Ferranti (Pd): "Skype ai boss in cella? Siamo alle scie chimiche applicate alla giustizia..." Il Dubbio, 30 marzo 2017 "Skype ai mafiosi in carcere? Siamo alle scie chimiche applicate alla giustizia...". La presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, replica basita all’allarme lanciato dal senatore 5 Stelle Mario Giarrusso che nella giornata di ieri aveva lanciato l’allarme. "Il governo, il Pd di Renzi, Alfano e Verdini - aveva infatti dichiarato Giarrusso - potrebbero rendersi responsabili di uno scempio immane. Vogliono consentire Skype ai mafiosi detenuti in alta sicurezza per favorire le relazioni familiari". E ancora: "L’alta sicurezza va rinforzata e non indebolita. Il governo, dunque, al posto dei pizzini, darebbe alla mafia nuova tecnologia. È questo - aveva continuato Giarrusso - il rischio concreto che è previsto nel ddl penale appena votato al Senato con la fiducia e che adesso è all’esame della Camera. Nel testo del provvedimento, infatti, vi è la delega per il governo di incidere e modificare la disciplina dell’ordinamento penitenziario anche in relazione all’utilizzo dei collegamenti audiovisivi. Per il governo molto probabilmente le stragi di mafia e Cosa Nostra non sono mai esistite. Questo è assurdo, oltre che gravissimo. Il ministro Orlando - conclude Giarrusso - dovrebbe immediatamente provvedere allo stralcio integrale della parte del provvedimento che consentirebbe questa vergogna senza fine". Immediata la replica della Ferranti: "Sostenere che la riforma del processo penale, nelle disposizioni in cui delega il governo a disciplinare l’utilizzo di collegamenti audiovisivi a fini processuali e per favorire le relazioni familiari, consentirà ai mafiosi in regime di 41- bis di sostituire Skype ai pizzini è logica da periodo ipotetico dell’irrealtà. È un argomento del tutto fantasioso e strumentale - dice Ferranti, relatrice del provvedimento alla Camera - che alimenta allarmi infondati e getta discredito sulle buone riforme. Come espressamente già prevede la delega, la possibilità di introdurre strumenti audiovisivi (skype compreso) in carcere non riguarda modifiche del regime del 41- bis. Viene piuttosto il sospetto - aggiunge l’esponente del Pd - che l’agitare tesi strampalate come quella del senatore Giarrusso, che non a caso chiedendo di stralciare la norma auspica una navetta perpetua, nasconda in realtà il tentativo di impedire che sia finalmente approvata una riforma innovativa e di ampio respiro, che inciderà in modo significativo sulla durata dei processi. Una riforma attesa e caldeggiata anche dall’Ocse e dal Greco". Il Paese dove tutto finisce in tribunale di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 30 marzo 2017 Dalle liti tra vicini di casa fino a diritti civili e scuola. Diverbi, politici lenti, cavilli. Perché deleghiamo ai giudici la nostra vita quotidiana, mentre contestiamo continuamente che la giustizia non funziona. Nel Paese in cui la giustizia non funziona e i processi durano un’eternità e si dice addirittura che sia finita la giustizia civile, la giustizia ha emesso una sentenza in cui si costringe una coppia a pagare una multa salata perché il cane ha abbaiato una manciata di secondi più del consentito. E non è una barzelletta, è un fatto verissimo, è la vita quotidiana degli italiani che si lascia docilmente colonizzare dai tentacoli giudiziari. Anche una donna che aveva steso i panni dal balcone al di sotto della soglia concordata con l’appartamento sottostante ha dovuto pagare il conto con la giustizia: anche questa non è una barzelletta, è vita vera italiana. Siamo un Paese litigioso che si lamenta sempre delle invasioni di campo della magistratura, ed è vero. Ma che contemporaneamente chiede ai giudici di decidere sempre, sia sulle inezie che sulle cose importanti. E dove il giudice deve dire la sua su ogni aspetto della vita associata, come se la strada, la vita della strada, fosse stata sostituita da un’aula di tribunale, nel rigore grigio e freddo di un libro di giurisprudenza. "Un giorno in pretura" non è solo il titolo di un film meraviglioso, ma è la profezia dell’Italia nei primi decenni del Duemila dove si compie quella distorsione che in America avevano ribattezzato con termine difficile "giuridicizzazione" di ogni atomo della vita sociale. La "giuridicizzazione" - Basta scorrere le cronache degli ultimi giorni per accorgersi che oramai la "giuridicizzazione" copre ogni dettaglio della nostra vita. È stato un giudice che nei giorni scorsi ha deliberato che il gasdotto Tap avesse via libera, è stato un giudice che ha stabilito che non è offensivo nei confronti degli studenti che onorano un’altra religione che una scuola potesse ricevere la benedizione pasquale. La scuola è diventata oramai un terreno fertilissimo per le controversie che finiscono nelle mani dei giudici a cui i cittadini consegnano le chiavi della decisione. Il Tar viene investito dalle denunce dei genitori che non sopportano i brutti voti dei figli e che esercitano un tale grado di tutela sulla prole costretta a studiare da coinvolgere l’autorità per dirimere controversie che in altri tempi nemmeno esistevano. Un’altra disputa, molto simile a quella che si è scatenata attorno alla benedizione pasquale, è quella che è divampata attorno al crocefisso da appendere in aula: resta da attendere una sentenza per qualche istanza giudiziaria sugli alberi di Natale e i presepi, siamo vicini, bisogna avere pazienza. C’è poi la sentenza che stabilisce criteri e modalità di quella che molti lettori del Corriere chiamano la "schiscetta" per gli studenti, e cioè la merenda da portare a scuola. Si può portarsi la merenda da casa? Che dice la legge? Come intasare le aule di giustizia dove tanto nessuno ha niente da fare, a parte degli arretrati da far vergogna? Cani che abbaiano, panni stesi, merende, bocciature scolastiche. Inezie, che però disegnano un quadro in cui, scomparsi gli organi della "mediazione", i partiti, le associazioni, i sindacati, i comitati, i centri culturali, lasciano il singolo cittadino con l’unica "mediazione" oggi chiamata a decidere: la giustizia. Toghe e politica - Un fenomeno che coinvolge le piccole cose, ma tocca temi importantissimi, da cui la politica fugge, affidando ai giudici il compito di decidere per lei che è incapace di farlo. Quando per esempio è stata approvata la legge sulle unioni civili tra le persone dello stesso sesso, si è deciso, per evitare lo scoglio di fratture politiche e insormontabili divergenze di vedute etiche, di mettere da parte la spinosa questione della stepchild adoption con la curiosa motivazione: tanto sarà la magistratura a decidere. E infatti è avvenuto proprio così: in mancanza di una legge, la magistratura interviene, ovviamente con forte soggettività interpretativa. La stessa cosa accade con la mancata legge sul "fine vita": chi ha deciso se non un giudice il destino di Eluana Englaro? La storia e i condomini - Anche nel caso della legge sul "negazionismo", che stabilisce pene per chi addirittura nega l’esistenza storica dell’Olocausto e della Shoah, si è dato ai giudici il potere di stabilire ciò che si può scrivere da ciò che è vietato scrivere: e infatti molti storici che sono acerrimi nemici del negazionismo hanno protestato per una legge che li mette in un angolo e trasferisce alla magistratura il verdetto finale. Ma queste sono cose maledettamente serie che fanno da cornice alla "giuridicizzazione" di ogni ambito della vita. La dilatazione estrema di accuse su presunti "abusi d’ufficio" da parte degli amministratori locali ne è un esempio evidente. Ma dalla scuola alla famiglia, dalla politica ai condomini, dalla disciplina dei cani nei parchi ai gasdotti, è tutto un appellarsi alla giustizia. Ma non si diceva che non funzionava? Migliora l’efficienza della giustizia italiana, ma resta eccessivo il ricorso alle vie legali di Sara Biglieri Milano Finanza, 30 marzo 2017 Segnali di miglioramento, ma ancora molte criticità: è la situazione fotografata dal rapporto "La Performance del Sistema Giudiziario Italiano", realizzato dal ministero della Giustizia in collaborazione con Italia Decide. Il confronto con i sistemi giudiziari di Francia, Germania, Polonia e Spagna, effettuato sulla base dei dati della Commissione Ue per l’efficienza della giustizia (Cepej) e della Banca Mondiale, evidenzia infatti le contraddizioni dell’amministrazione della giustizia italiana, che si caratterizza per alcune eccellenze ma anche debolezze. Il dato di partenza non era confortante. Rispetto al 2010, tuttavia, si registra un deciso miglioramento in termini di durata media dei processi e di procedimenti pendenti, in controtendenza rispetto agli altri Paesi presi a confronto. L’Italia detiene ancora saldamente il triste primato per la maggior durata dei procedimenti civili e il più alto numero di pendenze, ma la situazione presenta dei segnali incoraggianti che fanno ben sperare per il futuro. Gli sforzi del ministero della Giustizia, come confermato dai recenti dati relativi al 2016, si concentrano sulla riduzione dei tempi di definizione dei procedimenti e nello smaltimento dell’arretrato: maggiore è l’attenzione dedicata ai procedimenti ultra-triennali - per cui sussiste il rischio di risarcimento per superamento della durata ragionevole del processo (ai sensi della Legge Pinto) - che sono infatti calati di circa il 23% tra il 2014 e il 2016. Un ruolo di primo piano, in questo trend positivo, è sicuramente da attribuire all’informatizzazione del processo civile: l’introduzione delle procedure telematiche nella maggior parte dei casi ha alleggerito e facilitato le attività delle cancellerie e degli studi legali, liberando tempo e risorse. Un ulteriore fattore che può aver contribuito positivamente è la diminuzione negli ultimi anni della tradizionale litigiosità italiana - sicuramente inflazionata dall’alto numero di avvocati, quasi quintuplicato dal 1985 a oggi - che si è portata oggi ai livelli medi europei. I motivi della minor litigiosità devono trovarsi nell’avvento della crisi economica che, unito all’aumento dei contributi unificati e dei costi di accesso alla giustizia in generale, certamente contribuisce in termini deflativi e scoraggia le iniziative giudiziarie puramente strumentali. Da valutare, invece, la reale incidenza e l’effettività dei numerosi strumenti di risoluzione alternativa delle controversie quali la mediazione, la negoziazione assistita, l’arbitrato. I dati del ministero della Giustizia relativi al 2016 evidenziano per esempio una percentuale di accordo in mediazione civile che si aggira intorno al 40%; valore che scende tuttavia a circa il 20% se si tiene conto anche dei procedimenti in cui una parte partecipa solamente al primo incontro senza una reale volontà conciliativa. I segnali di miglioramento generale evidenziati dal rapporto devono essere letti anche alla luce delle specificità territoriali. Alcuni tribunali del Nord Italia (per esempio, Genova, Torino, Milano), infatti, registrano risultati simili a quelli delle corti di altre grandi città europee, in termini di durata dei procedimenti e specializzazione dei magistrati; la situazione di altre corti - in particolare, in alcune aree del Sud Italia - evidenzia invece forti criticità, con riguardo soprattutto alle pendenze ultra-triennali. Secondo i dati del ministero, tuttavia, i Tribunali del Sud sono quelli che smaltiscono più arretrato; negativo invece l’andamento della Cassazione, dove se ne riscontra un aumento. L’efficienza del sistema non è quindi uniforme sul territorio dal punto di vista quantitativo e qualitativo (si è parlato di giustizia a macchia di leopardo), il che incide sull’esigenza di giustizia e sulla certezza del diritto e quindi, di conseguenza, sulla capacità del Paese di favorire le iniziative economiche private e attirare investimenti dall’estero. I problemi strutturali della giustizia italiana non possono certamente essere affrontati con sporadici interventi sul procedimento civile, come invece è stato fatto dal nostro legislatore in diverse occasioni negli ultimi anni. Il sistema necessita di riforme strutturali, in particolare per quanto riguarda l’accesso alla giustizia, che dovrebbero escludere le cause strumentali, in modo da liberare risorse riservandole ai casi più rilevanti. L’Onu all’Italia: "Basta intercettazioni selvagge" di Errico Novi Il Dubbio, 30 marzo 2017 Il Comitato per i Diritti Umani contro gli " abusi" della nostra intelligence. Persino alle Nazioni unite si sono accorti che in Italia le intercettazioni dei Servizi segreti sono fuori controllo. Nello specifico rapporto diffuso dal Comitato per i Diritti umani dell’Onu c’è persino un’eco del caso su cui sono in corso indagini da parte della Procura di Milano e che riguarda una delle aziende leader nella produzione di software per le captazioni, fornitrice