andranno a rifornire gli scaffali della biblioteca. I libri potranno essere acquistati nelle "librerie amiche" di Lecce: Liberrima (Corte dei Cicala), Officine Culturali Ergot (Piazzetta Falconieri), Semi Minimi (via Colonnello Costadura), Icaro (Viale Cavallotti), Le Fanfaluche (via Salvatore Grande). Per donazioni di libri usati, per proporre la propria libreria o per sostenere il progetto è possibile contattare l’associazione al numero 3404722974 o alla mail fermentilatticilecce@gmail.com. Oltre alla creazione della biblioteca il progetto prevede anche la realizzazione di due ludoteche, la sistemazione di aree verdi e un fitto calendario di appuntamenti, laboratori, spettacoli, letture, mostre che coinvolgereanno in maniera attiva bambini, genitori detenuti, genitori liberi e accompagnatori, fino a dicembre 2018. Giallo, rosso e blu aderisce alla Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti (Roma, 6 settembre 2016 - Ministero di Giustizia) che riconosce formalmente il diritto dei minori alla continuità del proprio legame affettivo con il proprio genitore detenuto e, al contempo, ribadisce il diritto alla genitorialità dei detenuti e si inserisce in un contesto caratterizzato da una condizione di svantaggio, che a Lecce riguarda circa 250 bambini che non hanno la possibilità di instaurare un rapporto quotidiano con il genitore, costruire ricordi e condividere un’esperienza gratificante con la propria famiglia. Il denso programma di attività è partito in anteprima lo scorso dicembre, con una serie di incontri tra l’associazione Fermenti Lattici e il corpo di polizia penitenziaria allo scopo di condividere obiettivi e definire le varie fasi del progetto. Parte trainante sarà l’autocostruzione e la rigenerazione delle aree esistenti per la creazione dei nuovi spazi e di un progetto comune sostenibile nel tempo. Busto Arsizio: Microfestival Incontri, teatro per evadere dal carcere di Claudio Bottan sguardidiconfine.com, 4 marzo 2017 Il teatro che racconta tutto ciò che la vita dimentica, dissimula o è incapace di esprimere, di raccontare. Il teatro che è agito, letteralmente, da gesti che sono essenziali, spirituali, ultimi. Il teatro come evento ed esperienza. Per chi agisce in scena e per chi assiste alla messa in scena. Attori e pubblico. Il teatro come spazio scenico destinato a ciò che è di più sacro. A calpestare il palcoscenico, questa volta ci sono studenti e detenuti, liberi o ristretti, è solo una questione di angolazioni. “Microfestival Incontri” è un mini-festival teatrale, un progetto realizzato da Associazione L’Oblò onlus in collaborazione con Fondazione Comunitaria del Varesotto onlus e Casa Circondariale di Busto Arsizio, con la partecipazione degli studenti delle Scuole Superiori del territorio: E.Tosi, IPC Verri, ITC Gadda Rosselli di Busto Arsizio e M. Curie di Tradate. Un’iniziativa che ospita spettacoli e progetti teatrali realizzati rispettivamente dai ristretti del carcere di Busto Arsizio e dagli studenti delle scuole superiori coinvolte. Il gruppo dei detenuti, per realizzare lo spettacolo, è coinvolto in un laboratorio teatrale che rientra tra le “aperture” promosse dalla direzione dell’istituto. Rita Gaeta, responsabile dell’area trattamentale, ha una particolare propensione per le attività che consentono contaminazioni tra “dentro” e “fuori”, basti citare l’esperienza che ha visto un numero significativo di detenuti impegnati durante Expo 2015, i galeotti-chierichetti di Papa Francesco e le recenti Cene con Delitto all’interno dell’istituto. Gli spettacoli presentati dagli studenti sono invece realizzati in modo autonomo all’interno delle attività scolastiche. Studenti e detenuti saranno di volta in volta attori o pubblico. Gli spettacoli verranno ospitati nel teatro interno alla casa circondariale; al termine di ogni rappresentazione, attori e spettatori parteciperanno congiuntamente ad un laboratorio di drammaterapia incentrato su alcune delle tematiche emerse dallo spettacolo appena fruito. I risultati e le sperimentazioni del laboratorio verranno documentate e raccolte in un opuscolo stampato e distribuito. È prevista anche una rappresentazione al Teatro Sociale di Busto Arsizio, momento finale di restituzione dell’esperienza aperto alla cittadinanza. L’appuntamento è per il 6 aprile, con “Pirandello Remix”. Si tratta di un’occasione particolarmente attesa dagli attori-ristretti, che avranno la possibilità di esibirsi su un palcoscenico vero e - soprattutto - di fronte ad un pubblico vero, evadendo per un giorno dalla routine del carcere. L’obiettivo dell’iniziativa è quello di favorire un’apertura dell’Istituto penitenziario alle realtà territoriali esterne, per promuovere una diversa percezione dello stesso, in termini non solo di istituto di pena ma di centro di cultura, che può contribuire con le sue risorse allo sviluppo del territorio. La strategia mira a fornire, a detenuti e studenti coinvolti, competenze tecniche specifiche riguardanti l’ambito teatrale, dal punto di vista attorale, della promozione, della realizzazione di un evento, che possano essere spese nella vita quotidiana in termini pratici e relazionali. Momenti di inclusione sociale fra detenuti e studenti, sensibilizzando questi ultimi sui temi della legalità e della responsabilità sociale. Si tratta di risocializzazione per i detenuti, promuovendo l’idea dell’inclusione come strumento di rieducazione e prevenzione della devianza. Microfestival Incontri - Elisa Carnelli, attrice e drammaterapeuta, è la presidente dell’associazione “L’Oblò”. "La onlus si occupa della realizzazione di interventi riabilitativi e risocializzanti mediante l’uso di terapie a mediazione artistica per favorire il benessere psicofisico e la qualità della vita dei detenuti, ex detenuti, loro famiglie. L’esperienza maturata nel carcere di Busto Arsizio dal 2008, ha ora l’opportunità di ampliarsi e aprirsi anche alla cittadinanza, con interventi artistici e di arti terapie, dedicati non solo a detenuti ed ex detenuti per favorire percorsi di risocializzazione, ma anche ai giovani e alle scuole, con l’intento di maturare percorsi di prevenzione del disagio ed educazione alla legalità". "Nella vita - commenta Elisa - in ogni cosa che si fa, ogni gesto dice di noi, del nostro modo di porci, di stare nel mondo. E ogni cosa che raccontiamo la raccontiamo con la nostra voce, e nel raccontarla - sia essa cronaca o pettegolezzo - ci dà la possibilità di rispecchiarci in essa. Nel teatro per un attore avviene lo stesso: si parla sempre di noi stessi e ogni cosa ci può parlare. È solo questione di distanza. Così anche una favoletta, una “zuppa di niente” racconta qualcosa: alcune cose degli attori che la mettono in scena e degli attori che sono in scena. E al pubblico che li ascolta". Napoli: voci oltre le sbarre, "ecco il coro di Poggioreale" di Natascia Festa Corriere del Mezzogiorno, 4 marzo 2017 Carlo Morelli, fondatore e direttore dei Sancarlini, mette su un nuovo ensemble vocale Partecipano carcerati di tutte le età che oggi si esibiscono di fronte a familiari e autorità. Cosa