Non siamo i soli a dire "no" al 41bis di Sergio D’Elia* e Maria Brucale** Il Dubbio, 31 marzo 2017 Le critiche del Comitato Diritti Umani dell’Onu al carcere duro. Tra le criticità che il Comitato Diritti Umani delle Nazioni Unite ha voluto esaminare nel suo ultimo rapporto sull’Italia c’è anche quella relativa al regime del 41bis. Il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, insieme a Nessuno tocchi Caino, avevano trasmesso un documento sulle violazioni di varie norme del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici che questo regime comporta. Una posizione diversa da quella esposta dal Governo italiano che aveva comunicato di non ravvisare alcuna criticità. Il Comitato Diritti Umani, nel documento alla fine adottato, la preoccupazione per come funziona il 41bis l’ha espressa a partire dal fatto che si tratta di uno speciale regime di detenzione per un periodo di quattro anni, prorogabile per altri due anni. In particolare ha puntato il dito contro le ricorrenti estensioni automatiche di questo regime, i frequenti rigetti dei ricorsi, insomma, contro la mancanza di controllo giurisdizionale dei decreti che impongono o estendono questa forma di detenzione oltre che sulle severe restrizioni in termini di socialità con altri detenuti che questo regime comporta. Il Comitato Diritti Umani dell’Onu ha quindi mosso delle osservazioni allo Stato italiano affinché garantisca che questo regime speciale sia in linea con il Patto, anche attraverso una più celere revisione dei decreti oltre che attraverso misure che migliorino le condizioni di detenzione per coloro che sono sottoposti a questo regime, tra cui una maggior socialità tra i detenuti stessi. Risuona in questa presa di posizione quello che un altro prestigioso organismo internazionale, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e i trattamenti o le punizioni inumane o degradanti, ha riscontrato prendendo in esame, nel corso delle sue visite in Italia, il 41- bis e arrivando ad affermare quanto sia "evidente che per un considerevole numero dei detenuti in 41- bis - se non per la quasi totalità di essi - l’applicazione di tale regime di detenzione è stato rinnovato automaticamente; di conseguenza, i detenuti in questione sono stati per anni sottoposti ad un regime carcerario caratterizzato da un accumulo di restrizioni, in una situazione che potrebbe equivalere ad una negazione del concetto stesso di trattamento penitenziario, fattore essenziale per la riabilitazione. Inoltre, ricorsi presentati contro le decisioni di rinnovo sono stati, con poche eccezioni, respinti. Semmai, il Cpt va anche oltre, arrivando a ravvisare come "nell’utilizzo del regime di detenzione ex 41bis come mezzo di pressione psicologica sui prigionieri perché cooperino con la giustizia" vi sarebbe una pratica altamente discutibile sotto il profilo dell’articolo 27 della Costituzione italiana oltre che degli strumenti internazionali sui diritti umani di cui l’Italia è parte. Come Partito Radicale ci sentiamo meno soli e continuiamo a perseguire la via dei ricorsi alle giurisdizioni, interne ed internazionali, oltre che agli organismi politici sovranazionali, consapevoli del fatto che il regime del 41bis e il sistema dell’ergastolo ostativo sono forme detentive e penali figlie della Ragion di Stato e della logica emergenzialista che nulla hanno a che fare con lo Stato di Diritto che vogliamo si affermi ovunque, a partire dai luoghi più bui in cui una persona può ritrovarsi privata della libertà. *Segretario di Nessuno Tocchi Caino **Consiglio Direttivo di Nessuno Tocchi Caino La protesta degli avvocati contro la riforma del processo penale di Gian Domenico Caiazza L’Unità, 31 marzo 2017 Il nuovo regime di sospensione dei termini di prescrizione avrebbe un impatto devastante sulla già irragionevole durata dei processi. Il "processo a distanza" non può diventare la norma per semplici ragioni di opportunità e speditezza. La durissima protesta dei penalisti italiani (sono ora dieci le giornate di astensione dalle udienze proclamata dall’Unione delle Camere Penali) contro l’approvazione con voto di fiducia del Ddl 2067 di riforma del processo penale meriterebbe una assai attenta valutazione da parte di Governo e Parlamento. In questi anni, la interlocuzione dei penalisti italiani proprio sul tormentato percorso di questo disegno di riforma della giustizia penale è stata costante e non di rado fruttuosa. Non poche sono le norme giunte al vaglio e alla approvazione della Commissione Giustizia del Senato significativamente modificate in senso più liberale grazie all’incessante impegno critico e tecnico che l’Ucpi ha messo a disposizione sia del Ministro che del Parlamento. Questo tuttavia non ha potuto impedire che il Ddl pagasse un pesantissimo, inaccettabile tributo alle peggiori pulsioni penal-populistiche che attraversano, purtroppo vincenti, la politica di questi ultimi difficili anni, in particolare intervenendo su due temi cruciali: l’allungamento dei tempi della prescrizione, e la previsione - di fatto come regola, non più come straordinaria eccezione - del cd. "processo a distanza". Se questo Ddl dovesse essere definitivamente approvato senza modifiche anche dalla Camera dei deputati, l’impatto del nuovo regime di sospensione dei termini di prescrizione dei reati (che viene prolungato di oltre tre anni rispetto al regime attuale) sulla già irragionevole durata dei processi penali italiani sarebbe letteralmente devastante. Chiunque frequenti le nostre aule di giustizia sa perfettamente - al di là di ogni rozza polemica politica sul preteso "abuso della prescrizione" nel nostro Paese - che vi è un sola ragione che sollecita i giudici a caricare i ruoli di udienza e ad affrettare la fissazione dei processi: la incombenza della prescrizione dei reati contestati (anche per la negativa ricaduta sul curriculum professionale del Giudice che la deve dichiarare). La dilatazione fino ad ulteriori tre anni dei tempi di sospensione della prescrizione (che peraltro senza l’impegno dei penalisti italiani erano destinati ad essere ancora superiori!) non farà che aumentare in proporzione la già abnorme durata dei processi penali, in violazione del diritto costituzionale degli imputati ad essere giudicati in tempi ragionevoli, come d’altronde delle parti offese ad ottenere giustizia. Ma ancor più gravi sono le norme del Ddl che, se definitivamente approvate, introdurranno - unico Paese al mondo! - la ordinaria possibilità di ricorrere al cd. processo a distanza. L’imputato, non più per quelle eccezionali ragioni di sicurezza ed ordine pubblico che avevano legittimato agli occhi della stessa Corte Costituzionale la "smaterializzazione" dell’imputato, ma anche solo per una generica valutazione di opportunità e di esigenze di speditezza operata dal Giudice, seguirà il processo che decide della sua vita da un piccolo schermo installato nel carcere ove è detenuto, lontano dall’aula, dai testimoni che lo accusano, e soprattutto dall’avvocato che lo difende, per parlare con il quale sarà ogni volta necessario interloquire per telefono. Il Ddl originariamente non prevedeva un simile scempio, partorito infatti da quella Commissione Gratteri rispetto alla quale lo stesso Ministro Orlando aveva mostrato in origine non poche perplessità e resistenze. Questa norma, in definitiva, subordina il diritto fondamentale della persona di partecipare in modo pieno, diretto e senza limiti e condizionamenti al processo che lo vede imputato, a ragionieristiche e francamente mortificanti frenesie di risparmio della spesa pubblica (spese di trasferta e di scorta dei detenuti innanzitutto). Intanto, il risparmio è tutto da dimostrare, visto che, nella malaugurata ipotesi di approvazione di queste norme, sarà necessario strutturare tecnicamente tutte le aule dei Tribunali italiani e tutti gli istituti penitenziari. Ma perfino se di risparmio si trattasse, la differenza tra una giustizia penale fedele alla nostra Carta Costituzionale ed ai principi di un diritto processuale liberale, ed una giustizia penale illiberale ed indifferente ai diritti inalienabili dell’imputato, sta tutta qui: nel giudicare l’efficientismo giudiziario un bene del tutto prevalente sui fondamentali diritti costituzionali dell’imputato nel processo. Siamo dunque ancora in tempo per prevenire -ripeto - questo autentico scempio: il Governo rinunzi a porre la fiducia alla Camera, e consenta il dibattito parlamentare su questioni di simile, cruciale rilievo democratico. I penalisti non siano lasciati soli in questa strenua battaglia di civiltà e di libertà. Toghe in politica, arriva il sì della Camera: 3 anni di limbo dopo il mandato di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2017 Un primo passo. Forse ancora troppo timido però. Anche solo rispetto a quanto chiese il Csm. La Camera ha approvato ieri il disegno di legge che istituisce una serie di paletti nel rapporto tra magistrati e politica. Il testo ora torna al Senato che lo aveva già approvato in una versione differente anche su punti significativi. Le opposizioni, Movimento 5 Stelle e forze di centrodestra, non hanno partecipato al voto, mentre si sono astenuti Si e Mdp. Nel dettaglio, il disegno di legge prevede condizioni sia in ingresso sia in uscita per le toghe interessate alla politica nelle istituzioni, dal Parlamento nazionale o europeo al Governo, agli enti locali. Interessati tutti i magistrati, ordinari, amministrativi, contabili e militari, in attività o fuori ruolo. Il magistrato che si presenta alle elezioni non potrà candidarsi nella circoscrizione (o nell’ambito territoriale) elettorale dove ha svolto le funzioni nei 5 anni precedenti e dovrà essere in aspettativa da almeno 6 mesi. Nessun divieto se si è dimesso o è in pensione da almeno 2 anni. Il magistrato a fine mandato o a fine incarico sarà collocato in un distretto di Corte d’appello diverso da quello che comprende la circoscrizione dove è stato eletto. Per 3 anni non potrà ricoprire incarichi direttivi o semi-direttivi; non potrà svolgere la funzione di pubblico ministero, ma solo quelle giudicanti collegiali. Stop alla possibilità per sindaci o assessori in enti locali di svolgere insieme funzioni giudiziarie e funzioni politico-amministrative in ambiti territoriali diversi. La carica elettiva o l’incarico di governo, a qualunque livello, obbliga all’aspettativa (con collocamento fuori ruolo). Se non eletto, il magistrato rientra in un ufficio che non ricade nella circoscrizione di candidatura e per 2 anni non può esercitare funzioni inquirenti. Chi si candida o accetta incarichi di governo al di fuori delle regole verrà sanzionato sul piano disciplinare, rischiando una sanzione non inferiore alla perdita di anzianità per quattro anni. Un anno e mezzo fa, nell’ottobre 2015, il Csm aveva invece sollecitato il Governo ad adottare misure più intransigenti soprattutto sul versante del reingresso in magistratura. Veniva infatti chiesto di disciplinare i casi in cui il prolungato svolgimento di attività politico istituzionali impone al magistrato di abbandonare la toga, alla fine della esperienza politica, e di entrare nei ranghi dell’Avvocatura dello Stato o della dirigenza pubblica. Nella versione originaria del disegno di legge approvata al Senato era stata prevista, tra l’altro, una nuova causa di astensione o ricusazione del magistrato, da collocare nel Codice di procedura penale, che avrebbe evitato, per esempio, un caso Minzolini-Sinisi (un parlamentare giudicato, tra gli altri, da un ex politico di parte avversa). Detto che Minzolini si guardò comunque dal ricusare Sinisi, la versione originaria del disegno di legge prevedeva un obbligo di astensione quando il magistrato, anche solo candidato a una consultazione politica, si fosse trovato a giudicare una parte che nei 5 anni precedenti aveva a sua volta partecipato a un’elezione. Nullo l’impatto del disegno di legge sul presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, candidato alla guida del Pd. Oggetto della legge è l’esercizio dell’elettorato passivo e le relative conseguenze, mentre, per la partecipazione all’attività politica, come la segreteria di un partito, da parte di un magistrato resta in vigore il divieto previsto dall’ordinamento giudiziario. Proprio su questo punto lunedì si terrà al Csm l’udienza disciplinare su Emiliano, difeso dal procuratore di Torino Armando Spataro. Toghe in politica, la svolta non c’è di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 