di servizi e assistenza anche alle Procure. È alla società privata Area che le Nazioni unite si riferiscono quando esprimono "preoccupazione" per il fatto che "aziende con sede in Italia hanno fornito apparecchiature di sorveglianza online a governi stranieri con un record di gravi violazioni dei diritti umani e l’assenza di garanzie giuridiche o meccanismi di controllo". Il governo in questione è quello siriano di Assad, a cui è stato venduto un sistema da 13 milioni di euro. Ma la circostanza ricordata nel rapporto diffuso due giorni fa è solo un’aggravante di un vulnus più generale". L’Italia, avverte il Comitato Onu, "dovrebbe rivedere il regime che disciplina le intercettazioni di comunicazioni personali, l’hacking dei dispositivi digitali e la conservazione dei dati di comunicazione". È una raccomandazione che non riguarda le attività svolte per conto della magistratura inquirente, quanto quelle condotte appunto dai Servizi. Uno spionaggio senza controllo, secondo il Comitato dei Diritti umani. Che si dice "preoccupato" riguardo alla "presunta pratica di intercettare le comunicazioni personali da parte delle agenzie di intelligence" e all’impiego di "tecniche di hacking" da parte dei Servizi, senza autorizzazione di legge esplicita o garanzie chiaramente definite". Un risvolto sottovalutato di uno degli strumenti d’indagine più discussi, oggetto di una delega contenuta nel ddl penale e in attea di essere definitivamente approvata dalla Camera. Ma appunto, nella riforma promossa dal ministro della Giustizia Andrea Orlando ci si occupa delle intercettazioni ordinate dai magistrati, non di quelle effettuate per conto dei Servizi di sicurezza. Anche l’emendamento inserito all’ultimo istante in Senato sulla razionalizzazione dei costi per gli ascolti interviene solo sull’attività investigativa dei pm. Nel decreto Mille Proroghe, invece, fa notare il rapporto Onu, c’è un obbligo per gli operatori delle telecomunicazioni, a "conservare i dati oltre il periodo consentito dall’articolo 132 del Codice di protezione dei dati personali, e l’accesso a tali dati da parte delle autorità (i Servizi, ndr) non è soggetto ad autorizzazione di un’autorità giudiziaria". Se dunque la materia delle intercettazioni nelle indagini penali è quanto meno oggetto di attenzione da parte del legislatore, il campo dei dati acquisiti dalle agenzie di sicurezza è assai meno regolamentato. Nel rapporto Onu si colgono in particolare due motivi di allarme: il rischio che l’assenza di vincoli crea soprattutto con i captatori digitali, cioè i trojan, così invasivi che in ambito giudiziario dovranno essere usati senza limiti solo contro mafiosi e terroristi; e la disinvoltura con cui i maggiori player gestiscono la conservazione dei dati, sia per le intercettazioni ordinate dai pm che per poterli eventualmente fornire all’intelligence. La raccomandazione Onu: via il reato di clandestinità di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 30 marzo 2017 Abolire il reato di clandestinità. Dopo la conquista sui minori, l’Italia è chiamata ad un’altra impegnativa prova sul fronte dell’accoglienza nella legalità di migranti e rifugiati eliminando il reato di clandestinità ed evitando la strategia securitaria che rappresenta un rischio per i diritti umani: ad affermarlo è il Comitato Diritti Umani delle Nazioni Unite. Il Comitato ha inoltre evidenziato la necessità di limitare l’uso della detenzione dei migranti (assicurandosi che sia effettivamente una misura utilizzata solo in extrema ratio) e, inoltre, invita l’Italia ad astenersi dall’effettuare rimpatri collettivi in evidente violazione del diritto internazionale, il che implica anche la necessità di rivedere gli accordi bilaterali in materia di immigrazione, partendo proprio dall’ intesa con il Sudan, visto che il Comitato dedica specifica attenzione al caso del rimpatrio forzato di 48 sudanesi da Ventimiglia. Il Comitato presta attenzione anche alla tematica dell’accoglienza, giudicata inadeguata e decisamente bisognosa di miglioramenti, ed alla questione specifica dei minori stranieri non accompagnati, per cui chiede una revisione della normativa. Infine sottolinea negativamente la sovra rappresentazione degli stranieri in carcere. Le raccomandazioni delle Nazioni Unite, secondo Patrizio Gonnella, presidente della Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili, ricordano al Paese "quanto ancora ci sia da fare su questo terreno Ci auguriamo che le raccomandazioni dell’Onu servano a invertire l’ordine di priorità. La vera sicurezza - conclude Gonnella - passa dai diritti". In prima fila nella battaglia contro il reato di clandestinità sono i Radicali italiani e la loro leader Emma Bonino. Valgono le sue considerazioni nell’applauditissimo intervento alla Convention del Lingotto per il lancio della campagna per la segreteria i Matteo Renzi. "Abbiate più coraggio - ha ribadito in quella occasione l’ex ministra degli Esteri. - se c’è un tema dove i nostri interessi coincidono con i valori è il tema dell’immigrazione e dell’Europa. Noi sentiamo falsità da mattina a sera, che ci vengono propinate". "Ma la verità - ha aggiunto Bonino - è che l’immigrazione, ordinata, è nel nostro interesse. I sei milioni di immigrati nel nostro Paese, ecco, noi di loro abbiamo bisogno. Troviamo il coraggio di dirlo. Producono l’8% del Pil, sono contribuenti netti, nel 2014 hanno pagato le pensioni di 640mila italiani e hanno anche inventato delle imprese scoprendo delle nicchie che gli italiani non volevano aprire". "Siamo un continente vecchio - ha concluso - che invecchia sempre di più, siamo il più ricco e anche in declino democratico. A 300 chilometri c’è un’esplosione demografica. Dobbiamo imparare a tenerne conto, dell’Africa". Quanto al reato di clandestinità, per Bonino si definisce in un unico modo: "è una stupidaggine". Incalza Riccardo Magi, segretario di Radicali Italiani: "L’invito rivolto all’Italia dal Comitato peri diritti umani dell’Onu a limitare l’uso della detenzione dei migranti desta ulteriore preoccupazione - afferma Magi. La gestione di un fenomeno complesso come quello del flussi migratori richiede un cambio totale di approccio: da una parte è necessario mettere i Comuni nelle condizioni di fare bene accoglienza attraverso i progetti Sprar e puntando sull’inclusione sociale e lavorativa delle persone accolte; dall’altro togliere acqua al bacino dell’irregolarità, dello sfruttamento e dunque della criminalità, cogliendo opportunità e benefici dell’immigrazione. Sono questi gli obiettivi della legge popolare su cui da aprile con Emma Bonino e un’ampia rete di sindaci e organizzazioni raccoglieremo le firme per superare la Bossi Fini". A chiedere con forza l’abrogazione del reato di clandestinità è anche il mondo dell’associazionismo e delle organizzazioni per i diritti umani: un fronte variegato, trasversale, che va dall’Arci ad Amnesty International, dal Cir (Centro italiani rifugiati) ad "A Buon Diritto" a tantissime altre. E non solo. Perché a favore dell’abrogazione si sono espresse anche la Commissione europea, la magistratura e il procuratore antimafia. Il Comitato dell’Onu viene dunque in sostegno di quanti in Italia conducono già da tempo una battaglia di civiltà: in questo caso, includere vuol dire abrogare. Abrogare il reato di clandestinità. Mafia Capitale. L’interrogatorio di Carminati: "contento di essere vecchio fascista" di Federica Angeli La Repubblica, 30 marzo 2017 L’ex Nar è accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso e detenuto al 41bis nel carcere di Parma dal 2 dicembre 2014. "Il mondo di sotto funziona molto meglio di quello di sopra ed è molto più semplice. Al Comune di Roma sono dei truffatori. Ci hanno dato lavori sapendo già che non ci avrebbero pagato. Se avessi conosciuto Lucarelli e il sindaco Alemanno, del quale non ho nessuna stima, sarei andato a buttargli giù la porta a calcio visto che non ci pagavano. Nel mondo di sotto la gente paga, in quello di sopra sono truffatori". Ancora: "M’ha difeso il ministro Minniti dall’accusa di essere nei servizi segreti o avere collusioni nelle forze dell’ordine, come meglio potrei smentire questa accusa? Per me è un’offesa essere tacciato di avere contatti o di essere nei servizi. Mi tocca difendere i poliziotti di Ponte Milvio che sono accusati di avermi dato informazioni sono perché sono venuti al distributore di Corso Francia. Io che difendo poliziotti. Capisce perché questo esame non lo volevo fare? A Roma sapevano tutti che c’era una grossa indagine in corso". Per la prima volta nella sua storia processuale Massimo Carminati parla. Accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso e detenuto al 41 bis nel carcere di Parma dal 2 dicembre 2014 risponde alle domande dei suoi avvocati, Giosuè e Ippolita Naso. Maglioncino nero l’ex Nar tiene in mano degli appunti. "Io sono sempre stato sottoposto a controlli delle forze dell’ordine. Verso la metà del 2011 era giugno, dopo una perquisizione della Digos, ho cominciato a vedere davanti al negozio della mia compagna dei controlli. Pensavo fosse per quella perquisizione. Le cose poi sono peggiorate e torno a casa mia a Sacrofano e vedevo i pedinamenti, dal benzinaio vedevo appostamenti, all’aeroporto trovo i carabinieri. Erano ossessivi. Ecco come me ne sono accorto. Ho un occhio solo ma ci vedo bene. E per questo ho preso telefono dedicati e li ho dati ai miei amici. Questo esame non lo avrei mai fatto se non me lo avessero chiesto i miei avvocati. Comunque non ho nulla da nascondere. Sono un vecchio fascista degli anni Settanta e sono contento di essere così". Nessuna soffiata dalle forze dell’ordine dunque sull’indagine del Ros in corso. È la sua esperienza sulla strada ad avergli insegnato a guardarsi dalle guardie. "Ho deciso di usare telefoni dedicati anche perché dovevo 20 miliardi per il furto al caveau alle parti civili. Nascondo i soldi rubati e gli do quelli che guadagno per bene? È che lavoro per dargli venti miliardi? Ma che scherziamo?". L’aula bunker di Rebibbia alla sua 196esima udienza del maxiprocesso Mafia Capitale è gremita. Anche se il Cecato non ha dato il consenso per riprendere la sua immagine c’è molta attesa per il suo interrogatorio che, hanno assicurato i suoi difensori, durerà due giorni ma "sarà un esame limitato - spiega Ippolita Naso - come limitato è il diritto di difesa del mio assistito che è in regime di 41bis". Carminati conosce bene le forze dell’ordine e sa perfettamente che "se a un certo punto prima li vedi con gli obiettivi di mezzo metro e poi spariscono è ovvio che ti hanno messo le telecamere. Se prima li vedi che ti seguono e poi non li vedi più è ovvio che ti hanno messo le microspie in auto. E infatti sistematicamente trovavo le cimici in tempo reale e le toglievo". Responsabilità delle società, interdittive valide dalla notifica di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 30 marzo 2017 Corte di Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 29 marzo 2017, n 15578. Le misure cautelari a carico dell’ente/società sono efficaci dal momento della notifica e non invece all’atto della comunicazione all’autorità di vigilanza. La precisazione contenuta nella sentenza 15578/17della Sesta sezione penale della Cassazione - depositata ieri - delimita la durata delle ordinanze per evitare un’estensione per via "burocratica" dei provvedimenti chiesti dalla Procura nell’ambito di indagini penali (cioè del decreto legislativo 231/2001). I fatti ripresi dalla Sesta riguardano il lungo e tortuoso iter di un’inchiesta della magistratura di Pistoia che coinvolgeva un’azienda di costruzioni della zona. Raggiunta una prima volta nel 2013 da un’interdittiva a trattare con la pubblica amministrazione, l’impresa indagata aveva ottenuto l’annullamento dalla Cassazione. Tre anni più tardi i giudici di merito avevano rinnovato l’ordinanza, confermata poi dal Riesame, disponendo anche la comunicazione all’Anac per l’iscrizione nel Casellario delle imprese e infine alla Camera di commercio locale. A margine della trasmissione, il Riesame aveva poi fissato la durata dell’interdittiva facendo decorrere i sei mesi dalla data di iscrizione presso l’Authority anticorruzione, punto impugnato nel nuovo ricorso di legittimità. Secondo la difesa dell’azienda indagata, in tal modo il tribunale ha violato le regole previste dallo stesso Dlgs 231/01, esplicito nell’indicare la notifica come momento iniziale dell’efficacia del provvedimento giudiziario. Spostando più avanti la data, argomenta la difesa, si attribuirebbe efficacia costitutiva a un fatto circostanziale (la comunicazione all’autorità di vigilanza) e, in sostanza, si allungherebbe per via burocratica la vita dell’ordinanza cautelare. Impostazione, quella della difesa, condivisa e "integrata" dai giudici di Cassazione. La decorrenza del provvedimento