c’è di meglio che far risuonare le voci in una melodia per chiedere scusa alla vita, a quella degli altri e alla propria? Per pagare un debito con l’esistenza prima ancora che con la giustizia? Avrà pensato questo Carlo Morelli, direttore del coro giovanile del San Carlo, i Sancarlini, quando, a titolo del tutto personale e volontario, ha accettato di formare un coro all’interno del carcere di Poggioreale. Con lui ci sono tre "suoi" giovani talentuosi - Emilio Carrino Ivan Esposito e Luigi Nappi - che ogni martedì tengono scuola dietro le altre mura della casa circondariale. Lasciati cellulari, documenti e borse, attraversati una decina di cancelli, ognuno aperto da una guardia giudiziaria, in lontananza si sente risuonare "Je so pazzo" di Pino Daniele. Hanno dai 20 ai 61 anni e il maestro Morelli li fa disporre in circolo. Così viene meglio, ci si guarda in faccia nessuno dà le spalle a nessuno. Questa quindicina di uomini, tutti napoletani, respirano il canto come una speranza di libertà e durante le prove sono emozionati al solo pensiero che dovranno esibirsi davanti alle loro famiglie e a tante autorità. Anche perché due brani sono inediti. Uno è tratto da un libro di poesie scritto e pubblicato proprio in carcere da Raffaele G., una cinquantina d’anni, che sta scontando una pena per traffico di droga: "Facevo l’autista. Poi mia moglie sì è ammalata di un male grave e le cure costavano assai. Nella famiglia già trafficavano, così iniziai pure io che non l’avevo mai fatto. Non è che con questo voglio giustificarmi, ma non lo rifarei. Stare qua mi ha fatto sentire inutile. Dico io: noi siamo uomini forti, perché come pena non ci fanno dare una mano alla società che tiene tanti problemi? Potremmo accudire chi non può permettersi assistenza e ne ha bisogno, oppure pulire le strade di Napoli". A Vincenzo M., 48 anni, gli occhiali rettangolari danno un aspetto da intellettuale. "Sono autotrasportatore. Ho viaggiato pulito fino a un certo punto, poi ho iniziato con i carichi di droga. Insomma traffico internazionale. Il canto mi ha sciolto qualcosa dentro, sento le voci degli altri con la mia, ho scoperto la solidarietà. Così l’errore commesso mi appare con più chiarezza". Parte "A città e Pulecenella" ed è potentissima anche perché ha un inserto rap originale. L’ha scritto e lo canta la mascotte del coro, Vincenzo G., born in rione Sanità, 22 anni, una rapina alle spalle, due anni da scontare. Il refrain è questo: "Soprusi, abusi, ottusi \ ca ‘o futuro è sfus e chius \ ‘o frà cu mic ‘e chius \ e me ne addon \ aint sta l’intrus \ avvelenati, usati, consumati e abbandonati... \ ma so convint ca nemmanc stu sistema \ c’a accis ‘a Pulecenella". "Quando esco - dice - voglio tentare la strada della musica, il maestro Morelli mi incoraggia, non devo mollare. Poi mio zio ha amicizie nel settore...". E lo zio, Vincenzo Musella, 61 anni, può confermare perché è pure lui nel coro. Stesso reato, stesso quartiere: "È giovane, ce la può fare". E s’apre il dibattito sul "farcela" dopo aver scontato la pena. Gennaro C., poco più d 30 anni, racconta di un suo amico che stava a Rebibbia. "Una volta uscito lo hanno addirittura assunto, dico messo proprio a posto, regolare". Antonio R. di Secondigliano, ha provato sulla sua pelle il contrario: "Io sono cuoco. Lavoravo a nero, 700 euro. E con moglie e figlia, fitto da pagare, non riuscivamo a sopravvivere. Così feci una rapina. Fui preso e, pagato il debito con le giustizia, andai a Mantova e ripresi a fare il cuoco. Anche lì a nero. Arrivato il momento dell’assunzione, il ristoratore vide la fedina penale sporca e non volle farmi il contratto. Ma quale reinserimento? Questa è la verità". "Io stavo in America - dice Graziano S. - mi ha rovinato tornare qua". Salvatore M. faceva il barbiere: "Con tre gemelle non ce la facevo ad andare avanti. Ho sbagliato. Ma appena esco torno a tagliare i capelli". Tutti ammettono lo "sbaglio", tutti sperano di raddrizzare il cammino. Antonio P., Gennaro C., Luca C., Domenico V., tranne Pasquale P., 24 anni, che rivendica: "Io sono innocente e lo proverò". Le voci del coro vengono da storie fino a un certo punto normali. Come quella di Salvatore M., figlio di un imprenditore edile travolto dalla crisi: "Mio padre non aveva più lavoro, io una figlia... ebbi pure più di 200 punti in testa per un incidente. L’unico lavoro che trovai era il "palo". E come quella di Gennaro P., 50 anni, arredatore d’interni: "Mi hanno rovinato l’alcol e il gioco, ho vissuto in un centro di accoglienza alla Sanità e alla fine sono andato a rubare. Pago ogni colpa, mi assumo le mie responsabili. Quando sarò fuori, si ricomincia dal bene". Il gran giorno è oggi. Stamani (alle 10) nel pubblico con le famiglie ci saranno il direttore di Poggioreale Antonio Fullone, cui si devono molti nuovi percorsi rieducativi, l’assessore regionale alla formazione Chiara Marciani, quello comunale alla cultura Nino Daniele, il garante dei detenuti Adriana Tocco e monsignor Salvatore Fratellanza della curia di Napoli. Per tutti i dolci di Sirica. Caltanissetta: con il Lions Club evento musicale presso la Casa circondariale lagazzettanissena.it, 4 marzo 2017 Ieri pomeriggio 2 marzo, presso la Casa Circondariale di Caltanissetta, ha avuto luogo uno spettacolo musicale. L’evento, di forte impatto emotivo, è stato realizzato a titolo completamente gratuito dal Lions Club di Caltanissetta che, in questo modo, ha inteso offrire ai reclusi un’ulteriore testimonianza di vicinanza, questa volta declinata attraverso la musica. Non è la prima volta infatti che il club nisseno si apre laddove le porte sembrano chiuse. Nell’anno di presidenza dell’Avv. Norma Costa ha donato un piccolo parco giochi per lo svago dei bambini in attesa del colloquio con il papà detenuto e nell’anno di presidenza del Dr. Giovanni Ferro una fornitura di televisori per le esigenze dei detenuti. Ad intonare note anni 70 e le più belle canzoni del panorama musicale italiano, sono stati due artisti: Mario Lombardo, socio del Club, e il giovane promettente cantante Andrea Meli. Allo spettacolo, svoltosi nella toccante cornice della cappella dedicata a San Giovanni Paolo II che vi officiò la santa messa in occasione della sua visita nella nostra città, ha assistito un cospicuo numero di detenuti di svariate nazionalità, che hanno accompagnato la chiusura di ogni "pezzo" con convinti applausi di consenso e ringraziamento. La manifestazione, che si è aperta con l’invito, formulato dal Direttore dell’Istituto penitenziario, Dr. Angelo Belfiore, a rispettare un momento di silenzioso raccoglimento per "un detenuto che non c’è più", è stata siglata dall’intervento del Dr. Marco Maira, Presidente del club che con parole toccanti ha inteso testimoniare la vocazione dei Lions a proporsi come Associazione di Servizio e ad "…esserci dove bisogno c’è". Lo spettacolo "Il Mio Canto Libero" si è svolto alla presenza del personale di Polizia Penitenziaria e del Commissario Marcello Matrascia che hanno curato e vigilato sul suo regolare svolgimento. "Una manifestazione estremamente