31 marzo 2017 Con i soli voti del Pd, la camera approva un testo più debole di quello votato tre anni fa dal senato. Dove adesso dovrà tornare, con la prospettiva di finire impantanata. Ridotti i limiti ai magistrati che vogliono tornare in servizio dopo il mandato elettivo, anche il Csm aveva proposto regole più stringenti. L’elenco dei magistrati italiani in aspettativa per incarichi elettivi non è mai stato così stringato. In questo momento sono solo nove (escludendo la quota fissa dei 16 rappresentanti al Csm), i loro nomi sono da qualche giorno sul sito del Csm. Dei nove, tre sono senatori: Felice Casson, Doris Lo Moro e la terza, Anna Finocchiaro, è anche ministra. Due sono deputati: Donatella Ferranti e Stefano Dambruoso. Due sono al governo come sottosegretari, Cosimo Ferri e Domenico Manzione. Una, Caterina Chinnici, è al parlamento europeo. Uno è presidente di regione, ed è Michele Emiliano. Tutto qui. E proprio adesso il parlamento italiano non è mai stato così vicino all’approvazione di una legge per regolare, e limitare, il ritorno delle toghe in magistratura al termine del mandato politico. Una legge invocata da sessanta anni. Ieri la camera ha approvato un testo già votato dal senato e rimasto fermo ben tre anni. Come si spiega questa che può sembrare una svolta, dopo tanto tempo? Con il fatto che la legge è stata annacquata, ridimensionata nei punti chiave. E con il fatto che il passo in avanti della camera è un’illusione ottica. Al senato la legge è destinata a impantanarsi. La Camera ha approvato con una maggioranza molto bassa, appena 211 sì, un terzo dei deputati. La legge è passata praticamente con i soli voti del Pd, un Pd peraltro assente per quasi la metà dei componenti. Se tutti i gruppi che hanno dichiarato la contrarietà alla legge avessero votato di conseguenza avrebbero potuto fermarla, senza problemi. Ma non hanno votato, contando sul fatto che il passaggio al senato - dove i numeri sono meno favorevoli alla maggioranza - rimetterà tutto in discussione. L’unico emendamento che ieri mattina ha ricevuto un sostegno convinto dell’aula, circa il doppio dei voti che ha avuto l’intera legge, è un emendamento proposto dalla commissione per venire incontro a una vecchia richiesta del Pd Giachetti. È stata prevista la pubblicazione sul sito internet del governo dell’elenco di tutti i magistrati in aspettativa, non solo quelli per incarico elettivo ma anche quelli che sono collocati presso organi costituzionali o altri uffici ed enti. Ed è stato previsto per questo uno stanziamento di 20mila euro. L’elenco è però da qualche giorno - finalmente - disponibile sul sito del Csm e senza altre spese. Le toghe in aspettativa risultano più di duecento. Questa legge è stata proposta all’inizio della legislatura da senatori di diversi partiti, di maggioranza e opposizione. Nel 2015 il Csm ha tirato le fila di un vecchio dibattito nella magistratura, proponendo al parlamento una serie di regole stringenti sul ricollocamento in servizio dei magistrati "prestati" alla politica. Le proposte venute dall’autogoverno della magistratura erano più rigorose di quelle approvate ieri dai deputati. Si immaginava la fine della carriera in toga. La legge approvata ieri ha cambiato anche il nome rispetto al testo approvato al senato. È scomparso dal titolo il riferimento alla ricusazione, perché la camera ha fatto cadere l’obbligo per il magistrato schierato politicamente di astenersi nel caso di un giudizio in cui venga coinvolta una controparte politica. Evidente il collegamento con la vicenda Minzolini, anche se il senatore di Forza Italia aveva evitato di ricusare il giudice Sinisi, ex sottosegretario del centrosinistra, per sollevare il caso in aula nel dibattito sulla decadenza conseguente alla condanna. Con le nuove norme un magistrato non potrà candidarsi nel territorio dove ha esercitato negli ultimi 5 anni, e per farlo dovrà essere in aspettativa da 6 mesi o in pensione da due anni - non sarebbe più possibile un caso come quello dell’ex procuratore capo di Taranto che a giugno correrà come sindaco (per pochi mesi, Sebastio è in pensione da un anno e mezzo). Rispetto al senato, il Pd ha attenuato il testo soprattutto per quello che riguarda il ritorno nei ranghi della magistratura. Se prima il magistrato eletto o candidato poteva tornare a esercitare solo in un distretto diverso da quello dove si era candidato e da quello in cui era stato eletto, restando lontano per 5 anni dagli incarichi direttivi e di giudice monocratico, adesso l’attesa sarà di tre anni, dopo di che si potrà tornare anche laddove eletti. Non solo, per la camera i magistrati in possesso dei requisiti potranno essere collocati dal Csm anche in Cassazione. Il requisito è l’anzianità, ed è stato bocciato l’emendamento dei 5 Stelle che puntava a fermarla durante gli anni di mandato politico (tanto che i grillini pensano a una norma pro-Finocchiaro, che è in parlamento da 30 anni e ha i titoli per la Cassazione; la ministra ha dichiarato che non tornerà in ogni caso a indossare la toga). La camera ha annacquato anche la norma sui magistrati candidati e non eletti: potranno tornare dopo due anni (il senato aveva detto 5) anche nel proprio territorio, a patto di fare i giudici e non i pm (il senato aveva escluso del tutto la possibilità di ritorno "a casa"). Nessun limiti adesso per i candidati non eletti negli enti locali, se non quello di stare lontani due anni. Poi potranno assumere anche incarichi direttivi e non collegiali. Nessun limite e basta per le alte magistrature, Cassazione, Consiglio di stato, e Corte dei Conti: dopo il mandato politico torneranno al loro posto. Magistrati in politica, rissa sulla legge soft di Errico Novi Il Dubbio, 31 marzo 2017 Passa alla Camera il testo che limita le candidature delle toghe. Paletti meno rigidi per chi torna a fare il pm dopo il mandato parlamentare e anche per chi non è eletto. I politici non potranno ricusare il giudice se è un ex avversario. Passa alla Camera la legge sui magistrati in politica: il via libera di ieri (211 favorevoli, 29 astenuti e 2 soli contrari, la gran parte dell’opposizione diserta il voto finale) rispedisce in Senato un testo che da Palazzo Madama era arrivato a Montecitorio ben 3 anni fa. Un lunghissimo stand-by risolto dall’improvvisa accelerazione delle scorse settimane, che ha visto però diverse modifiche "di alleggerimento" rispetto alla versione di partenza. È soprattutto Forza Italia a protestare per la completa soppressione dell’articolo 13, che avrebbe consentito a un politico "parte" in un processo di ricusare un giudice che avesse avuto a propria volta un mandato elettivo alle spalle. Norma che avrebbe impedito a Giannicola Sinisi di condannare in Appello Augusto Minzolini, qualora fosse stata in vigore all’epoca in cui l’ex direttore del Tg1 fu indagato. E l’intera opposizione si scaglia contro i dem per la disciplina transitoria introdotta per chi è oggi parlamentare, eurodeputato o in carica negli enti locali: se si hanno i requisiti, a fine mandato politico, si potrà riprendere la carriera di magistrato dalla Corte di Cassazione o dalla Procura nazionale antimafia. Restano comunque, per tutte le altre toghe, l’impossibilità di candidarsi nello stesso territorio in cui si sono svolte funzioni giurisdizionali negli ultimi 5 anni e il divieto di rientrare, dopo incarichi elettivi o di governo, in quello stesso distretto. Tutto può essere rinfacciato, in politica, e la regola sfugge a ogni principio di coerenza. Se ne ha conferma a pochi minuti dal via libera della Camera alla legge (che ora torna in Senato) sulla candidabilità dei giudici: il vicepresidente Cinque Stelle della Commissione Giustizia Alfonso Bonafede rivendica sfacciato che il suo partito "ha fatto il crollare il teatrino sui magistrati: niente più partiti divisi tra amici e nemici dei giudici, a noi interessa solo il confine che deve dividere politica e giustizia, e quel confine è la pietra angolare sulla quale si regge la democrazia". Discorso bellissimo: magari non te lo aspetti dal partito che brandisce le inchieste (sugli altri) come una clava. Segno che, quando c’è di mezzo la magistratura, si scaldano un po’ tutti e si perde il contatto con la realtà. Certo è che il gruppo grillino è tra quelli che a ieri a Montecitorio non hanno votato il testo sui magistrati in politica. Non lo fanno neppure Forza Italia e il centrodestra: si contano i 211 sì della maggioranza strettamente intesa, il gruppo bersanian-dalemiano Mdp si astiene insieme con Sinistra italiana (29 deputati in tutto) e arrivano 2 soli contrari. Diserzioni marginali, ma con l’aria che tira non è detto che nell’ulteriore passaggio a Palazzo Madama tutto fili liscio. Non ci sarà il sostegno di Ala, e se pure i "fuoriusciti" dal Pd facessero gli schizzinosi, il sì definitivo sarebbe a rischio. Eppure qualche paletto il testo della Camera lo lascia. Resta "l’incompatibilità territoriale" tra funzione giudiziaria e mandati politici: non ci si può candidare né al Parlamento né alle cariche elettive locali nello stesso territorio in cui si è stati magistrati negli ultimi 5 anni. Si tratta della norma chiave, che si combina con quella, pure ovvia, dell’obbligo di mettersi in aspettativa 6 mesi prima del voto se si vuole scendere in campo: regola che oggi rappresenta un incredibile vulnus per le elezioni negli enti locali. Tanto che il Csm ne ha reclamato l’adozione un paio d’anni fa. Con la legge approvata ieri a Montecitorio dopo 3 anni di bagnomaria in commissione Giustizia, il paradosso sarebbe eliminato. E anche dopo la parentesi politica, il magistrato deve tenersi lontano dal distretto in cui è stato eletto: rientra in ruolo altrove, il che vuol dire che almeno fino alla prima richiesta di trasferimento (dopo 4 anni) non può fare il giudice o il pm lì dove si imbatterebbe nei suoi avversari politici. In più, per 3 anni non può esercitare funzioni monocratiche e neppure assumere incarichi direttivi. Ma è vero che al Senato le cose erano state definite in modo diverso. Più rigoroso. Su questo Forza Italia ha buoni motivi per lamentarsi. In particolare la versione licenziata nell’ormai remoto 2014 a Palazzo Madama impediva definitivamente al magistrato eletto al Parlamento europeo o nazionale di rimettersi a lavorare in un distretto coincidente anche solo in parte con la circoscrizione dove si era candidato. Una previsione severa ma forse giusta. Come pure sensati erano i limiti più stringenti per le toghe messe in lista o indicate per cariche locali (compresa quella di sindaco) che poi non sono elette: nella nuova versione cade il vincolo quinquennale di rientrare con funzioni solo collegiali e non assumere incarichi direttivi. "Chi ha perso le elezioni può tornare in tribunale ancora più incattivito di chi è eletto", fa notare l’azzurro Francesco Paolo Sisto, avvocato e tra i più impietosi nel rinfacciare al Pd le varie limature apportate alla Camera. Tra esame degli emendamenti e dichiarazioni di voto si scatena così una messinscena inevitabile, in cui forzisti e Cinque Stelle più di tutti impallinano il partito di Matteo Renzi: "Avete agito con vergognosa maleducazione, quando con un blitz vi siete riscritti da soli i pareri sulle modifiche", accusa Sisto che aveva lasciato l’incarico di relatore in polemica con il renziano con cui lo condivideva, Walter Verini. Il quale, secondo il deputato berlusconiano, dovrebbe "vergognarsi" soprattutto per aver soppresso l’intero articolo 13 della versione uscita da Palazzo Madama: quello che consentiva la ricusazione del giudice rientrato dalla politica a chiunque fosse parte nel processo e nei 5 anni precedenti fosse stato eletto o semplicemente candidato. Se per assurdo una legge del genere fosse esistita all’epoca in cui Augusto Minzolini fu indagato, Giannicola Sinisi, ex sottosegretario Ds, non avrebbe ma in cui potuto giudicarlo in Appello. Le tante "limatine" - È vero insomma che di limatine ce ne sono tante e variamente disseminate: i 5 anni del Senato si riducono ai 3 della versione votata ieri anche rispetto al periodo cuscinetto in cui le toghe elette negli enti locali non possono rientrare nel territorio dove si erano candidate. È un esempio e se ne potrebbero fare altri. Ma quello che avvelena di più la discussione è la norma transitoria, che per l’opposizione (e qui oltre a Forza Italia e grillini si fa sentire anche il leghista Molteni) "crea un privilegio" per chi oggi è in Parlamento: potrà andare in Cassazione o alla Procura antimafia se ne ha maturato i diritti. "Devono passare per una doppia selezione come tutti", ricorda il responsabile Giustizia del Pd David Ermini. "Ma chi ha battuto il marciapiede della giustizia sa che avranno la strada spianata", ribatte Sisto. Nel mirino c’è anche la presidente della commissione Giustizia Donatella Ferranti, che, dicono Fi e M5S, i compagni di partito avrebbero voluto "privilegiare". "Inutile buonismo" - È l’addolcimento dell’intera normativa a innescare la battuta forse più lungimirante, quella del berlusconiano Rocco Palese: "Voi del Pd non illudetevi che mostrarvi premurosi con la Magistratura vi salverà". Non esattamente un buon auspicio. Ma pure Ermini ne ha una buona: "Ma com’è che non siete stati voi del centrodestra a fare questa legge quando eravate al governo?". I toni liquidatori dell’opposizione sono probabilmente eccessivi, anche perché tra una piega e l’altra dell’articolato spuntano clausole interessanti come l’istituzione della banca dati per tutti i magistrati fuori ruolo. "Saniamo una lacuna", commenta soddisfatto Roberto Giachetti. All’articolo 7 c’è pure un codicillo che preclude per un anno gli incarichi direttivi a chi ha è stato, per esempio, capo di gabinetto di un ministro. Fosse già in vigore, impedirebbe a Giovanni Melillo di proporsi come procuratore di Napoli. Ma che Palazzo Madama possa apporre l’ultimo sigillo così in fretta è previsione temeraria. Da Emiliano a Ingroia, così le nuove regole avrebbero stoppato la carriera nelle urne di Liana Milella La Repubblica, 31 marzo 2017 Il vento anti toghe spira deciso. Lo cavalcano M5S e Forza Italia. Ma nel sodalizio si stringono anche i bersaniani. Fa colpo, sul cartellone luminoso dell’aula di Montecitorio, quella costante alleanza. Il Pd quasi si scusa. Per anni ha esibito toghe famose nelle sue liste. Piero Grasso, il presidente del Senato. E prima Gerardo D’Ambrosio, l’ex procuratore di Milano, protagonista di Mani pulite. E Giarrico Carofiglio, il pm romanziere. E Felice Casson, il giudice istruttore di Gladio, E Doris Lo Moro, la toga calabrese anti ‘ndrangheta. E andando a ritroso ecco Luciano Violante e Anna Finocchiaro. Elvio Fassone e Alberto Maritati. Gianni Kessler e Francesco Bonito. E adesso? Adesso il Pd, in aula, costringe al silenzio Donatella Ferranti, proprio la presidente della commissione Giustizia, che in due giorni d’aula, pur seduta al banco dei Nove, non pronuncia parola. Lei si schermisce, visibilmente sconvolta dal clima anti magistratura. In un angolo parla al telefono e un refolo di conversazione arriva al cronista. "Io chiudo qui. Questo mi basta. In questo Parlamento non ci torno". Eppure proprio Donatella Ferranti ha le "carte a posto". Anche con la nuova legge - se mai passerà al Senato le forche dei Nitto Palma e dei Caliendo, i duri di Fi - lei sarebbe stata candidabile. Nel 2008, quando fu capolista nel collegio Lazio 2, aveva lasciato la procura di Viterbo dal 1999 per un posto di magistrato al Csm, fino a diventarne segretaria generale. Neppure l’aspettativa obbligatoria di 6 mesi la tocca, perché quell’anno lo scioglimento delle Camere fu anticipato. Eppure questo non la salva dal "vento anti toghe". Che certo soffia per chi, come il governatore della Puglia Michele Emiliano, oggi concorrente di Renzi alla segreteria del Pd, da pm della direzione distrettuale antimafia di Bari, si tuffò d’un colpo nella corsa per sindaco. Era il 2003, la faccenda fece scalpore. Lui si mise in aspettativa. Ma, proprio con la nuova legge - che porta la firma dell’ex pm di Roma Francesco Nitto Palma, da sempre considerato un previtiano, e di Pierantonio Zanettin, oggi al Csm per Fi - per Emiliano non ci sarebbe stato spazio, avrebbe dovuto aspettare 5 anni per candidarsi nel luogo doveva aveva lavorato. A guardare a ritroso, enti locali a parte dove tuttora è possibile fare l’assessore e continuare a fare anche il giudice in un altra zona, le toghe più famose scese in politica non sono completamente fuori regola. Piero Grasso ad esempio. Quando dice sì a Bersani nel dicembre 2012, ed era Procuratore nazionale antimafia, porta al Csm la richiesta di pensionamento e quella per l’aspettativa, ma col Pd mette un paletto: "Non mi candido in Sicilia perché è li che ho lavorato". Il voto anticipato a febbraio 2013, per la legge Palma, lo sgancia dai 6 mesi di aspettativa obbligatoria. Antonio Ingroia, il procuratore aggiunto del processo trattativa Stato-mafia, corre quell’anno. Anche lui sul filo. A luglio 2012 aveva chiesto al Csm il fuori ruolo per andare in Guatemala. Glielo danno dopo l’estate e parte. Già la legge gli vieta di candidarsi in Sicilia. Toghe dell’Isola come Massimo Russo e Caterina Chinnici, ex assessori della giunta Lombardo, o Nicolò Marino nella giunta Crocetta, con la nuova legge non avrebbero potuto accettare l’incarico. Fuori anche il sindaco di Napoli Luigi De Magistris quando nel giugno 2009 corre per parlamentare europeo con l’Idv di Di Pietro lasciandosi appena alle spalle il posto di giudice del tribunale del riesami a Napoli. E Anna Finocchiaro, 30 da toga in politica? Nel lontano 1987, quando si candidò per la prima volta, è pm a Catania. Quindi ora subirebbe uno stop. E Giuseppe Ayala, il mitico pm del maxi processo a Cosa nostra? Dentro a metà: nel 1992 si candida con il Pri di La Malfa, ma era già fuori ruolo come consulente della commissione Antimafia di Chiaromonte. Però corre a Palermo. Ora sarebbe impossibile. Nullaosta per D’Ambrosio. Era in pensione dal 2002, quando scese in lizza per il Pd in Lombardia nel 2006. E Casson? In aspettativa da un anno quando si candidò al Senato nel 2006, ma in Veneto dov’era stato pm. Ai limiti anche la sua corsa per sindaco l’anno prima con un’aspettativa di soli 3 mesi. In regola Doris Lo Moro, l’accusatrice di Minzolini. Era al tribunale di Roma, quando fu eletta in Calabria. Mani Pulite. Il pool riunito 25 anni dopo: "eravamo medici, estirpavamo tumori" di Piero Colaprico La Repubblica, 31 marzo 2017 "Quello che è successo con l’inchiesta Mani Pulite è - secondo Gherardo Colombo - la prova scientifica che è impossibile battere la corruzione diffusa attraverso la giustizia penale, serve altro, a cominciare dall’educazione nelle scuole". Antonio Di Pietro non concorda: "Noi eravamo come medici. Esiste il tumore come malattia, e ancora la cura generale non c’è, ma tagli oggi e tagli domani, un po’ di tumori li abbiamo levati e scusate se è poco". Più netto Piercamillo Davigo: "Se non ci fosse stata Mani pulite, non avremmo saputo molto sulla corruzione, invece l’effetto conoscitivo c’è stato, sono scomparsi quattro partiti storici, ma sono stati i ladri, non i magistrati, a far cadere la prima Repubblica". Le due trincee sulla neutralità e l’efficacia dell’inchiesta cominciata il 17 febbraio del 1992 con l’arresto del socialista Mario Chiesa resteranno contrapposte, ma chi l’altra sera stava a Merate, nell’auditorium del collegio Villoresi, stracolmo, almeno 600 persone, dev’essersi accorto che l’uso della locuzione "toghe rosse" sia un falso storico. I tre magistrati del pool Mani pulite erano e sono diversi tra loro, non si vedevano dai "vecchi tempi" e si sono riuniti grazie all’invito dell’associazione Bang di Merate e del loro collega in pensione Piero Calabrò. Quasi tre ore, anche con domande del pubblico, rispondendo anche al presunto occhio di riguardo per l’ex Pci: "Noi a Milano abbiamo messo sotto accusa 125 persone dell’ex partito comunista", dice Colombo. "Ma se abbiamo beccato i capi dei partiti di maggioranza, pensare che avevamo paura di Occhetto e D’Alema pare esagerato", scherza Di Pietro. E rivela anche un triste retroscena sulla tragedia di Raul Gardini: "Era latitante, io avevo mandato i carabinieri nelle sue residenze e quelli di Milano mi hanno detto: "È qui". Avrei potuto arrestarlo, ma avevo dato la parola al suo avvocato, che mi aveva assicurato che si sarebbe presentato. Invece, la mattina, prima di uscire, e aveva già addosso il panciotto, s’è ucciso (…) Era lui che aveva portato a Botteghe Oscure i soldi della tangente Enimont". Accanto ai ricordi, è stata sfiorata più volte l’attualità, compresa la candidatura di Michele Emiliano alla guida dei Democratici: "Un magistrato non può iscriversi ai partiti, punto. Ma, comunque - puntualizza Davigo - se i partiti non vogliono i magistrati in politica, possono fare una cosa molto semplice, non candidarli più". Per il pubblico, con non pochi giovani, "serata indimenticabile e non retorica", questa l’opinione generale. Viviamo in una repubblica giudiziaria? Io dico no, la colpa è della politica di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 31 marzo 2017 Il giustizialismo non è la causa. è invece la conseguenza di una crisi che ha investito la democrazia e la classe intellettuale di questo paese. Il tema della Repubblica giudiziaria posto da Violante e de Giovanni - è fuorviante. La vicenda di Alatri, così come quella di Minzolini, indicano che il rapporto causa- effetto tra bieco giustizialismo ed azione di coloro, che hanno il potere di decidere sulla libertà degli altri, va ribaltato. È il populismo della politica a scegliere a chi dare forza. Il terribile delitto di Alatri ha suscitato una violenta emozione popolare che, da ultimo, si è indirizzata anche contro i magistrati. Sotto accusa, in particolare, è finito il Gip che aveva ordinato la scarcerazione di uno dei presunti aggressori arrestato perché trovato in possesso di alcune dosi di hashish. Il fatto che la scarcerazione fosse giusta o ingiusta, rispettosa delle norme o no, non ha avuto alcun rilievo. L’argomento centrale, nel suo disarmante semplicismo, è diventato: se quel delinquente non fosse stato scarcerato, non avrebbe potuto compiere quella brutale e violenta aggressione. La reazione alla vicenda di Alatri consente, allora, di svolgere alcune riflessioni sui caratteri di quella Repubblica giudiziaria la cui esistenza hanno denunciato dapprima Violante e poi, su questo Giornale, De Giovanni. Il primo ha individuato il punto di deragliamento nella legge elettorale del 2005, il Porcellum, che, lacerando il rapporto tra elettori ed eletti, avrebbe ferito la democrazia e portato ad un sistema in cui "il codice penale è la nuova Magna Charta dell’etica pubblica". Per la verità qualche perplessità sul pulpito da cui viene questa indicazione è inevitabile, ove si ricordi la posizione fortissima di Violante a sostegno delle Procure nel periodo di Tangentopoli. Meno semplicistica la posizione di De Giovanni, il quale osserva, in modo più convincente, che le inchieste giudiziarie dei primi anni 90 hanno portato ad un risultato che non ha precedenti nelle altre democrazie occidentali, l’annientamento di un intero sistema politico, con il ribaltamento dei rapporti tra politica e magistratura. Afferma De Giovanni "il nostro sistema è stato distrutto da Mani Pulite e non è più rinato". Le due posizioni sono, comunque, accomunate dalla considerazione di una netta attuale prevalenza del potere giudiziario, con la conseguenza che tutte le forze politiche sono oggi in ginocchio davanti alla magistratura, chi sostenendola e chi subendola. Tuttavia, la vicenda di Alatri, ed altre vicende simili, che vedono sul banco degli imputati i giudici e, comunque, chiunque abbia avuto lo scrupolo di porsi responsabilmente il problema di un’applicazione razionale del diritto (in questo senso sembra pertinente riferirsi anche al voto del Parlamento sulla vicenda di Minzolini), indicano che porre al centro della attuale fenomenologia il tema della Repubblica giudiziaria è, molto probabilmente, del tutto fuorviante. Difatti, la vicenda di Alatri, così come quella di Minzolini, indicano che il rapporto causa- effetto tra bieco giustizialismo ed azione di coloro, che hanno il potere di decidere sulla libertà degli altri, va ribaltato. Non sono affatto questi ultimi ad orientare il populismo ed a giovarsi della sua forza. È il populismo a scegliere a chi dare forza e a renderlo strumento delle proprie pulsioni irrazionali. D’altra parte, il periodo storico che torna alla mente quando si è in presenza di fasi di giustizialismo esasperato, è il periodo del terrore della Rivoluzione francese, nel quale la ghigliottina che operava senza sosta costituiva il momento di soddisfazione delle pulsioni popolari. Le dinamiche, fatte ovviamente le dovute proporzioni, erano sostanzialmente identiche a quelle attuali e nessuno