giudiziario è indicata dalle norme stesse (articolo 51 del dlgs 231/01, "Il termine di durata delle misure cautelari decorre dalla data della notifica dell’ordinanza") così come è chiaro a chi spetti la notifica delle ordinanze, cioè al pubblico ministero (articolo 48). C’è quindi una piena simmetria tra la procedura penal/amministrativa della responsabilità degli enti con quella codicistica delle misure cautelari, a cui peraltro si ispirano i provvedimenti mutuati nella 231. A sgomberare ogni residuo dubbio c’è poi la Relazione ministeriale al decreto legislativo 231, dove si argomenta che la notifica dell’estratto del provvedimento "nel quale sono indicate le sanzioni interdittive applicate e il loro specifico oggetto, è sufficiente per dare esecuzione alle sanzioni interdittive" di cui si tratta. Il rappresentante dell’ente, tra l’altro, da quel momento esatto, proprio perché personalmente notificato, diventa passibile della sanzione penale in caso di inosservanza dell’interdittiva (articolo 23 del dlgs 231). Il successivo passaggio dell’atto all’anagrafe nazionale servirà invece alle amministrazioni ed enti incaricati di pubblico servizio per evitare di trattare con una società interdetta. In sostanza, chiosa la Sesta, la comunicazione all’Anac non ha effetto costitutivo dell’interdittiva ma solo "di mera pubblicità-notizia funzionale ai poteri di controllo e vigilanza che all’Autorità competono". La mancata restituzione della caparra non integra il reato di appropriazione indebita di Edoardo Valentino Il Sole 24 Ore, 30 marzo 2017 Corte di Cassazione - Sezione II penale - Sentenza 29 marzo 2017 n. 15815. Con la sentenza numero 15815 del 29 marzo 2017, la II Sezione Penale della Corte di Cassazione sottolinea un importante principio in materia di diritto penale e in particolare in merito alla consumazione del reato di appropriazione indebita. La vicenda prende le mosse quando una parte, che aveva ricevuto una somma a titolo di acconto sul maggiore prezzo dovuto in un contratto preliminare, decide di non restituire la predetta somma quando le trattative non vanno a buon fine. Il predetto soggetto veniva processato in primo grado e assolto per il reato di appropriazione indebita. Agiva quindi in Cassazione il procuratore generale presso la Corte d’appello competente, il quale domandava la revisione della sentenza. La Corte di Cassazione, al termine del giudizio, ha confermato l’assoluzione dell’indagato per i seguenti motivi. L’articolo 646 del Codice penale prevede e punisce il reato di appropriazione indebita e afferma al primo comma che "chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a mille trentadue euro". Elemento distintivo della fattispecie è quindi l’appropriazione della cosa altrui e il rifiuto della restituzione al legittimo proprietario. Nel caso in questione, tuttavia, la cessione del denaro a titolo di caparra comporta che detto bene, essendo infungibile, a seguito della dazione diviene immediatamente di proprietà del soggetto che riceve il pagamento. In caso di cessione di denaro, quindi, secondo la Corte "il principio è che può essere ritenuto responsabile di appropriazione indebita colui che, avendo ricevuto una somma di denaro o altro bene fungibile per eseguire o in esecuzione di un impego vincolato, se l’appropri dandogli destinazione diversa e incompatibile con quella dovuta". Nel caso in questione, però, afferma la Cassazione, la mancata restituzione della caparra non configura il reato di cui all’articolo 646 del Codice Penale, dato che manca il fondamentale presupposto dell’appropriazione della cosa altrui. Sebbene quindi colui che ha percepito la caparra debba poi restituirla in caso di inadempimento del contratto preliminare, tale comportamento ha rilevanza puramente civilistica, ma non comporta la consumazione del reato di appropriazione indebita dato che il versamento della caparra non ha alcun impiego vincolato. La Cassazione, quindi, rigettava il ricorso affermando che "non integra il delitto di appropriazione indebita, ma un mero inadempimento di natura civilistica la condotta del promittente venditore che, a seguito della risoluzione del contratto, non restituisca al promissario acquirente l’acconto sul bene promesso in vendita". Campania: l’ultimatum Osapp: "siamo pochi, pronti alla mobilitazione" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 marzo 2017 Il Sindacato degli agenti penitenziari ha inviato un comunicato al Dap e al Ministero della giustizia. In tutti gli istituti l’organico è insufficiente. A Carinola è stato aperto un nuovo reparto, con una capienza di 200 detenuti, ma il personale è rimasto lo stesso. Carenza cronica di agenti, specie del personale femminile con situazioni di palese illegittimità, condizioni di vivibilità lavorativa e di sicurezza indegne. L’organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria (Osapp) ha inviato un duro comunicato al Dap, al ministro della Giustizia e ai gruppi parlamentari, riguardante diverse problematiche relativi agli istituti penitenziari della Campania. A firma del segretario generale Leo Beneduci, il sindacato lancia un vero e proprio ultimatum di trenta giorni affinché intervengano le istituzioni, "altrimenti scatterà la mobilitazione del personale". L’Osapp ha redatto una vera e propria mappa delle nove strutture campane. C’è l’ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli, chiuso da circa un anno e mezzo, con 60 unità di Polizia presso il Centro penitenziario di Secondigliano in attesa di trasferimento presso le sedi richieste di Aversa, Santa Maria Capua Vetere, Avellino, Carinola e Napoli- Poggioreale mediante provvedimenti che - secondo quanto denuncia il sindacato Direzione Generale del Personale e delle Risorse ancora non emette. Il comunicato poi cita la Casa Circondariale di Lauro, trasformato da istituto a custodia attenuta a custodia attenuta per detenute madri, accorpato come unità operativa alla Casa Circondariale di Avellino per 36 unità. Attualmente - sempre secondo l’Osapp alcuni addetti del Corpo sono rimasti presso tale sede a vigilare la struttura durante i lavori "di fatto non terminati e interminabili, malgrado che la data di conclusione fosse prevista per lo scorso mese di settembre". Il sindacato denuncia che diverse unità ancora sono distribuite presso altre strutture quali l’ex ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa e senza percepire la pur obbligatoria e contrattuale prevista indennità di missione, nonostante la distanza chilometrica dalla sede effettiva di oltre 50 chilometri e con provvedimenti di distacco scaduti e non più rinnovati, né da parte del Provveditore Regionale né tanto meno da parte del direttore generale del personale e delle risorse. "Per quanto attiene alla conversione in Casa di Reclusione dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa mediante l’apertura di nuovi reparti detentivi - si legge ancora nel comunicato- per circa 100 detenuti non vi è stato alcun incremento di personale malgrado la specifica richiesta di almeno 15 unità per i primi parziali adempimenti operativi e di servi- zio ne sono arrivate solo otto. Il sindacato prosegue nel denunciare la carenza di organico presso la Casa Circondariale di Carinola, dove si è provveduto all’apertura di un nuovo reparto detentivo con una capienza di circa 200 detenuti, ma il personale risulta sempre lo stesso. Per la Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere alle attività di vigilanza e controllo connesse al trattamento penitenziario di circa 1.200 detenuti, tra cui 600 detenuti ad Alta Sicurezza, risultano presenti 300 addetti del Corpo di Polizia Penitenziaria e sussiste una "ancora più grave carenza di personale femminile di Polizia Penitenziaria per la gestione della relativa sezione ad Alta Sicurezza". Per il nucleo delle unità cinofile, già di stanza presso la Casa Circondariale di Avellino, - sempre secondo l’Osapp - le stesse sarebbero obbligate da diversi mesi a percorrere 100 km al giorno per recarsi alla Casa Circondariale di Benevento per decisione della Direzione Generale del Personale e delle Risorse in base a "presunti lavori di adeguamento della sede originaria per i quali non esiste un progetto e che non hanno mai avuto inizio". Anche a Salerno i problemi non sono pochi, infatti nella Casa Circondariale di Salerno si sta provvedendo all’apertura del reparto isolamento e della seconda sezione senza alcuna unità aggiuntiva di personale e già in presenza di "una carenza organica più che preoccupante e che mina integralmente le condizioni di sicurezza della struttura oltre che la generale funzionalità della stessa". Sempre secondo l’Osapp anche nella Casa Circondariale di Benevento perdura la gravissima carenza del personale femminile di polizia penitenziaria per l’apertura di una nuova sezione detentiva. "Probabili inoltre - annota l’Osapp, ulteriori disagi lavorativi ed organizzativi, oltre al malessere già ingeneratosi, a causa del preannunciato e possibile trasferimento ad altre sedi di 35 unità non più in possesso dei requisiti previsti dalla Legge 104/ 1992". Ad Ariano Irpino, infine, persiste una gravissima carenza di organico, nonostante la presenza di detenuti di diverse tipologie, collaboratori compresi, con particolare riferimento ai ruoli dei sovrintendenti e degli ispettori. L’Osapp ha minacciato che in assenza di provvedimenti risolutivi entro trenta giorni adotterà "iniziative sia a carattere pubblico e rivendicativo e sia presso le pertinenti sedi giurisdizionali in ragione delle condizioni di agibilità lavorative e di sicurezza che definisce indegne". Parma : Antigone "603 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 350 posti" La Repubblica, 30 marzo 2017 Sovraffollamento nelle celle del carcere di massima sicurezza di Parma, sono 603 i detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 350 posti. Lo rileva l’osservatorio sulle carceri dell’associazione Antigone, che si batte per i diritti negli istituti di pena, i cui rappresentanti sono stati in visita a Parma. Nei giorni scorsi la situazione della casa circondariale, che prevede un ampliamento, è stata affrontata anche in Consiglio comunale. Il sovraffollamento, definito "preoccupante" dall’associazione, comporta, ad esempio, che alcuni detenuti di media sicurezza continuino a permanere nelle celle di isolamento anche dopo la fine della sanzione disciplinare perché non c’è posto per farli rientrare in sezione. Il carcere di massima sicurezza dell’Emilia Romagna, rileva ancora Antigone, è un istituto complesso, che ospita oggi 63 detenuti in 41 bis, 36 detenuti in circuito di Alta sicurezza, 180 detenuti nella sottosezione di Alta sicurezza e 324 detenuti in Media Sicurezza. Decisamente elevato, secondo Antigone, il numero dei condannati in via definitiva: 459 su un totale di 603. Sono inoltre presenti 112 ergastolani, in gran parte condannati all’ergastolo ostativo. Per quanto riguarda i circuiti di alta sicurezza la popolazione detenuta è quasi esclusivamente italiana e l’età media è molto alta. Diverso il discorso per la media sicurezza dove sono presenti molti detenuti stranieri e l’età media è decisamente inferiore. Inoltre, conclude Antigone, "le attività trattamentali terminano molto presto nel pomeriggio e gli spazi di socialità appaiono inadeguati". Teramo: piano per prevenire i suicidi in carcere Il Centro, 30 marzo 2017 Firmato l’accordo che prevede più attenzione per i detenuti depressi, aiuto anche dai compagni. Un protocollo per cercare di evitare i suicidi in carcere. Ieri mattina il direttore generale della Asl Roberto Fagnano e il direttore dell’istituto penitenziario di Castrogno Stefano Liberatore, hanno firmato il "Piano locale operativo di pronto intervento e di prevenzione del rischio autolesivo e suicidario dei detenuti" con il quale vengono definite le modalità di collaborazione reciproche, tra Asl e casa circondariale, per disciplinare aspetti e procedure di prevenzione dei suicidi in carcere. "Un fenomeno preoccupante è quello del suicidio in carcere", ha commentato Fagnano, "per questo è importante seguire il paziente che è in condizioni depressive tali da poter arrivare al suicidio. Non dimentichiamo che la funzione del carcere non è quella di far scontare la sanzione ma è la rieducazione". Il piano è stato stabilito con la Asl perché questa dal 2008 gestisce il presidio sanitario in carcere attraverso una unità operativa, diretta da Massimo Forlini, che consta di un servizio polispecialistico con 20 branche e ambulatori attrezzati, dalla radiologia all’ortodonzia. Un servizio sanitario per 252 detenuti, 210 uomini re 42 donne. La popolazione carceraria si è recentemente ridotta perché dopo le ultime scosse di terremoto di gennaio il quanto piano è stato svuotato. "Con l’accordo a firma congiunta, di fatto viene regolamentato e potenziato