coinvolgente che ha toccato le corde del cuore di tutti i presenti ed ha consentito ai detenuti di trascorrere qualche ora di sano divertimento" ha affermato la Responsabile dell’Area Trattamentale Dr.ssa Beatrice Sciarrone. L’evento, al quale erano presenti numerosi i componenti del Club Service Lions di Caltanissetta, si è concluso con i calorosi ringraziamenti formulati dal direttore Dr. Angelo Belfiore che ha consegnato una targa ricordo al Dr. Marco Maira. Nella targa poteva leggersi: "Pensiamo al carcere come un luogo dove il tempo non sia tempo vuoto, ma dove questo assume dei significati attraverso cose che si fanno". Radio Carcere su Radio Radicale: "Suicidi o suicidati?" Ristretti Orizzonti, 4 marzo 2017 Parla l’avvocato di Valerio Guerrieri che, a soli 21 anni, si è ucciso nel carcere di Regina Coeli. "Valerio era gravemente malato di mente, le perizie dei giudici parlano chiaro: in carcere non ci doveva stare, era a rischio suicidio. e invece, in carcere l’hanno messo e si è impiccato". Gli ultimi due suicidi avvenuti nelle carceri, tra cui un ragazzo di soli 21 anni che si è impiccato a Regina Coeli e che era affetto da una grave patologia psichiatrica. La lotta di Rita Bernardini che da 23 giorni è in sciopero della fame per chiedere l’approvazione in Senato del disegno di legge delega sull’ordinamento penitenziario stralciando la parte che riguarda il processo penale. La decisione dei capigruppo del Senato di rimandare in commissione giustizia il ddl sul processo penale. La condivisione dell’iniziativa nonviolenta della Bernardini espressa sia dall’Unione delle Camere Penali che dalla Commissione carceri della regione Lombardia, che ha approvato una risoluzione all’unanimità che presto verrà discussa dal Consiglio regionale. Link: www.radioradicale.it/scheda/501470/radio-carcere-gli-ultimi-due-suicidi-avvenuti-nelle-carceri-tra-cui-un-ragazzo-di-soli "La democrazia e i suoi limiti. Tra giustizia e politica", di Sabino Cassese finoaprovacontraria.it, 4 marzo 2017 "Se le questioni lasciate irrisolte dai giudici si scaricano sul corpo politico (si pensi soltanto alle questioni ambientali), le rappresentanze non possono contare su quel "decentramento" che si realizza attraverso le decisioni delle corti. Così la democrazia viene sovraccaricata. Se, al contrario, i giudici ampliano la propria sfera di azione e il peso delle loro decisioni, si verificano due conseguenze. Da un lato, l’"offerta" di giustizia crea una ulteriore e crescente "domanda" di giustizia. Dall’altro, il sistema giudiziario svolge una sempre maggiore surrogazione dei meccanismi democratici di decisione. La situazione italiana della giustizia civile e di quella penale (diverso il caso della giustizia amministrativa) è drammatica, con una grande quantità di cause arretrate, nell’ordine dei milioni, e tempi dei processi che, calcolando i tre gradi di giudizio, giungono fino al decennio. Altro apparato è quello delle procure. In Italia, queste sono dotate anch’esse di indipendenza nei confronti degli organi rappresentativi. Svolgono il ruolo di accusa. Ma debordano sia invadendo campi estranei (valutazioni di danni ambientali e alla salute, decisioni di localizzazione di impianti, valutazioni sull’uso del territorio e così via), sia utilizzando - attraverso l’uso distorto di intercettazioni e custodia cautelare - procedure di "naming and shaming", poco produttive sul piano processuale ma molto efficaci nel circuito politico e dell’opinione pubblica. Gli effetti principali di questi interventi si producono nel campo della politica e dell’amministrazione. Sulla prima, l’azione accusatoria ha l’effetto di stimolare la sfiducia nell’elettorato. Sulla seconda ha un effetto di spiazzamento, nel senso che in questo modo i decisori di ultima istanza nelle scelte più importanti riguardanti problemi sociali, ambientali, di sviluppo urbanistico, diventano le procure, in luogo degli organi rappresentativi e degli uffici burocratici. Un ultimo effetto di questo processo vizioso è quello per cui i procuratori sono proiettati nello spazio pubblico, dove sono ascoltati più per i poteri di cui dispongono che per quello che pensano, e divengono i naturali candidati alle posizioni di vertice di quella politica dalla quale dovrebbero restare distanti per dovere d’ufficio. Quindi, le procure, in democrazie mature come quelle italiana e quella spagnola, e in parte anche in quella francese, svolgono una pluralità di ruoli, supplendo o sostituendo decisioni che dovrebbero essere collettive, in nome di una indipendenza che viene tradita dal loro dialogo diretto con l’opinione pubblica e dalle carriere politiche che ne conseguono per i singoli procuratori. I conflitti con il corpo politico, nonostante la mancata modernizzazione del sistema giudiziario in Italia, sono numerosi: molti fisiologici perché la giustizia costituisce un naturale limite della politica; alcuni patologici perché la giustizia non risponde al compito fondamentale che è chiamata a svolgere (giustizia ritardata è giustizia negata)". Sabino Cassese, "La democrazia e i suoi limiti", Mondadori, Milano, 2017. Migranti. L’Italia prova a diventare la grande barriera di Guido Viale Il Manifesto, 4 marzo 2017 Stiamo costruendo nel Mediterraneo una barriera più feroce del muro su cui Trump ha fatto campagna elettorale. Una barriera di leggi, misure di polizia, agenzie senza base giuridica, violazioni del diritto del mare e di asilo, navi da guerra, criminalizzazione delle organizzazioni umanitarie, eserciti mobilitati ai confini, filo spinato e muri. E tra i muri quello - 270 chilometri - che il governo turco ha costruito con il denaro della commissione europea per bloccare i nuovi profughi siriani che l’Europa teme che transitino poi verso i Balcani. Ma una barriera fatta anche di accordi con i governi dei paesi di origine o di transito dei rifugiati, per trattenerli dove sono o respingerli là da dove sono partiti. Con ogni mezzo: finanziando armamenti - navi, sistemi di rilevamento, addestramento delle milizie, caserme e prigioni - e legittimando governi e pratiche feroci sia con i profughi che con i propri sudditi. Che cosa succede oltre quella barriera, nei campi e nelle prigioni di Libia, Sudan, Niger o Turchia - violenze, stupri, omicidi, umiliazioni e sfruttamento, condizioni igieniche letali - è provato da medici, reporter, organizzazioni umanitarie, agenzie dell’Onu come Unhcr, Oim, Unicef e da molti reportage fotografici. Ma la barriera maggiore è ancora costituita dai naufragi in mare e dagli abbandoni nel deserto. Tutte pratiche, più i futuri rimpatri, non solo tollerate, ma finanziate dall’Unione europea come soluzione per "disincentivare l’afflusso di nuovi profughi": espressione anodina per dire che chi vuol sottrarsi a morte, fame, guerre o violenze di un tiranno deve rassegnarsi; mettersi in viaggio è anche peggio. Ma al di qua di quella barriera, chi è riuscito a raggiungere l’Europa approdando in Italia, Grecia o Spagna, sfidando più volte la morte, sua e dei propri figli, si accorge di essere finito in un territorio