Gherardo Colombo: "carcere? meglio la giustizia riparativa" di Silvia Pagliuca Corriere del Trentino, 3 marzo 2017 "Chiudere 4 persone in 12 metri quadri è tutto fuorché rieducativo". "Mi hanno insegnato che il carcere è fondamentale, ma sono convinto che non sia così". Gherardo Colombo, ex magistrato noto per aver condotto le inchieste sulla Loggia P2 e su Mani Pulite, è intervenuto ieri al Museo Diocesano Tridentino di Trento per riflettere sul valore del carcere. Lui, che da "magistrato pentito", afferma di non credere più nella punizione, "perché troppo spesso fa rima con vendetta e la vendetta non ha nulla a che fare con la giustizia". Sono numerosi, infatti, i risvolti psicologici con cui si accompagna una sentenza, le motivazioni istintive con cui le vittime apprendono che i colpevoli sono stati condannati. "Pochi, però, si chiedono se davvero quella pena servirà a scongiurare ulteriori delitti" precisa Colombo nel corso della lectio (seguitissima!) tenuta in concomitanza con la mostra organizzata dal Museo, "Fratelli e sorelle. Racconti dal carcere", estesa fino al prossimo 2 maggio. Un’esposizione che svela la realtà penitenziaria, spesso poco conosciuta o volutamente oscurata. Realtà in cui vivono, oggi, quasi 55.000 persone, delle quali 18.900 in custodia cautelare, 19.800 con una pena residua inferiore ai 3 anni (che dunque potrebbero accedere alle misure alternative), un terzo con problemi di tossicodipendenza e moltissimi con età inferiore ai 29 anni. Ma soprattutto, un mondo in cui tornano 7 persone su dieci. Il 70% dei detenuti, infatti, una volta uscito dal carcere, riprende a delinquere. "La detenzione per come la intendiamo oggi in Italia non ha alcun tipo di efficacia. Come potrebbe? - riflette Colombo - Rinchiudere 4 persone in una cella di 12 metri quadri, senza possibilità di contatto con l’esterno e con l’abolizione totale di ogni forma di affettività, è tutto fuorché civile e rieducativo". E ciò anche considerando che sul totale dei detenuti, appena 1.600 sono gli ergastolani, circa 500 i condannati ogni anno per omicidio. Perché, dunque, la pena non ha effetto neanche su chi commette reati poco gravi? Nella maggior parte dei casi, come mostrano i dati, i responsabili dei reati non vengono riabilitati ma semplicemente repressi, innescando così un vero e proprio moltiplicatore della recidiva. Ma cambiare si può. "Ci sono delle strade più efficaci, già sperimentate nei paesi del Nord Europa. Una di queste è la "giustizia riparativa" - suggerisce l’ex magistrato - un modello che prevede, con la presenza di esperti, un avvicinamento progressivo tra vittima e colpevole". Così facendo, verrebbe meno il concetto di pena, sostituito da quello di ravvedimento. "È un percorso difficile ma che quando è stato attuato, ha portato ad altissime percentuali di soddisfazione, sia per il reo che non è tornato a delinquere, sia per la vittima che non ha ottenuto una semplice vendetta, ma che ha partecipato a una vera e propria "guarigione psicologica" del colpevole" assicura Colombo. Pratiche, dunque, che poco hanno a che fare con le celle e con i tribunali e che, invece, potrebbero incoraggiare un radicale rinnovamento della società. Corrispondenza detenuti. Orlando: Ministero approfondirà denuncia Procuratore di Bari Agenpress, 3 marzo 2017 "La questione sollevata dal procuratore della Repubblica di Bari, Giuseppe Volpe, sulla corrispondenza cartolare per i detenuti, non intercettabile per garantire la tutela della riservatezza personale, merita di essere attentamente valutata. Ho chiesto ai miei uffici di approfondirne lo studio per poi verificare l’opportunità di un intervento normativo. Se oggi, come denunciato dal procuratore della Repubblica, la disciplina processuale impedisce la necessaria efficacia delle investigazioni, specie in riferimento ai fatti criminali più gravi, occorre che la legge se ne faccia carico. Si tratta di mettere in campo una soluzione che sappia coniugare al meglio le esigenze di tutela dei diritti, nel caso in esame del diritto alla segretezza della corrispondenza, con il bisogno di assicurare incisività alle indagini e ai processi". Lo afferma, in una nota, il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Angioni (Pd): traduttori arabo nelle carceri, per migliorare monitoraggio anti-terrorismo senatoripd.it, 3 marzo 2017 "La sottosegretaria alla Giustizia Federica Chiavaroli ha oggi assicurato, rispondendo ad una mia interrogazione nell’Aula del Senato, che l’amministrazione della Giustizia del nostro Paese opera affinché sia ridotto al minimo il rischio di proselitismo jihadista nelle carceri italiane. Avevo sottoposto al Ministero il caso concreto degli istituti penitenziari di Sassari e di Nuoro, che da soli ospitano circa il 60 per cento dei detenuti in Italia per reati legati al terrorismo jihadista. Credo che le misure di prevenzione e controllo attuate, illustrate oggi dal Ministero, siano adeguate". Lo dice il senatore del Pd Ignazio Angioni, eletto in Sardegna. "Per prevenire il proselitismo di matrice jihadista - prosegue Angioni - i detenuti per reati terroristici vengono tenuti in regime di alta sicurezza, separati dai detenuti comuni e costantemente monitorati, anche nei contatti con l’esterno, e in sinergia con le Direzioni nazionale antiterrorismo e antimafia per rilevare indicatori di radicalizzazione. Credo tuttavia che sia necessario potenziare l’azione su due fronti. Il primo riguarda la presenza di traduttori dall’arabo nelle carceri, assolutamente necessaria e attualmente prevista soltanto su richiesta e previa stipula di convenzioni. Le Direzioni Penitenziarie assicurino nelle carceri di Sassari e Nuoro un congruo numero di traduttori con la stipula di convenzioni con gli interpreti accreditati presso i Tribunali, attingendo dagli appositi capitoli di spesa e applicando la circolare del 7 dicembre 2016 del Ministero di Grazia e Giustizia. Se le dotazioni non sono sufficienti sia il Ministero ad intervenire direttamente. Il secondo fronte riguarda politiche di controllo e di prevenzione nei territori limitrofi alle carceri che ospitano questi detenuti, che possono essere pericolosi e avere una fama che travalica anche i confini nazionali". Braccialetti elettronici, ce ne vorrebbero almeno il doppio di Riccardo Polidoro* Il Dubbio, 3 marzo 2017 Ai duemila già disponibili, con vecchia tecnologia operativa, se ne aggiungeranno altri mille all’avanguardia, ma difficilmente potranno diminuire il sovraffollamento delle carceri. La notizia che tre società di telecomunicazione sono state ammesse al bando per la fornitura, installazione ed attivazione di mille braccialetti elettronici, merita attenzione sotto un triplice profilo. L’enorme ritardo, la quantità e la qualità dei dispositivi. L’Unione Camere Penali, con il proprio Osservatorio Carcere, ha denunciato da tempo la mancata applicazione dell’art. 275 bis del codice di procedura penale nonostante l’enorme costo sostenuto dallo Stato pari a milioni di euro. In questi ultimi anni, ha poi evidenziato la sua parziale attuazione, per il numero limitato di apparecchiature, solo 2.000. Nel marzo 2015, grazie al lavoro dei Referenti delle Camere Penali territoriali è stata realizzata una statistica nazionale sull’uso dei braccialetti elettronici, con risultati sorprendenti. Le Autorità Giudiziarie, chiamate a provvedere sulle istanze di scarcerazione, con richiesta di arresti domiciliari con controllo a distanza, decidono - in mancanza del dispositivo - con modalità diverse e contrastanti tra loro: a) lasciando la custodia in carcere; b) lasciando la custodia in carcere, ma con l’inserimento in una sorta di lista di attesa a tempo; se entro il termine indicato non vi è disponibilità permane la custodia in carcere; c) ovvero arresti domiciliari senza braccialetto; d) arresti domiciliari con la prescrizione che non appena il dispositivo sarà disponibile verrà applicato; e) direttamente arresti domiciliari senza braccialetto. Tale situazione e soprattutto la permanenza in carcere di persone destinatarie di provvedimenti di scarcerazione non eseguiti per mancanza di dispositivi, indusse l’Unione Camere Penali a organizzare insieme alla Camera Penale di Firenze, il 30 novembre 2015 ed nello stesso giorno anche nel 2016, manifestazioni nazionali sul tema, con incontri e convegni. Nell’occasione i partecipanti indossavano un braccialetto con la scritta "+ braccialetti - carcere". L’iniziativa dei penalisti, fu portata in Parlamento da sedici senatori con interrogazioni ai ministri della Giustizia e dell’Interno. Se si tiene conto che la norma che prevede particolari modalità di controllo per chi si trova agli arresti domiciliari - l’art. 275 bis c. p. p. - risale al novembre del 2000, che per oltre dieci anni non ha trovato alcuna applicazione, con costi pari a milioni di euro, e che solo recentemente i magistrati l’applicano nei limiti consentiti dal numero degli apparecchi disponibili, si comprende come il tempo trascorso per indire la gara per nuovi dispositivi è davvero enorme. Ma comunque meglio tardi che mai. Quello che va immediatamente contestato è il numero esiguo di dispositivi. Incrementare solo di mille unità e, quindi, far giungere a tremila il numero di braccialetti disponibili attenuerà il problema, ma non risolverà del tutto l’ingiusta detenzione in carcere di coloro che non ne potranno usufruire, perché ben presto anche i nuovi mille dispositivi saranno tutti utilizzati. Continuerà, dunque, la disparità di trattamento, oggi esistente, tra chi può usufruire della particolare applicazione e chi, invece, dovrà restare in carcere per carenza di apparecchi. Per poter mettere a regime l’art. 275 bis c. p. p. ci vorrebbero almeno seimila braccialetti, il triplo cioè di quelli oggi disponibili, il doppio di quelli previsti quando (ma quando?) l’azienda vincitrice della gara li renderà operativi. Va poi chiarita la qualità tecnica dei dispositivi. Quelli in uso attualmente sono desueti ed è complicata la loro applicazione e gestione. Dalla lettura del bando di gara sembrerebbe che i nuovi braccialetti saranno strumenti utilizzabili non solo per gli arresti domiciliari. Si fa, infatti, esplicito riferimento al tracciamento e al tracciamento di prossimità. Nel primo caso per "seguire" il destinatario del provvedimento nel percorso assegnatogli, nel secondo per segnalare quando egli si avvicina alla vittima del reato, come nel caso del c.d. stalking. Quando finalmente avremo i nuovi braccialetti, dunque, ci saranno duemila dispositivi operativi con vecchia tecnologia e mille ci auguriamo all’avanguardia. Potrà questa situazione effettivamente contribuire a diminuire il sovraffollamento nei nostri istituti di pena? Come sempre si vuole svuotare l’oceano con un cucchiaino, anche contro qualsiasi ragionamento economico, perché un detenuto costa molto di più in carcere che controllato a distanza. Insomma, una parziale buona notizia, ma si doveva e si poteva fare molto di più. *Responsabile Osservatorio carcere Unione Camere Penali Italiane Intercettazioni, un argine contro le fughe di notizie di Errico Novi Il Dubbio, 3 marzo 2017 Le nuove regole fissate da via Arenula e inserite nel Ddl penale. Secondo