il servizio multidisciplinare di pronto intervento e prevenzione del rischio di suicidio, nonché di auto ed etero aggressione, che è teso - fin dalle prime fasi della detenzione - ad affiancare il concetto di "sorveglianza" a quello di "sostegno", si legge in una nota della Asl, "uno staff multidisciplinare, dunque, composto non solo da personale sanitario, ma anche da personale della direzione dell’istituto che potrà essere integrato, all’occorrenza, da altre figure (ad esempio, i mediatori culturali), prenderà in carico tutti i soggetti che manifestino i sintomi di un intento autolesionistico o suicidario". Prevista anche la formazione di alcuni detenuti che, opportunamente formati, possono assumere il ruolo di "care giver", una sorta di assistenti. "Chi non sente l’odore del carcere", spiega il direttore Liberatore, "non può capire che cosa significa gestire la violenza contro se stessi. Il carcere è un luogo afflittivo perché priva della libertà personale: l’obiettivo è rendere le condizioni ambientali il più positive possibili". Nel carcere di Teramo, negli ultimi sette anni, sono avvenuti otto suicidi. Si sono tolti la vita un detenuto italiano nel 2010 e un altro nel 2011, tre italiani e una donna etiope nel 2012, una carcerata bulgara nel 2014, uno italiano nel 2015. Nel 2016 e nel 2017 nessun suicidio. Ma c’è da dire che nel corso di questi anni sono stati centinaia i tentativi di suicidio. Teramo: troppi detenuti e pochi agenti, Polizia penitenziaria costretta a turni forzati di Alessia Stranieri lanotizia.net, 30 marzo 2017 La Casa Circondariale di Teramo negli anni ha toccato dei picchi di sovraffollamento ingestibile. La popolazione detenuta, in alcuni periodi storici, ha sfiorato anche le 540 unità in una struttura destinata ad ospitarne 240, tollerabili 270. Una situazione impensabile e invivibile a cui si aggiunge il sottodimensionamento degli agenti di polizia penitenziaria in servizio. Infatti, in base al sito del Ministero della Giustizia, aggiornato al 27 febbraio 2017, gli agenti previsti dovrebbero essere 215, ma in realtà gli effettivi risultano essere 175, come confermato dall’ispettore di polizia penitenziaria di Teramo, Giuseppe Pallini. A fronte di questa situazione si può ben comprendere le notevoli difficoltà vissute all’interno dell’Istituto penitenziario che ospita una sezione per l’alta sicurezza, una per i sex offender e una per detenuti protetti. "Attualmente il numero dei detenuti è sceso in quanto alcuni sono stati trasferiti in altri istituiti in seguito alle problematiche del terremoto e del maltempo, ma ugualmente gli agenti si trovano costretti a turni forzati anche di 8/12 ore in luogo delle 6 da contratto e andrà peggiorando con i pensionamenti". Solo grazie all’esperienza, gli agenti riescono a contenere le aggressioni e a riportare alla calma anche detenuti con gravi patologie sanitarie e psichiatriche. "Con la chiusura degli OPG, ogni struttura penitenziaria dovrebbe avere dei reparti appositi, gestiti da personale medico o infermieristico, ma purtroppo, - spiega l’ispettore Pallini - per mancanza anche di risorse, non è possibile allestirli e questi soggetti si trovano a convivere con gli altri detenuti, creando non pochi problemi. In queste situazioni estreme l’unica soluzione è il dialogo. Non abbiamo altri strumenti". La Casa Circondariale di Teramo, nel corso degli anni, è salita alla ribalta delle cronache anche per molteplici tentativi di suicidio e, purtroppo, anche per i decessi. Ma come si individuano i soggetti a rischio suicidio all’interno del carcere? Sta proprio qui la difficoltà. Lo stesso Pallini ricorda il suicidio di un detenuto del carcere di Pescara con cui si era trovato a parlare per diverse ore nella giornata e nulla gli avrebbe fatto presagire che si sarebbe suicidato quella sera. "Noi siamo a stretto contatto con loro, ma a volte nemmeno le famiglie sono in grado di comprendere dei possibili segnali di insofferenza e di aiuto. Molti - continua l’ispettore - compiono atti di autolesionismo anche per attirare l’attenzione. Nell’istituto hanno incontri con lo psicologo, vengono seguiti, è un mondo parallelo a quello esterno. Inoltre si è sempre verificato che se qualche detenuto si accorge di comportamenti o discorsi strani di un compagno viene a riferircelo". Dal 2008 la Asl di Teramo gestisce il Presidio Sanitario della Casa Circondariale attraverso una specifica Unità Operativa che consta di un Servizio di attività assistenziale continuativa con medici, infermieri, psicologi e altre figure. Inoltre, poiché l’Istituto Penitenziario è dotato di sezione femminile e di nido per bimbi fino a tre anni di età (unico in Abruzzo), è prevista l’assistenza sanitaria anche in ginecologia e pediatria. Ma questa equipe quali strumenti ha a disposizione per individuare le persone più vulnerabili? Sin dall’ingresso in carcere, gli psicologi della Asl somministrano a tutti i detenuti un test, specificamente articolato, che mira a rilevare i fattori di rischio elevato di suicidio e a riconoscere i soggetti più fragili da tenere maggiormente sotto osservazione. Purtroppo, le procedure di screening, seppur importanti, non sono però in grado di prevedere quando un tentativo avverrà o quali ne saranno i fattori determinanti. Proprio in questi giorni, il Direttore Generale della Asl Roberto Fagnano e il Direttore dell’Istituto Penitenziario Stefano Liberatore hanno firmato il "Piano Locale Operativo di pronto intervento e di prevenzione del rischio autolesivo e suicidario dei detenuti" con il quale vengono definite le modalità di collaborazione reciproche. Con questo accordo, di fatto, viene regolamentato e potenziato il servizio multidisciplinare di pronto intervento e prevenzione del rischio di suicidio, nonché di auto ed etero aggressione, che è teso - fin dalle prime fasi della detenzione - ad affiancare il concetto di "sorveglianza" a quello di "sostegno". Uno staff multidisciplinare, dunque, composto non solo da personale sanitario, ma anche da personale della Direzione dell’Istituto, integrato, all’occorrenza, da altre figure, e che prenderà in carico tutti i soggetti che manifestino i sintomi di un intento autolesionistico e/o suicidario. "Purtroppo questi interventi, seppur importanti, non sono risolutivi. I detenuti - spiega Pallini - hanno bisogno di essere preparati per quando avranno scontato la loro pena e lasceranno il carcere. Nel mondo esterno non hanno supporto, si ritrovano senza lavoro, alcuni senza famiglia e la strada più facile da percorrere continua ad essere la delinquenza e, statisticamente, dopo tre/quattro anni tornano in carcere. Ad oggi il recupero sociale del condannato è ancora utopia. Certo questo non vale per tutti, alcuni sono riusciti a rifarsi una vita grazie all’aiuto e al sostegno delle famiglie, ma sono ancora pochissimi. A volte, mi sono trovato di fronte detenuti che hanno passato una vita in reclusione e ho vissuto la loro difficoltà a lasciare l’istituto. Preferirebbero rimanere che tornare al mondo - prosegue l’ispettore dall’alto dei suoi 28 anni di servizio - Qui hanno assistenza, vitto, alloggio: meglio in carcere che fuori dove si ritroverebbero soli". Questa è l’amara realtà delle carceri italiane, caratterizzate dall’isolamento fisico dalla società esterna. Questa separazione rende il carcere una città nella città dove si vive il disagio della detenzione, ma soprattutto la perdita della speranza di un futuro diverso fondato sul recupero degli affetti e delle relazioni interpersonali. Purtroppo la riabilitazione sociale e lavorativa dei detenuti deve ancora farne di strada, ma deve essere comunque un obiettivo primario delle istituzioni affinché a queste persone, segnate da tristi vicissitudini, sia data la possibilità di cambiare il proprio futuro abbandonando quella che per loro è l’unica via percorribile, delinquere. Siracusa: Osapp; nel carcere troppe criticità, 500 detenuti di cui 350 in Alta Sicurezza nuovosud.it, 30 marzo 2017 "Emergenze e criticità penitenziarie sono circostanze che da quasi un mese si vivono quotidianamente presso l’Istituto Penitenziario di Siracusa." A dichiararlo è il Segretario Generale Aggiunto dell’Osapp Domenico Nicotra che non può non ricondurre tali criticità al nuovo e mutato assetto organizzativo in essere presso l’istituto siracusano a fronte di oltre 500 detenuti presenti di cui almeno 350 classificati alta sicurezza e pertanto vicine alle organizzazioni criminali di stampo mafioso. A questi si devono aggiungere altri 100 detenuti stranieri il cui collegamento alle organizzazioni terroristiche o eversive non può essere escluso. "Questa miscela esplosiva di delinquenza, prosegue Nicotra, è destinata ad acuirsi a seguito dell’apertura di nuove sezioni, tra l’altro ancora in corso di svolgimento, con innegabile pregiudizio per il delicato compito demandato ai poliziotti penitenziari, che sembrano essere tornati indietro di qualche decennio a causa dell’attuale assetto organizzativo, frutto di una scelta assolutamente non condivisa dall’Osapp". "Turni di non meno di otto ore di servizio, neanche un minuto per poter garantire il passaggio di consegne, uffici fondamentali per il buon andamento di un Istituto Penitenziario che chiudono per fornire supporto ai colleghi ormai stremati che operano nelle sezioni." "Inoltre, impossibilità a programmare la propria vita privata perché il personale di Polizia Penitenziaria non solo non ha contezza del servizio programmato del mese successivo ma addirittura può capitare che alle ore 16:00 di una giornata lavorativa non sappia neanche il turno del giorno successivo". "È evidente, conclude Nicotra, che forse più di qualcosa a Siracusa non funziona e per questo, stante l’attuale e gravissima situazione come Osapp - sempre al fianco dei poliziotti penitenziari - non possiamo esimerci dal denunciare tale incresciosa situazione che necessariamente deve rientrare per il benessere del personale oltre al fatto che qualora degenerasse potrebbe ripercuotersi sull’ordine e la sicurezza penitenziaria e pubblica". Fermo (Ap): al via anche nel carcere la raccolta differenziata dei rifiuti infofermo.it, 30 marzo 2017 Un progetto che parte da lontano e che ora ha trovato concreta attuazione e operatività. È quello della raccolta differenziata dei rifiuti anche nella Casa di Reclusione di Fermo. Nei giorni scorsi, in un incontro volto ad illustrare le tipologie di rifiuti, l’importanza della loro differenziazione, il loro ciclo e gestione, l’Assessore all’Ambiente Alessandro Ciarrocchi, insieme al responsabile tecnico della Fermo Asite Marco Amati hanno incontrato, proprio per dare avvio ufficialmente ed in via sperimentale al progetto, la direttrice Eleonora Consoli e il responsabile dell’area trattamentale Nicola Arbusti. A seguito dell’incontro nel quale sono state illustrate le modalità di conferimento, sono stati consegnati all’istituto i primi materiali per l’attivazione del progetto. "Nell’ampia pianificazione che stiamo portando avanti in città sulla raccolta differenziata sin dal nostro insediamento con l’obiettivo di coprire nell’anno in corso tutto il territorio di Fermo - ha detto l’assessore Ciarrocchi - abbiamo ritenuto di coinvolgere attivamente anche la struttura penitenziaria, i cui responsabili mi sento veramente di ringraziare per aver mostrato sin da subito la massima disponibilità e collaborazione, coinvolgendo oltre ai detenuti, tutto il Personale dipendente amministrativo, la Polizia Penitenziaria ed il Servizio mensa". Un progetto che, nelle parole sia della direttrice Consoli che del responsabile dell’area trattamentale Arbusti, riparte dopo le prime fasi embrionali di qualche tempo addietro con l’auspicio che da sperimentale diventi effettivo e duraturo, magari con la possibilità di renderlo conforme agli altri sistemi di raccolta diffusi nel territorio. Un’iniziativa che si aggiunge a quella già in essere che prevede lo svolgimento di lavori socialmente utili come la cura del verde e la manutenzione delle strade nelle vicinanze della struttura, da parte di alcuni detenuti, in aderenza al Protocollo d’intesa fra Comune e Casa di Reclusione, che risulta molto apprezzato anche dai cittadini. Messina: "Tempo Fermato", il carcere contenitore di disagio o percorso riabilitativo? di Rachele Gerace agorametropolitana.it, 30 marzo 2017 Il carcere è diventato un grande contenitore di "povertà" poiché mette insieme molteplici realtà rispetto alle quali la società non sta riuscendo a trovare un sistema punitivo diverso. La reclusione dovrebbe servire a stimolare la persona a reinserirsi nella società, secondo una nuova prospettiva. "Tempo Fermato" è il video sul Carcere di Messina realizzato dal giornalista Rino Labate e curato dal CePAS (Centro di prima accoglienza Savio), che è stato presentato mercoledì 15 marzo all’istituto Savio. "In