quasi altrettanto ostico. Fino a un anno fa, Grecia e Italia accoglievano e accompagnavano i profughi ai confini per aiutarli a raggiungere altri paesi dell’Unione, la loro vera meta. Oggi non possono più farlo a causa delle barriere fisiche, poliziesche e amministrative che l’Unione europea ha lasciato elevare tra i suoi paesi membri; mentre chi decide se un profugo ha diritto alla protezione della convenzione di Ginevra o no è sempre più selettivo. Finora, a coloro che ricevono il diniego o non vengono neanche ammessi alla procedura (spesso esclusi già negli hotspot perché provenienti da paesi classificati "sicuri") veniva ingiunto di lasciare subito il territorio italiano: senza denaro, biglietto, documenti e punti di appoggio. Ovviamente nessuno lo faceva; chi non riusciva a passare la frontiera si accalcava ai suoi bordi, a Ventimiglia, a Como, al Brennero; o cercava rifugio sotto un viadotto o in un edificio abbandonato, iniziando la vita da "clandestino" decretata per lui dallo Stato. Oggi, dopo alcune prove di deportazioni di massa verso il Sudan o la Nigeria, il ministro Minniti ha deciso di imprigionarli tutti in centri di reclusione da istituire, in attesa dei soldi e degli accordi per "rimpatriarli" là dove non potevano più stare perché perseguitati o affamati. È il coronamento della barriera voluta dalla commissione europea, che intende riservare questa sorte ad almeno di un milione di profughi, bambini compresi. In sostanza, però, si scarica su Italia e Grecia il compito di mettere al sicuro gli altri paesi dell’Unione da un flusso di esseri umani che sbarcano da noi, ma per raggiungere il resto dell’Europa. Ma invece di porre al centro dei rapporti con il resto dell’Unione questa questione - su cui si decide il futuro politico del continente - il governo italiano la usa solo per lucrare qualche punto di deficit in più. Ma ammassare i profughi nei tanti centri dove si specula sulla loro esistenza di fronte agli abitanti dei dintorni, a cui vengono esibiti come nullafacenti a spese dello Stato, umiliando sia gli uni che gli altri, o moltiplicare i "clandestini" prodotti dalle leggi dello Stato sono cose che provocano nei più un senso di rigetto, alimentato dalle forze politiche che su di esso costruiscono le proprie fortune. Invece di vedere sofferenza e disperazione in chi vive una fuga ormai senza meta, non si rifugge più né da espressioni truci né dal passare a vie di fatto. Sono reazioni emotive, ma ben radicate, alimentate soprattutto da cattiva informazione. Le informazioni vere non mancano, ma non si vuole vederle né si possono cambiano certe reazioni solo con la buona informazione. Allora, a che punto è la notte? Molto avanti. Ma non è un processo irreversibile. Impariamo noi, e impariamo a portare anche altri, chiunque sia, a guardare negli occhi i profughi che ci stanno accanto. Gira su Facebook un video che mostra le risposte violente e razziste di persone per strada quando un intervistatore bianco chiede loro "che cosa fare dei profughi". Poi la stessa domanda viene rivolta alle stesse persone da un intervistatore di colore, che potrebbe essere un profugo e che li guarda negli occhi. Accanto all’imbarazzo per quello che hanno appena detto, cresce tra tutti lo sforzo per trovare, qui e ora, una risposta più umana. È quello che dobbiamo tutti cercare di fare, e trovare dei luoghi dove farlo. Migranti. In Puglia brucia il Ghetto di Rignano, due migranti muoiono di Alessandro Tricarico il manifesto, 4 marzo 2017 Le vittime sono due ragazzi del Mali sorpresi nel sonno dalle fiamme. Nel campo era in corso lo sgombero deciso dalla Dda. Alla fine è successo. Il Ghetto di Rignano è stato sgomberato dalle ruspe ma due ragazzi originari del Mali sono morti dopo che un incendio, scoppiato nella notte, ha raso al suolo gran parte del campo. Ieri mattina colonne di fumo nero facevano da sfondo a dozzine di migranti che si allontanavano con le poche cose messe assieme negli anni: un materasso, una bombola del gas o un bidone per fitofarmaci pieno di acqua potabile. Sembra Calais ma siamo Foggia, nel granaio di Italia. Il 1 marzo inizia lo sgombero della baraccopoli, disposto dalla Dda di Bari nell’ambito di indagini avviate nel marzo del 2016 e culminate con il sequestro con facoltà d’uso della baraccopoli per presunte infiltrazioni della criminalità. Nonostante le ruspe siano sul posto e la zona sia stata sottoposta a sequestro, il giorno seguente una delegazione di abitanti del ghetto si dirige verso Foggia per incontrare il prefetto. La manifestazione sfila per la città con cartelli che recitano "Vivere Ghetto". Chiedono di poter restare nelle proprie baracche, così da non perdere quei contatti lavorativi maturati negli anni: un privilegio che vale meno di 3 euro l’ora. La notte tra il 2 e il 3 marzo un incendio distrugge parte del campo, quasi 5.000 mq di case di cartone carbonizzate. Al loro interno dormono alcuni migranti che, miracolosamente, riescono a fuggire, tranne due ragazzi. Si chiamavano Mamadou Konate e Nouhou Doumbia, avevano 33 e 36 anni e venivano entrambi dal Mali. Una delle due vittime, Konate, è stato trovato disteso su una brandina, carbonizzato. L’altro è stato trovato vicino l’uscita della baracca. Non è la prima volta che le case di cartone del Ghetto vanno a fuoco. Questo, ad esempio, è il terzo incendio di grosse dimensioni che avviene solo nell’ultimo anno. Mai nessuno però era ancora morto durante questi episodi. La procura di Foggia ha escluso la matrice dolosa, anche se per alcuni le cose non sono andate esattamente così: "L’incendio del ghetto di Rignano è doloso perché molti lavoratori non hanno gradito lo sgombero. È un gesto di protesta paradossale, da condannare perché nessuno ha il diritto di uccidere; ma resta un tragico gesto di protesta", dice Yvan Sagnet. Secondo un vigile del fuoco che si trovava sul posto al momento dell’incendio "l’incendio è stato troppo violento e improvviso, e quindi non si esclude che possa essere stato appiccato da qualcuno". Dopo aver riconosciuto i corpi dei propri compagni, gli ultimi abitanti del Ghetto hanno improvvisato un corteo funebre per scortare i feretri dei due ragazzi. "Non si può morire così, come i cani in gabbia" urla Mamadou alla stampa "noi chiediamo solo di lavorare in pace. Dove andremo ora?". I carri funebri sfilano affianco a cumuli di immondizia bruciata che delimitano le porte del Ghetto. I migranti li lasciano andare soli nel loro viaggio verso l’obitorio e decidono di tornare indietro per potersi organizzare. Dopo qualche ora accade l’impensabile: un altro incendio di grandi dimensioni distrugge e mortifica le ultime baracche rimaste in piedi. Si odono delle esplosioni, una macchina di un caporale va in fiamme e diverse bombole del gas esplodono pericolosamente tra le baracche. L’aria è irrespirabile. Il ghetto inizia a svuotarsi silenziosamente. Molte persone si dirigono attraversano gli uliveti, simbolo della puglia, con i materassi arrotolati sulla testa. Gli autobus sono pronti ad accoglierli per poterli portare in alcune strutture messe a