i pm i virgolettati finiti sui giornali provenivano spesso dalle aziende fornitrici. Che ora saranno obbligate a cifrare i dati. Da un paio d’anni almeno il fenomeno si è attenuato. Visibilmente. Ma per un decennio o quasi le intercettazioni sono rifluite con sconcertante regolarità dal perimetro investigativo ai media. E per tutto quel lungo periodo ci si è chiesti, con un po’ di pigrizia, come potesse accadere. Ai vertici della magistratura inquirente circola un non detto, che fatica a sdoganarsi: il problema era anche, se non soprattutto, in alcune delle aziende che forniscono gli apparati. Ora tutto questo complicato universo di server e teleassistenza da remoto sta per essere messo in ordine. L’emendamento al ddl penale presentato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando punta a questo: definire criteri nelle spese per gli ascolti che garantiscano anche livelli elevati di sicurezza. Con una postilla non trascurabile: risparmiare circa 80 milioni di euro in 3 anni. Ecco il senso delle norme ora all’esame di Palazzo Madama. Quando martedì scorso la ministra per i Rapporti con il Parlamento Anna Finocchiaro ha annunciato il ritorno del ddl penale in commissione Giustizia, il retro pensiero dei senatori è stato di tutt’altro segno: affossano definitivamente la riforma del processo. Quell’emendamento su "norme per la razionalizzazione dei costi delle intercettazioni" ha destato sospetti. E invece si tratta di una iniziativa per la quale vale la pena di tenere il ddl ai box ancora un paio di settimane. Il testo non è altro che lo sviluppo normativo del tavolo di lavoro coordinato da Giovanni Melillo, capo di Gabinetto del guardasigilli. Vi hanno partecipato procura generale della Cassazione, Csm, Procura nazionale antimafia e una delegazione di procuratori della Repubblica di cui hanno fatto parte Giuseppe Pignatone (Roma), Armando Spataro (Torino), Giovanni Colangelo (Napoli, in pensione da pochi giorni) e Dino Petralia (" vice" di Franco Lo Voi a Palermo). Nei mesi scorsi era stato il Corriere della Sera a riferire di una circolare inviata da via Arenula a tutte e 140 le Procure ordinarie d’Italia, in cui tra l’altro si preannunciava lo schema normativo: sarà prevista, comunicava il ministero della Giustizia, la "obbligatorietà di trasmissione cifrata delle comunicazioni intercettate". E così stabilisce l’emendamento, in una chiave che preserva economicità e sicurezza: le società private che forniscono i server alle Procure saranno pagate secondo una tariffazione che riconosce compensi solo per la trasmissione cifrata dei dati. In questo modo le aziende fornitrici vengono di fatto obbligate a rispettare determinati standard di protezione, "in modo trasparente e uniforme". Le regole si applicheranno ai contratti stipulati da tutti gli uffici giudiziari. Fornitura di server e assistenza da remoto dovranno rispettare canoni prestabiliti. Si dovrebbero evitare così casi estremi come quello emerso nei mesi scorsi da un’indagine in seguito a un controllo ordinato dalla Procura di Trieste presso la società lombarda che le forniva i sistemi per gli ascolti: si scoprì che tabulati e registrazioni ordinati da decine di Procure erano salvati anche sul pc di un’impiegata della ditta fornitrice. Si arriverà a un risparmio di 80 milioni in 3 anni anche grazie all’introduzione di "costi standard": le prestazioni assicurate dai privati dovranno essere ricompensate secondo parametri uniformi in tutta Italia. Oggi non è così. Al ministero della Giustizia sanno bene che le nuove norme non faranno esultare le grandi ditte. Ma anche che si tratta di un’occasione irripetibile per garantire trasparenza e uniformità al sistema degli ascolti. Obiettivo fissato dall’ormai lontana Finanziaria 2008. In tutti questi anni i privati sono diventati i "padroni di fatto" dello strumento investigativo. E spesso hanno custodito, indebitamente, dati e registrazioni. Con le nuove regole non dovrebbe accadere più. Si verrebbe anche incontro alle raccomandazioni del Garante della privacy sulla necessità di proteggere in modo più affidabile i dati personali. E certamente si offre al Parlamento un’altra buona ragione, forse decisiva, per approvare il tormentato ddl sul processo penale. Un processo che dura 20 anni è già una "pena", non serve allungare la prescrizione di Raffaele Minieri* e Michele Capano** Il Dubbio, 3 marzo 2017 La riforma penale deve avere come obiettivo quello di velocizzare i procedimenti, introducendo strumenti che siano in grado di rendere più efficiente il sistema. A qualche giorno di distanza dallo scalpore suscitato dalla notizia della conclusione con la prescrizione di un processo che riguardava un episodio di violenza sessuale a Torino, c’è l’occasione per un paio di utili precisazioni che vadano al di là della facile caciara demagogica e giustizialista. In primo luogo è bene ricordare che la Costituzione, strenuamente difesa negli ultimi mesi, prevede il principio della presunzione d’innocenza dell’imputato finché non sia passata in giudicato una sentenza di condanna. Affermare che un imputato "si è salvato grazie alla prescrizione" è sbagliato anzitutto perché anche il "presunto violentatore" è considerato ancora innocente dalla Costituzione e quindi dal codice di procedura penale, altrimenti tanto varrebbe abolire il diritto all’appello. In secondo luogo quella stessa Costituzione prevede il principio della ragionevole durata del processo, che va compreso nella sua portata culturale e civile, prima ancora che processual-penalistica, e magari proprio alla luce della vicenda di Torino. Quale senso avrebbe avuto una condanna a distanza di 20 anni dai fatti? La vittima degli abusi aveva già dichiarato che non voleva sapere più nulla dell’intera vicenda, e non è difficile comprendere il perché. Dopo tanto tempo è piuttosto naturale che non abbia nemmeno più interesse alla condanna, e del resto - qualsiasi fosse la pena - non potrebbe comunque sentirsi soddisfatta. D’altro canto, pur a voler concedere che l’imputato fosse colpevole, quei 20 anni lo avranno reso una persona diversa, nelle condizioni di vita, nella mentalità. La punizione non colpirebbe chi ha commesso il reato ma un altro uomo. Il problema non è, quindi, che un possibile colpevole non sia stato punito ma che quella condanna - a distanza di tanto tempo - sarebbe stata del tutto priva di significato. Ma c’è un altro aspetto da valorizzare: il processo è - in sé una "pena". Colpevoli o innocenti, per stare all’esempio torinese, si vive per 20 anni senza poter programmare con serenità un mutuo, un matrimonio o una paternità, senza poter partecipare ad un concorso pubblico, con enormi difficoltà per trovare un lavoro, con mille diffidenze di vicini di casa o nuovi amici. Per questo la durata del processo deve essere ragionevole, e per questo la prescrizione rappresenta un presidio di questa "ragionevolezza". In un Paese in cui la maggior parte dei reati si prescrive durante le indagini, cioè ben prima di qualsiasi intervento difensivo, allungare o eliminare la prescrizione è la risposta sbagliata. L’esperienza comune ci dice da un lato che proprio con l’avvicinarsi dei termini di prescrizione gli uffici giudiziari iniziano a fissare udienze a tamburo battente e dall’altro che quando c’è tempo il processo si dilata e diventa infinito, un po’ come è successo a Torino. Allungare la prescrizione vuol dire solo maggiore durata dei processi ed eventuali condanne ancora più lontane nel tempo, con il rischio che la morte dell’imputato sia più veloce della prescrizione. La riforma del processo penale in discussione in Parlamento, allora, non deve avere come obiettivo di allungare i processi ma di velocizzarli anche con l’introduzione di strumenti (come l’Ufficio del Processo caldeggiato da Radicali Italiani) in grado di rendere più efficiente il sistema giustizia. *Membro della direzione di Radicali Italiani **Tesoriere di Radicali Italiani Femminicidi. Stop al diritto alla pensione di reversibilità e nessuna eredità agli indegni di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 3 marzo 2017 Approvata alla camera la proposta di legge sugli orfani da crimini domestici. Va al senato. Stop automatico all’eredità per gli indegni. Sia per l’autore di crimini domestici sia per chi falsifica testamenti e negli altri casi di indegnità. È quanto prevede la proposta di legge A.C. 3772, approvata dalla camera il 1° marzo 2017, sulle tutele per i fi gli rimasti orfani a seguito di un crimine domestico. Il provvedimento, che passa ora all’esame del senato, dà strumenti di tutela alle vittime: tutele giudiziali (gratuito patrocinio, provvisionale, sequestro conservativo di beni, adozioni speciali), tutele previdenziali (pensione di reversibilità), tutele sanitarie (esenzione da oneri), assistenziali (interventi di aiuto e sostegno), e tutele economiche (fondi speciali). La proposta di legge completa il quadro con norme che vogliono far cessare alcune beffe e, in particolare, la possibilità che il carnefice passi dalla cassa a ritirare i beni del morto, ai danni di altri ben più meritevoli. Chi è indegno va automaticamente escluso, senza che gli altri eredi debbano necessariamente fare causa spendendo tempo e soldi. Vediamo, dunque, che cosa potrà capitare in base alle nuove regole. No eredità per gli indegni. Nella fase delle indagini è sospesa la chiamata all’eredità dell’indagato per il delitto, anche tentato, di omicidio del coniuge (anche legalmente separato) o di omicidio dell’altra parte di un’unione civile. La sospensione dura fino al decreto di archiviazione o alla sentenza definitiva di proscioglimento. Nel frattempo l’eredità è gestita da un curatore. Se si arriva a sentenza di condanna l’indegnità a succedere è automatica. Il disegno di legge attribuisce, infatti, al giudice penale, tanto in sede di condanna, quanto in sede di patteggiamento della pena, il compito di dichiarare l’indegnità a succedere: si evita agli altri eredi di dover promuovere un’azione civile per ottenere lo stesso risultato. Lo stesso automatismo scatta anche in caso di patteggiamento. Tutto ciò (sospensioni ed esclusioni dall’eredità) si applicano anche all’indagato per omicidio volontario o tentato di uno o entrambi i genitori, del fratello o della sorella. Le disposizioni non riguardano esclusivamente i crimini domestici. Il disegno di legge inserisce l’articolo 537-bis codice di procedura penale, in base al quale, quando pronuncia sentenza di condanna per uno dei fatti per i quali l’articolo 463 codice civile prevede l’indegnità, il giudice penale dichiara l’indegnità a succedere. Quindi strada sbarrata non solo per l’omicida o tentato omicida, ma anche per l’autore di calunnie, di false testimonianze ai danni del de cuius o di fatti di induzione, con dolo o violenza, a fare, revocare o mutare il testamento, e per il responsabile di soppressione, celamento o alterazione o falsificazione di testamento e uso di testamento falso. Reversibilità. La proposta sospende il diritto alla pensione di reversibilità a partire dalla richiesta di rinvio a giudizio dell’indagato. In caso di sospensione della pensione di reversibilità si prevede il subentro nella titolarità