carcere si sorride poco! - ha detto Labate. Non è facile raccontare la realtà dei detenuti costretti a condividere con tante persone quegli ambienti ristretti e a relazionarsi con gli agenti di polizia". Il filmato rientra nel progetto "Il carcere: contenitore di disagio o percorso riabilitativo?", patrocinato dall’Assessorato regionale alla cultura, che prevede un laboratorio teatrale con i detenuti come percorso riabilitativo. All’incontro, introdotto da don Gianni Russo direttore del Savio e da don Umberto Romeo direttore del CePAS, sono intervenuti il direttore della Casa circondariale di Messina, Calogero Tessitore e il dott. Nicola Mazzamuto, presidente del Tribunale di sorveglianza. "Coinvolgere i detenuti in un progetto artistico - ha sottolineato quest’ultimo - è segno dell’opera educativa che un’istituzione come quella carceraria deve rispettare per adempiere a un mandato costituzionale". Nessuno dunque, può essere abbandonato al proprio reato: una sorta di riscatto inclusivo per queste persone che "possono tornare a nascere solo in inediti spazi di vita relazionali - ha detto Tessitore - rielaborando le proprie vicissitudini e aprendosi a una vita nuova. Quest’attività si aggiunge a tutto ciò che già facciamo per i detenuti". Il progetto, già avviato al o teatro Pagliarelli di Palermo "insiste sulle relazioni e sulla dimensione sociale del carcere come realtà viva che dialoga con la città, e non una periferia esistenziale", ha detto don Romeo. L’incontro è stato moderato dalla prof.ssa Enza Sofo, vice presidente del Cepas. Palermo: convegno di studi sulle condizioni di salute dei carcerati di Angela Ganci stateofmind.it, 30 marzo 2017 Il 18 marzo a Palermo si è tenuto un convegno sulle condizioni di salute sia fisiche che psicologiche dei carcerati e sulle possibilità di rieducazione. Con lo scopo di inquadrare le "condizioni di salute" delle carceri italiane, operatori della giustizia, avvocati e testimoni diretti dell’esperienza carceraria si sono riuniti lo scorso 18 marzo a Palermo in un dibattito dal titolo suggestivo "Diritti-sicurezza-rieducazione. Quale lo stato di salute delle carceri italiane?" che ha affrontato temi spinosi, quali il sovraffollamento e l’efficacia delle misure riparative, proponendo interventi mirati in un’ottica di miglioramento. Privazione della libertà e autonomia limitata: quali effetti hanno sui carcerati? - La privazione della libertà personale è una condizione costrittiva che genera una vasta gamma di sintomi di natura fisica (problemi cardiovascolari e metabolici, fino a malattie contagiose come la tubercolosi) e psicologica, che probabilmente rappresentano gli esiti più subdoli e devastanti della carcerazione. Sintomi che la letteratura sull’argomento ascrive al rapporto con un’identità in cambiamento, con un "prima" sempre più lontano, paragonato a un "adesso" cristallizzato, spesso caratterizzato dal drastico scemare dell’autonomia, in un rapporto di dipendenza quasi totale dall’istituzione carceraria. Un’autonomia limitata certamente da spazi angusti e dalle molteplici restrizioni dovute a chiare esigenze di sicurezza sociale, e resa ancora più problematica dalla mancata attivazione di esperienze produttive/professionali che contrastino sensazioni di inutilità, vuoto e disimpegno. Da qui l’invasione del male di vivere e delle patologie tipiche collegate (depressione, irritabilità, apatia, deterioramento della personalità, distacco dalla realtà, suicidio). Una cornice teorica che sembra lasciare poco spazio all’ottimismo, e che risulta utile confrontare con la concretezza della realtà carceraria, così da rilevare l’attuale livello di salute detentiva e tutela dei diritti inviolabili della persona, in particolare sotto gli aspetti della vivibilità degli spazi e del senso di autoefficacia, quest’ultimo esito primario di fattive occasioni di recupero sociale. Il convegno a Palermo sulla salute dei carcerati - Con lo scopo di inquadrare le "condizioni di salute" delle carceri italiane operatori della giustizia, avvocati e testimoni diretti dell’esperienza carceraria si sono riuniti lo scorso 18 marzo a Palermo in un dibattito dal titolo suggestivo "Diritti-sicurezza-rieducazione. Quale lo stato di salute delle carceri italiane?" che ha affrontato temi spinosi, quali il sovraffollamento e l’efficacia delle misure riparative, proponendo interventi mirati in un’ottica di miglioramento. "Lo Stato deve garantire il diritto alla salute, all’istruzione e al lavoro, finalizzati al recupero e alla risocializzazione poiché solo in questa maniera il detenuto potrà mettersi in pari con la società - apre i lavori l’avvocato Antonietta Cocchiara - Tuttavia bisogna tristemente constatare che tali diritti basilari non sono garantiti dalle attuali istituzioni carcerarie. Parlando di sovraffollamento i numeri sono chiari: a fronte di una capienza regolamentare di 49.000 posti, nel 2016 le carceri italiane contavano più di 54.000 unità e tale fatto, unito alla carenza di esperienze costruttive, porta il 90% dei detenuti alla recidiva". "Questo seminario nasce dall’esigenza di mantenere sempre attuale il problema del sovraffollamento. Un problema che viola apertamente l’articolo 27 della Costituzione secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e che ha costretto l’Italia a pagare ingenti somme alla Corte europea per il limite minimo non rispettato di 3 metri quadrati di spazio vitale che spetta a ogni detenuto. Consideriamo che già la privazione della libertà, la segregazione in una cella, è la pena in se stessa: non è pertanto ammissibile fare scontare tale pena ai limiti della sopravvivenza, con le strutture che mancano delle cose essenziali - commenta Silvano Bartolomei, responsabile dell’Associazione Diritti Umani Contro Tutte Le Violenze di Palermo e organizzatore del convegno - Il problema è allarmante: stiamo parlando di quattro o cinque detenuti in tre metri quadrati con il rischio non trascurabile di arrivare ad atti di autolesionismo o al suicidio vero e proprio". Un problema scottante quello degli spazi di vivibilità e del sovraffollamento da contrastare con precise misure giuridiche. "Un elemento di criticità è sicuramente il fatto che le carceri sono strutture di sfiducia, già a livello architettonico. Esistono pochi spazi fruibili, con una sorveglianza talmente serrata da limitare le possibilità di libertà all’aperto - denuncia il Prof. Fiandaca, Garante dei diritti dei detenuti della regione Sicilia - Ecco che quando la delimitazione degli spazi vitali si traduce in condizioni di vita irrispettose dei detenuti e del diritto alla salute (mancanza di acqua calda, docce, bagni ubicati negli stessi spazi in cui il detenuto vive) la sensazione di disperazione e annullamento del sé è immediata; peraltro le stesse proposte rieducative, a compensazione talvolta di tali difficoltà, risultano di difficile attuazione per tutti i detenuti, a fronte del loro numero elevato. Parliamo di condizioni di sopravvivenza durissime, che significa essere costretti a vivere, per ciascun detenuto, in non più di 3 metri quadri di spazio, situazione che è valsa all’Italia la condanna per la violazione dei diritti umani e che sempre più si contrasterebbe riducendo il ricorso al carcere almeno per i reati meno gravi. In alcuni casi il carcere non è davvero necessario e ritengo che si debba aumentare il ricorso alle misure alternative, organizzate in attività lavorative in favore della comunità". Rispetto per la salute e per la dignità umana, un nervo scoperto nel sistema delle carceri italiane, anche se non l’unico: il destino delle misure rieducative, in direzione della garanzia dei basilari diritti di istruzione e lavoro, sembra infatti non essere differente. "È da rilevare che in carcere non ci sono molte possibilità rieducative, ciò vale per il lavoro, da considerarsi un deterrente rispetto alla delinquenza perché se insegni un mestiere è più difficile diventare manodopera della delinquenza, come spesso avviene per gli immigrati - riprende Bartolomei - Ecco perché ritengo necessario incentivare il volontariato nelle carceri e aumentare il personale, innanzitutto psicologi e psichiatri. In più i detenuti meno pericolosi potrebbero essere stimolati a seguire corsi, ad esempio come cuoco ed elettricista. Eppure il lavoro non basta nell’ottica di garantire quella salute utile al corretto reinserimento sociale: dobbiamo altresì garantire ai detenuti la continuità affettiva. Esemplificando non puoi inviare un detenuto a Brescia se la famiglia vive a Palermo perché esistono esigenze sanitarie ed esigenze lavorative, ma non meno importanti risultano le esigenze familiari per una corretta risocializzazione". Parere amaro, crudo, infine quello proveniente dall’esperienza più che trentennale della dottoressa Rita Barbera, direttore dell’istituto di rieducazione Ucciardone di Palermo, il cui intervento illustra la realtà del penitenziario palermitano. "La realtà carceraria porta inevitabilmente alla frustrazione del detenuto. Frustrazione significa non veder considerati l’autonomia e le esigenze basilari. Frustrazione significa dover chiamare per ogni necessità o vedersi negato un colloquio familiare. Ecco perché secondo me il carcere, per come è stato finora, non può essere un luogo di rieducazione, al punto che potrei definire la risocializzazione una menzogna istituzionale. Non ha senso peraltro trattenere in carcere persone per reati minori quali contraffazione o alimenti non versati, fenomeno che aumenta solo il sovraffollamento e la disperazione di chi è recluso. Per tale organizzazione e le inadeguatezze di tipo sanitario e territoriale gli esiti della carcerazione spesso si sostanziano in disturbi a carattere psichiatrico a lungo termine non sempre risolvibili". E se, da ciò che emerge, non sembrano totalmente tramontati gli anni della pena afflittiva, di quel carcere che "sanziona e punisce", la speranza è che l’umanità alberghi pienamente in chi dovrebbe riabilitare chi l’umanità l’ha persa (o non l’ha mai acquisita nel processo di sviluppo). E insieme a questo aspetto quasi scontato va un ulteriore monito, affinché l’occhio saggio della giustizia non abbandoni le vittime, troppo spesso lasciate a se stesse, con il rischio di fomentare una rabbia collettiva e un accanimento punitivo verso il carnefice che, da una parte, non restituiscono alla vittima ciò che a questa è stato tolto con crudeltà e che, dall’altro deumanizzano il soggetto che si intende rieducare, vanificando gli sforzi di una pena non afflittiva e pienamente umanizzante. Milano: nel carcere di Opera uno sportello Afol dedicato ai detenuti di Massimiliano Saggese Il Giorno, 30 marzo 2017 Il "Centro per l’impiego" in carcere sarà presentato questa mattina. All’incontro parteciperà anche il ministro Giuliano Poletti. Sarà presentato domani mattina al carcere di Opera lo sportello di Afol dedicato ai detenuti. Durante la presentazione del nuovo "Centro per l’impiego" saranno illustrate le politiche attive del lavoro previste dal protocollo d’intesa tra Afol Metropolitana e il carcere di Opera. Interverranno il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Giuliano Poletti, il direttore generale Detenuti e Trattamento, Roberto Piscitello, Luigi Pagano (Provveditore regionale Amministrazione penitenziaria), Giacinto Siciliano, (direttore della casa di reclusione di Opera), Giuseppe Zingale, direttore generale di Afol Metropolitana, Valentina Aprea, assessore regionale a Istruzione, Formazione e Lavoro, Mattia Granata, vicepresidente di Afol Metropolitana, ed Elena Buscemi, consigliera delegata al Lavoro di Città Metropolitana. Trento: "Fratelli e sorelle", un viaggio nelle carceri italiane attraverso le immagini Il Trentino, 30 marzo 2017 Fino al 2 maggio al museo diocesano tridentino la mostra "Fratelli e sorelle" a 500 anni dalle "utopie" di Moro. In concomitanza con il Giubileo della Misericordia e con il Progetto Utopia 500, promosso in occasione dei 500 anni dalla pubblicazione di Utopia di Tommaso Moro, il Museo Diocesano Tridentino presenta al pubblico la mostra "Fratelli e sorelle. Racconti dal carcere", visitabile nelle sale del piano terra fino al prossimo 2 maggio. Il progetto espositivo, patrocinato dall’Ordine degli Avvocati di Trento, intende aprire uno spiraglio sulla realtà del carcere, un luogo "altro", spesso distante dall’esperienza quotidiana. Senza avere l’ambizione di spiegare o documentare la vita all’interno di un penitenziario, la mostra invita i visitatori a riflettere su un tema tanto attuale quanto complesso. Due le parole guida per il visitatore in questo viaggio tra immagini, suoni e racconti: misericordia e utopia. I due sostantivi fanno riferimento, il primo, a un sentimento rivolto a quanti "vivono nelle più disparate periferie esistenziali" (Misericordiae Vultus, Papa Francesco); il secondo, ad