storico ha ricostruito quel periodo come un momento di strapotere dell’accusa e dei giudici che condannavano alla ghigliottina. Parlare, perciò, di Repubblica giudiziaria appare fuorviante nella situazione attuale. Il tema centrale non è oggi quello di una riforma della giustizia, fermo restando che alcuni abusi frequenti richiedono urgenti correttivi. Anche se i Procuratori della Repubblica fossero resi più deboli, la questione politica di fondo non muterebbe. Il populismo comunque avrebbe la forza di orientare il sistema verso una pratica giustizialista senza se e senza ma. Con tutti i rischi di autoritarismo che implica una semplificazione estrema delle questioni sociali, ridotte ai temi della sola onestà. Questo significa che la politica deve riprendere il suo ruolo perduto che diventa, soprattutto, quello di orientare i cittadini combattendo le semplificazioni e spingendo le persone a ricominciare a ragionare. Nei decenni immediatamente successivi al secondo dopoguerra, nelle sezioni del Partito Comunista italiano, alla sera, dopo un’intera faticosissima giornata di lavoro, si riunivano braccianti ed operai e veniva sviluppato un ragionamento collettivo fatto di analisi, di proposte e controproposte, di attenta considerazione anche delle posizioni avversarie. Oggi tutto questo è sostituito dagli slogan e dalle fake news distribuiti attraverso internet. La società dell’impressione ha sostituito quella della ragione. È questo il vero tema, alla cui soluzione sono chiamate non solo la politica, ma anche le élite intellettuali del Paese. La cosiddetta Repubblica giudiziaria è solo un prodotto e non la causa della situazione attuale. Il giudizio sulle intercettazioni non è causa di ricusazione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2017 Corte di cassazione, Terza sezione penale, sentenza 30 marzo 2017 n. 15849. Non può essere ricusato il Gip che ha autorizzato le intercettazioni sulla base di un’asserita indebita manifestazione di convincimento. Lo afferma la Corte di cassazione con la sentenza n. 15849 della Terza sezione penale depositata ieri. Per la Corte, il provvedimento che autorizza le intercettazioni non rappresenta manifestazione indebita del convincimento del magistrato rilevante ai fini della ricusazione del giudice, quando la sua motivazione è riferita ai presupposti per le intercettazioni o all’esistenza dei gravi indizi di reato e all’indispensabilità delle stesse ai fini della prosecuzione delle indagini. È stato così giudicato infondato il ricorso contro l’ordinanza della Corte d’appello di Napoli che, a sua volta, aveva respinto la dichiarazione di ricusazione avanzata dalla persona offesa nei confronti del Gip di Benevento nell’ambito di un procedimento per violenza sessuale. Per corroborare l’impugnazione, si sosteneva che il Gip sarebbe andato oltre quanto previsto dal Codice di procedura penale: le motivazioni sulla richiesta di autorizzazione alle intercettazioni cioè dovevano essere limitate e circoscritte; tuttavia il Gip avrebbe in sostanza scritto un "progetto di sentenza" dal contenuto sostanzialmente assolutorio nei confronti dell’indagato. La Cassazione osserva, in punta di fatto, che in realtà la Corte d’appello ha respinto la domanda di ricusazione mettendo in evidenza che la versione dei fatti esposta dalla minorenne presunta vittima della violenza appariva in contrasto con quella resa da una testimone presente all’episodio di violenza. Circostanza che minava l’attendibità della ricostruzione, anche a prescindere dall’inutilità investigativa delle intercettazioni, visto che le amiche della minorenne, eventuali destinatarie delle intercettazioni stesse, avevano semplicemente avuto notizia della vicenda da quest’ultima e non erano invece presenti all’episodio. In punta di diritto, la Cassazione ricorda che può fondare la ricusazione solo "l’anticipazione di valutazioni non giustificate dalle sequenza procedimentali previste dalla legge o tali da invadere, senza necessità e senza nesso funzionale con l’atto da compiere, l’ambito della decisione finale di merito, anticipandone in tutto o in parte l’esito". In altre parole, l’espressione indebita del convincimento del magistrato deve consistere nell’anticipazione dell’opinione sulla colpevolezza o innocenza dell’imputato, senza che ci sia alcun tipo di necessità con la natura del provvedimento adottato. La conseguenza è che la convinzione espressa in maniera solo incidentale può avere uno spessore come causa di ricusazione quando in qualche modo può essere anticipata la decisione di merito. Non ha convinto la Cassazione neppure il riferimento alla pretesa violazione dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sotto il profilo dell’imparzialità del giudice, valutata a prescindere dalla successione delle fasi processuali. "Deve infatti rilevarsi - conclude la Corte - che, dal tenore del provvedimento emesso dal Gip poi ricusato, non emerge alcuna sua convinzione circa la colpevolezza o l’innocenza dell’indagato, anche prescindendo dalla rilevanza funzionale di tale provvedimento in relazione al suo scopo tipico". Auto rubata, il cambio targa non prova il riciclaggio del conducente di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2017 Corte d’Appello di Roma - Sezione 2 - Sentenza del 25 gennaio 2017 n. 75. Ricettazione e non riciclaggio per chi viene fermato alla guida di un’auto rubata, con il telaio alterato e le targhe sostituite, se manca la dimostrazione di quel "quid pluris idoneo a indicare che la condotta, consistita nella alterazione o manipolazione del bene, sia riconducibile, quanto meno nella forma del concorso di persone, all’imputato". E siccome nel caso affrontato, come sostenuto dalla difesa, difettava la prova che l’imputato avesse manomesso il telaio o le targhe, la Corte d’Appello di Roma, sentenza del 25 gennaio 2017 n. 75, ha accolto (parzialmente) l’impugnazione e riformato la sentenza di primo grado condannando il ricorrente per ricettazione anziché riciclaggio. Secondo il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, ricorda la sentenza, "si ha riciclaggio ogniqualvolta si pongano in essere operazioni in modo da ostacolare l’identificazione della provenienza del bene, attraverso un’attività che, con riferimento al caso delle autovetture, impedisce il collegamento delle stesse con il proprietario che ne è stato spogliato, in ciò distinguendosi dal delitto di ricettazione". Per cui, continua il Collegio, "non può dubitarsi che la manomissione del numero di telaio dell’autovettura, così come la sostituzione della targa, costituiscano chiaramente operazioni tese a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa della cosa". Del resto, la norma sul riciclaggio reprime "sia le attività che si esplicano sul bene trasformandolo o modificandolo parzialmente, sia quelle altre che, senza incidere sulla cosa ovvero senza alterarne i dati esteriori, sono comunque di ostacolo per la ricerca della sua provenienza delittuosa". Tuttavia, prosegue, perché si configuri il reato, "non è sufficiente il semplice possesso del bene d’illecita provenienza, alterato in modo da ostacolarne l’identificazione della provenienza delittuosa", occorrendo quel "quid pluris" che coinvolga direttamente l’imputato nelle operazioni di sviamento della prova che nel caso è mancato. Al contrario, secondo il Tribunale, proprio il fatto che la Fiat Brava fosse stata rubata quindici giorni prima "rendeva del tutto improbabile che la manomissione del telaio e la sostituzione delle targhe fosse avvenuta ad opera di soggetti diversi dall’imputato o di suoi eventuali complici". Per il giudice di secondo grado "il ragionamento non è condivisibile, dal momento che quindici giorni costituiscono un tempo ragionevolmente sufficiente per alterare i segni identificativi della vettura e immetterla nuovamente su strada, cedendola a terzi". In ogni caso è dirimente l’assenza di prove circa la condotta prevista dal reato di riciclaggio. Non solo, il fatto che l’imputato fosse consapevole della provenienza delittuosa della vettura - in quanto la chiave di accensione non apriva gli sportelli, sulla serratura lato conducente vi erano evidenti segni di effrazione e i documenti di circolazione si riferivano ad altro modello - "non può comportare che gli venga addebitata una diversa condotta criminosa - l’aver ostacolato l’identificazione del veicolo rubato - che non risulta commessa". Il fatto reato, conclude la decisione, va quindi ricondotto all’ipotesi della ricettazione, "sussistendone sia l’elemento oggettivo, che si sostanzia nel possesso della cosa proveniente da delitto, che l’elemento soggettivo, essendo evidente la consapevolezza della provenienza delittuosa". Contestazione in forma "chiusa" o "aperta", configurabilità e conseguenze Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2017 Esecuzione penale - Divieto di un secondo giudizio ex art. 649 c.p.p. -Contestazione cd. aperta - Medesimezza del nuovo fatto contestato - Non sussiste. Nella fattispecie in esame, il ricorrente riteneva che i fatti a lui contestati fossero i medesimi di quelli che avevano costituito oggetto di una precedente sentenza irrevocabile riguardante gli stessi imputati e le stesse modalità di svolgimento dell’azione delittuosa (nello specifico: spaccio di sostanze stupefacenti). Ai fini della determinazione della "medesimezza" del fatto, ex art. 649 c.p.p., la contestazione cd. aperta (senza indicazione della data di cessazione dell’illecito) non copre tutti gli episodi e i comportamenti criminosi avvenuti nel periodo di riferimento ma soltanto quelli concretamente individuabili in base all’imputazione effettuata e agli elementi di prova introdotti nel processo. Nel caso concreto, infatti, ai fini della insussistenza della medesimezza del nuovo fatto contestato rispetto a quello già giudicato in precedenza, rileva sia la circostanza che nel nuovo procedimento figurano acquirenti delle sostanze psicotrope diversi e ulteriori rispetto quelli individuati nella sentenza irrevocabile, sia la diversità delle modalità di commissione del fatto nuovo contestato (attività di spaccio svolta attraverso pusher incaricati della vendita). • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 29 marzo 2017 n. 15564. Reato - Reato permanente - Contestazione in forma cosiddetta "aperta" - Esclusiva rilevanza processuale - Verifica in concreto della protrazione della condotta criminosa - Necessità. In presenza di un reato permanente nel quale la contestazione sia stata effettuata nella forma cosiddetta "aperta" o a "consumazione in atto", senza indicazione della data di cessazione della condotta illecita, la regola di "natura processuale" per la quale la permanenza si considera cessata con la pronuncia della sentenza di primo grado non equivale a presunzione di colpevolezza fino a quella data, spettando all’accusa l’onere di fornire la prova a carico dell’imputato in ordine al protrarsi della condotta criminosa fino all’indicato ultimo limite processuale. (In motivazione, la S.C. ha precisato che il principio deve trovare rigorosa applicazione, soprattutto nelle ipotesi, quale quella di specie, in cui una successione di leggi abbia determinato effetti modificativi "in pejus" del trattamento sanzionatorio). • Corte cassazione, sezione II penale, sentenza 6 giugno 2016 n. 23343. Reato permanente - Contestazione in forma "chiusa" o "aperta" - Configurabilità - Conseguenze. Nel caso di contestazione di un reato permanente nella forma cosiddetta "chiusa", con precisa indicazione della data di cessazione della condotta illecita (ad es. con la formula "accertato fino al..."), il giudice può tener conto dell’eventuale protrarsi della consumazione soltanto se ciò sia oggetto di un’ulteriore contestazione a opera del pubblico ministero ex art. 516 c.p.p.; qualora invece il reato permanente sia stato contestato in forma c.d. "aperta" - essendosi il P.M. limitato a indicare solo la data di inizio della consumazione, ovvero quella dell’accertamento - il giudice può valutare, senza necessità di contestazioni suppletive, anche la condotta criminosa eventualmente posta in essere fino alla data della sentenza di primo grado. • Corte cassazione, sezione II penale, sentenza 19 maggio 2016 n. 20798. Violazione degli obblighi di assistenza familiare - Violazione degli obblighi di assistenza familiare - Precedente giudizio - Condotta giudicata - Contestazione in forma aperta - Periodo da intendersi comprensivo - Parziale coincidenza con il periodo contestato nel nuovo procedimento - Non doversi procedere per ne bis in idem. In materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare, la condotta già giudicata, contestata in forma aperta, vale a dire senza l’indicazione della data di consumazione dell’illecito, deve ritenersi comprensiva di tutto l’arco temporale intercorrente tra la genesi dell’obbligo, vale a dire la data di emissione del provvedimento del Giudice civile, recante l’obbligo di corresponsione del contributo al mantenimento, e la data del deposito del dispositivo della sentenza emessa all’esito del predetto procedimento penale. Ne consegue che laddove la condotta nuovamente contestata al soggetto in relazione al medesimo delitto, sia relativa al predetto periodo, deve concludersi per una declaratoria di non doversi procedere per divieto di ne bis in idem. Nella specie il giudicato per estensione soggettiva (identità delle persone offese) coincide con i fatti per i quali si procede, per estensione oggettiva, invece, li include. • Tribunale di Taranto, sezione II penale, sentenza 9 gennaio 2015 n. 3008. Cosa giudicata - Divieto di un secondo giudizio ("ne bis in idem") - Giudicato assolutorio relativo a reato permanente contestato in forma cosiddetta aperta - Effetto preclusivo - Individuazione. La preclusione del giudicato assolutorio, modulandosi sul dato formale dell’imputazione, involge tutto l’arco temporale della contestazione della permanenza, dal termine iniziale fino a quello finale se indicato, ovvero, nel caso di contestazione in forma cosiddetta aperta, fino alla data della sentenza di primo grado, non potendo rilevare che nel giudizio definito con assoluzione il P.M. abbia addotto - o il giudice assunto - prove che concernono la permanenza della condotta criminosa per tutto - ovvero, soltanto per parte - del relativo arco temporale. • Corte cassazione, sezione I penale, sentenza 7 febbraio 2012 n. 4796. Roma: si taglia la gola e muore dissanguato a Rebibbia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 marzo 2017 La notizia è trapelata grazie a una lettera di un altro detenuto. Si è ucciso tagliandosi la giugulare, morendo dissanguato lentamente. Si chiamava Carmelo Mortari, 58enne, recluso al reparto G9 del carcere di Rebibbia e si è suicidato tra la notte di sabato e domenica. L’uomo era un detenuto comune, entrato in carcere nel 2008, sarebbe uscire nel 2021 e aveva maturato più di 600 giorni di liberazione anticipata. La notizia è trapelata soltanto ieri grazie a una lettera di un detenuto del carcere di Rebibbia giunta a Rita Bernardini, l’esponente del Partito Radicale. L’autore della lettera, avendo ascoltato in precedenza il programma radiofonico Radio Carcere che si è occupato dei suicidi in carcere, ha fatto presente che un altro detenuto si è ammazzato senza che alcuno ne parlasse. Non con la classica impiccagione, ma con un gesto ancora più drammatico: si è tagliato la gola fino a morire dissanguato. Una modalità che solleva qualche dubbio e che sarà analizzata nel corso delle indagini per stabilire la dinamica che ha portato alla morte di Carmelo Mortari. La situazione nelle carceri è oramai sempre più insostenibile. Ad oggi siamo arrivati a 15 suicidi dall’inizio dell’anno, per un totale di 30 decessi. Febbraio poi è il mese nero per quanto riguarda i penitenziari romani. La settimana scorsa un uomo di 30 anni, di origine bosniaca, detenuto per tentato omicidio, si era impiccato utilizzando un lenzuolo legato alla grata del bagno. Qualche giorno prima aveva appreso della morte di sua figlia di un anno. Il suicidio era avvenuto nella stessa sezione nella quale era già morto, il 23 febbraio, un ragazzo di 22 anni con problemi psichici e detenuto in carcere nonostante il suo posto fosse la Rems. Si tratta della seconda sezione, "è un’area che contiene 170 detenuti con un solo agente a vigilare interventi", aveva reso noto il sindacato della polizia penitenziaria Fns Cisl Lazio. La mattanza all’interno delle carceri italiane continua e, se non fosse per i salvataggi in extremis da parte della polizia penitenziaria, le morti sarebbero molte di più. Nel 2016 il triste elenco è arrivato a 39 detenuti che si sono tolti la vita dietro le sbarre e ben 120 morti per malattia. Nel 2015 sono stati 43 i suicidi nelle carceri italiani e 123 i morti. "Se verrà confermato questo trend - spiega Rita Bernardini al Dubbio, il 2017 potrebbe subire un record di suicidi e degrado carcerario quasi al livello che fece scattare la sentenza Torreggiani". In carcere si trovano sempre di più casi psichiatrici dove si fa un uso smodato di psicofarmaci e ansiolitici. Farmaci che vengono somministrati a chiunque palesa un malessere. "C’è bisogno di pene alternative - spiega sempre la radicale Bernardini, condizioni vivibili, attività trattamentali che impegnino il detenuto durante la sua permanenza in carcere". Vivere da reclusi è già una punizione. La doppia punizione è incostituzionale. Il non fare nulla, essere privi di stimoli, rimanere isolati, acuisce la sofferenza e depressione. Taranto: detenuto 36enne ingerisce due lamette da barba, è in coma pugliapress.org, 31 marzo 2017 È in coma profondo nel reparto di rianimazione dell’ospedale "Santissima Annunziata" di Taranto. Si tratta di Giuseppe Cantore, 36enne tarantino, detenuto presso la casa circondariale di Taranto. Cantore, è detenuto dal febbraio del 2016 con l’accusa di detenzione illecita di arma da fuoco. L’uomo dal 2016 ha più volte tentato il suicidio, prima tentando l’impiccagione e poi ingerendo lamette da barba. È stato un altro detenuto a salvarlo e a dare l’allarme. L’uomo al momento è ricoverato, ma da quanto si apprende, il coma non sarebbe dovuto alle lamette ingerite ma da un possibile soffocamento. Nola (Na): Antigone e Fondazione Michelucci contro la costruzione del maxi-carcere di Andrea Oleandri* Ristretti Orizzonti, 31 marzo 2017 Da alcune settimane è in corso la gara indetta dal ministero della Giustizia per la progettazione esecutiva di un carcere a Nola, in Campania. Un provvedimento che vede la forte contrarietà di Antigone e della Fondazione Michelucci per la dimensione, il totale isolamento dalla città, la scelta della zona che presenta problemi di carattere idrogeologico e di inquinamento, nonché la vaghezza relativamente alle attività lavorative che saranno svolte e ai rapporti con il territorio su questo fronte. Elementi che portano le due organizzazioni a sostenere come questo bando sia in aperto contrasto con le indicazioni provenienti dal rapporto conclusivo degli Stati Generali dell’esecuzione penale. "La dimensione esorbitante prescelta, per una capienza regolamentare di 1.200 detenuti, che potranno realisticamente diventare 2.400 presenti essendo le celle progettate come singole, farebbe dell’Istituto nolano uno dei più capienti carceri in Italia e rischia di trasformare la Città Metropolitana di Napoli in un vero e proprio distretto del penitenziario, ad una prison valley all’italiana, in cui non sarà mai possibile attuare il delicato compito di reinserimento sociale che la Costituzione repubblicana attribuisce alla pena". A dirlo è Alessio Scandurra, responsabile dell’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione. A queste osservazioni si aggiungo quelle di Corrado Marcetti, architetto della Fondazione Michelucci, secondo il quale "la localizzazione prescelta è in territorio extraurbano, periferico e mal collegato, in una zona agricola un tempo cuore della Campania Felix, poi avvelenata (e mai bonificata) dai fusti di liquami interrati dalla camorra". "La zona - prosegue Marcetti - è interessata anche da problemi di carattere idrogeologico come l’innalzamento della falda acquifera che ha causato impaludamenti e allagamenti nei terreni più depressi, con il rischio che i costi di costruzione della nuova cementificazione carceraria vadano fuori controllo". Problemi vengono rilevati anche nell’impianto progettuale nel quale non c’è traccia di un rapporto costruttivo tra carcere e città. Così come è configurato il carcere potrebbe essere collocato in qualsiasi territorio, gli spazi destinati alle attività lavorative sono caratterizzati da assoluta genericità e non c’è traccia di rapporto con le attività del territorio. Lo schema del nuovo carcere è oltretutto introverso e labirintico, crea corti chiuse e fa perdere l’orientamento, e ricorda da vicino il carcere "Le Nuove" di Torino progettato dall’Ing. Polani nel 1859 e consegnato all’Amministrazione penitenziaria nel 1869. Il bando per il carcere di Nola è infine un totale svilimento del ruolo dell’architetto che concorre alla gara, dato che lo schema ad esso allegato è vincolativo e non può essere variato. Sarebbe stato assai meglio chiedere ad un concorso internazionale di architettura di interpretare le nuove indicazioni che arrivano dal rapporto conclusivo degli Stati Generali dell’esecuzione penale, anziché riprendere un progetto che risale alla stagione infausta del Piano Carceri. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Milano: il pluralismo religioso dietro le sbarre di Zita Dazzi La Repubblica, 31 marzo 2017 Il carcere è il posto giusto per radicalizzarsi e diventare un fanatico religioso, se manca la libertà di esprimere la propria fede, se non c’è nessuno con cui parlare di quello che si muove dentro dopo una condanna, dopo tanti giorni di solitudine dietro alle sbarre. È per questo che nei nove istituti di pena lombardi parte un progetto che mira ad educare per primi gli operatori penitenziari a quello che significa il pluralismo religioso, il rispetto del credo altrui. Non sono pochi i terroristi che hanno trovato la loro scuola di formazione in galera ed è per questo che al progetto del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, collaborano Curia, Comunità ebraica, Coreis (comunità religiosa islamica italiana), Unione buddista, università Cattolica e degli Studi, Caritas ambrosiana e Veneranda Biblioteca Ambrosiana, che già hanno organizzato tre giornate di formazione ed informazione rivolte agli operatori penitenziari ed ai docenti dei corsi scolastici presenti negli istituti di pena. Corsi e lezioni che si ripeteranno nei prossimi mesi, con i grandi esperti di queste tematiche, a partire dal professore di islamistica Paolo Branca, che è stato uno dei grandi sponsor dell’iniziativa, presentata ieri pomeriggio a San Vittore, con Luigi Pagano (provveditore regionale alle carceri), Gloria Manzelli (direttore della Casa circondariale), Giovanna Di Rosa (presidente del tribunale di sorveglianza). Obiettivo numero uno delle lezioni che si rivolgono alle guardie è spiegare cose anche molto elementari, come il giorno dedicato alla preghiera nelle diverse confessioni, le diete religiose, le usanze relative alla pulizia del corpo, fornendo al personale carcerario "strumenti per comprendere meglio la diversità delle culture e delle religioni, evitare il crearsi di resistenze o forme di pregiudizio e contrastare i fenomeni di radicalizzazione e di proselitismo aggressivo che si possono sviluppare negli istituti di pena", come è stato spiegato ieri. "Oggi il pluralismo è un dato di fatto e non una scelta. Non è più un fenomeno sociale transitorio o reversibile, ma è ormai profondamente radicato nel nostro paese, sempre più multiculturale e multi-religioso": cosa che impone anche dietro le sbarre di sperimentare "modelli di convivenza che armonizzino le regole dell’accoglienza con quelle dell’appartenenza nel rispetto della diversità". L’idea è che la risocializzazione dei detenuti, la loro nuova cittadinanza, in termini di rieducazione e integrazione sociale, passa anche dalla corresponsabilizzazione di chi in carcere ha le "leve del potere", le chiavi delle porte, la possibilità di dettar legge. Trento: Galeorto, il progetto di agricoltura sociale della Cooperativa La Sfera confinionline.it, 31 marzo 2017 Inclusione sociale, networking e radicamento sul territorio. Questi sono gli elementi chiave che caratterizzano il progetto di agricoltura sociale promosso dalla cooperativa La Sfera all’interno della Casa Circondariale di Trento. La presenza di una superficie di circa 9.000 mq all’interno della struttura penitenziaria ci ha portato, negli ultimi mesi del 2014, ad immaginare un percorso di agricoltura sociale finalizzato all’inserimento lavorativo di un gruppo di detenuti e, conseguentemente, alla coltivazione biologica di piante da orto ed