della quota del genitore rinviato a giudizio i figli minorenni o economicamente non autosufficienti che siano anche figli della vittima. Atti di violenza domestica, Italia punita per omissione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2017 Corte europea dei diritti dell’uomo - Sezione I - Sentenza 2 marzo 2017 n. 41237/12. La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per non aver agito con sufficiente rapidità per proteggere una donna e suo figlio dagli atti di violenza domestica posti in essere dal marito, che condussero all’assassinio del ragazzo e al tentato omicidio della moglie. I giudici di Strasburgo, la cui sentenza diverrà definitiva fra 3 mesi se le parti non faranno ricorso, hanno stabilito che "non agendo prontamente in seguito a una denuncia di violenza domestica fatta dalla donna, le autorità italiane hanno privato la denuncia di qualsiasi effetto creando una situazione di impunità che ha contribuito al ripetersi di atti di violenza, che in fine hanno condotto al tentato omicidio della ricorrente e alla morte di suo figlio". La Corte ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e 14 (divieto di discriminazione) della convenzione europea dei diritti umani. I giudici hanno riconosciuto alla ricorrente 30mila euro per danni morali e 10mila per le spese legali. Si tratta della prima condanna dell’Italia da parte della Corte per un reato relativo al fenomeno della violenza domestica. Il caso si riferisce a quanto avvenuto a Remanzacco, in provincia di Udine, il 26 novembre del 2013 quando il marito - ora in prigione - di Elisaveta Talpis uccise il figlio diciannovenne e tentò di uccidere anche la madre. Tutto avvenne dopo che la signora aveva denunciato il marito e dopo ripetute richieste di intervento rivolte alle autorità anche da parte dei vicini. Dopo che la signora Talpis aveva presentato la sua denuncia, il 5 settembre 2012, per la violenza continuamente subìta dal marito, sottolineando una forte preoccupazione per il figlio e per la sua stessa vita, le autorità nazionali non avevano emesso alcun ordine di protezione, e la signora era stata interrogata soltanto 7 mesi dopo la denuncia. Un ritardo, osserva la Cedu, che ha privato la ricorrente di protezione immediata. Le autorità nazionali avrebbero dovuto tener conto della situazione di grande insicurezza e vulnerabilità della ricorrente. Omettendo di intervenire rapidamente, invece, hanno privato la denuncia di qualsiasi effetto, creando una situazione di impunità che ha favorito il ripetersi degli atti di violenza. Ed anche se la polizia era intervenuta due volte durante la notte, non aveva però preso alcuna misura per fornire una adeguata protezione alla vittima. E, in considerazione della possibilità della polizia di fare controlli in tempo reale sulla fedina penale del marito, la Corte ha ritenuto che la polizia non poteva escludere l’imminente esecuzione della minaccia. Accuse cui in serata ha in qualche modo replicato il procuratore di Udine Antonio De Nicolo, che all’epoca dei fatti non era alla guida dell’ufficio friulano ma coinvolto successivamente dal ministero della Giustizia per fornire osservazioni a sostegno delle tesi del Governo. De Nicolo sottolinea che la donna aveva sì presentato denuncia, ma poi si era allontanata dal centro antiviolenza; inoltre, all’archiviazione dell’accusa di maltrattamenti si arrivò anche per una sorta di ridimensionamento dei fatti da parte della donna. La condanna con rito abbreviato preclude a successive eccezioni di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2017 Corte di cassazione - Sezione VI Penale - Sentenza 2 marzo 2017 n 10444. Il soggetto che venga condannato con rito abbreviato non può eccepire successivamente delle irregolarità legate alla mancata traduzione nella propria lingua. La Cassazione con la sentenza n. 10444/2017 ha precisato, infatti, che il convenuto è tenuto a eccepire le violazioni di legge prima del giudizio. Cosa prevede il Dlgs 32/2014 - Secondo la direttiva 2010/64/Ue cui è stata data attuazione con Dlgs 4 marzo 2014 n. 32, la mancata nomina di un interprete all’imputato che non conosce la lingua italiana dà luogo a una nullità a regime intermedio, che deve essere eccepita dalla parte prima del compimento dell’atto, ovvero, qualora ciò non sia possibile, immediatamente dopo, e che comunque non può più essere rilevata né dedotta dopo la deliberazione della sentenza di primo grado e, se si sia verificata nel giudizio, dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo. Quindi la mancata e tempestiva deduzione della nullità ex articolo 182, commi 2 e 3 del cpp e comunque l’operata scelta processuale di accesso al rito abbreviato per fatti concludenti, "nel silenzio serbato in ordine ai pregiudizi subiti da mancata assistenza dell’interprete nelle pregresse fasi, dimostrano una carenza di interesse del prevenuto all’osservanza della disposizione violata e legittimano un epilogo processuale di non deducibilità del richiamata vizio secondo quanto disposto dall’articolo 182, comma 1 del cpp". Ma non è tutto. E questo perché quando si lamenta la mancata assistenza di un interprete nello svolgimento del processo e nei contenuti degli atti (come avvisi o sentenze), qualunque sia il momento destinato a essere valutato, è onere dell’imputato che sollevi la richiamata eccezione di precisare quale sia stato il pregiudizio sofferto al diritto di difesa, allegando le lacune difensive determinate da una specifica non conoscenza dell’atto. Questo quanto affermato dalla Cassazione in merito alla tardività delle eccezioni sollevate. Bocciata anche la lieve entità - La Corte, poi, ha precisato come nel merito non fosse da rivedere il giudizio di colpevolezza del convenuto in merito alla detenzione di 250 grammi di cocaina. Inammissibile, pertanto, la pretesa della lieve entità (ex articolo 73, comma 5, del Dpr 309/1990) viste le dosi ottenibili con quel quantitativo di droga. Respinta, inoltre, l’eccezione sollevata sulla non colpevolezza della moglie dell’imputato che dalla sua aveva eccepito di non sapere nulla della sostanza stupefacente trovata nella sua borsa. Questo perché - si legge nella sentenza - la donna non poteva non sapere visto che aveva trascorso una notte in albergo e che al momento dell’occultamento (avvenuto a pochi istanti dall’inizio del viaggio in macchina) fosse caduta in uno stato di sonno così profondo da non ricordare nulla a tal proposito. Anche sul punto quindi la Cassazione ha ritenuto la piena legittimità della sentenza dei giudici di merito. Contro la repubblica fondata sulle procure di Claudio Cerasa Il Foglio, 3 marzo 2017 Se l’Italia non fosse una democrazia malata, nella quale il popolo si è ormai rassegnato a esercitare la sua sovranità solo nelle forme e nei limiti decisi dalle procure italiane e in cui i partiti si sono ormai abituati a combattere battaglie politiche solo a colpi di veline giudiziarie, oggi dovrebbe succedere una serie di cose che non accadrà. Silvio Berlusconi dovrebbe denunciare l’assalto giudiziario contro Matteo Renzi. Andrea Orlando dovrebbe mandare ispettori nelle procure di Roma e di Napoli. I talk-show dovrebbero fare una campagna coraggiosa contro un reato folle chiamato traffico di influenze e dovrebbero raccontare come sia possibile che i finanziamenti leciti di privati versati alla politica (diventati fondamentali nell’epoca dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti) vengano trasformati in finanziamenti moralmente illeciti. Matteo Renzi dovrebbe mettere in luce l’assassinio politico (copyright Fillon) che il circo mediatico-giudiziario sta tentando di portare avanti nei suoi confronti. I giornali dovrebbero chiedersi se non ci siano tracce di un pregiudizio politico nella sentenza di primo grado ricevuta ieri da Denis Verdini per bancarotta e truffa ai danni dello stato che come anni di condanna (9, la richiesta dei pm era 11) supera quelli ricevuti da Michele Misseri nell’ambito del processo per Sarah Scazzi per occultamento di cadavere e inquinamento delle prove (8 anni) e quelli ricevuti da Abderrahim Moutaharrik, il campione di kickboxing arrestato nell’aprile 2016, condannato a sei anni di carcere con l’accusa di terrorismo internazionale. La stampa libera, infine, piuttosto che trasformare ogni indagine in una sentenza di condanna, dovrebbe forse interrogarsi su come sia possibile considerare condannato fino a prova contraria un uomo indagato per essere stato identificato come possibile destinatario di una somma di denaro mai ricevuta in base a una lettera T trovata in un pizzino strappato in mille pezzi e ricostruito in laboratorio mettendo insieme scarti della nettezza urbana con la stessa tecnica investigativa, si apprende da fonti giudiziarie, "impiegata dal Fbi per incastrare il boss di New York Joe Bonanno". Un arresto è sempre un arresto, anche se non tutti gli arrestati sono sempre coccolati come il plurilaureato Raffaele Marra, e una sentenza di condanna è sempre una sentenza di condanna, anche se i gradi di giudizio sono tre e anche se si è sempre innocenti fino a sentenza definitiva - e forse questo dovrebbe valere anche per Alfredo Romeo, che anni fa passò 79 giorni a Poggioreale e che dopo essere stato condannato in primo e secondo grado, in una vicenda che ricorda quella in cui si ritrova immischiato oggi (sia all’epoca sia oggi finito in una storia relativa ad appalti mai vinti, nel 2008 l’appalto per il quale finì in galera nemmeno partì) venne assolto in Cassazione, guadagnandosi tempo dopo, il 16 maggio del 2015, persino una poderosa e riparatrice intervista sul Fatto con Marco Travaglio. Ai giornali, in realtà, le inchieste interessano fino a un certo punto. Interessano solo nella misura in cui un’inchiesta, un’indagine, con il suo pizzino strappato trovato in una discarica, se curvata nel modo giusto può aiutare a togliere definitivamente di mezzo lui, ovviamente: l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi. A maggio dello scorso anno questo giornale pubblicò in prima pagina uno schema che raffigurava un disegno della tensione che fotografava il tentativo progressivo portato avanti da molte procure italiane - en marche! - di avvicinarsi all’ex premier per via giudiziaria (prima ancora che Luca Lotti venisse indagato per favoreggiamento e rivelazione di segreto istruttorio, tipologia di reato quest’ultima utilizzata spesso contro i politici e mai contro i magistrati che passano notizie agli amici giornalisti). Basterebbe ricordare l’inchiesta su Tempa Rossa, scoppiata a pochi giorni dal referendum sulle trivelle, di cui oggi si sono perse le tracce. Basterebbe ricordare l’indagine aperta dalla procura di Firenze con un fascicolo senza indagati sulla famosa casa prestata a Renzi. Basterebbe ricordare il modo inusuale con cui il ministro Boschi venne ascoltato ancora su Tempa Rossa. Basterebbe ricordare l’iscrizione di Magistratura democratica al comitato del No al referendum costituzionale. Basterebbe ricordare l’altra indagine su papà Renzi, bancarotta, terminata con una richiesta di archiviazione da parte dei pm (richiesta accolta dai giudici della procura di Genova dopo dieci mesi di incomprensibile graticola). Servirebbe