un’aspirazione ideale per immaginare un "altrove" forse irraggiungibile. L’Utopia immaginata da Tommaso Moro, ma anche l’utopia che oggi si declina nell’idea di perdono come alternativa alla vendetta, sentimento che caratterizza il rapporto della nostra società con chi ha commesso un reato. Partendo dalle visionarie "Carceri" di Giovanni Battista Piranesi e passando attraverso le immagini di fotografi, registi e pittori contemporanei, il visitatore sarà gradualmente introdotto in quel mondo "a parte" rappresentato dal carcere. Un mondo fatto di spazi, immaginati o reali, abbandonati o vissuti; di silenzi, rumori, parole, ricordi, voci e racconti. Il percorso prende avvio da una serie di acqueforti tratte dal ciclo "Le carceri di invenzione" di Giovanni Battista Piranesi (Venezia 1720 - Roma 1778), personalità artistica tra le più complesse, poliedriche e affascinanti del Settecento europeo. Edite originariamente a Roma tra il 1749 e il 1750, le Carceri di Piranesi rappresentano uno degli esiti più alti e innovativi della storia dell’arte grafica. Bizzarre, oniriche e inquietanti, queste incisioni visionarie hanno mantenuto inalterato il loro fascino misterioso, in bilico tra scenografia barocca e capriccio di fantasia. Con le fotografie di Silvia Camporesi (Forlì, 1973) si entra nel silenzio sospeso del carcere dismesso dell’isola di Pianosa. Le attività dell’istituto sono cessate definitivamente nel 2011 e Silvia Camporesi è stata la prima fotografa a entrare in quel luogo protetto, inedito per la fotografia. Il video "Fratelli e sorelle. Storie di carceri" della regista Barbara Cupisti (Viareggio, 1962), premio giornalistico televisivo Ilaria Alpi 2012 per il miglior reportage italiano, conduce il visitatore nelle carceri di Torino, Milano, Padova, Trieste, Trento, Roma - Rebibbia, Napoli - Poggioreale, Secondigliano, Pozzuoli e Terni. Il documentario non è commentato da una voce narrante: sono le testimonianze dei protagonisti - detenuti, familiari, agenti di polizia penitenziaria e direttori - a raccontare l’emergenza delle carceri di oggi. Roma: Don Vittorio e il crocifisso di Regina Coeli, intervista al Cappellano del carcere di Marzia Coronati napolimonitor.it, 30 marzo 2017 L’ingresso per i visitatori è da via della Lungara. Un portone qualsiasi di una delle strade più trafficate di Trastevere. "Abbiamo appuntamento con il cappellano". Dall’altra parte del vetro ci squadrano tre vigilanti annoiati. "Avete il tesserino da giornalisti? Senza non si può entrare". "Ma come? Abbiamo parlato con la direttrice. Ci siamo scritti più volte. Sa già tutto". Inizia la catena di telefonate. Aspettiamo venti, forse trenta minuti nella sala spoglia giallo canarino, seduti su una fila di sedie in plastica, accanto a una ragazza che si torce le mani. Non c’è né una macchinetta del caffè, né un distributore d’acqua. Ci fanno un cenno dal gabbiotto di vetro. "È tutto a posto. Il cappellano vi aspetta. Entrate". Spegniamo i telefoni e li infiliamo negli zaini, stipiamo tutto negli armadietti e chiudiamo a chiave, passiamo sotto al metal detector, attraversiamo una porta a vetri doppia e saliamo cinque scalini. "Non sono i famosi tre scalini di Regina Coeli, ma quasi". Padre Vittorio Trani sorride. "Se sei di Roma, da oggi, varcata questa soglia, hai un marchio in più che attesta la tua vera romanità!". Ha un volto disteso, cammina tra i corridoi con un pacco di taralli nella mano che non manca di offrire a chi incontra. Saluta e chiama per nome le persone che ci sfilano accanto. Dopo trentotto anni e mezzo di cappellania nella casa circondariale romana non ha esaurito la curiosità e la voglia di fare conoscere il suo carcere. Valichiamo enormi portoni di ferro, camminiamo lungo androni dai soffitti altissimi bianco azzurri e attraversiamo enormi patii a volta dove si affacciano i cancelli di ingresso alle sezioni. La struttura al suo interno è affascinante e colorata, ma i passi di chi la attraversa sono strascicati e pesanti. Vedo gente in tuta e scarpe sfondate, volti stanchi e sguardi annoiati. Il cappellano ci parla di Gramsci, De Gasperi e degli altri politici detenuti tra queste mura. Ci indica la sezione dove erano rinchiusi. Poi alza lo sguardo verso un dipinto colorato. "Questo Cristo lo ha restaurato un regista, detenuto per storie di droga". Padre Vittorio è orgoglioso di mostrarci un crocifisso posto d’avanti a un quadro a tinte accese, appeso nell’enorme disimpegno nel cuore della casa circondariale. "Diceva che il capo doveva avere il "perizoma" color terra… così chiamava Cristo, "il capo". Diceva che non doveva essere bianco, perché il capo era povero. Ma poi un giorno si è svegliato dopo un’apparizione, una visita notturna del Signore. La mattina era elettrico e preoccupato: "Don Vitto’, lo dobbiamo fare bianco, il perizoma. Lui lo vuole bianco!"". Nella Casa circondariale di Regina Coeli oggi ci sono circa duecento detenuti, di sessantotto nazionalità diverse. Ma il numero cambia di giorno in giorno, sino ad arrivare a circa mille presenze. In fondo alla struttura c’è una piccola cappella illuminata dal sole, con un grosso crocifisso e qualche panca di legno scuro. Ci sediamo assieme a due detenuti selezionati per l’occasione dalla direzione. Sono entrambi italiani. Spieghiamo loro che siamo un gruppo di giornalisti radiofonici e scrittori, che siamo interessati a sapere come si vive la spiritualità in un carcere, se il loro bisogno di fede è sempre soddisfatto o se ci sono cose che potrebbero migliorare, se gli spazi di preghiera o meditazione sono sufficienti. Padre Vittorio si siede in mezzo a noi. "Il problema di questo posto è che è una casa circondariale, con persone che in teoria dovrebbero essere solo di passaggio, perciò non vengono realizzati progetti a lunga scadenza, ma in pratica le cose sono diverse. Considerate che il 70% qui dentro è straniero, soprattutto di fede musulmana". Il nostro primo intervistato è gentile, pondera bene le parole, ha una buona dialettica, gli occhi carta da zucchero e un tao appeso al collo. Dopo un breve confronto si allontana. Lo vedremo prima di andare via, sul palco della sala chiamata "polifunzionale", impegnato nelle prove del coro. Mentre parliamo si aggiungono alla conversazione altri detenuti. Si siedono in silenzio attorno a noi. "Io vengo dal carcere di Viterbo. Ho trascorso lì più di un anno. Sono stato in isolamento per quindici giorni. In quel periodo mia sorella mi aveva inviato dei libri sul buddhismo, ma io non li avevo mai aperti". Chi parla viene dalla Campania. Giovane, poco più che ventenne, mani con piccoli tatuaggi sbiaditi, barba incolta e occhi tondi azzurro cielo. "Quando mi hanno trasferito qui stavo male, non mi ritrovavo con me stesso, reagivo a tutto, ero sempre impulsivo. Poi un compagno di cella mi ha parlato del buddhismo, così mi sono ricordato dei libri di mia sorella e da lì in poi è stata tutta una cosa improvvisa, inaspettata". Racconta di essere cattolico, di andare ancora a messa, ma di meditare tutti i giorni ormai da più di quattro mesi. "Anche tre, quattro, cinque ore al giorno, tra un momento e l’altro della giornata, trovo spazio per la mia meditazione". La timidezza iniziale lascia il passo alla parola e al flusso di pensieri. Dalla porticina della cappella entrano le voci del coro. Si preparano per un concerto, sarà il giorno successivo. "Qui dentro hai tempo per pensare a tutto quello che fuori non hai mai costruito. Valori, principi… fuori ci sono solo le rate e i problemi". Sono le parole di un romano dalla pelle ruvida e le mani rosse. Occhi stanchi e un sorriso che pare rassegnato. "Qui ognuno di noi è una miniera di potenzialità. Questo posto potrebbe diventare una risorsa inesauribile. Invece siamo in una società che ancora considera il detenuto un uomo da punire per il suo reato". Si sono aggiunti al gruppo un ragazzo musulmano convertito al cristianesimo e due ortodossi di origine rumena. Parliamo con loro di fragilità, di cura, di multi-religiosità. Ne esco piena di storie e di pensieri. Penso soprattutto alla necessità di cura e di ascolto profondo che chiede, senza parole, chi attraversa un periodo critico, chi non può tornare indietro, chi fatica ad andare avanti. Mentre ci avviamo verso l’uscita chiediamo al cappellano perché non esiste uno spazio fisico per la preghiera dedicato a chi fa parte di altre confessioni. "C’era un progetto di costruzione di una moschea e di altri spazi, ma poi non ci sono stati più i finanziamenti". Così oggi a volte un Imam riesce a entrare e guidare le preghiere, ma il più delle volte i detenuti musulmani si organizzano da soli. Per le altre fedi, ancora molto poco, qualche visita di un centro buddhista e i testimoni di Geova, che cercano adepti anche qui. Ripercorriamo a ritroso la strada dell’andata. Nella sala polifunzionale è in corso una lezione di filosofia, in biblioteca qualcuno sfoglia un libro e nei lunghi corridoi si passeggia in attesa della mensa. Ascolto il rimbombare dei passi, la voce alta di una guardia che chiama due persone per cognome, sento l’odore del pranzo in preparazione e ripenso alle ultime parole di uno degli uomini che ha parlato con noi. "La mattina, quando ci svegliamo, nella mia cella c’è da ridere!". E sorride, di una felicità autentica. "C’è chi srotola il tappetino e si mette giù in ginocchio, chi medita e recita parole in indiano, chi stringe il rosario. Così, mi lavo i denti e penso che in fondo questa convivenza, questo comunicare e stare insieme, è possibile. E se è possibile qui dentro, dovrà essere possibile pure lì fuori". Cinema. "Il Permesso", storie d’amore, di violenza e di riscatto di Chiara Nicoletti Il Dubbio, 30 marzo 2017 Esce oggi il film noir di Claudio Amendola, con luca argentero. Quattro persone uscite dal carcere per soli due giorni si ritrovano a vivere relazioni e realtà che ormai sono lontane dal loro vissuto in cella. "Vendetta, redenzione, riscatto, amore. Una volta usciti ognuno di loro dovrà fare i conti con il mondo che è cambiato mentre erano dentro", così recita la trama di Il Permesso - 48 ore fuori, il secondo film di Claudio Amendola da regista, in uscita oggi. 48 ore di permesso per quattro personaggi le cui storie si intrecciano, quattro persone uscite dal carcere per soli due giorni, costrette a riaprire ferite o semplicemente a confrontarsi con una realtà che forse non li appartiene più. Per questa sua nuova opera, il regista romano decide di esserne anche protagonista e di farsi affiancare da Luca Argentero e due giovani ed eccellenti attori, Giacomo Ferrara e Valentina Bellè. Bastano pochi minuti all’interno di Il Permesso per capire che Claudio Amendola è tornato nel suo ambiente naturale, quello familiare del noir, del lato oscuro dell’Italia, quello che conosce da trent’anni e che sa maneggiare con attenzione. Il suo primo film, La Mossa del Pinguino, si era distinto come un buon debutto, una commedia delicata e ben bilanciata, complice un cast eccellente (Edoardo Leo in primis) e dei sotto-testi su cui riflettere, ma ci aveva privato dell’Amendola "dark" che ritroviamo invece in Il Permesso. Come riuscire a raccontare con efficacia i sentimenti che dominano il "fuori", la realtà che c’è dopo il carcere, l’uscita dalla struttura che dovrebbe redimere? Amendola lo fa grazie all’intreccio di quattro storie ed un montaggio che conferisce al film tensione continua e voglia di riscatto. "Era la storia di quattro esseri umani che escono dal carcere ed hanno un certo periodo di tempo per riprendere per i capelli la vita o per perdersi" afferma Giancarlo De Cataldo, uno degli sceneggiatori insieme con Roberto Jannone. Giacomo Ferrara e Valentina Bellè interpretano Angelo e Rossana, due poco più che ventenni, lui l’unico arrestato dopo una rapina con amici, lei rampolla dell’alta società finita in prigione per spaccio di cocaina. Donato, interpretato da Luca Argentero, un uomo desideroso di vendetta, è in cerca della moglie Irina, costretta a prostituirsi proprio dagli uomini dello stesso giro di criminalità di cui l’uomo faceva parte. E poi c’è Luigi (Claudio Amendola), già da 17 anni in carcere, che in quelle 48 ore deve provare a realizzare l’impossibile: salvare suo figlio venticinquenne dal seguire le sue orme, il suo stesso destino, quello del crimine, dei falsi valori, dell’orgoglio per ragioni sbagliate. "Il film nasce su quattro storie vere che De Cataldo ha avuto la fortuna, la sfortuna o l’onere di vivere in prima persona quando era giudice di sorveglianza a Civitavecchia. Sono un po’ romanzate ovviamente, ma sono storie che si intrecciano" racconta Amendola e aggiunge "mi piaceva che non fosse un film sulla condizione carceraria ma sul fuori, su quello che queste quattro persone sono costrette a fare o scelgono di fare in queste 48 ore che danno un timing, una scadenza al film". In un noir