officinali. L’esperienza è nata nel 2015 ed è proseguita nel 2016; in quest’ultimo anno sono stati 6 i detenuti protagonisti del progetto. La forte volontà di dare continuità al progetto, l’ambizione di creare nuove opportunità di lavoro all’interno della Casa Circondariale, accompagnate dalla propensione della cooperativa allo stringere relazioni, ci hanno portato ad immaginare un diverso rapporto con il mercato, alternativo a quello della vendita all’ingrosso. Così è nato Galeorto, il brand che contraddistingue materie prime e prodotti di qualità realizzati nell’ambito dell’omonimo progetto di agricoltura sociale promosso da La Sfera all’interno del carcere di Trento. Questo progetto dunque non rappresenta solamente una modalità per la cooperativa di perseguire la sua mission, ma anche un’occasione per i partner locali di essere parte di un progetto unico. Oltre allo zafferano, prodotto più prezioso, la squadra di detenuti, coordinata da un team di esperti nel campo agroalimentare ed educativo della cooperativa, si è cimentata nella coltivazione di cavoli, trasformati in crauti, e erbe officinali e aromatiche come la calendula, il fiordaliso, la lavanda, la malva, la melissa, l’origano, il rosmarino, la salvia, la santoreggia e il timo. Negli ultimi mesi La Sfera si è attivata con l’intento di intercettare dei partner-trasformatori, aziende produttive che desiderano sviluppare una propria "linea sociale" utilizzando le materie prime prodotte in carcere e impiegandole come ingredienti per i propri prodotti. Ad oggi la cooperativa ha stretto un accordo di collaborazione con l’Agribirrificio Argenteum di Cortesano, che condivide con La Sfera la visione valoriale e che si caratterizza per una continua ricerca di sperimentazione e di sapori nuovi. Insieme ad Argenteum produciamo una particolare birra aromatizzata allo zafferano, la nostra Zafferana. Napoli: il caffè delle "Lazzarelle", dal carcere di Pozzuoli a Formia di Francesca Di Nora 24notizie.com, 31 marzo 2017 La scelta delle Lazzarelle di produrre caffè nasce dal legame del territorio, Napoli, con il caffè e dalla volontà di mettere insieme due segmenti deboli: le donne detenute e i piccoli produttori di caffè del sud del mondo. I grani vengono infatti acquistati dalla cooperativa Shadilly che promuove progetti di cooperazione con i piccoli produttori di caffè. Un caffè prodotto secondo l’antica tradizione artigianale napoletana, nella quale la miscela è composta da un cinquanta per cento di arabica e un cinquanta per cento robusta. Il metodo della tostatura è lento, la gassificazione naturale. La lentezza del processo produttivo tradizionale è considerata l’unico mezzo per far affiorare la raffinatezza e la complessità aromatica del caffè di elevata qualità. Negli ultimi anni le Lazzarelle hanno affiancato alla produzione del caffè anche quella del thè, infusi, tisane abbinando anche prodotti in ceramica frutto della propria produzione artistica e tradizionale degli artigiani di Vietri. Nel tempo la cooperativa è cresciuta grazie alle persone che vi hanno lavorato e a quelle che sono state incontrate fuori, consolidando i legami con il territorio e prendendo parte attivamente a una rete di economia solidale di prodotti delle imprese che lavori nelle carceri. In quest’avventura che vede le "Lazzarelle" cimentarsi in nuove attività è nata l’esperienza con l’agri-gelateria di Formia "Gretel factory". Taranto: ex detenuti e disoccupati insieme per l’ambiente di Luca Liverani Avvenire, 31 marzo 2017 Il progetto del Cem (Centro educativo Murialdo) di Taranto: ex detenuti e disoccupati insieme per l’ambiente. C’è la lotta alla disoccupazione giovanile, il recupero dei detenuti, l’integrazione dei migranti, la bonifica di terreni inquinati. Tutto questo e altro ancora nel progetto che il Centro educativo Murialdo di Taranto, assieme alla Caritas diocesana, sta portando avanti con tenacia. Un’iniziativa ambiziosa, contro la logica dello scarto che colpisce le persone e la natura. Una delle dodici "opere segno" dell’impegno Caritas in Puglia, visitate ieri dai 500 partecipanti al 39° Convegno nazionale delle Caritas diocesane, che si chiude oggi a Castellaneta. Il nuovo Centro educativo Murialdo (Cem) sta decollando nella nuova sede, individuata quattro anni fa dopo lo sfratto dato dall’Anas dalla ex casa cantoniera, concessa in comodato e faticosamente ristrutturata a spese del Cem. Un centro dove sono passati tanti giovani, riusciti a inventarsi un lavoro: "Hanno aperto pasticcerie, un ristorante, negozi di prodotti biologici, di articoli per la danza, di informatica", racconta il direttore del Cem padre Nicola Preziuso. Ma con lo sfratto bisogna ricominciare, altrove. Padre Preziuso non si perde d’animo. Individua un’area abbandonata della Marina Militare, oltre quattro ettari affacciati sul Mar Piccolo, accanto al Parco Cimino. Sette edifici diroccati, 53 ulivi secolari e una montagna di rifiuti. Ottenuta dalla Marina la concessione, si avviano le analisi del terreno per verificarne la salubrità. E l’Agenzia regionale per l’ambiente dà la brutta notizia: mezzo ettaro è contaminato da policlorurobifenile, il cancerogeno Pcb, e da metalli pesanti, con livelli 4 o 5 volte superiori ai limiti. Ma non è finita: presto al Cem arriva l’ingiunzione di bonifica dalla Regione. "Ci hanno detto: voi siete i referenti giuridici, tocca a voi, poi in sede processuale si vedrà chi ha inquinato". Proibitivi i costi di bonifica: portare via mezzo ettaro di terra per mezzo metro di profondità sarebbe costato oltre 300mila euro. Impensabile per un’associazione che vive col 5 per mille. Come uscirne? Un amico bioarchitetto propone di provare con un’attività di "fitorimedio". In collaborazione con Cnr e Università di Taranto parte il progetto sperimentale: far bonificare la terra agli alberi. L’area, viene ripulita, arata, arricchita con compost, irrigata a goccia. E a marzo 2013 parte la piantumazione: 680 talee di pioppi, rametti alti una spanna di una varietà incrociata capace di trattenere nelle radici i metalli e scomporre le molecole di Pcb. "Il Cnr ci disse che servivano quattro anni per i primi risultati, ma già dopo 14 mesi i Pcb erano rientrati nella norma e i metalli dimezzati". Oggi quei pioppi sono alti 13 metri, e altri 680 sono stati aggiunti, un altro boschetto fittissimo, una pianta ogni mezzo metro, un filare ogni due metri. Tutti lavori eseguiti da detenuti, grazie a un protocollo tra il Cem e il tribunale, lavori di pubblica utilità per scontare le pene. "È uno degli sbocchi che offriamo ai detenuti, altri li aiutiamo con tirocinii. E le aziende aprono le porte perché sono persone preparate e hanno come garanzia i Giuseppini del Murialdo e la chiesa di Taranto. Ma ci hanno aiutato molto anche diversi giovani immigrati". Dei sette stabili fatiscenti ne è stato ristrutturato uno da 40 metri quadri. "Per gli altri abbiamo molti progetti: foresteria, scuole per panificatori e pasticcieri, sala convegni, cappella interconfessionale. Ci servono 3 o 4 milioni di euro. Dove li troveremo? La Caritas continua ad aiutarci dandoci le attrezzature per i corsi, l’attore Arturo Brachetti ci fa da testimonial, poi c’è la Congregazione. La verità è che si è scatenata la voglia di ridare alla città uno dei suoi luoghi più belli". Massa Carrara: la Polizia penitenziaria protesta contro la mancanza di personale di Francesco Scolaro La Nazione, 31 marzo 2017 Sit-in di protesta dei sindacati della Polizia penitenziaria davanti al penitenziario massese. L’emorragia di personale va avanti da anni e ora al carcere di Massa la situazione ha oltrepassato il limite: il lavoro continua ad aumentare, i servizi e i "buchi" da coprire sono sempre più, senza contare l’apertura della famosa Ala B avvenuta due anni fa, fra tante promesse mai mantenute. Così ieri il personale della Casa di reclusione ha deciso di dimostrare apertamente tutto il disagio che vive quotidianamente e il disappunto verso una politica distante e disinteressata, con un sit-in davanti all’ingresso del carcere. I numeri danno la misura del problema. "A fronte di un organico totale di 149 dipendenti, così come previsto da Decreto ministeriale, mancano circa 30 unità - sottolineano Pasquale Tutino e Mario Novani del sindacato Sappe - nel dettaglio sono 11 ispettori, 7 soprintendenti, 3 commissari oltre a 10 unità di agenti e assistenti di polizia penitenziaria. E questo solo nel comparto sicurezza. Fra gli impiegati, rispetto a una pianta organica di 43 dipendenti, ne mancano circa 20. Il risultato è che tocca al personale di polizia penitenziaria svolgere le funzioni amministrative e contabili invece di occuparsi della sicurezza. Serve un intervento decisivo da parte del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) affinché assuma nuovo personale, così come promesso dalla politica e in particolare dal sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri all’apertura dell’Ala B. Almeno una ventina di dipendenti del reparto di sicurezza". Concetti ribaditi da Anna Vitiello (Osapp), Francesco Aufiero (Uilpa/Pp), Pasquale Punzo (Ugl/PP), Stefano Borrega (Uspp) e dalla Fp Cgil/PP. "Sono qui a testimoniare la vicinanza dell’istituzione ai lavoratori - ha dichiarato la direttrice Maria Martone - non è una protesta fine a se stessa: le organizzazioni sindacali vogliono far sentire la voce del personale che si trova a lavorare in condizioni di grande sacrificio. Oltre alla carenza di organico, abbiamo 11 distacchi di personale in uscita (che quindi lavorano in altri carceri) a fronte di un solo distacco in entrata. Due anni fa avevamo aperto il nuovo reparto solo perché ci avevano mandato 10 unità in missione che però ci hanno tolto dopo 4 mesi. Ce ne avevano mandate 5 a supporto solo dopo un interpello regionale e ce le hanno tolte 10 giorni fa. Ora faremo un altro interpello regionale a carattere urgente per chiederne il reintegro. La situazione è critica. Siamo stati costretti a chiudere i laboratori di sartoria 10 giorni, in questo mese, per la mancanza di personale. Se le istituzioni vogliono che resti il fiore all’occhiello devono intervenire e assumere". Lecce: Giliberti (Fi) "carcere sovraffollato e con poco personale" corrieresalentino.it, 31 marzo 2017 Ieri mattina il candidato sindaco del Centrodestra, Mauro Giliberti, ha incontrato il direttore e il vicedirettore della Casa Circondariale, il comandante della Polizia Penitenziaria e le principali sigle sindacali. "La situazione del carcere di Lecce vede una struttura, fra le più grandi in Italia, sovraffollata e sottodimensionata nel personale. Il carcere di Lecce potrebbe ospitare 680 detenuti, ma in questo momento ne ospita 970. Inoltre, il personale della Polizia Penitenziaria è sottodimensionato di almeno 70 unità, che diventeranno 100 con la prossima apertura del reparto psichiatrico, solo per essere coerenti con gli standard minimi di sicurezza". Il candidato sindaco ha esplicitamente preso l’impegno di essere al fianco dei Sindacati, del comandante della Polizia Penitenziaria, del Direttore e del Vicedirettore del carcere nel denunciare la grave situazione in cui il Governo nazionale costringe la struttura, anche alla luce del fatto che il Garante nazionale dei diritti dei detenuti ha evidenziato, nella relazione annuale, l’efficienza del carcere leccese. Inoltre, Giliberti ha manifestato l’intenzione di sottoscrivere dei protocolli d’intesa con il Direttore di Borgo San Nicola per avvalersi di quei detenuti - selezionati dai vertici della Casa circondariale - che, secondo l’art. 21 dell’Ordinamento Penitenziario, possono essere gratuitamente impiegati nella città per la manutenzione del verde pubblico e delle spiagge, nonché per l’adozione di monumenti. "Il carcere di Lecce non deve essere un recinto all’interno della città ma un’infrastruttura a cui dedicare attenzione, per la finalità che la Costituzione gli assegna: il reinserimento del detenuto nella società". Genova: botte in carcere, prosciolti cinque medici di Giuseppe Filetto La Repubblica, 31 marzo 2017 Non andranno a processo. Scagionati 7 degli 11 indagati del pestaggio di un detenuto nel carcere di Marassi. L’archiviazione è stata disposta per 5 medici in servizio nelle "Case Rosse", in un primo momento dal pm Giuseppe Longo chiamati a rispondere di omissioni. Tra loro Marilena Zaccardi, nota per essere stata processata per le torture a Bolzaneto durante il G8 (i cui reati sono andati in prescrizione) ritenuta responsabile in