disposizione della regione e dal comune di San Severo, che saranno attrezzate per accogliere temporaneamente 320 migranti. Il presidente della Regione Michele Emiliano si dice soddisfatto della "chiusura di questo luogo dove per vent’anni si è calpestata la dignità umana", aggiungendo che "la tragica morte dei due cittadini maliani conferma la necessità di procedere senza indugio alla chiusura del campo, ma lascia un profondo sconforto perché se avessero accettato, come tanti hanno fatto, l’alternativa abitativa adesso sarebbero ancora vivi". La giornata sta per finire, le fiamme hanno ormai lasciato spazio alla cenere ed al fumo. Il rumore delle ruspe copre ogni suono. Molti migranti non sanno dove andare, nessuno a quanto pare si è preoccupato di spiegare loro cosa stia succedendo: "non mi importa - dice un ragazzo - qualunque posto sarà meglio di questo". Migranti. La Schiavopoli del Gargano di Michelangelo Borrillo Corriere della Sera, 4 marzo 2017 Nel Gran Ghetto del Tavoliere, nella provincia più calda d’Europa, vivono in estate 3mila centroafricani provenienti da Senegal, Mali, Burkina Faso: schiavi dei campi e schiave degli uomini. Nella Casbah delle baracche, tra bar e market, tutto è gestito dai caporali. C’è un promontorio che divide il bene dal male, nel nord della Puglia. Un promontorio di nome Gargano: di là le spiagge e il mare che, insieme a quelle del Salento, hanno reso la regione tra le più glamour d’Europa per il turismo. Di qua, nell’entroterra, una Schiavopoli che resiste da più di 20 anni. La chiamano Gran Ghetto, per distinguerla dalle altre schiavopoli sparse nel Tavoliere delle Puglie, la più grande pianura italiana dopo la Padana, in particolare dal Ghetto dei bulgari, quello dei bianchi. Il primo a Nord di Foggia, nel territorio del Comune di San Severo, il secondo a Est, a Borgo Mezzanone in direzione Manfredonia. Il Gran Ghetto è la città degli incubi. Schiavi dei campi e schiave degli uomini vivono lì. Per fortuna - unica consolazione - nel ghetto dei neri non ci sono bambini. Chissà, forse perché ai caporali non è venuta ancora in mente un’idea per sfruttarli al meglio. Circa 3mila persone nel periodo estivo, quello della raccolta dei pomodori da luglio a settembre, qualche centinaio di abitanti - fino a 700 - in inverno, per raccogliere broccoli e finocchi. Provengono dall’Africa centrale: Senegal, Mali, Burkina Faso. Gli schiavi dei campi, gli uomini, sono sfruttati per la loro forza. Il listino prezzi, per i braccianti africani e neo-comunitari (complessivamente ventimila nella provincia di Foggia a fronte dei quattrocentomila a livello nazionale) è identico: il trasporto con il furgone costa 5 euro a testa e per ogni cassone da 3 quintali - pagato 4,5 euro - il caporale trattiene 50 centesimi. Nei furgoni - nel caldo della provincia più torrida d’Italia (fino a 47 gradi in estate, soltanto Siviglia e l’Andalusia in Europa raggiungono quelle temperature) - si stipano anche in venti: considerando che ogni bracciante riesce a riempire fino a 15 cassoni, il caporale incassa per ogni trasporto 250 euro al giorno (100 per il trasporto e 150 per il "pizzo" sui cassoni). Spesso riesce a farne due, di viaggi, e l’incasso arriva a 500 euro. E se il lavoro abbonda, paga un autista 50 euro e per ogni viaggio aggiuntivo incassa altri 200 euro netti. Le poche donne presenti nel Gran Ghetto hanno un solo incarico: prostituirsi. I clienti sono italiani: si muovono da Foggia o San Severo (il Ghetto è più o meno a metà tra le due città distanti tra loro 25 chilometri) lungo la Statale 16, percorrono un paio di chilometri di sterrato e nel buio della sera si infilano nelle baracche. Nella Casbah del Tavoliere, dove c’è di tutto: market, ristoranti, parrucchieri, gommista e meccanico. Tutto rigorosamente gestito dai caporali (tranne Radio Ghetto dei ragazzi di Campagne in Lotta, tra i quali Veronica Padoan, figlia del ministro), i "capinero" come li chiamano i braccianti, anche loro africani. Che adesso potrebbero essere messi fuorigioco dalla decisione di sgombrare il Gran Ghetto (in seguito al decreto di sequestro del suolo dopo la denuncia alla Dda di Bari, per riduzione in schiavitù, del governatore pugliese Michele Emiliano) e spostare i braccianti negli stabili della Regione Puglia, a San Severo. A trasferimento completato, i caporali non potranno più gestire i traffici (di braccianti e schiave) o, perlomeno, sarà tutto molto più difficile. Per questo gli africani non vogliono lasciare Rignano (ieri in 180 hanno protestato sotto la Prefettura di Foggia per 5 ore): la Schiavopoli, all’ombra del promontorio, garantisce loro anche il lavoro. Da schiavi, ma pur sempre lavoro. Per questo l’inferno, a volte, diventa l’unico posto dove poter continuare a vivere. O sopravvivere. Migranti. "Sgomberare non serve, per loro il ghetto significa lavoro" di Gianmario Leone Il Manifesto, 4 marzo 2017 "Purtroppo quanto accaduto ieri notte è soltanto l’ultimo episodio: i morti nei ghetti del foggiano sono già 4 negli ultimi mesi e sono una triste routine che si è consolidata nel corso degli anni. Solo in Puglia, tra grandi e piccoli, se ne contano oramai una trentina". A parlare è Leonardo Palmisano, etnografo, docente di Sociologia Urbana al Politecnico di Bari ed autore del saggio "Ghetto Italia", scritto a quattro mani con Yvan Sagnet, con il quale hanno vinto il prestigioso premio Livatino 2016. Un lungo viaggio nei ghetti italiani, dal Piemonte alla Puglia, per denunciare come i braccianti immigrati in Italia siano sempre più spesso vittime di un caporalato feroce, che li rinchiude in veri e propri "ghetti a pagamento", in cui tutto ha un prezzo e niente è dato per scontato, nemmeno un medico in caso di bisogno. Da fine febbraio è iniziato lo sgombero del "Gran Ghetto" di Rignano Garganico disposto dalla Dda di Bari, per presunte infiltrazioni nella gestione del luogo da parte della criminalità organizzata. Molti però si sono opposti, mentre la Regione fatica ancora a risolvere il problema di un alloggio dignitoso. Forse qualcuno sarebbe dovuto andare a parlare con quelle persone. Non si può pensare di sgomberarle dall’oggi al domani, senza preavviso, dall’unico luogo che conoscono. Perché per loro il ghetto vuol dire lavoro e quindi sopravvivenza: solo restando lì sono certi che i caporali, durante la stagione del raccolto, li andranno a cercare per farli lavorare. È questo il motivo per cui oramai sono diventati stanziali nei ghetti, dove vivono tutto l’anno, anche in periodi in cui non c’è lavoro. Senza un’alternativa reale nei servizi e nel collocamento lavorativo, sgomberare non servirà a nulla. Un lavoro che in realtà vuol dire sfruttamento, schiavitù in condizioni disumane. Come giudica la legge sul caporalato? Le Regioni in materia di lavoro non possono legiferare, quindi è necessario l’intervento dello Stato. Quella legge è sicuramente un primo passo verso la legalità, ma non può restare l’unico. Piuttosto, credo sia giusto sottolineare la pressione che arriva dalle associazioni degli imprenditori agricoli contro quella legge, prima