potrebbe risultare strano o quasi dissonante parlare d’amore eppure è questo sentimento, nelle sue ambigue, violente o distorte coniugazioni il motore di Il Permesso e delle azioni dei suoi protagonisti. Lo conferma lo sceneggiatore Roberto Jannone: "Del soggetto di Giancarlo mi ha appassionato che fossero quattro storie d’amore. Sotto la violenza di certi momenti duri e aspri, i protagonisti sono quattro persone che amano o che scoprono l’amore. Claudio ama suo figlio e per lui agisce, i due ragazzi si innamorano e quindi in quello c’è un riscatto, Luca Argentero agisce per amore di sua moglie. È un modo violento e distorto del film di esprimere questi sentimenti ma profondamente autentico". E se il personaggio che Claudio Amendola ha scelto di interpretare è tanto nelle sue corde quanto il genere di film che ha scelto di dirigere, non si può dire lo stesso per Luca Argentero, spesso abituato a lavorare con le parole, la dialettica e meno con il corpo e lo sguardo che qui invece sono gli strumenti principali con cui Donato comunica con lo spettatore e con il mondo circostante. Un personaggio scuro e oscuro, che sul suo corpo forte e scolpito ha fondato se stesso. "Questo tipo di condizione fisica del mio personaggio - dice Argentero - è stata una richiesta di Claudio specifica". In Il Permesso, Amendola sceglie di raccontare con consapevolezza e senza rimuginarci troppo, la difficoltà del redimersi, del riscatto che quasi sempre non si ottiene ma soprattutto di ferite che spesso non vogliamo riaprire ma dentro cui si è costretti a scavare. Lascia delle porte aperte ai due ragazzi ed ai più giovani di questa storia e spera siano capaci di trovare una strada migliore. Ai "più maturi" rimangono delle scelte più estreme, combattere o arrendersi ai fantasmi del passato da cui non ci si può liberare. Teatro. Cosimo Rega e Gelsomina: l’amore, il teatro e il riscatto oltre le mura del carcere di Patrizia Caiffa agensir.it, 30 marzo 2017 La storia di Cosimo Rega, ex camorrista, ergastolano con 38 anni di carcere già scontati, attore e scrittore. E della moglie Gelsomina Fattorusso, che lo ha aspettato crescendo due figli e credendo nel loro amore. Ora sono nonni e sperano nella grazia del presidente. Lui vorrebbe incontrare i figli del primo uomo che uccise Questa è una storia a due voci che ha nel bel mezzo un ergastolo. La storia di una caduta, di una vita travagliata, di un riscatto attraverso il teatro e di un amore duraturo che non si è fermato nemmeno davanti al muro del carcere a vita. L’eroe redento è oramai famoso grazie al cinema. Cosimo Rega, di Angri, paesino in provincia di Salerno, 38 anni di ergastolo ostativo già scontati, ex camorrista nel clan Alfieri Galasso e due omicidi alle spalle, nel terzo faceva il palo durante una rapina. La sua casa è il carcere di Rebibbia, dove i fratelli Paolo e Vittorio Taviani hanno girato il pluripremiato film "Cesare deve morire" con attori detenuti nel reparto di massima sicurezza. Cosimo interpretava Cassio: la passione per il teatro, il successo cinematografico e l’amore della moglie lo hanno salvato. L’eroina dietro le quinte, ma da poco ha cominciato anche lei a calcare le scene per caso, è la moglie Gelsomina Fattorusso. Si sono conosciuti quando lei aveva 12 anni e lui 16. Stanno insieme dal 19 marzo 1968 (ed è lui stranamente a ricordare la data), più 43 anni di matrimonio, due figli di 43 e 41 anni e tre nipotini. Li incontriamo su un divanetto arancione a Castellaneta Marina, in provincia di Taranto, dove è in corso in questi giorni il 39° convegno nazionale delle Caritas diocesane. Cosimo Rega ha potuto portare la sua testimonianza grazie ad un permesso premio. La moglie lo ha accompagnato, per godere di questi attimi rubati alla detenzione a vita. La vera sentenza. Quando si sposarono lei era incinta del primo figlio. Quando lo arrestarono, della seconda. "Appena avuto l’ergastolo, trent’anni fa - racconta - dissi a mia moglie e ai miei figli che non c’erano avvocati che potevano assolvermi, che la mia condanna era giusta. Non c’è peggiore emozione di vedere negli occhi dei propri figli la delusione. Le dissi: tu lo sai che io non uscirò più, sei giovane, rifatti una vita. Era bellissima. Lei mi rispose: pensi che un muro di cinta possa dividere il nostro amore? Fu la vera sentenza". Quel giorno Cosimo si pentì di essere camorrista, andando incontro anche al disprezzo e all’ostilità degli altri detenuti. Il primo permesso premio. Da un po’ di anni Cosimo può uscire dal carcere alle 5 di mattina per recarsi all’Università Roma 3, dove lavora come portiere. Il pomeriggio è impegnato nella compagnia teatrale della cooperativa "Formula sociale" insieme ad altri detenuti, studenti e dipendenti di Roma 3. È attore e scrittore. Con Gelsomina ora si vedono tutti i giorni ma la sera Cosimo torna dietro le sbarre. Prima s’incontravano solo nei consueti colloqui in carcere, un ora a settimana, "per un totale di tre giorni l’anno", precisa Cosimo, che conosce il valore assoluto e relativo del tempo. Come quando riuscirono finalmente, dopo decenni, a trascorrere di nuovo una notte insieme, durante il primo permesso premio nel 2011. "Andammo al santuario del Divino Amore accompagnati da don Roberto, uno dei cappellani di Rebibbia: prima in chiesa, poi a cena. Ero in ansia, tutti ci fotografavano con i telefonini, non ci lasciavano mai soli". Finalmente in stanza, "mi sentivo male, ero goffo, le cose non andavano come mi ero sognato per tanti anni". L’epilogo felice e bizzarro ci fu, ma non lo riveliamo. Lo scriverà forse Cosimo in una sua prossima, divertente, pièce. "La mia vita eri tu", gli dice oggi Gelsomina, guardandolo negli occhi con un sentimento semplice e inossidabile, nutrito nei lunghi anni della lontananza dai romanzi d’amore. "Ho sempre saputo che eri buono, sennò come facevo ad amare una persona come te?". "Ho sempre lavorato - racconta - prima in una fabbrica di pomodori poi al comune di Angri e ora al comune di Roma. Mi mancava più di tutto la vita matrimoniale, le passeggiate con i figli. Per loro non era facile, si vergognavano di avere un padre condannato all’ergastolo. Così preferivo non uscire. Leggevo libri". Come Cosimo in carcere, che tra quelle mura si è formato una profonda cultura ricca di citazioni colte. Lui fatica a tenere a bada il suo talento istrionico, mentre si racconta, ma è lei a precisare molti aspetti della loro dura storia. L’ingresso nella camorra fu un gesto istintivo di ribellione contro la famiglia. "A volte mi chiedo come ho fatto ad uccidere - dice Cosimo -. Ero io quello? La prima volta uccisi un amico, un camorrista, quando mi vide, alzò le mani in alto come Gesù in croce. Non lo dimenticherò mai e non voglio giustificazioni". "Era una maschera che ti mettevi", ribatte Gelsomina. La richiesta di grazia. Oggi Cosimo si sente un uomo nuovo e vorrebbe chiedere perdono ai figli del primo uomo che uccise, Giuseppe Parlati: "Può darsi che non accetteranno per non risvegliare il dolore. Ma devo almeno tentare. Sono consapevole di essere un ex camorrista. Purtroppo assassino lo resterò per sempre. Ma mi sento un uomo fortunato perché ho avuto la misericordia degli uomini. Quella di Dio non lo so". Nel frattempo, dopo due richieste respinte presentate dalla moglie, la direzione del carcere sta chiedendo di nuovo la grazia per Cosimo Rega. Dovrà passare al vaglio della magistratura, del ministero e, infine, del presidente Sergio Mattarella. Gelsomina, dal canto suo, sta contando i mesi che la separano dalla pensione per essere una nonna felice, dopo 41 anni e 10 mesi di lavoro. "Se dovessi uscire le direi: prendiamo le valigie e andiamo via, in un’isola". E lei: "Sì, dove vanno tutti gli anziani in pensione". Cos’è la libertà per Cosimo Rega? "È una parola troppo grossa. Non penso che esista. Credo esista la ricerca della libertà". Intanto lo si potrà veder recitare dal 24 al 26 marzo al Teatro San Raffaele a Roma, con la compagnia del carcere "Stabile assai": interpreterà Paolo Borsellino, il giudice ucciso dalla mafia. Decreto Minniti. Tribunali speciali per gli immigrati, il Senato approva di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 30 marzo 2017 Fiducia ai minimi per il decreto Minniti-Orlando che introduce un diritto di serie B per i richiedenti asilo: solo 145 sì, molto al di sotto della maggioranza assoluta. Pesano le assenze. La legge passa alla camera tra le critiche della associazioni: "Torna il vecchio binomio immigrazione-sicurezza". Ignorate le preoccupazioni dei magistrati e le osservazioni dei giuristi: forti rischi di incostituzionalità. Una fiducia mai così bassa per il governo Gentiloni in senato. Sul decreto Minniti-Orlando che introduce procedure e tribunali speciali per i richiedenti asilo l’esecutivo ha raccolto assai meno della maggioranza assoluta dei senatori. Diversi assenti nella maggioranza ed è mancato anche l’abituale sostegno dei verdiniani. Ma banchi ancora più vuoti per le opposizioni: al solito appoggio occulto al governo di Forza Italia si è aggiunta la mancanza di oltre un quarto del gruppo grillino, a conferma di una linea quantomeno altalenante dei 5 stelle sull’immigrazione. Alla fine il governo ha raccolto 145 voti di fiducia e 108 contrari. Numeri lontanissimi da quelli con i quali Gentiloni era partito a dicembre (169 sì) ma anche dall’ultimo recentissimo voto di fiducia sul processo penale (156 sì il 15 marzo). Il decreto passa ora alla camera, dove deve essere convertito entro il 18 aprile, anche se contiene misure che saranno applicabili al più presto tra quattro mesi - il che mette in pesante dubbio i requisiti di necessità e urgenza indispensabili per ogni decreto. I deputati avranno una mancata di ore per approvarlo, perché il testo arriverà in aula il 10 aprile a ridosso delle vacanze di pasqua, e sarà inevitabilmente blindato da un’altra fiducia. Ne risentirà il dibattito parlamentare sul diritto di asilo, come è stato al senato dove non sono mancate le forzature. La principale: in commissione non è stato ritenuto ammissibile un emendamento per l’abolizione del reato di clandestinità, anche se successivamente in aula la presidenza ha ammesso che "avrebbe potuto essere considerato attinente alla materia d’esame". Ma nel frattempo ancora una volta l’odiosa norma della Bossi-Fini è rimasta in piedi, nonostante il ministro della giustizia Orlando avesse collegato le novità del decreto approvato ieri con la possibilità di "superare" il reato di clandestinità. Orlando, che firma con Minniti il decreto, ha tenuto un profilo molto basso sul provvedimento, tanto che ieri ha trovato il modo di felicitarsi pubblicamente per l’approvazione alla camera di un’altra legge (quella sui minori non accompagnati) ma ha taciuto per il passo in avanti della legge che porta il suo nome. In effetti assai poco spendibile da un punto di vista garantista. Pensare che diminuendo le garanzie per i più deboli sia la soluzione alle difficoltà del nostro paese - ha commentato in una nota l’Arci - è sbagliato e avrà l’effetto opposto. Oltre a criminalizzare rifugiati e immigrati, questo decreto metterà ancora più in difficoltà il sistema dell’accoglienza aumentando tempi di attesa e spesa pubblica". "Si torna al vecchio binomio immigrazione-sicurezza - ha aggiunto il responsabile immigrazione della Caritas - I Cie sono molto costosi e fortemente lesivi dei diritti delle persone, l’idea del ministro Minniti di distribuirli per tutto il territorio non può essere in alcun modo la soluzione". L’abolizione del reato di immigrazione clandestina - come ha fatto notare durante le audizioni, rimaste però tutte inascoltate dai senatori di maggioranza, l’avvocato Guido Savio - avrebbe anche consentito quel risparmio di spesa necessario a coprire i costi delle 26 nuove sezioni specializzate, previste dal maxiemendamento del governo approvato ieri - una per ogni sede di corte d’appello e non più solo 14 nelle città principali. La novità dovrà dunque funzionare, quando il Csm avrà pronti i regolamenti, tra almeno 120 giorni, "senza nuovi oneri né incrementi di organico nei tribunali". L’esito è prevedibile. Così com’è stata abbondantemente segnalata l’incostituzionalità di un tribunale speciale individuato non per materia, dal momento che la competenza su altri aspetti come i permessi di soggiorno resta delle sezioni ordinarie, ma per categoria di persone, appunto i richiedenti asilo. La previsione solo eventuale dell’udienza pubblica e del contraddittorio con il migrante in primo grado, poi, costituisce secondo il parere di molti giuristi ascolti un’evidente e incostituzionale violazione del diritto a un processo pubblico, previsto dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ad esso ancora recentemente la Cassazione ha riconosciuto rilevanza costituzionale, sacrificabile nel giudizio di legittimità solo in virtù