prudenza, ma forse non solo quella. Servirebbe una grande battaglia contro la tendenza odiosa del sistema italiano a fare sistematicamente il contrario di quello che dovrebbe fare in un paese governato dalle procure. In cui ogni anno lo stato paga 42 milioni di euro per errori giudiziari e ingiusta detenzione e in cui ogni anno arriva una denuncia dell’Europa sull’eccessiva politicizzazione del nostro sistema giudiziario che mette a rischio costantemente "i principi fondamentali di indipendenza e imparzialità della magistratura", come ricordato poche settimane fa dal Groupe d’Etats contre la Corruption gestito dal Consiglio d’Europa. Nulla di tutto questo accade, nulla di tutto questo accadrà oggi. Lo sputtanamento sarà senza fine, i pizzini verranno scambiati per prove provate. Le condanne verranno utilizzate come strumenti per combattere per via giudiziaria quelle che dovrebbero essere battaglie politiche. I giornali specializzati nel costruire nebbia continueranno a chiedere ai politici infilati nella nebbia (Rep. di ieri) di uscire dalla nebbia e nessuno cercherà invece di raccontare le cose per quello che sono, rispettando quello che prevede la Costituzione più bella del mondo all’articolo 27 e ricordando che l’Italia vive in una condizione drammatica perfettamente descritta dal professor Sabino Cassese in un capitolo del suo ultimo libro pubblicato oggi sul Foglio: "La situazione italiana della giustizia civile e di quella penale è drammatica. Le procure debordano sia invadendo campi a loro estranei, sia utilizzando - attraverso l’uso distorto di intercettazioni e custodia cautelare - procedure poco produttive sul piano processuale ma molto efficaci nel circuito politico e dell’opinione pubblica. Gli effetti principali di questi interventi si producono nel campo della politica e dell’amministrazione. Sulla prima, l’azione accusatoria ha l’effetto di stimolare la sfiducia nell’elettorato. Sulla seconda ha un effetto di spiazzamento, nel senso che in questo modo i decisori di ultima istanza nelle scelte più importanti riguardanti problemi sociali, ambientali, di sviluppo urbanistico diventano le procure, in luogo degli organi rappresentativi e degli uffici burocratici. Un ultimo effetto di questo processo vizioso è quello per cui i procuratori sono proiettati nello spazio pubblico, dove sono ascoltati più per i poteri di cui dispongono che per quello che pensano, e divengono i naturali candidati alle posizioni di vertice di quella politica dalla quale dovrebbero restare distanti per dovere d’ufficio. I conflitti con il corpo politico, nonostante la mancata modernizzazione del sistema giudiziario in Italia, sono numerosi: molti fisiologici, perché la giustizia costituisce un naturale limite della politica; alcuni patologici, perché la giustizia non risponde al compito fondamentale che è chiamata a svolgere (giustizia ritardata è giustizia negata)". In una democrazia malata, in cui il popolo si è rassegnato a esercitare la sua sovranità nelle forme e nei limiti decisi delle procure italiane, i partiti e i giornali liberi invece che alimentare il circo dovrebbero sforzarsi di fare il contrario di quello che faranno oggi: combattere battaglie politiche a colpi orrendi di veline giudiziarie. Isernia: il Dap smentisce le voci sulla chiusura del carcere di Valentina Stella Il Dubbio, 3 marzo 2017 È scontro tra i sindacati di polizia penitenziaria sulla possibile chiusura del carcere di Isernia. Da una parte Aldo Di Giacomo, segretario di Spp (Sindacato Polizia Penitenziaria) che lancia l’allarme per una imminente eliminazione della casa circondariale molisana dalla mappa delle carceri italiani, dall’altra parte Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria), che smentisce categoricamente la notizia. Secondo i dati del ministero della Giustizia Isernia ospita 54 detenuti, a fronte dei 38 posti regolamentari, e dà lavoro a 35 agenti penitenziari. Una realtà dai piccoli numeri dunque ma come stanno veramente le cose? Abbiamo interpellato Di Giacomo, a margine di una conferenza stampa che ha convocato dinanzi alla prefettura di Campobasso, per accendere i riflettori sulle difficili condizioni delle carceri molisane; in particolare sull’assenza di un presidio medico h24 nell’istituto di pena di Campobasso, dove sono reclusi una settantina di detenuti con alcol dipendenze, tossico dipendenze e problemi psichiatrici. "Il governo - ha detto a Il Dubbio Di Giacomo sta attuando un piano di razionalizzazione delle dirigenze in primis, e successivamente dei piccoli uffici che risultano inutili o quantomeno troppo cari. In Molise è stato chiuso il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, hanno tolto il dirigente e adesso c’è un unico Provveditorato che raggruppa Abruzzo, Molise e Lazio. Tra le più piccole realtà dell’amministrazione penitenziaria c’è quella di Isernia. Noi, come sindacato, non vogliamo lamentarci a cose fatte, cioè quando il carcere verrà chiuso, ma vogliamo scongiurare questa eventualità". La proposta dell’Spp è quella di realizzare a Isernia "un centro clinico di eccellenza per alcune malattie. A breve presenteremo un progetto affinché possa diventare un carcere di eccellenza che accoglierà detenuti di tutta Italia con particolari patologie. Le strutture come Isernia se non valorizzate non hanno motivo di esistere. Il prossimo passo è quello di creare un tavolo di lavoro con la Regione che può mettere a disposizione alcuni fondi". Di tutt’altro avviso Donato Capece secondo il quale si tratta di "solo voci incontrollate". Anche dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, interpellato da Il Dubbio, arriva una smentita: "Non ci sono previsioni di chiusura della casa circondariale di Isernia". Napoli: carcere di Secondigliano, cambia la direzione e parte il toto-nomi di Claudia Procentese fanpage.it, 3 marzo 2017 L’avvicendamento ai vertici dopo la nomina dell’attuale direttore Guerriero a provveditore regionale di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. Selezioni dei candidati in tutta Italia per l’istituto di via Roma verso Scampia. Cambio al vertice nella direzione del carcere di Secondigliano. Liberato Guerriero lascia l’istituto di via Roma verso Scampia per assumere l’incarico superiore di provveditore di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. La nomina a dirigente generale dell’amministrazione penitenziaria reca la data del 23 gennaio scorso, ma in questi giorni si attende l’ufficialità della nuova assegnazione di sede torinese. Nel frattempo è già partito il toto-nomi sul suo successore. Le prime voci di corridoio davano per favorito il direttore di Sant’Angelo dei Lombardi, Massimiliano Forgione, che, però, avrebbe smentito la sua candidatura per motivi personali. Fatto sta che i candidati verranno scelti in tutta Italia tra quelli che presenteranno domanda entro i prossimi trenta giorni. Indiscrezioni vogliono papabili i campani Giulia Russo, direttrice dell’Ufficio sicurezza e traduzioni, Carlotta Giaquinto, direttrice a Santa Maria Capua Vetere, Stefano Martone, direttore a Salerno. Ma la partita è aperta e si giocherà sul campo nazionale, mentre a Secondigliano si pensa ad una reggenza temporanea interna, da affidare ad un vicedirettore più anziano, durante i mesi di procedure per l’avvicendamento. Intanto Guerriero, in attesa del provvedimento che lo riguarda e che sarebbe già stato firmato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, ma richiede ancora il visto della Corte dei conti, commenta schivamente lasciti passati e sfide future. "La partecipazione ad uno spettacolo con i detenuti sarà probabilmente più rara per un provveditore - confessa a margine, oggi pomeriggio, dell’inaugurazione di un’audio-teca nell’istituto. Di certo il carcere di Secondigliano si è caratterizzato in questi ultimi anni per un’attenzione ai bisogni, partendo dall’ascolto, senza tralasciare ovviamente l’aspetto sicurezza. E per questo devo ringraziare tutte le sue componenti, polizia, educatori, funzionari, volontari. E l’area sanitaria con cui abbiamo vissuto la riforma del 2008 ed il delicato passaggio della sanità penitenziaria alle Asl territoriali. Al centro del nostro operato c’è stato sempre l’obiettivo di costruire serenità per chi vive in cella e chi vi lavora". Cinquantacinque anni, Guerriero ha una lunga carriera alle spalle che lo ha visto impegnato nella gestione di varie carceri campane, da Benevento a Santa Maria Capua Vetere, Sant’Angelo dei Lombardi, fino ad approdare nell’aprile del 2007 a Secondigliano. Dieci anni in cui il centro penitenziario ubicato nella periferia nord di Napoli si è trasformato in istituto di massima sicurezza. Costruito nel 1991, oggi ospita circa 1300 detenuti su una capienza regolamentare di 900. Quattro sezioni, di cui tre riservate, per l’appunto, al regime di alta sicurezza. Bari: droga e telefonini dietro le sbarre, ecco tutti i trucchi. "Qui c’è l’inferno" di Mara Chiarelli La Repubblica, 3 marzo 2017 C’era un tempo in cui, in carcere ci potevi trovare di tutto. Inchieste della magistratura accertarono, negli anni Ottanta e Novanta, che i regolamenti di conti portati a termine con esito positivo si festeggiavano, in cella, con bottiglie di champagne, tirate di cocaina e costosi sigari. Poi arrivarono gli arresti e i sequestri, gli scandali che travolsero anche la polizia penitenziaria, in quel tempo al soldo dei boss. E il traffico di "beni" tra carcere e mondo esterno, subì un ridimensionamento. Mentre, di pari passo, non è mai stato interrotto il passaggio di ordini e comunicazioni tra detenuti e affiliati tramite pizzini e cartoline, come ha documentato l’ultima operazione dei carabinieri contro il clan Strisciuglio. Ma, come denunciano da anni i sindacati della polizia penitenziaria, quella della corrispondenza non è l’unica falla nel sistema carcerario. Che, al contrario, troppo spesso somiglia piuttosto a un colabrodo: droga, in particolare, il traffico più frequente, ma anche telefonini e schede telefoniche. Numerosi gli escamotage studiati nel corso del tempo, realizzati con il favore di parenti e sodali, a volte anche con la collaborazione di guardie carcerarie, solo in parte scoperti durante perquisizioni o indagini disposte dalla magistratura. E, su tutto, la fatica di agenti penitenziari, in numero insufficiente a coprire tutte le sezioni degli istituti. Il metodo più ricorrente, negli anni, è sempre stato quello di lanciare i pacchetti contenenti le sostanze stupefacenti oltre le mura dal carcere. E questo avviene in particolare nella struttura barese, confinante con abitazioni private e, da un lato, con una strada di scorrimento. Il più delle volte, però, non raggiungono l’obiettivo e cadono nell’intercinta del carcere dove altri detenuti lavoranti, cercando di eludere la vigilanza si adoperano per recuperarla e consegnarla poi agli interessati. Altre volte i pacchetti finiscono sui terrazzini adiacenti la prima sezione. Da lì poi vengono recuperati con rudimentali strumenti formati da scope a cui viene attaccato uno specchio per localizzare gli involucri. Negli ultimi tempi, però, hanno affinato la strategia: gli affiliati in libertà recapitano la droga tramite