ancora che arrivino le denunce dei braccianti. Sto realizzando con grande difficoltà una nuova inchiesta su questo fronte. I braccianti sono terrorizzati ed è difficilissimo farli parlare, c’è un clima di grande tensione. Ancora una volta, quindi, omertà. Condizionata dal sistema padronale che vuol conservare lo status quo. Assolutamente sì. Non regge nemmeno l’alibi della crisi economica: il pil in agricoltura nell’ultimo anno è cresciuto del 6%. Il problema è che non c’è stata un’adeguata ridistribuzione della ricchezza. Che resta in mano a pochi grandi gruppi commerciali, fattore che porta le associazioni datoriali a lamentarsi: stiamo tornando al latifondo dove il ruolo del caporale è fondamentale. Le stime del Global Slavery Index ci vedono al 2° posto in Europa per riduzione in condizioni di schiavitù dei braccianti. Il nocciolo della questione, come più volte ha denunciato Yvan Sagnet nel corso degli anni, resta la grande distribuzione e gli accordi commerciali che reggono il gioco. È lì che bisogna intervenire. I grandi gruppi decidono il costo del prodotto che a sua volta, per effetto domino, incide sugli agricoltori ovvero i produttori ed infine sui lavoratori sfruttati dai caporali che sono da sempre l’anello di congiunzione tra domanda e offerta di lavoro. La vera battaglia ora si è spostata sui semi. Perché chi li possiede controllerà tutta la filiera. Le disposizioni comunitarie e internazionali giustizia riparativa di Fabrizio Urbani Neri pensarepoliticamente.net, 4 marzo 2017 La Raccomandazione concernente il sovraffollamento carcerario e l’inflazione della popolazione carceraria (Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa - Racc. n. R(99)22 del 30/09/1999) nella quale in ordine alla necessità di ridurre il sovraffollamento, al punto 15 tra le misure alternative alla detenzione viene individuata tra le altre la "mediazione vittima-delinquente/compensazione della vittima". La raccomandazione relativa alla Mediazione in materia penale (Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa n. R(99)19 adottata il 15/09/1999) invita gli Stati membri a tenere presente - nello sviluppo di iniziative nel campo della mediazione penale - i Principi contenuti nell’appendice. Detto allegato definisce puntualmente: i principi generali in tema di mediazione, le regole che devono disciplinare l’attività degli organi della giustizia penale in relazione alla mediazione, agli standard da rispettare per l’attività dei servizi di mediazione, alle indicazioni sulla qualifica dei mediatori e sulla loro formazione, al trattamento dei casi individuali agli esiti della mediazione, alle attività di ricerca e valutazione che gli Stati membri dovrebbero promuovere sulla materia. Le conclusioni del Consiglio europeo di Tampere (15-16 ottobre 1999) nel corso del quale i Capi di stato e di governo hanno deciso di far progredire rapidamente l’idea di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nell’ambito dell’Unione Europea. In particolare al punto 32 viene richiamata la necessità di elaborare norme minime sulla tutela delle vittime della criminalità, in particolare sull’accesso delle vittime alla giustizia e sui loro diritti al risarcimento dei danni, comprese le spese legali. Dovrebbero inoltre essere creati programmi nazionali di finanziamento delle iniziative, sia statali che non governative, per l’assistenza alle vittime e la loro tutela. La Dichiarazione di Vienna su criminalità e giustizia (X Congresso delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Crimine e il trattamento dei detenuti - Vienna 10-17 aprile 2000), con cui gli Stati membri si impegnano alla promozione del principio di legalità ed al potenziamento del sistema giustizia penale, nonché allo sviluppo ulteriore della cooperazione internazionale nella lotta alla criminalità trasnazionale ed all’effettiva prevenzione della criminalità. Alcuni punti della dichiarazione trattano specificatamente la definizione di impegni verso l’introduzione di "adeguati programmi di assistenza alle vittime del crimine, a livello nazionale, regionale, ed internazionale, quali meccanismi per la mediazione e la giustizia riparatrice" individuando nel 2002 il "termine ultimo per gli Stati per rivedere le proprie pertinenti procedure, al fine di sviluppare ulteriori servizi di sostegno alle vittime e campagne di sensibilizzazione sui diritti delle vittime, e prendere in considerazione l’istituzione di fondi per le vittime, oltre allo sviluppo e all’attuazione di politiche per la protezione dei testimoni (art. 27)". L’art. 28 recita inoltre "Incoraggiamo lo sviluppo di politiche di giustizia riparatrice, di procedure e di programmi rispettosi dei diritti, dei bisogni e degli interessi delle vittime, dei delinquenti, delle comunità e di tutte le altre parti". La risoluzione sui principi base sull’uso dei programmi di giustizia riparativa in materia criminale (Economic and Social Council delle Nazioni Unite n. 2000/14 del 27/07/2000) che, richiamando i contenuti delle precedenti risoluzioni nonché la Dichiarazione di Vienna, individua nel suo allegato uno schema preliminare di dichiarazione dei principi base per l’uso dei programmi di giustizia riparativa in ambito criminale, da sottoporre all’attenzione degli Stati membri, delle organizzazioni intergovernative e non governative più rilevanti, nonché agli organismi della rete delle Nazioni Unite che si occupano di prevenzione del crimine e dei programmi di giustizia penale, al fine di definire principi comuni sulla materia. La risoluzione sulla Dichiarazione di Vienna su criminalità e giustizia: nuove sfide nel XXI secolo (Assemblea Generale delle Nazioni Unite - n. 55/59 del 04/12/2000), che recepisce i contenuti della dichiarazione di Vienna. Gli Stati membri, prendono atto della necessità di accordi bilaterali, regionali e internazionali sulla prevenzione del crimine e la giustizia penale, nel convincimento che i programmi di prevenzione e di riabilitazione sono fondamentali quali strategie di effettivo controllo della criminalità e che un’adeguata politica criminale rappresenta un fattore importante nella promozione dello sviluppo socio-economico e della sicurezza dei cittadini. Si afferma altresì la consapevolezza dell’importanza dello sviluppo di forme di giustizia riparativa che tende a ridurre la criminalità e promuove la ricomposizione delle vittime, dei rei e delle comunità. La risoluzione fa propri gli obiettivi definiti dagli artt. 27 e 28 della Dichiarazione di Vienna in ordine allo sviluppo di piani d’azione in supporto delle vittime, nonché forme di mediazione e di giustizia riparativa, stabilendo come data di scadenza per gli Stati membri il 2002. La risoluzione concernente il seguito da dare al Congresso delle Nazioni Unite per la prevenzione della criminalità e il trattamento dei delinquenti (Assemblea Generale delle Nazioni Unite - n. 55/60 del 04/07/2000) con cui si invitano i governi a ispirarsi alle dichiarazione di Vienna e domanda al Segretario Generale di voler preparare - previe consultazioni con gli Stati membri - dei