sede civile. Gli altri medici sono; Ilias Zannis, Giuseppe Papatola, Silvano Bertirotti e Silvia Oldrati. A quest’ultima, una psicologa, il detenuto Ferdinando B. aveva raccontato di essere stato pestato dalla guardia carceraria Dario Pinchera, di 30 anni, già a processo con l’accusa di falso, lesioni gravi e abuso d’autorità. La Procura della Repubblica lo accusa di avere picchiato il detenuto, genovese di 37 anni, provocandogli lesioni gravi; inoltre, di avere mentito ai superiori. Era stato lo stesso recluso a denunciare la vicenda, raccontando di essere stato pestato all’interno di un locale privo di telecamere di sorveglianza. Pinchera lo avrebbe manganellato. In un primo momento l’agente aveva raccontato che il detenuto si era fatto male cadendo, poi di essere stato aggredito e di averlo colpito come reazione. E però Pinchera, già sospeso dal gip e poi dall’Amministrazione Penitenziaria, nel 2007 era stato arrestato a Cassino per una sparatoria; qualche anno prima, minorenne, indagato - e poi archiviato - per un lancio di sassi in autostrada che aveva provocato la morte di un automobilista. Ma questa è un’altra storia. Tornando al pestaggio di Marassi, la dottoressa Oldrati a sua volta aveva riferito ai colleghi della Asl Tre. I medici, però, dopo un consulto, non avrebbero compilato un opportuno referto. Adesso, l’archiviazione è stata chiesta dal pm e firmata dal gip Alessia Solombrino: "giacché all’esito dell’attività investigativa... deve essere esclusa la configurabilità dell’elemento psicologico del dolo". I medici, pur senza un formale referto, della vicenda avrebbero informato i superiori. L’archiviazione è arrivata anche per Cristiano Laurenti e Patrizia Smiraldi, rispettivamente vice comandante della polizia penitenziaria ed agente. Le indagini, inoltre, hanno portato ad indagare il comandante Massimo Di Bisceglie. Che però si dichiara estraneo alla vicenda. Nello stesso fascicolo gli agenti Giuseppe Ciuccio, Mario Cutrano, Giuseppe Trinchese e Maurizio Barile. Secondo la magistratura avrebbero fatto finta di non sapere. Tant’è che, a vario titolo, sono indagati di omessa denuncia, favoreggiamento e falso. Per loro il pm deve ancora decidere, se chiedere il processo o l’archiviazione. Parma: corso di cucina vegana in carcere di Romana Gardani La Repubblica, 31 marzo 2017 "Si, però lo facciamo solo se ci sono adesioni" è stata la risposta della Direzione del Carcere di Parma alla proposta di fare un corso di cucina vegana per i detenuti. E di adesioni ce ne sono state. Tante. Forse per curiosità o per riempire le lunghe giornate di detenzione molti detenuti si sono iscritti. Però, poiché la cucina laboratorio non è tanto grande, sono stati selezionati in 15 tra tutti quelli che avevano fatto richiesta. Così ho incontrato i detenuti prima dell’inizio del corso nell’autunno 2016. Mi ha commossa ed emozionata entrare in una sala riunioni dove 15 persone si sono alzate in piedi al mio ingresso. A me non capita tutti i giorni. "Buongiorno dottoressa". Ed eravamo tutti un po’ intimiditi. Ho spiegato un po’ la filosofia vegana, l’impatto degli allevamenti intensivi sul pianeta, ho illustrato lo scopo del corso, ho risposto alle domande. Un detenuto, un po’ preoccupato, mi ha chiesto "Ma dopo dobbiamo sempre mangiare così?". L’ho tranquillizzato sul fatto che avrebbe sempre potuto mangiare quello che voleva. Ed abbiamo cominciato la prima lezione, con qualche problema tecnico iniziale (un lavandino che perdeva ed ha allagato il pavimento, la mancanza di qualche attrezzo). Ma tutto è stato risolto. Abbiamo cucinato insieme, la tensione si è stemperata rapidamente, abbiamo mangiato quello che avevamo preparato, con diversi ospiti curiosi che si sono aggregati alla squadra per assaggiare (guardie, educatrici). Il cibo è sempre anche un collante di anime, non solo di palati. Si mangia, si chiacchiera, si ride (le barzellette del carcere sono particolari. "Come si chiama la moglie del drone? La drona"). La tensione si scioglie ("posso darti del tu?"). E, un po’ sorpresi, i miei allievi hanno scoperto che il cibo vegano è anche buono. Anche molto buono! Così le lezioni si sono srotolate con i miei allievi sempre più convinti di quello che mangiavano ("non ho mai mangiato così bene", "sai che questa cucina mi sta prendendo molto?") e - dopo diverse settimane con qualche pausa (vacanze, influenza, … "Romana perché non c’eri? Ci sei mancata! E noi ti siamo mancati?") - siamo arrivati all’ultima lezione. Si, mi siete mancati. Mi è mancata la vostra energia, la vostra premura ("Romana lascia, ci penso io"), sempre pronti a darmi una mano. La solidarietà un po’ ruvida tra di voi. Mi sono mancate le vostre battute, le risate che ci siamo fatti, il cibo mangiato insieme, i vostri consigli, la vostra ironia, la vostra dolcezza. E ripenso al timore che provavo prima di iniziare il corso (con 15 uomini, una sola guardia e tutti quei coltelli). Timori del tutto infondati. La percezione di pericolo che ho tra di voi è la stessa che provo quando passeggio in piazza Garibaldi. Cioè zero. Anzi, mi sento coccolata, molto più che mentre passeggio in piazza. E questo mi ha portata a riflettere su di voi e sulla vostra condizione. Sulla vostra fragilità e sulla vostra simpatia. Ed ho pensato ai brutti scherzi del destino, della vita, della famiglia, dell’ambiente in cui si cresce o si vive e che ad alcuni fa intraprendere una strada che li porta "dentro" mentre con la vostra umanità e la vostra intelligenza, avreste potuto intraprendere chissà quali altre strade. Ripenso al fatto che all’inizio eravate un po’ chiusi e abbottonati mentre, alla fine, non smettevate più di chiacchierare e di svelarmi i vostri segreti di cucina e le vostre ricette speciali. E di raccontarmi i profumi ed i sapori dei piatti di casa vostra. E come si fa un forno in cella (fornellino a gas + sgabello + coperta. "Davvero? Ma non è pericoloso?") E come si preparano i dolci senza bilancia. E quell’ultima lezione in cui non finivate più di baciarmi e di abbracciarmi. E di tenermi la mano ("Romana, non ci lasci, vero?") E tu, che hai la stessa età di mia figlia e che mi hai detto "uno di cazzate ne fa una nella vita, poi impara", spero davvero di non vederti più "dentro". Spero davvero di non vedere più " dentro" nessuno di voi, perché vi voglio bene e spero che usciate presto a riprendervi quella libertà che io ho e che amo tanto. Spero che possiate intraprendere una strada nuova, che possiate trovare un lavoro che vi piace e che alla sera, con l’anima in pace, vi possiate ritrovare nel calore di chi vi vuole bene. Ma questo non è un addio. È solo un arrivederci tra amici. Siate sicuri che un posto nel mio cuore l’avrete per sempre. Nasce Infomigrants, il portale europeo per i migranti La Stampa, 31 marzo 2017 È stato creato dall’Ansa, in collaborazione a France Media Monde e Deutsche Welle. È nato infomigrants.net, il portale europeo in inglese, arabo e francese che mira ad informare in maniera completa, equilibrata ed innovativa i migranti e i rifugiati, sia coloro che pensano di partire, nei paesi di origine e di transito, sia quelli già giunti in Europa. L’Ansa, attraverso il suo servizio multilingue per il Mediterraneo AnsaMed, è partner di France Media Monde e Deutsche Welle in questo progetto sostenuto dalla Commissione Europea a fronte del fenomeno migratorio, il più rilevante degli ultimi anni per l’area euro-mediterranea. Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, il sito offre storie, notizie, inchieste, gallerie fotografiche, servizi in video ma anche e soprattutto schede di servizio destinati ai migranti: quindi indicazioni sulla legalità, su permessi di soggiorno, assistenza scolastica, accesso alla sanità e ogni aspetto che sia di rilevanza informativa per chi intraprende o pensa di intraprendere, per motivi diversi, il percorso dell’immigrazione verso l’Europa. Illustrando problemi e pericoli, ma anche raccontando nelle tre lingue vicende di integrazione e successo imprenditoriale. L’Ansa, in coordinamento con i partner francesi e tedeschi, partecipa al portale grazie alla sua capillare rete di corrispondenti e collaboratori diffusa su tutta l’area del Mediterraneo e dei Balcani, fornendo un contributo vitale e di prima mano dal principale fronte delle migrazioni, quello del sud Europa e del Nord Africa, con il punto di vista dell’Italia, paese che più di ogni altro in Europa sta gestendo la crisi migratoria. Al di là dell’importanza del progetto Infomigrants sul fronte dell’informazione, esso rappresenta anche un esempio di cooperazione tra grandi media europei. Aiutare i poveri, non punirli La Repubblica, 31 marzo 2017 Un appello contro il decreto Minniti lanciato da personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo. Per aderire, i promotori hanno invitato a scrivere alla mail appello2017@gmail.com. In questi giorni le Camere stanno discutendo due decreti - quello sulla "sicurezza urbana" e quello sul "contrasto all’immigrazione illegale"- che portano il nome del Ministro dell’Interno, Marco Minniti. Entrambi i decreti hanno la stessa radice: la persecuzione dei poveri, dei senza fissa dimora, degli immigrati e la filosofia della "prevenzione" per via giudiziaria e poliziesca del disagio sociale, del malessere urbano e la limitazione del diritto d’asilo. Con il decreto sulla "sicurezza urbana", in nome del "decoro" e della "tranquillità" dei cittadini si dà ai sindaci il potere di sanzionare, multare ed espellere i poveri e i senza fissa dimora dai centri storici. Con il decreto sulla immigrazione si ripristinano e si rilanciano i centri di detenzione e si limita gravemente -una previsione incostituzionale- ai richiedenti asilo la possibilità di ricorso. Questi due decreti trattano i poveri come delinquenti e i richiedenti asilo come truffatori: invece di affrontare la povertà e la fuga dalle guerre con le politiche sociali, la solidarietà, i diritti si sceglie la strada punitiva, securitaria, poliziesca. Chiediamo ai deputati e ai senatori - nel prosieguo della discussione parlamentare- di negare l’approvazione a questi due decreti e sosteniamo la mobilitazione delle organizzazioni della società civile che si stanno opponendo a questi due provvedimenti. Sottoscrivono: Fabrizio Gifuni, Wilma Labate, Giulio Marcon, Valerio Mastandrea, Roberto Saviano, Andrea Segre, Padre Alex Zanotelli Migranti, la schizofrenia del governo sui diritti umani di Raffaele K. Salinari Il Dubbio, 31 marzo 2017 Un colpo al cerchio e uno alla botte: la contemporanea approvazione al Senato del Decreto legge Minniti-Orlando, e della nuova normativa di protezione per i Minori stranieri non accompagnati (Misna), prima firmataria l’On. Sandra Zampa del Pd, introduce per legge una schizofrenia in materia di rispetto dei Diritti umani che suscita non poche preoccupazioni. Da una parte, infatti, il decreto costruisce e costituisce una serie di procedure decisamente contrarie al fondamento giuridico irrinunciabile per ogni Diritto che sia erga omnes, e dunque democratico, cioè il principio costituzionale: la legge è uguale per tutti. Dall’altra il nostro Paese si mette in condizioni, finalmente, di tradurre in legge ciò che ha approvato, sottoscritto e ratificato già nel lontano 1989 con la Convenzione Onu sui Diritti dei minori. La contraddizione tra le due normative è talmente palese da creare una schizofrenia tale da compromettere il sistema giuridico nel suo complesso. Il Decreto, lo hanno detto sia associazioni, sia giuristi, tratta i migranti come esseri umani diversi, che non hanno il diritto a poter seguire le stesse norme previste per i cittadini a parte intera. A queste persone viene così, di fatto, amputata una parte di umanità. Attraverso la riduzione dei gradi di giudizio, infatti, è come se alla loro "nuda vita", alla loro dignità, per usare delle categorie biopolitiche care a Foucault, venisse attribuita una scadenza, una sorta codice a barre impresso sui corpi al momento del loro arrivo, un marchio del loro stesso status di richiedenti asilo, creando così una condizione che deve essere evasa velocemente perché la garanzia che li mantiene nel novero degli umani scade, e dunque la merce va restituita velocemente al mittente. Ma a parte la riduzione dei gradi di giudizio, è la logica del "respingimento comunicativo" che pesa oltremodo su queste nuove procedure. Si antipatizza con i richiedenti asilo sin da subito, non solo mettendoli in Centri creati appositamente per