piccoli droni che volano sugli spazi interni e lasciano cadere i pacchi, che poi vengono recuperati dai detenuti lavoranti. Un sistema fiorente grazie al fatto che alcune mura di cinta sono scoperte, soprattutto di notte, per la cronica carenza di polizia penitenziaria. "Nella regione la maggior parte degli istituti - denuncia a tal proposito Federico Pilagatti, segretario nazionale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria - non ha attivata una sala regia con telecamere che dovrebbero controllare l’interno e l’esterno, nonostante milioni di euro spesi per le sale regia. È il caso di Bari e Foggia dove non sono mai state rese funzionanti". Un’altra buona parte delle consegne, registrano gli stessi agenti, avviene durante i colloqui con i familiari: unico momento in cui entrano in azione le tre unità cinofile, messe a disposizione per i controlli nei dieci istituti detentivi pugliesi. E che partecipano a perquisizioni personali o nelle celle solo su segnalazione. Nonostante i cani antidroga si aggirino nello spazio destinato ai colloqui, molto spesso cocaina, hashish e marijuana riescono a passare nelle mani dei detenuti. La droga entra in carcere nei tacchi di scarpe nuovissime (e per questo insospettabili) e negli orli dei pantaloni o, "in casi meno frequenti - racconta Pilagatti - con magliette e jeans intrisi di acqua mescolata alla sostanza stupefacente. Il detenuto poi, inverte l’operazione e facendo evaporare l’acqua, recupera la sostanza". Ci sono, ancora, i granuli nascosti nelle lettere e, dulcis in fundo, le dosi passate con il bacio dei saluti, magari attaccate a un chewing gum. In caso di perquisizione, è accaduto, la gomma viene ingoiata e poi recuperata. Non mancano i tentativi di portarsi in cella la droga, di ritorno da permessi premio. È il caso, recente, di un detenuto che mercoledì sera stava rientrano in carcere a Turi: perquisito (a seguito di segnalazione), è stato trovato in possesso di due dosi di hashish, nascoste nell’ampolla rettale. "Purtroppo il problema potrebbe essere risolto alla radice se si consentisse alla polizia penitenziaria - obietta il segretario del sindacato - di lavorare con strumenti adeguati, e soprattutto con personale sufficiente". E rilancia: "Da tempo, poi, abbiamo proposto di registrare tutti i colloqui, sia visivi che telefonici, che i detenuti effettuano con i loro familiari, nonché controllare la loro posta sia in arrivo che in partenza - dichiara Pilagatti. Allo stato ciò ora avviene solo per qualcuno su disposizione della magistratura, ma rendere tale strumento utilizzabile sempre e comunque è necessario per ridimensionare il fenomeno. Anche se questo comporta una limitazione del diritto alla privacy, si raggiungerebbero in tal modo risultati molto importanti". Asti: l’appello del difensore "costretto in cella sulla sedia a rotelle, sospendetegli la pena" di Massimo Coppero La Stampa, 3 marzo 2017 Ieri sarebbe dovuto comparire in tribunale ad un processo per una presunta estorsione. Un barista astigiano nel 2014 lo aveva denunciato ai carabinieri accusandolo di aver preteso 200 euro in un periodo nel quale già non camminava più e si poteva muovere solo con la sedia a rotelle, presentandosi più volte nel locale del centro storico accompagnato dalla fidanzata o da un cugino. Ma Gianni Schillaci, 33 anni, pregiudicato astigiano, storico esponente della criminalità del quartiere Praia dei primi anni Duemila, ha dovuto rinunciare a comparire davanti al collegio di giudici presieduti da Elisabetta Chinaglia. Sta scontando una pena definitiva nel centro clinico del carcere delle Vallette di Torino, in gravi condizioni di salute dovute ad una malattia degenerativa, come hanno accertato numerosi medici legali. L’avvocato - Quasi impossibile trasferirlo per l’Amministrazione penitenziaria. "Da mesi non riesce più ad alzarsi dalla carrozzina, se non con l’aiuto di tre compagni di reclusione, tutti rugbisti. Pesa 120 chili, per lui è estremamente difficoltoso anche accedere alla sala colloqui della casa circondariale" spiega il suo legale, l’avvocato Sheila Foti. Pochi giorni fa si è tenuta un’udienza al tribunale di Sorveglianza di Torino per chiedere una misura alternativa alla detenzione o la sospensione dell’esecuzione della pena per gravi motivi di salute. "Manca la struttura" - "È stato tutto respinto e mi è stato persino impedito dai giudici di formulare alcune domande specifiche al consulente medico legale" dice il difensore. "Il mio cliente, secondo lo stesso perito del tribunale è compatibile con la detenzione in carcere solo a condizione che nell’istituto sia attivo un centro fisioterapico di secondo livello, con determinati standard tecnici. Peccato che alle Vallette questa struttura medica non esista. Schillaci ha 33 anni, ha diritto di curarsi anche se è pregiudicato" sottolinea l’avvocato Foti. Il 4 luglio, alla prossima udienza del processo, il detenuto dovrà obbligatoriamente essere portato in tribunale ad Asti perché è previsto il suo interrogatorio. "Vuole rispondere alle domande e difendersi. La vicenda è più complicata di quanto appaia" conclude il suo legale. Il barista che accusa l’imputato di estorsione, in precedenza aveva ricevuto prestiti da Schillaci millantando di avere necessità di denaro per curare un tumore rivelatosi inesistente. Milano: Maria Rebughini, l’angelo di San Vittore da 26 anni con i detenuti di Brunella Giovara La Repubblica, 3 marzo 2017 "Fuori una caramella non vale niente. Dentro, è un tesoro". Per Maria Rebughini visite senza limiti, nei raggi del vecchio carcere, "una volta andavo anche allo "speciale" dove c’erano i mafiosi, poi li hanno trasferiti a Opera". Una storia cominciata nel 1991, "prima sono stata per 11 anni e mezzo volontaria con Vidas, i malati terminali. Dopo ho fatto domanda per le carceri, ho seguito il corso di psicologia e mi sono buttata". La prima volta è andata così: "Ho visto passare un gruppo di detenuti incatenati uno all’altro. Subito ho pensato: ma questi sono come Gesù che va da Ponzio Pilato! Li avrei abbracciati tutti". La signora Rebughini è una credente, tutte le mattine va alla messa delle 7 in Duomo - se andate a quell’ora la vedrete salire sull’altare per le letture - l’accompagna un ex detenuto che poi la riporta a casa in macchina. "Io non cerco di convertire nessuno, sia chiaro. E poi ho conosciuto anche tanti preti che... lasciamo perdere. Sono credente ma non ho venerazione per preti e suore". Cosa fa, durante le sue visite? Parla con tutti, in questi anni è scivolata leggiadra davanti alle celle di detenuti comuni ed eccellenti, da Mani Pulite in giù, avanzi del terrorismo, trafficanti di droga e di donne, bancarottieri, poi di nuovo le tangenti, nei corsi e ricorsi della nostra storia giudiziaria. "Parlo anche ai più terribili. Dentro le persone sono più sensibili che fuori. Nella sofferenza c’è sensibilità, perciò io passo da tutti, porto molto amore". E tiene i rapporti con le famiglie, che è uno dei suoi compiti, nei limiti della legge. Chi sono i più terribili? Gli omicidi? "Mah, io non voglio mai sapere cosa hanno fatto, poi le voci corrono. C’è uno che ha fatto il mandante... la sigaretta la do anche a lui". C’è l’ex musicista che le consegna lettere piene di riconoscenza, "con gioia ho saputo che mia mamma ti ha chiamato...", Maria non sa bene cosa ha fatto per finire a San Vittore. Il famoso bandito con gli occhi azzurri, da anni trasferito altrove, "sentiva la mia voce e mi chiamava a gran voce, "Maria, vieni a trovarmi". "Quando c’era lo "speciale" sono capitata davanti a una cella, due brande, uno che dormiva con la testa coperta. Gli ho detto "Ciao sono Maria, perché non siete venuti alla messa?". E uno mi fa: "Non ci andavo prima". Ma poi quella frase qualcosa ha fatto. Il giorno dopo quel ragazzo "mi aspetta in piedi, mi offre un bicchierino di caffè, e com’era sporco quel bicchierino. L’ho bevuto lo stesso. Mi ha detto una cosa che non dimenticherò: "Non so chi sei e da dove vieni. Io sono Caino". Poi mi ha dato il telefono di sua mamma, voleva che le dicessi che stava bene". E "ci sono tutti quelli della Regione, certi ingegneri... Di uno, un pezzo grosso, ho conosciuto la moglie. Mi ha detto "mio marito ha passato l’ora di colloquio a parlarmi di lei...". Quello me lo ricordo bene. Mi aveva chiesto "Maria, ma perché lei viene qui dentro, in questo posto così buio e triste?". Già, perché viene qui? "Porto l’esempio. Io sono una persona buona. Loro parlano con me e stanno meglio". Ricorda un famoso banchiere, stupito "che qui mancasse tutto, che ha scoperto che anche le cose piccole valgono, mi diceva", e "quel sindaco che piangeva sempre e poi ha deciso di fare lo sciopero della fame. La guardia mi ha mandata da lui. Gli ho detto "disgraziato, a uno che fa così non avrei dato il voto". Ha ricominciato a mangiare, poi ha detto a tutti "questa donna mi ha salvato la vita", ed è andato serenamente incontro al processo. "Quando è uscito mi ha invitato dal Zucca, per ringraziarmi. C’era anche la moglie, io ho preso solo un caffè, sia chiaro. Ero in imbarazzo". Un altro, che aveva ammazzato la moglie e adesso è all’ergastolo, "mi disse che voleva battezzare la figlia piccola. Che gioia!". E quel mafioso le disse "Maria, perché non ti ho conosciuta trent’anni fa, la mia vita non sarebbe andata così". Ma allora sono tutti angeli, questi detenuti. "Mi rendo conto del male che hanno fatto, sarei una deficiente se non lo capissi. Ma è nella sofferenza che si vedono i valori. E io li vedo". Milano: Grazia ha vinto la sua scommessa, fa ridere i detenuti con lo yoga di Antonio Galdo nonsprecare.it, 3 marzo 2017 Un’energica donna ha portato dentro le mura di San Vittore la disciplina indiana. La pratica, per stessa ammissione dei carcerati, li aiuta a liberarsi delle tensioni e dei cattivi pensieri per qualche ora liberando fragorose risate che fanno bene al corpo e allo spirito Se volete conoscere un uomo, non considerate il suo silenzio, il suo pianto, le sue idee, guardate come ride. Come il celebre scrittore russo Dostoevskij, anche Grazia Fortuzzi è convinta che sia questo l’elemento in grado di caratterizzare ognuno di noi che sia la manifestazione esteriore dell’anima. Per questa ragione nella vita ha deciso di portare il potere liberatorio e benefico della risata all’interno di un’ambiente dove troppo spesso viene represso e rinchiuso: il carcere. Grazia di lavoro fa la counselor, un’istruttrice e consulente psicologica, e ha deciso di portare a termine queste sua "missione" attraverso lo yoga. La sua "missione" dura un’ora e mezzo alla settimana e ha l’obbiettivo di alleviare il dolore, la noia, le frustrazioni, ma anche la rabbia legata alla reclusione. La sua "arma" è quello che viene definito lo yoga della risata che affianca alla classica disciplina indiana degli esercizi specifici che mirano ad esercitare il diaframma e ha stimolare l’allegria, che inizialmente viene indotta ma che poi esplode in tutta la sua genuinità. Perché, secondo Grazia, non c’è niente di meglio di ridere senza motivo. È un esercizio che combatte l’ansia, rende leggeri favorendo la comprensione reciproca. Durante questi esercizi avviane non solo un miracolo "intimo" in ognuno dei detenuti ma anche uno "sociale" che gli permette di entrare in contatto tra di loro, in un ambiente in cui la diffidenza regna sovrana. Così accade che dei condannati per reati sessuali ridano insieme, si abbraccino, si stringano le mani. Questi risultati sono in assoluto quelli che più la inorgogliscono perché, anche all’interno del carcere si è vivi e finché si è vivi si può cambiare. Magari con l’aiuto dello yoga, che i detenuti sono convinti rappresenti una porta ideale con il mondo esterno, dove tornare il prima possibile per ridere ancora di più di cuore. Benevento: legalità e rispetto delle regole, continua il confronto tra studenti e detenuti ilquaderno.it, 3 marzo 2017 L’altro ieri, 1 marzo il percorso di presentazione alle scuole ha fatto tappa al Liceo Classico Virgilio di San Giorgio del Sannio. "Cosa hai provato quando ti hanno proposto questo percorso" chiede Giovanni, 18 anni, studente liceale a confronto con giovani detenuti in inserimento lavorativo. "Mi sono emozionato - risponde Francesco, 24 anni, detenuto presso il Penitenziario minorile di Airola, ora tecnico di laboratorio informatico - perché io non avevo mai lavorato ed è bello capire di essere in grado di portare a termine un lavoro". Continua così gli incontri tra studenti beneventani e giovani detenuti sul tema della legalità e del rispetto delle regole nell’ambito del progetto Libera Rete. Ciò accadeva ieri 1 marzo il percorso di presentazione alle scuole ha fatto tappa al Liceo Classico Virgilio di San Giorgio del Sannio. Domani 3 marzo sarà la volta dell’Istituto Rampone di Benevento. Libera Rete è promosso dalla cooperativa sociale Social Lab 76 in partenariato con Ufficio esecuzione penali Esterne di Benevento e Istituto Penitenziario Minorile di Airola. Il progetto è finanziato nell’ambito del Piano Azione Coesione "Giovani no profit" da Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale. Le borse lavoro sono state finanziate dalla Fondazione Charlemagne. Libera Rete si concluderà a giugno 2017 e mira ad inserire nel mondo del lavoro 30 giovani tra i 16 e i 35 anni che scontano pene dentro e fuori il carcere. I partecipanti hanno appreso lo smontaggio e il recupero dei materiali provenienti da strumenti elettronici. I ragazzi incontrano i giovani detenuti che hanno partecipato al percorso di inserimento lavorativo promosso all’interno del progetto. Le scuole aderenti si impegnano, a loro volta, a dar vita ad una produzione multimediale sul tema. Il miglior lavoro sarà premiato con la donazione di materiale didattico alla scuola. Pisa: progetto "Gabbie", a Montecitorio il libro scritto dai detenuti del "Don Bosco" gonews.it, 3 marzo 2017 Arriva a Montecitorio il progetto "Gabbie", il libro scritto dai detenuti del carcere Don Bosco di Pisa insieme a giornalisti, scrittori, filosofi e imprenditori, al termine di un corso di scrittura, ideato e sostenuto da Mds editore con la giornalista de La Nazione Antonia Casini e i curatori Michele Bulzomì e Giovanni Vannozzi, che tuttora prosegue all’interno della casa circondariale. Grazie all’impegno del deputato di Mdp, Paolo Fontanelli, che ha sostenuto il corso di scrittura fin dalla prima edizione, Gabbie esce dai confini del carcere per iniziare il tour che lo porterà al salone del libro di Torino, a Pistoia, e a Volterra. Il primo di questi appuntamenti è in programma il 13 marzo alle 15.30 nella sala Aldo Moro di Montecitorio per un dialogo con il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, al quale interverranno anche il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, e il parlamentare pisano Paolo Fontanelli. Il titolo del libro, spiega una nota di Mds editore, nasce "dal tema che è stato proposto: la gabbia non è solo una struttura coercitiva che limita la libertà e il movimento, è anche un carcere d’invenzione, una struttura mentale, onirica, una paura, un pregiudizio, è tutto ciò che limita e condiziona la libera espressione della persona e questa condizione umana è comune a chi è recluso come a chi sta fuori". Il progetto della casa editrice pisana ha anche "l’obiettivo di reperire fondi per finanziare attività di reinserimento lavorativo per ex detenuti". Palermo: carcere Pagliarelli, i detenuti fanno teatro di Caterina Ganci filodirettomonreale.it, 3 marzo 2017 Il progetto "Evasioni Teatro Legalità e Cultura" di Daniela Mangiacavallo ha dato la possibilità ai detenuti attori di lavorare insieme al regista Claudio Collovà. Scelto un punto di fronte, gli è stato chiesto di fissarlo. I detenuti attori, uno accanto all’altro, minuto dopo minuto, iniziano a concentrarsi, attenti ai comandi lanciati si lasciano guidare nello spazio. Così, partendo dal silenzio, il regista Claudio Collovà ha condotto gli uomini coinvolti nel laboratorio del progetto "Evasioni Teatro Legalità e Cultura" della regista Daniela Mangiacavallo. Camminando lentamente, l’uno di fronte all’altro, si guardano dritto negli occhi, ed inizia la comunicazione, sguardi forti che si seguono, l’emozione che passa tra i due è segreta, solo loro sanno. C’è chi è talmente concentrato che si lascia scappare una lacrima, si commuove di gioia o forse di dolore, chi lo sa. "L’arte e la cultura rendono liberi - dice Francesca Vazzana Direttrice del Carcere Pagliarelli - i detenuti sono cresciuti molto, hanno buona volontà e tanta voglia di mettersi in gioco. Il percorso, che stanno seguendo non è solo finalizzato a diventare attori, ma ad ascoltarsi e verbalizzare le proprie emozioni. Il mio termometro siete voi - continua la Direttrice - vogliamo evitare il suicidio, vogliamo che le persone detenute non si deprimano, che siano sempre motivate, per questo che ben vengano attività come quelle teatrali dove le persone in detenzione vengono strappate a possibili momenti di sconforto". La musica del silenzio ha sostenuto l’attenzione dei detenuti attori, accompagnandoli verso la concentrazione perfetta, lasciando spazio ai loro sensi. Sguardo e contatto sono stati gli elementi principali del laboratorio del regista Collovà. "Occhi che trasmettono emozioni diverse, occhi importanti ed espressivi giravano sul palco del Teatro Pagliarelli - racconta Collovà a percorso concluso - mentre li osservavo dicevo a me stesso quanto sono belli, e quanto è importante l’essere umano nella sua semplicità. Il teatro ha bisogno delle anime". Legge sulla responsabilità dei medici. Ecco che cosa cambia per i cittadini di Ruggiero Corcella Corriere della Sera, 3 marzo 2017 Nuove regole e risarcimenti più veloci, ma se il paziente vuole rivalersi civilmente anche nei confronti del sanitario dovrà lui stesso dimostrare di aver subito il danno. Assicurazione obbligatoria per ospedali e professionisti sanitari e Centri Regionali per la gestione del rischio clinico, ma anche prescrizione dimezzata se il paziente decide di intentare causa direttamente nei confronti di un medico. Ha avuto il via libera definitivo la legge che modifica la responsabilità dei professionisti sanitari nei procedimenti per "malpractice". Ogni anno, secondo l’Associazione Nazionale Imprese Assicuratrici (Ania), si registrano 34mila denunce per danni dovuti a cure mediche, in particolare nei confronti di ginecologi e ortopedici, una cifra triplicata in 15 anni. E ogni risarcimento si aggira tra i 25mila e i 40mila euro, per un valore complessivo di circa 2 miliardi. Nel corso degli anni, il mondo della sanità ha registrato il progressivo aumento dei costi per gestire il contenzioso, le crescenti difficoltà ad assicurarsi per ospedali e medici, la diffusione della cosiddetta medicina difensiva - ovvero la prescrizione di accertamenti e terapie al solo scopo di tutelarsi dal rischio di azioni legali ed il mancato trattamento di pazienti ad alto rischio di complicanze - pratica che comporta uno spreco stimato in circa 10 miliardi di euro l’anno. Abbiamo chiesto al professor Luigi Molendini, medico legale e docente del master Hospital Risk Management di Cineas (Consorzio universitario non profit che si occupa di diffondere la cultura della gestione del rischio, fondato dal Politecnico di Milano) e componente del Tavolo Cineas Assicurazione e Sanità, di spiegare meglio che cosa cambia per il cittadino. Parola d’ordine: "prevenzione". Ma non si era proprio fatto nulla? - "Si è cercato di contrastare il fenomeno della medicina difensiva parzialmente e con difficoltà attraverso l’introduzione all’interno degli ospedali di sistemi per la prevenzione dei rischi. Tra questi si pensi alle check list di controllo utilizzate in sala operatoria prima di un intervento per verificare di stare operando il paziente corretto, per la patologia corretta e nel sito corretto (ad esempio, gli errori di lato: è malato il rene destro ma si asporta quello sinistro sano), nonché a quelle utilizzate a fine intervento per controllare di non avere lasciato nel campo operatorio garze o altro materiale. L’insieme degli interventi messi in atto per ridurre i rischi per i pazienti (che sono alla base dei casi di "malasanità") viene denominata "gestione del rischio clinico" ed è stata introdotta negli ospedali italiani all’inizio degli anni 2000 ma, fino ad oggi, la sua implementazione è stata di fatto demandata alle regioni, con la conseguenza che l’attenzione per la sicurezza e le misure di prevenzione cambia molto a seconda dell’ospedale e della regione in cui si trova". Al centro, la sicurezza del paziente: è davvero cosi? - "Bisogna premettere che in realtà solo alcune delle misure saranno percepibili, la maggior parte avranno un effetto più nascosto ma comunque significativo. La nuova norma mette in primo piano la sicurezza del paziente, ritenendola parte costitutiva del diritto alla salute ed elemento imprescindibile per l’attività di tutti gli operatori sanitari (medici e infermieri, ma anche farmacisti, tecnici sanitari, etc.). Contestualmente viene istituito l’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità con il compito di raccogliere i dati dai centri regionali (che saranno obbligatori) e di definire i programmi per la sicurezza del paziente nonché quelli per la formazione e l’aggiornamento del personale sanitario. Quest’ organo è il primo passo per giungere ad un vero e proprio sistema nazionale integrato per la sicurezza dei percorsi di cura e la capillare diffusione di percorsi formativi specifici". Gli ospedali saranno ancora all’oscuro delle situazioni di rischio? - "È stata introdotta una norma (già presente in alcuni paesi di cultura anglosassone) che prevede la protezione delle informazioni sull’analisi dei rischi. Si tratta di una misura di fondamentale importanza per lo sviluppo dei sistemi di prevenzione, in quanto consentirà alle strutture di venire a conoscenza di situazioni di rischio finora non segnalate per il timore di una eventuale acquisizione del materiale nel corso di indagini giudiziarie. Viene così a cadere una delle principali resistenze alla collaborazione dei medici e degli altri professionisti sanitari, che limitava la possibilità di acquisire conoscenze sui rischi da parte dell’ospedale, facendo mancare quello che è il primo tassello per potere affrontare la sicurezza dei pazienti. La nuova legge getta quindi