progetti di piani di azioni che comprendano specifiche misure in vista dell’attuazione degli impegni presi a Vienna. La Decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale (2001/220/GAI del 15 marzo 2001) adottata nell’ambito del cosiddetto "Terzo Pilastro" dell’Unione europea, sulla scorta delle determinazioni assunte nel vertice di Tampère. Con essa gli Stati membri adottano una regolamentazione quadro relativa al trattamento da riservare alle vittime del reato. In particolare oltre a definire il concetto di vittima ed i suoi diritti la decisione quadro chiarisce che la mediazione nelle cause penali è la ricerca - prima o durante lo svolgimento del procedimento penale - di una soluzione negoziata tra la vittima e l’autore del reato con la mediazione di una persona competente. Ciascuno Stato si impegna a definire dei servizi specializzati che rispondano ai bisogni della vittima in ogni fase del procedimento, adoperandosi affinché la stessa non abbia a subire pregiudizi ulteriori e inutili pressioni. Si impegnano ancora ad assicurare l’adeguata formazione professionale degli operatori. Gli Stati sono vincolati a fare entrare in vigore le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie ai fini dell’attuazione della decisione quadro, entro scadenze vincolanti e precisamente: entro il 22 marzo 2002 la predisposizione delle necessarie disposizioni attuative, di ordine legislativo, regolamentare e amministrativo; entro il 22 marzo 2004 la definizione delle garanzie in materia di comunicazione e di assistenza specifica alla vittima; entro il 22 marzo 2006 la implementazione della mediazione nell’ambito dei procedimenti penali e l’indicazione dei reati ritenuti idonei per questo tipo di misure, nonché la garanzia che eventuali accordi raggiunti tra la vittima e l’autore del reato nel corso della mediazione nell’ambito dei procedimenti penali vengano presi in considerazione. La Risoluzione concernente i Piani d’azione per l’attuazione della Dichiarazione di Vienna sulla criminalità e la giustizia: le nuove sfide del XXI secolo (Assemblea generale delle Nazioni Unite - n. 56/261 del 31/01/2002) che recepisce i piani di azione predisposti dalla Commissione per la prevenzione del crimine e per la giustizia penale, previe consultazioni con gli Stati membri. In particolare i piani di azione danno seguito ai punti 27 e 28 della Dichiarazione di Vienna con l’individuazione di misure sia nazionali che internazionali. Rispettivamente al Cap. IX si fa riferimento alle "Misure in favore i testimoni e le vittime della criminalità" sottolineando l’importanza di favorire progetti pilota per la creazione o lo sviluppo di servizi per le vittime ed altre attività connesse. Al Cap. XV invece si fa riferimento alle "Misure relative alla giustizia riparativa" ed alla necessità quindi di sviluppare una idonea politica ed ai connessi programmi di giustizia riparativa, tenendo conto degli impegni internazionali presi in favore delle vittime. Si sottolinea altresì la necessità di promuovere una cultura favorevole alla mediazione ed alla giustizia riparativa e l’esigenza di formare adeguatamente gli operatori che dovranno lavorare all’applicazione di dette politiche. La risoluzione sui Principi base circa l’applicazione di programmi di giustizia riparativa nell’ambito penale (Economic and Social Council delle Nazioni Unite n. 15/2002), che nel prendere atto del lavoro svolto dal Gruppo di esperti sulla giustizia riparativa, incoraggia gli Stati membri a sviluppare programmi in tal senso e di supportarsi a vicenda per avviare ricerche, valutazioni, scambi di esperienze. Il documento allegato alla risoluzione contiene delle indicazioni che - come gli esperti dichiarano nel corso dei loro lavori - non possono essere obbligatorie e rigide dovendosi adattare al sistema penale dei vari Stati. La giustizia riparativa va comunque considerata come una misura dinamica di contrasto alla criminalità, che rispetta la dignità di ciascuno e l’eguaglianza di tutti, favorisce la comprensione e contribuisce all’armonia sociale essendo tesa alla "guarigione" delle vittime, dei rei e delle comunità. Importante l’affermazione che riguarda il fatto che gli interventi di giustizia riparativa danno la possibilità alle vittime di ottenere una riparazione, di sentirsi più sicure e di trovare una tranquillità, e permette altresì ai delinquenti di prendere coscienza delle cause e degli effetti del loro comportamento e di assumersi le loro responsabilità in maniera costruttiva, aiutando anche le comunità a comprendere le cause profonde della criminalità e a promuovere azioni per un maggiore benessere e per la prevenzione della criminalità. I principi contenuti nel documento sono estremamente chiari partendo dalla definizione dei concetti portanti, chiarendo che nel parlare di programmi di giustizia riparativa ci si riferisce a tutte le iniziative che i vari Paesi - a seconda del loro sistema penale - pongono in essere nei vari stadi del procedimento o nell’esecuzione delle pene, sottolineano l’importanza del libero consenso delle varie parti all’offerta riparatoria, che deve essere loro proposta in maniera chiara e senza costrizioni - soprattutto rispetto ad eventuali conseguenze negative o sanzioni giudiziarie. Le sfide europee sulla giustizia penale. Cild ad Atene per la conferenza annuale Leap cilditalia.org, 4 marzo 2017 Oggi e domani siamo ad Atene per la conferenza annuale di Leap, la Legal Experts Advisory Panel: si tratta di una rete europea di esperti in giustizia penale e dei diritti umani che si occupa di promuovere la cooperazione giudiziaria equa ed efficace in Europa. Come negli anni precedenti, sarà l’occasione per gli esperti legali provenienti da tutta Europa di discutere di varie questioni relative alla giustizia penale, tra cui la custodia cautelare, il Mandato di Arresto Europeo e del diritto difesa nei tribunali. Nell’ultimo anno, la rete Leap è stata testimone di alcuni sviluppi positivi nell’UE per quanto riguarda i diritti procedurali, compresa l’adozione della direttiva Legal Aid e l’entrata in vigore della direttiva sul diritto di accesso a un avvocato. Tuttavia, molto lavoro resta da fare per quanto riguarda l’effettiva attuazione di tali strumenti, assicurando nel contempo che le nuove leggi nazionali non regrediscano in materia di diritti della difesa. Nel frattempo, la custodia cautelare rimane un problema enorme in molti paesi e le corti europee stanno iniziando ad affrontare gli abusi che avvengono al momento di decidere dell’estradizione di sospetti all’interno e all’esterno dell’UE. La prima parte del convegno si occuperà di custodia cautelare e giustizia transfrontaliera. I relatori analizzeranno come gli abusi della detenzione preventiva indeboliscano strumenti di cooperazione internazionale, come il mandato di arresto europeo. Saranno esaminati anche gli sviluppi nei paesi terzi, con particolare riferimento alle misure di emergenza attuate in Turchia, dopo il tentativo di colpo di stato del luglio 2016 e le varie risposte da parte dei giudici comunitari, come