seguire la nuova normativa anticostituzionale, ma facendogli capire che sono strutture il cui scopo non è sostenere il loro diritto ad avere uno status che gli sarebbe dovuto per il solo fatto di essere arrivati sin qui fuggendo a costo della vita le loro situazioni d’origine, bensì che dovranno essere loro a fornire l’onere della prova, sottoponendoli ad una giustizia contra reo che li ritiene colpevoli di truffa ai danni dello stile di vita nazionale, sino a che non siano in grado di dimostrare la verità della loro condizione umana. È evidente, e se ne sono accorti anche i Senatori - che comunque hanno risposto al vecchio adagio Senatori probi viri Senatus mala bestia - che introducendo una forma parallela di giustizia, tribunali speciali inclusi, si costituisce un piano inclinato che potrebbe includere nella sua logica altri settori e fasce sociali rispondenti, un domani, agli stessi criteri di umanità dimezzata o problematica, non da espellere magari, ma da confinare in strutture segregate. Certo una nota positiva resta l’approvazione sulla protezione dei Minori non accompagnati. Solo una osservazione a questo proposito: le associazioni che hanno sostenuto la legge, e fornito ai legislatori le esperienze concrete su cui basarsi, hanno sempre fatto rilevare che, in materia di Diritti umani, e di minori in particolare, bisogne essere non solo giusti, ma anche lungimiranti: accogliere e rispettare oggi il diritto di un bambino, significa domani crescere un cittadino democratico e rispettoso di quelle stesse regole di convivenza civile che lo hanno voluto tale, senza nessuna distinzione. *Presidente Terre des Hommes In Afghanistan la guerra dei 16 anni di Giordano Stabile La Stampa, 31 marzo 2017 La guerra al terrorismo è davvero infinita e quella cominciata in Afghanistan nell’ottobre del 2001 si avvia a battere tutti i record, per lo meno per quanto riguarda i conflitti che hanno visto coinvolte le truppe americane negli ultimi due secoli. Come ha notato sul "New York Times" l’ambasciatore Richard G. Olson, ex rappresentante speciale per Afghanistan e Pakistan, stiamo per arrivare a sedici anni di presenza ininterrotta di soldati americani. Soltanto la guerra del Vietnam, con i suoi 19 anni e 5 mesi, è durata di più. Olson è stato l’uomo di Barack Obama nel cosiddetto Af-Pak, il groviglio afghano-pachistano, "tomba di tutti gli imperi". L’annotazione statistica serviva a lanciare una proposta inimmaginabile fino a pochi anni fa. Trattare con i Taleban per mettere fine al conflitto. Cioè con gli i slami sti del burqa obbligatorio e delle lapidazioni delle adultere allo stadio al posto delle partite di calcio e dei concerti. Che però "non minacciano gli Stati Uniti" e non hanno mai voluto imporre le loro pratiche medievali "al di fuori dell’Afghanistan". Le trattative erano già iniziate nel 2013, quando gli studenti coranici avevano aperto una loro rappresentanza a Doha, in Qatar, per negoziare con il governo di Hamid Karzai. Ma poi avevano issato la loro bandiera ed esposto l’insegna Emirato islamico dell’Afghanistan, come se fosse un’ambasciata. Inaccettabile per Kabul. I colloqui si erano arenati, era rimasta la soluzione militare. È continuato il progressivo ritiro delle forze occidentali per mettere la sicurezza nella mani dell’esercito afghano. Da un picco di 140 mila uomini, centomila americani, nel 2011, siamo scesi oggi a 13 mila. Ora però il generale John W. Nicholson Jr., comandante delle forze statunitensi nel Paese, ha chiesto a Washington di inviare nuove truppe. Nonostante l’addestramento e i mezzi occidentali, l’esercito afghano non ce la fa. Sulla carta conta su 320 mila uomini, ma la metà sarebbero solo stipendi. La corruzione resta altissima. I Taleban, forti di 30-60 mila combattenti, a seconda delle stime, sono riusciti a occupare metà dei 101 distretti del Paese. Controllano solo le aeree rurali ma molti capoluoghi, come Kunduz, Tarin Kot, Lashkar Gah, sono sotto assedio. La scorsa settimana hanno conquistato lo strategico distretto di Sangin, nella provincia dell’Helmand, da sempre una delle loro roccaforti. Ma anche la provincia centrale dell’Uruzgan è quasi completamente nelle loro mani. Anche se l’esercito afghano lancia regolarmente delle controffensive con le unità meglio addestrate, è ormai chiaro che il grosso delle sue forze non regge senza l’aiuto dei soldati occidentali. Un altro "surge", cioè l’invio massiccio di rinforzi come tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, non è ipotizzabile, anche se la nuova amministrazione Trump ha già di fatto archiviato l’ipotesi di un ritiro totale. I costi sono enormi e sempre meno giustificabili senza una vittoria definitiva in vista. Dal 2001 solo gli Stati Uniti hanno speso 783 miliardi di dollari. Per Washington il dispiegamento di un solo soldato per un anno incide per circa un milione di dollari sul bilancio. Poi ci sono i costi umani. I soldati della Coalizione caduti sono 3529, di questi 2393 americani, e 52 italiani. L’Italia ha ancora 900 soldati nelle province occidentali, dagli oltre 4 mila del picco massimo. Il calcolo delle vittime afghane è più controverso. Almeno 35 mila militari, dai 20 ai 30 mila civili, secondo le stime dell’Onu e del Watson Institute della Brown University. Gli insorti uccisi sarebbero fra i 60 e gli 80 la maggior parte nelle file rdei Taleban ma migliaia anche nelle formazioni islamiste minori come l’Haqqani Network, ed Hez-e-islami Gulbuddin. Centinaia anche i terroristi di Al Qaeda e dell’Isis morti per mano dei militari afghani, o eliminati nei raid dei droni americani. Ma proprio l’espandersi dei gruppi jihadisti più duri, anche a spese dei Taleban, è l’altro costo della guerra infinita. L’Isis ha creato alla fine del 2014 la Wilaya, provincia del Khorasan, a cavallo fra Pakistan e Afghanistan. In Pakistan i seguaci del Califfato sono riusciti ad attirare nelle proprie file leader e migliori uomini del Tehreek-e- Taliban Pakistan, l’ala pachistana dei Talebani, come Shahidullah Shahid e Hafiz Saeed Khan. Ora contano fra i 1500 e i 3000 uomini. In Afghanistan l’Isis ha fra i nemici più implacabili proprio i Taleban. Gli uomini del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi e i combattenti rimasti fedeli all’alleanza con l’Al Qaeda guidata da Ayamn Al-Zawahiri si sono dichiarati ufficialmente in guerra nel gennaio 2015. L’anno scorso i Taleban hanno schierato le loro "truppe speciali" nella provincia di Nangarhar, dove l’Isis è più radicato. Se "il nemico del mio nemico è mio amico" allora la tregua con gli studenti coranici non è poi un’idea così strampalata. Venezuela. Il golpe della magistratura: chiuso il Parlamento di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 31 marzo 2017 Tutti i poteri al presidente Maduro, abolita l’immunità. La sentenza del Tribunale Supremo di Giustizia (Tsj) contro l’assemblea dominata dall’opposizione. Un colpo di mano senza precedenti che, con un tratto di penna, distrugge la separazione dei poteri e taglia le radici allo Stato di diritto. Il Tribunale supremo di giustizia (Tsj) del Venezuela ha infatti chiuso formalmente il Parlamento, assumendo tutte le deleghe dell’Assemblea dominata dall’opposizione (coalizzata nella "Mesa", l’unione di tutti i partiti anti-governativi). Proprio come chiedeva da tempo il presidente Nicolas Maduro, crepuscolare epigono del caudillo Hugo Chavez e protagonista della drammatica implosione del suo socialismo "bolivariano". La prima misura approvata è la revoca dell’immunità parlamentare, un "grande classico" di ogni svolta autoritaria: da ieri i parlamentari potranno tranquillamente essere arrestati e privati dei loro diritti. "L’immunità serve a proteggere i deputati che esercitano il loro mandato nella cornice delle loro prerogative costituzionali. Questo principio è incompatibile con l’attuale situazione di sfiducia che prevale in aula", si può leggere nel testo della sentenza. In sostanza i giudici motivano la loro decisione spiegando che nell’Assemblea regna un clima "di ribellione e oltraggio alle istituzioni e al Presidente". Maduro ha ora avrà poteri assoluti e sarà tenuto soltanto a "informare il Tsj", mentre il Parlamento "non potrà modificare i provvedimenti proposti dal governo né stabilirne altri". Il braccio di ferro tra l’Assemblea e il Tsj va avanti da almeno un anno ma negli ultimi mesi la situazione è precipitata e, dallo scorso luglio, gli alti giudici annullano sistematicamente tutte le decisioni dei deputati. Una delle più controverse riguarda l’applicazione della Carta democratica dell’Osa (Organizzazione Stati americani di cui Caracas fa parte), la quale prevede la sospensione di un Paese in caso di "rottura dell’ordine costituzionale", tentativo liquidato dal Tsj come "tradimento della patria". Eppure l’Osa è già intervenuta più volte nella crisi politica venezuelana su iniziativa di Stati Uniti, Messico, Argentina, Brasile, Colombia e Canada; in un rapporto di 75 pagine presentato la scorsa settimana l’Organizzazione traccia un bilancio impietoso dei quattro anni di presidenza Maduro: "In Venezuela nessun cittadino è in grado di far pienamente valere i suoi diritti, nella società c’è una corruzione diffusa e l’economia è in caduta libera". E invita il governo a organizzare quanto prima "elezioni giuste e libere". A firmare il rapporto dell’Osa non un falco dell’ultradestra burattino di Washington, ma il socialista uruguayano Luis Almagro, ex ministro degli Esteri del presidente José "Pepe" Mujica. Poco importa che la Carta può essere applicata solo in caso di golpe e non di "deterioramento grave della democrazia" come è scritto nel rapporto, per Maduro quelle dell’Osa sono comunque "ingerenze insopportabili nella sovranità della Repubblica socialista venezuelana", ingerenze naturalmente orchestrate ad arte dagli Usa i quali sosterrebbero nell’ombra "gli agenti estremisti" che vorrebbero far crollare il socialismo post-chavista di Maduro. Il problema è che quel socialismo sta già crollando da solo, come un castello di carte. Con il giro di vite del Tsj, che di fatto ha messo fuori legge l’opposizione e l’isolamento progressivo del Venezuela, questo passaggio poi potrebbe diventare tragico. "Si tratta di un colpo di Stato, come quello compiuto da Fujimori in Perù, che può portare al consolidamento di una dittatura", ha tuonato il coordinatore del partito Volontà Popolare Carlos Vecchio contro la decisione del Tsj, sulla stessa linea l’ex presidente del Parlamento di Azione democratica Henry Ramos Allup, per il quale la decisione della Corte rappresenta "un’ennesima violazione della Costituzione, secondo cui i poteri dello Stato sono intrasferibili. Ora, invece, risulta che il Tsj ha assunto i poteri del Parlamento, e come se non bastasse annuncia che li trasferirà a qualsiasi organismo che gli verrà in mente". Emirati Arabi Uniti. Arrestato e scomparso difensore dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 31 marzo 2017 Ahmed Mansoor, blogger emiratino e difensore dei diritti umani di fama internazionale, è stato arrestato il 20 marzo nella sua casa di Ajman e da allora non se ne hanno notizie. Diverse ore dopo il suo arresto, l’agenzia di stampa governativa Emirates News Agency ha fatto sapere che Mansoor era stato arrestato su ordine del pubblico ministero per reati informatici: per l’esattezza, "uso dei social media per pubblicare informazioni false e fuorvianti che danneggiano l’unità nazionale e l’armonia sociale", "danneggiare la reputazione del paese" e "promuovere un’agenda politica di incitamento all’odio e al settarismo". Fino a 10 giorni fa, Ahmed Mansoor era l’unica voce indipendente non ancora arrestata ad aver preso la parola contro le violazioni dei diritti umani all’interno del suo paese. Condannato nel 2011 a tre anni di carcere (ma subito graziato), aveva subito ripetute minacce di morte ed era stato costantemente pedinato e sottoposto a sorveglianza elettronica. Lui stesso aveva rivelato che nel 2012 l’azienda italiana Hacking Team, grazie all’invio di un documento infetto, era riuscita ad installare uno spyware sul suo computer per consentire alle autorità locali di monitorare i suoi movimenti e di leggergli la posta elettronica. Nel 2015, in risposta al suo coraggioso lavoro, ha vinto il prestigioso premio Martin Ennals per difensori dei diritti umani ma le autorità emiratine, che nel 2011 gli avevano confiscato il passaporto, gli hanno impedito di recarsi a Ginevra per ritirarlo.