le premesse per lo sviluppo dei sistemi di prevenzione dei rischi ospedalieri". A chi ci si deve rivolgere, se si pensa di aver subito un danno? - "La novità maggiore è che con la nuova Legge il principale soggetto cui inoltrare la propria richiesta saranno le strutture sanitarie, siano esse pubbliche o private, le quali risponderanno sempre e comunque per le azioni dei propri collaboratori. Nei confronti delle strutture, infatti, viene mantenuto e consolidato un principio già introdotto dalla giurisprudenza (la cosiddetta responsabilità contrattuale), in virtù del quale un paziente che si reputi danneggiato, ha 10 anni di tempo per procedere a una richiesta di risarcimento indicando in cosa consiste il danno (che può essere una complicanza non prevista o un esito diverso da quello atteso). Su chi ricade l’onere di provare l’esistenza o meno del danno? - "Il maggiore onere della prova ricade sulla struttura, che deve dimostrare che l’operato dell’organizzazione e dei suoi collaboratori che quanto avvenuto non era evitabile. Viene invece modificata in senso più restrittivo, la possibilità di chiedere i danni direttamente al professionista, nei confronti del quale il paziente avrà 5 anni di tempo e dovrà indicare non solo il danno ma anche quale è stato il comportamento che lo ha provocato per cui si chiede un risarcimento (si tratta della cosiddetta responsabilità extracontrattuale)". Che cosa fare, se la visita è privata? - "La situazione antecedente aveva portato a una distorsione del sistema, per cui al professionista veniva chiesto di provare l’assenza di colpa, anche di fronte ad accuse ingiuste, cosa spesso non facile, soprattutto nei casi complessi e ad alto rischio. In conseguenza di ciò si è verificato un progressivo incremento dei costi delle coperture assicurative e un allontanamento dei giovani medici dalle specialità più esposte al contenzioso. C’è una eccezione allo schema sopra illustrato, da valutare caso per caso, ovvero quello in cui un professionista abbia assunto degli obblighi diretti con il paziente (come ad esempio quando ci si rivolge a uno studio professionale privato), in tali situazioni verrebbe a valere la stessa norma (contrattuale) indicata per le strutture sanitarie". Come si "conteggiano" i danni? Che cos’è il Fondo di garanzia? - "Una volta accertata la responsabilità, della struttura e/o del professionista, e valutati i danni, si tratta di procedere alla quantificazione economica del danno e al suo risarcimento. Su questo punto la legge introduce il riferimento ai criteri per i danni da circolazione stradale, che basandosi su delle tabelle di riferimento omogenee, ridurranno l’ammontare dei risarcimenti rispetto alle prassi in uso nei tribunali. Altre novità sono la possibilità di inoltrare la richiesta danni direttamente alla compagnia di assicurazione e l’istituzione di un fondo di garanzia a tutela dei pazienti danneggiati. Tutto quanto sopra è relativo alle norme del Codice Civile, che regolamentano i rapporti tra persone ed aziende". Come si modifica la responsabilità penale del medico? - "La Legge è intervenuta anche sul Codice Penale limitando la responsabilità penale dei professionisti sanitari ai soli casi di negligenza ed imprudenza, a meno che abbiano disatteso le indicazioni della letteratura scientifica e della buona pratica clinica. Grazie alle novità introdotte, sia in ambito civile che penale, ci si aspetta che i professionisti potranno lavorare con più serenità a tutto beneficio del rapporto con i pazienti e collaborare in maniera più puntuale alla conoscenza e prevenzione dei rischi". Che cosa cambia nelle coperture assicurative? "Altra importanti novità a tutela dei diritti dei pazienti sono quelle relative all’aumento delle coperture assicurative e agli obblighi di trasparenza delle strutture sanitarie, che prevedono la pubblicazione sui loro siti internet delle attività svolte per ridurre i rischi sanitari e dei riferimenti della copertura assicurativa, nonché una definizione dei tempi di acquisizione della documentazione clinica, che dovrà essere fornita dagli ospedali entro sette giorni dalla richiesta". Qual è il bilancio finale sulla legge? - "Da un lato, sono state introdotte regole che rendono più difficoltoso ottenere un risarcimento dal singolo professionista (laddove ne risponde comunque l’ospedale cui ci si è rivolti) e contengono la valutazione economica dei risarcimenti. Dall’altro lato, un sistema che attraverso l’alleggerimento della pressione sui professionisti e lo sviluppo dei sistemi di prevenzione fornisce le premesse per un miglioramento della qualità e della sicurezza delle cure. Un ulteriore auspicato beneficio per la collettività sarà la possibilità di recuperare risorse economiche riducendo la pratica della medicina difensiva. La nuova norma ha tentato di conciliare interessi molto differenti, ovvero la tutela dei pazienti e il loro diritto a un giusto risarcimento in caso di danno, la possibilità per i professionisti sanitari di lavorare senza la costante preoccupazione degli aspetti giudiziari, la disponibilità sul mercato di idonee coperture assicurative, le esigenze di giustizia. Il risultato non può che essere il frutto di un compromesso tra questi interessi. L’applicazione di molte delle previsioni normative, soprattutto quelle assicurative, dipenderà dalla emanazione dei decreti attuativi, con i relativi tempi di attesa. Bisognerà inoltre osservare come la magistratura interpreterà ed applicherà le norme sulla responsabilità. Malgrado tali incertezze si tratta di una Legge importante, in quanto è la prima norma nazionale che affronta in modo organico due tematiche, sicurezza delle cure e responsabilità, che hanno un impatto rilevante sulla tutela della salute ed i bilanci economici delle Regioni". Migranti. Il nuovo piano Ue: "un milione sono da rimpatriare" di Ivo Caizzi Corriere della Sera, 3 marzo 2017 L’allarme di Bruxelles "Fino a 18 mesi di detenzione per chi dev’essere espulso". E la minaccia di sanzioni per chi non rispetta la richiesta. La Commissione europea ha lanciato l’allarme sulla necessità di "rimpatriare oltre un milione" di migranti dall’Ue perché non hanno i requisiti per essere accolti come rifugiati. In vista della discussione sull’emergenza immigrazione, in agenda nel Consiglio dei capi di Stato e di governo in programma il 9 e 10 marzo prossimi a Bruxelles, il presidente lussemburghese della Commissione Jean-Claude Juncker e il commissario Ue greco Dimitris Avramopoulos hanno sollecitato anche aiuti per l’Italia e la Grecia, che "restano sotto pressione" davanti ai flussi in arrivo. Avramopoulos ha presentato studi che stimano da rimpatriare oltre la metà dei due milioni di migranti arrivati nell’Ue. La Commissione europea ha così presentato proposte ai governi per accelerare e meglio gestire le espulsioni verso i luoghi d’origine. Spicca la richiesta di rinchiudere fino a 18 mesi chi deve essere espulso, per impedirgli di fuggire e raggiungere altri Paesi Ue. "Gli Stati membri dovrebbero ricorrere ai centri di detenzione quando i migranti irregolari non collaborano o c’è il rischio di fuga", ha detto Avramopoulos, escludendo che i centri possano diventare "campi di concentramento". Ha incluso perfino i minori non accompagnati. Immediate sono arrivate le proteste degli organismi umanitari, che hanno ricordato le difficilissime condizioni dei migranti e l’obbligo di rispetto dei loro diritti fondamentali. "Che i bambini siano inclusi in questo regime di detenzione è veramente scioccante", ha accusato Amnesty International. I flussi da Siria e Iraq verso la Germania sono stati frenati con l’accordo da 6 miliardi con la Turchia. La Commissione, per arginare quelli in arrivo in Italia dal Mediterraneo centrale, suggerisce una "cooperazione continua e più significativa con Egitto, Tunisia e Algeria", dopo i "progressi tangibili" con "Etiopia, Niger, Nigeria, Mali e Senegal". L’Italia sta trattando con la Libia, sostenuta dalla presidenza maltese di turno dell’Ue, per finanziare anche un potenziamento della Guardia costiera libica. "Nessuno si aspetti risultati miracolosi nel giro di poche settimane, ma siamo confortati dal fatto che si fanno passi avanti e che l’Ue, anche grazie al ruolo di Malta, ci appoggia e lo farà anche nel prossimo vertice di Bruxelles", ha dichiarato il premier Paolo Gentiloni dopo aver incontrato il premier maltese Joseph Muscat. Juncker ha scritto al presidente polacco del Consiglio europeo Donald Tusk per sostenere Italia e Grecia, che "hanno fatto sforzi importanti per migliorare la loro capacità e organizzare le loro procedure per rendere possibile il ricollocamento dei rifugiati". Avramopoulos ha ricordato che solo 13 mila rifugiati sono stati trasferiti da Grecia e Italia in altri Paesi Ue (sui 160 mila concordati). Ha ventilato il ricorso alle procedure d’infrazione per gli Stati inadempienti, che però hanno tempi lunghi e non appaiono adatte per l’attuale emergenza. Migranti. Monito dell’Ue agli Stati membri: "ricollocarli o ci saranno sanzioni" di Alberto D’Argenio La Repubblica, 3 marzo 2017 Linee guida di Bruxelles anche per l’identificazione e il rimpatrio: "Chi rifiuta deve essere trattenuto in centro di detenzione". La Commissione europea chiede ai governi di chiudere in centri di detenzione i migranti economici da rimpatriare perché sprovvisti di diritto all’asilo. La raccomandazione riguarda circa un milione di persone, questa la stima di Bruxelles sul numero di irregolari presenti sul territorio dell’Unione, e punta ad evitare che chi ha il foglio di via scappi, magari in un altro Paese, restando illegalmente sul territorio europeo. La filosofia di fondo vuole che in questo modo i rifugiati, siriani, eritrei o altre nazionalità in fuga da guerre e persecuzioni, possano essere integrati più facilmente in Europa. Bruxelles si raccomanda che i centri di detenzione non assomiglino a campi di concentramento. "Italia e Grecia (tra i paesi di frontiera maggiormente sotto stress per i flussi, ndr) avranno il nostro pieno sostegno e aiuto nel creare i centri di detenzione", ha affermato il commissario alla Migrazione Dimitris Avramopoulos. Per il quale i governi dovrebbero ricorrere ai centri di detenzione "quando gli irregolari non collaborano o c’è il rischio di fuga e per un periodo che permetta la definizione della procedura di allontanamento". Insomma, uno strumento da utilizzare quando non ve ne siano altri meno coercitivi e nel rispetto dei diritti umani, La direttiva Ue sui rimpatri prevede sei mesi per la permanenza in questi centri, prolungabile fino a 18 in determinati casi. Intanto la Commissione per aiutare i paesi in difficoltà nella gestione dei migranti vara un piano d’azione per rendere più efficaci i rimpatri - grazie anche a procedure più snelle e un sistema di ritorni volontari - e mette sul piatto 200 milioni di euro per finanziarlo. Un piccolo esempio di aiuto ai governi, prezioso per l’Italia, può essere quello di finanziare con soldi europei i rimpatri attraverso voli di linea, e non solo con i charter di Frontex. Bruxelles guarda al fenomeno migratorio a trecentosessanta gradi e nel giorno in cui Angela Merkel è al Cairo per cercare di