le richieste di estradizione che arrivano Ankara. Nella seconda sessione si approfondiranno i rimedi giurisdizionali previsti per le violazioni del diritto ad un processo equo. Durante questo panel, il gruppo di lavoro Leap sui ricorsi giurisdizionali lancerà un nuovo documento politico sul caso di Ibrahim e altri contro Regno Unito. La terza e ultima parte del convegno sarà dedicata a favorire le conversazioni con i membri Leap per lo sviluppo dei piani d’azione nazionali per sostenere il diritto a un processo equo. Al momento la rete Leap conta oltre 200 membri, tra avvocati, Ong e accademici, che copre tutti i 28 Stati membri dell’UE. Grazie al coordinamento Fair Trials, Leap è in grado di offrire una visione su una vasta gamma di temi di giustizia penale dell’Unione europea, ma anche di rafforzare la cooperazione tra i difensori dei diritti umani nel lavoro transfrontaliero. Messico. L’On. Manconi: Simone Renda morì in carcere e fu omicidio L’Unità, 4 marzo 2017 Il 15 dicembre scorso la Corte d’assise di Lecce ha condannato in primo grado sei persone per la morte di un bancario leccese di trentaquattro anni, Simone Renda, nel carcere di Cancun, in Messico. Morte avvenuta esattamente dieci anni fa, i13 marzo del 2007. Due giorni prima, Renda si accingeva a ripartire per l’Italia al termine di un viaggio in quel paese. Ma, a seguito di un alterco con il personale dell’albergo in cui alloggiava a Playa del Carmen, viene arrestato dalla polizia turistica. Un’ora dopo è in carcere e viene visitato dal medico dell’istituto, il quale riscontra disidratazione, iper-sudorazione ed elevata pressione arteriosa, diagnosticando un probabile infarto e sollecitando un immediato ricovero ospedaliero. Ciò nonostante, nessun provvedimento venne adottato dal vicedirettore del carcere e quarantadue ore dopo, alle otto del mattino del 3 marzo, Simone Renda muore nella cella dove era rinchiuso. Durante quelle lunghe ore di detenzione, Renda non fu mai più visitato da un medico e non gli vennero somministrati né acqua né cibo. Inevitabilmente le sue condizioni si aggravarono fino alla morte. Questa storia, così simile ad altre avvenute in Italia, non solo in carcere, non ha avuto l’attenzione che merita e che i risultati processuali, giustamente, le restituiscono. All’indomani della morte del nostro connazionale, la Procura generale dello Stato di Quintana Roo avvia un’indagine penale ed emette un ordine di cattura nei confronti di tre funzionari (il vice-direttore dell’istituto, il comandante della polizia penitenziaria e il responsabile dell’accettazione) e del giudice che avrebbe dovuto convalidare immediatamente l’arresto di Renda, ma che lo fece solo il giorno successivo. I19 marzo 2011 il Tribunale degli Stati uniti messicani condanna tutti gli accusati, tranne il vicedirettore del carcere, per abuso di potere e omicidio colposo. Ma la storia non finisce qui. Infatti, a seguito di alcune iniziative parlamentari e dell’impegno delle autorità diplomatiche italiane in Messico, anche la Procura della Repubblica di Lecce aveva avviato delle proprie indagini per individuare le responsabilità nella morte di Renda, allargando il campo a due poliziotti penitenziari che - pur conoscendo le gravissime condizioni di salute di Renda - nulla fecero per porvi rimedio. Così, nel marzo del 2010, prima che si concludesse il procedimento messicano, il Pubblico ministero chiede il rinvio a giudizio delle quattro persone sotto processo in Messico, degli altri due poliziotti già sottoposti a indagini e degli agenti della polizia turistica che avevano arrestato Renda in albergo. Gli imputati sono accusati di omicidio volontario e di violazione della Convenzione Onu contro la tortura, ratificata dall’Italia nel 1988. E qui la cosa si fa particolarmente interessante, perché quella convenzione, ratificata all’Italia, ma mai compiutamente attuata con la previsione di un apposito reato, in questo modo viene forse per la prima volta apertamente richiamata in un tribunale italiano. E non semplicemente in via argomentativa: ovvero per affermare che i fatti sotto processo avrebbero potuto essere qualificati come tortura se il reato fosse previsto dai nostri codici. No, anche direttamente come norma violata e dunque capace di giustificare il processo e l’eventuale decisione sanzionatoria. Attenzione: questo è un punto cruciale, che rende questa vicenda giudiziaria ancora più significativa e che potrebbe costituire un importantissimo precedente. Com’è ovvio, le quattro persone già giudicate in Messico contestarono il nuovo processo italiano, sulla base del principio del "ne bis in idem" (nessuno può essere processato due volte per il medesimo fatto). Tuttavia la Corte di assise di Lecce ha rigettato l’eccezione della difesa, rilevando innanzitutto che lo Stato italiano non è vincolato da alcuna convenzione internazionale o bilaterale che comporti il riconoscimento di un giudizio formatosi in Messico. E, poi, ha sottolineato la diversa qualificazione giuridica del fatto (lì si è proceduto per omicidio colposo, qui per omicidio volontario e violazione della convenzione Onu contro la tortura) e delle stesse imputazioni, allargate alla polizia negligente. Da qui - acquisita l’autorizzazione del Ministro della giustizia - il via libera al rinnovamento del giudizio per reati commessi all’estero nei confronti di un cittadino italiano e, alla fine, la condanna di sei degli otto imputati (tutti, tranne gli appartenenti alla polizia turistica che avevano arrestato e consegnato in carcere Renda). La famiglia e le istituzioni - Come sempre, in questo come in simili casi, fondamentale è stata l’intelligente tenacia dei familiari, e in particolare della madre di Simone, Cecilia Greco, l’appassionata competenza degli avvocati Pasquale Corleto e Fabio Valenti, e la sensibilità istituzionale, da quella dei parlamentari che per primi si fecero tramite delle denunce della famiglia a quella dell’ambasciatore e dell’agente consolare a Playa del Carmen, a quella della magistratura inquirente e giudicante. Tutti, sia ben chiaro, hanno fatto "solo il loro dovere", ma c’è modo e modo di assolvere ai propri compiti istituzionali, e qui è stato certamente seguito quello più efficace. E ancora, merita di essere sottolineata la scelta del pubblico ministero prima e della Corte d’assise poi, del riconoscimento della sussistenza del reato di tortura così come già oggi definito dalla Convenzione delle Nazioni unite. A seguito di una ricostruzione analitica della normativa internazionale e della sua ricezione nell’ordinamento giuridico italiano, la Corte di appello individua, infatti, puntualmente gli atti di tortura cui è stato sottoposto Simone Renda: la reclusione immotivata, senza possibilità di difesa e in stato confusionale; Il trattenimento in cella oltre i termini di legge; l’assenza di quelle cure urgenti prescritte dal medico del penitenziario; lo stato di abbandono senza ricambio di vestiti, senza cibo e senza acqua. Da qui le condanne di tutti gli imputati, in concorso tra loro, per omicidio volontario e tortura.