stringere un accordo con Al Sisi sui flussi, la Commissione in vista del Consiglio europeo del 9-10 marzo chiede ai governi di intensificare l’azione dell’Unione nel Mediterraneo anche con una "cooperazione continua e più significativa con Egitto, Tunisia e Algeria". È invece in corso il lavoro con Tripoli affinché sia la guardia costiera libica, addestrata dagli europei, a pattugliare le sue acque territoriali e contrastare i trafficanti. C’è infine lo spinoso capitolo della redistribuzione di 160mila richiedenti asilo sbarcati in Italia e Grecia lanciata da Bruxelles ma mai decollata per il rifiuto di diversi governi a ospitare chi scappa da morte certa. I dati sono impietosi: ad oggi i ricollocamenti all’interno dell’Unione sono stati in tutto 13.546, di cui 3.936 dall’Italia e 9.610 dalla Grecia. "A questo ritmo non sarà possibile ricollocare entro settembre tutti i richiedenti ammissibili presenti in Grecia e in Italia, sebbene di per sé ciò sia perfettamente realizzabile", sottolinea la Commissione. Finora solo Finlandia e Malta provvedono nei tempi ai propri obblighi nei confronti di Roma e Atene, con la Germania che fa la sua parte. Invece Austria, Polonia e Ungheria rifiutano qualunque tipo di partecipazione al programma ed altri stanno rispettando gli impegni in misura molto limitata come Bulgaria, Croazia, Repubblica ceca e Slovacchia. Per ora Bruxelles ha evitato di sanzionare questi governi visto che entrerebbe in rotta di collisione politica con leader del calibro dell’ungherese Orban o del polacco Kaczynski su un argomento esplosivo per l’opinione pubblica come il fenomeno migratorio. Tuttavia ieri Bruxelles ha avvertito che se "non aumenteranno presto i rispettivi ricollocamenti" passerà alle procedure di infrazione e alle sanzioni. Fonti comunitarie spiegano che la linea rossa è fissata per settembre: se entro allora i governi non si saranno allineati ad un programma che li obbliga legalmente a prendersi carico di quote di richiedenti asilo, la Commissione agirà. Guarda a caso una dead-line che scavalla le elezioni tedesche, in vista delle quali Angela Merkel non vuole polemiche e spaccature a livello europeo. Migranti. La Corte dei diritti umani: a Cona violazione delle norme internazionali di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 marzo 2017 La Cedu contesta all’Italia la violazione delle norme internazionali sui diritti umani. In un ricorso si denunciavano le condizioni degradanti in cui vivevano i ragazzi nella struttura di accoglienza in Veneto, dove a inizio anno morì una ragazza proveniente dalla costa d’avorio. Ancora violazioni dei diritti umani commessi dall’Italia sotto la lente di ingrandimento della Corte Europea. La violazione riguarda l’intrattenimento presso il centro di accoglienza di Cona, in Veneto, di due immigrati minorenni non accompagnati. In un ricorso d’urgenza presentato a gennaio alla corte, si denunciavano le condizioni umane degradanti in cui i due minori erano costretti a vivere nella struttura di accoglienza di Cona, dove le condizioni di sovraffollamento e la morte di una ragazza proveniente dalla Costa d’Avorio avevano provocato una violenta protesta. Si affronta per la prima volta la questione dell’accertamento dell’età dei minori non accompagnati che, secondo la Corte dei diritti dell’Uomo (Cedu), in Italia non seguirebbe le procedure previste dal diritto internazionale. Dinanzi alla Corte era stata denunciata la violazione delle norme previste nel nostro ordinamento a protezione dei minori non accompagnati, tra cui l’obbligo di collocamento in adeguate strutture per minori e la tempestiva nomina di un tutore. Come riporta l’Asgi, Melting Pot, Giuristi Democratici, Bassa Padovana Accoglie, LasciateCIEntrare, A. I. E. - Associazione Immigrati Extracomunitari di Padova, Gruppo In-Formazione di Venezia, alla richiesta di informazioni inviata dalla Corte, il governo italiano ha risposto sostenendo che i due ricorrenti sarebbero maggiorenni. La perizia effettuata dall’autorevole auxologo professor Benso ha invece certificato come la maturazione ossea dei due ricorrenti risulti perfettamente compatibile con la minore età dichiarata. I ricorrenti hanno inoltre evidenziato come l’accertamento dell’età sia stato effettuato dalla prefettura di Venezia secondo modalità e procedure non conformi alla normativa vigente che, pur disciplinando in specifico l’accertamento dell’età dei minori vittime di tratta, è applicabile in via analogica anche ai minori che non siano vittime di tratta, come affermato dalla Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, dall’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e da numerose altre organizzazioni. In conclusione, il 14 febbraio scorso, la Corte Europea ha ordinato al governo italiano, come misura provvisoria, di trasferire i due minori in strutture adeguate secondo quanto previsto dalla normativa nazionale e internazionale in materia di protezione dei minori non accompagnati, comunicando, inoltre, la decisione di trattare il ricorso in via prioritaria. Lo Stato italiano sarà dunque chiamato a rispondere alla questione se le condizioni nel centro di accoglienza di Cona costituiscano un trattamento inumano e degradante; se siano state adottate le misure di protezione previste dalla normativa internazionale e interna a protezione dei minori non accompagnati; se la procedura per la determinazione dell’età abbia rispettato le norme stabilite dal diritto interno e le garanzie previste dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. L’Asgi, tramite un suo comunicato, scrive: "Le organizzazioni scriventi auspicano che le prassi in materia di accertamento dell’età adottate in Italia siano rese al più presto conformi alle norme interne ed internazionali in materia; che tutti i minori non accompagnati presenti nel centro di accoglienza di Cona (almeno 30 identificati come minori e alcune decine erroneamente registrati come maggiorenni) siano immediatamente trasferiti in adeguate strutture per minori; e che agli ospiti adulti siano garantite condizioni di accoglienza dignitose, preferibilmente in strutture Sprar". La denuncia presentata alla Corte Europea dalle associazioni è partita dopo aver incontrato, nei giorni successivi alla morte della giovane Sandrine Bakayoko a Cona, numerosi richiedenti asilo ospiti nell’ex base militare. Non solo hanno potuto riscontrare la presenza dei minori, ma hanno rilevato condizioni che definiscono "inumane e degradanti": ovvero la carenza e pessima qualità del cibo; mancanza di operatori che diano effettive e valide informazioni sul sistema di accoglienza e sui diritti per legge conseguenti, mancanza di adeguati servizi di supporto legale; mancanza di adeguati servizi di supporto psicologico; mancanza di servizi di orientamento al lavoro, ai servizi sociali, all’integrazione sociale; sporcizia dei locali e mancata distribuzione (nei termini previsti dalla legge e, comunque, in termini dignitosi) di prodotti per l’igiene personale e vestiario; mancata assolvimento anche degli obblighi minimi previsti nella convenzione stipulata dall’ente gestore; mancanza di adeguati impianti di riscaldamento; carenza di adeguati e sufficienti servizi igienici; mancanza di servizi di orientamento al lavoro, ai servizi sociali, all’integrazione sociale; sporcizia dei locali e mancata distribuzione (nei termini previsti dalla legge e, comunque, in termini dignitosi) di prodotti per l’igiene personale e vestiario; mancata assolvimento anche degli obblighi minimi previsti nella convenzione stipulata dall’ente gestore; mancanza di adeguati impianti di riscaldamento; carenza di adeguati e sufficienti servizi igienici. Brasile. Le cause dell’ondata di violenza nelle carceri Internazionale, 3 marzo 2017 L’ondata di violenza registrata all’inizio dell’anno nelle carceri del Brasile ha rivelato la situazione del sistema penitenziario del paese. Il principale problema è il sovraffollamento. Con 662mila detenuti il Brasile ha la quarta maggiore popolazione carceraria del mondo e ogni mese il numero di detenuti aumenta di tremila unità, ma ha appena 371mila posti disponibili. Il sovraffollamento alimenta la violenza e la divisione in bande, che all’interno degli istituti gestiscono un’amministrazione parallela, organizzata in sistemi gerarchici prestabiliti. Le uccisioni registrate negli ultimi tempi sono la conseguenza della guerra tra bande rivali. Gli omicidi sono all’ordine del giorno, solo nel 2016 sono morti 372 detenuti per i contrasti tra due delle più potenti organizzazioni criminali brasiliane: Primeiro comando da capital, di São Paulo, e Comando Vermelho, di Rio de Janeiro. L’aumento delle uccisioni è da attribuire alla rottura di una tregua che durava da più di vent’anni, probabilmente inizialmente stabilita per garantire il traffico illegale di armi e droga tra le due metropoli brasiliane. Il 2017 è cominciato con una ribellione nel carcere di Manaus finita in tragedia, con la morte di 60 prigionieri. Episodio seguito da un altro bagno di sangue nella prigione di Boa Vista dove almeno 33 uomini sono stati uccisi. Le condizioni di vita insostenibili, la mancanza di cibo, di igiene e di strutture adeguate, fanno delle carceri brasiliane le più sanguinose e pericolose al mondo. Il governo ha annunciato un piano per rinnovare il sistema, ma date le condizioni disastrose dell’economia brasiliana è difficile immaginare che questi provvedimenti saranno messi in pratica nel prossimo futuro. Filippine. Detenuti nudi durante blitz antidroga in carcere: "trattamento inumano" La Repubblica, 3 marzo 2017 Nuove polemiche hanno investito le Filippine del presidente Rodrigo Duterte dopo la diffusione di alcune immagini che ritraggono centinaia di uomini nel carcere di Cebu sedere completamente nudi durante un raid anti-droga. I detenuti sono stati svegliati prima dell’alba, ammassati nel cortile interno della struttura, spogliati e fatti sedere su cemento mentre polizia e militari perquisivano le loro celle. Durante il raid alcuni agenti li sorvegliavano armati. Le foto sono state rilasciate dall’agenzia antidroga delle Filippine insieme a un comunicato in cui si diceva che l’operazione aveva permesso agli agenti di trovare numerosi pacchetti di metanfetamine e foglie di marijuana, così come armi da taglio e telefoni cellulari. Una volta diffuse sui social network, tuttavia, le immagini hanno suscitato forti polemiche rilanciate soprattutto dalle ong che si battono per il rispetto dei diritti civili. "Questo episodio mostra il trattamento crudele, inumano e degradante a cui vengono sottoposti i prigionieri", ha affermato in un comunicato Amnesty International. Anche Human Rights Watch si è unita al coro di critiche sottolineando che gli standard internazionali proibiscono perquisizioni che intimidiscano i detenuti o che invadono la loro privacy senza motivo. L’operazione del carcere di Cebu si inserisce in una più vasta e controversa guerra lanciata da Duterte contro lo spaccio di droga nel Paese. Il presidente - i cui livelli di popolarità rimangono piuttosto alti - ha affermato che i diritti umani devono passare in secondo piano per sconfiggere la minaccia rappresentata dalle droghe illegali