del fatto che sia sempre stato assicurato nei giudizi di merito di primo e secondo grado. Per i richiedenti asilo tutto questo non varrà più, anzi l’appello è del tutto cancellato. Perché il governo vuole diminuire e velocizzare i ricorsi giudiziari quando le commissioni territoriali non riconoscono il diritto all’asilo. Eppure non è detto che funzionerà, perché come ha evidenziato anche l’Anm dei giudici di Cassazione, "tagliando l’udienza non si tagliano i tempi, si tagliano soprattutto le garanzie delle parti del procedimento". Oltre al fatto che il mancato appello non farà che aumentare i ricorsi, magari infondati, in Cassazione. Decreto Minniti. Una profonda lesione nel sistema dei diritti di Luigi Manconi Il Manifesto, 30 marzo 2017 Il provvedimento approvato ieri sancisce l’introduzione di una sorta di diritto "etnico" per cui ai cittadini stranieri extracomunitari è riservata una corsia giudiziaria "propria" con deroghe significative alle garanzie processuali comuni. Una giustizia minore e un diritto diseguale. L’approvazione, ieri, del decreto Orlando-Minniti sancisce l’introduzione nel nostro ordinamento di una sorta di diritto "etnico" per cui ai cittadini stranieri extracomunitari è riservata una corsia giudiziaria "propria" con deroghe significative alle garanzie processuali comuni. Deroghe non giustificabili in alcun modo con le esigenze di semplificazione delle procedure di riconoscimento della protezione internazionale. È questa la ragione principale che ha indotto me e Walter Tocci a non partecipare al voto di fiducia richiesto dal governo sulle misure di "Accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, e per il contrasto dell’immigrazione illegale". Con questo gesto abbiamo inteso esprimere il nostro giudizio fortemente negativo su un provvedimento di legge che introduce una profonda lesione nel nostro sistema di garanzie. Una normativa che, appunto, non prevede appello per il richiedente asilo che ha ricevuto un diniego alla domanda di protezione. La possibilità di impugnare i provvedimenti adottati dalle Commissioni territoriali è limitata al primo grado e fortemente affievolita poiché, salvo casi eccezionali, non è previsto il contraddittorio: ovvero che il richiedente asilo compaia davanti al giudice e possa esercitare pienamente il suo diritto alla difesa. Così una procedura che regola tutte le iniziative giudiziarie, comprese le liti condominiali, il furto di un chinotto in un supermercato e l’opposizione a una sanzione amministrativa, non viene applicata nel caso di un diritto fondamentale della persona, come la protezione internazionale, riconosciuta dalla nostra Costituzione. L’alterazione di questa procedura e la sua riduzione a due gradi di giudizio ha conseguenze ha conseguenze pesanti sulla vita dei richiedenti asilo e sui diritti di cui sono titolari. Ne discende che un principio determinante per il nostro sistema di garanzie, vigente nell’intero ordinamento, viene negato proprio ai soggetti più vulnerabili. E volendo entrare ancor più nel merito della questione, quanto emerge nel corso del colloquio del richiedente asilo davanti alla Commissione territoriale, in alcuni casi e per una serie di ragioni, potrebbe non bastare per disegnare il quadro completo della vita di quella persona e far emergere gli aspetti più delicati da un punto di vista umanitario. A questo serve l’udienza col giudice, e la presenza di un certo numero di esiti favorevoli al richiedente asilo in quella sede con il conseguente riconoscimento di una forma di protezione, nonostante la decisione della commissione territoriale, non può che confermare quanto sia indispensabile garantire quell’impianto complesso - con il contraddittorio e con i suoi tre gradi di giudizio - previsto dal nostro ordinamento. Le esigenze di riduzione dei tempi di queste procedure, dato il contesto difficile e faticoso in cui il nostro Paese si sta muovendo e si muoverà nei prossimi anni, non vanno certo trascurate. Superare tutti i limiti evidenti emersi nella gestione del fenomeno migratorio deve essere un obiettivo per tutti perché migliorerebbe le condizioni di vita non solo dei migranti, ma anche dei territori coinvolti nell’accoglienza. Ma il risparmio del tempo nelle procedure non può corrispondere a un risparmio di garanzie e diritti. Decreto Minniti. Siamo di fronte al fallimento dello Stato di Damiano Fiorato (Avvocato) Il Manifesto, 30 marzo 2017 Il decreto legge Minniti-Orlando costituisce la presa di atto di un fallimento della Pubblica Amministrazione. Lo Stato non può o non vuole più permettersi di offrire accoglienza ai richiedenti asilo per i tempi lunghi necessari per l’esame delle domande. È però giuridicamente - oltre che socialmente - inaccettabile che la questione possa risolversi con la compressione dei diritti fondamentali e del fondamentale principio del contraddittorio. Ma l’aspetto più grave è che ciò suona, per modalità e sperequazione, come una vera e propria condanna a morte per le categorie di persone richiedenti più a rischio. i "soggetti deboli". La Direttiva Procedure e la Direttiva Qualifiche prescrivono che l’ascolto dell’ interessato debba essere condotto nell’ ambito dei principi della cooperazione istruttoria e dell’onere della prova attenuato. Di cosa si tratta? il primo - da sempre richiamato anche dalla Suprema Corte - prevede che sia giudice sia, ancor prima, l’intervistatore in sede di commissione, cooperino attivamente con il richiedente ricercando insieme allo stesso le reali motivazioni della domanda anche quando tenute riservate per timori. Timori comprensibili per una persona che non conosca l’ordinamento del paese nel quale sta soggiornando, come i pericoli ai quali potrebbero essere esposti propri cari nel paese di origine a causa delle sue stesse prese di posizione e rivelazioni, lo stigma dei connazionali che nell’ambito delle stesse comunità di accoglienza potrebbe colpirli. Funzionalmente collegato al principio della cooperazione istruttoria è quello dell’"onere della prova attenuato" in virtù del quale si tiene conto della coerenza della narrazione del richiedente raffrontandolo, sulla base di qualificate fonti di notizie come Unhcr, Amnesty International, Easo, con le condizioni di origine dello stesso. Posto che i due principi sono tra loro intimamente e funzionalmente legati il Dl Minniti-Orlando li distrugge. La stessa videoregistrazione dell’ intervista in Commissione territoriale - che dovrebbe essere prima di tutto un eventuale e volontario strumento di garanzia per il richiedente asilo non può sostituire l’esame diretto e l’udienza innanzi al giudice in caso di impugnazione del diniego del riconoscimento, come invece prevede il decreto. Questo perché davanti alla Commissione la presenza dell’ avvocato è puramente eventuale e di mera presenza e non esiste alcuna garanzia per il richiedente che - tra l’altro - si deve fidare della traduzione di un interprete non di sua fiducia (talora preconcettualmente avverso al richiedente per origine, convinzioni e condizione.- E proprio nelle situazioni di casi "sensibili" (si pensi - a titolo esemplificativo - agli omosessuali perseguitati, ai casi di matrimonio forzato, alle mutilazioni genitali, alle vittime di violenza sessuale accusate di adulterio, ma anche ai casi di apostasia oppure di appartenenza etnico-politica) la videoregistrazione può inibire il soggetto nella rappresentazione della propria vicenda umana e dei motivi di fuga dal Paese di origine; una narrazione dalla quale dipenderà il suo futuro. Ebbene, avere la non infondata percezione che la videoregistrazione verrà ascoltata da più soggetti, sconosciuti, in tempi diversi, "parcheggiata" in archivi e cancellerie certamente non faciliterà questi soggetti ad esporre le reali ragioni della loro fuga dal Paese di origine. Buon senso e logica vorrebbero pertanto che questo strumento fosse puramente eventuale e utilizzato con il consenso della persona intervistata. Non di meno l’abolizione dell’appello e la non reclamabilità della decisione del giudice di primo grado danneggiano in primo luogo proprio i richiedenti più a rischio di vita. Talora la situazione personale e psicologica del richiedente portava a provare "motivi sensibili" come quelli prima visti solo nel secondo grado di giudizio. Con il decreto Minniti-Orlando non sarà più così: il richiedenti si giocano tutto nell’intervista in Commissione, senza alcuna garanzia. Ogni altra forma di garanzia sarà puramente eventuale. Un vulnus senza precedenti nella storia dell’Italia democratica. Intervista a Luigi Manconi: "non ho votato il decreto migranti, è una norma etnica" di Rocco Vazzana Il Dubbio, 30 marzo 2017 Insieme a Walter Tocci, Luigi Manconi è stato l’unico senatore dem a non votare la fiducia al governo sul decreto Minniti-Orlando sui migranti. Il motivo? "Perché a mio avviso si introduce nell’ordinamento giuridico italiano un diritto diseguale", spiega. Si riferisce all’eliminazione dell’appello per un richiedente che si vede negare l’asilo dalla commissione territoriale competente? Esatto. Si tratta di una sorta di normativa etnica che deroga a uno dei principi fondamentali del nostro stato di diritto: i tre gradi di giudizio. È particolarmente iniquo che la deroga la si applichi nei confronti di una categoria particolarmente vulnerabile, i richiedenti asilo, e a proposito di un diritto inviolabile della persona, come il diritto d’asilo, tutelato dalla Costituzione oltre che dalle convenzioni internazionali. I proponenti dicono che il provvedimento non presenta elementi di incostituzionalità, visto che la Carta non prescrive tassativamente il doppio grado di giudizio... Io infatti non penso sia incostituzionale eliminare un grado di giudizio, il problema però si potrebbe porre sotto il profilo dell’eguaglianza. Cioè della parità di tutti di fronte alla legge. Perché se l’abolizione di un grado di giudizio non è contraddetto dalla Carta costituzionale, resta il fatto che questo decreto introduce un trattamento speciale. Anche il primo grado di giudizio viene "semplificato", sostituendo l’udienza con una videoregistrazione. Era indispensabile per snellire le procedure? Questa decisione aggrava in maniera rilevantissima la situazione. Di fatto viene annullato, di norma, il contraddittorio e la conseguente oralità. Il contraddittorio è però previsto in alcuni casi eccezionali... Appunto. Io mi riferivo alla norma: la regola vuole che non vi sia contraddittorio. Poi, se il giudice lo decidesse, può essere prevista l’audizione. È stato recepito un nostro emendamento che proponeva che il contraddittorio avvenisse anche su richiesta del soggetto interessato, ma resta sempre il giudice a decidere se accogliere la domanda o no. Siamo davanti a una compressione del diritto alla difesa, diritto inviolabile della persona. Vengono istituite anche 26 sezioni specializzate sulle richieste d’asilo. Per i detrattori del provvedimento, così si violerebbe l’articolo 102 della Costituzione secondo cui "non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali". È d’accordo? Qui il discorso è più incerto perché una specializzazione è stata più volte prevista nella nostra storia. Secondo me si tratta di una specializzazione che può risultare anche utile per la complessità della materia. E poi ci sono i Cpr, i Centri di permanenza per il rimpatrio, che prenderanno il posto dei Cie. Come cambieranno queste strutture? Prima Cpt, poi Cie e in futuro Cpr. Dal 1998 ho visitato decine di queste strutture. Marco Minniti, audito dalla nostra commissione, ha detto che i Cpr saranno tutt’altra cosa. Io ho stima per il ministro, ma per ora non sono state in alcun modo indicate le condizioni che davvero potranno rendere tutt’altra cosa i centri. Perché dal 1998 a oggi nessuno è stato in grado di pensare a un modello alternativo rispetto a una struttura sostanzialmente detentiva come i Cie? Perché quella struttura di "detenzione amministrativa" risponde in primo luogo a un’esigenza di natura politica. Nell’ultima visita fatta al Cie di Ponte Galeria, nel febbraio scorso, abbiamo trovato 92 donne. Con l’eccezione di una, 91 non presentavano, a detta degli operatori, dei responsabili dell’ente gestione e, oso dire, degli stessi funzionari i polizia alcun tratto di pericolosità per la sicurezza dello Stato. Nella pressoché totalità si trattava di marginalità sociale dovuta a irregolarità amministrativa. La metà di loro era costituita da nigeriane, presumibilmente vittime di tratta. Dunque eravamo davanti a persone che richiedono assistenza, tutela e in qualche caso vera e propria protezione. Non si capisce perché queste persone debbano stare in un luogo di detenzione amministrativa, tenuto conto che l’irregolarità è spesso il prodotto esclusivo di condizioni di difficoltà sociale. Come si potrebbero superare i centri? La mia è una proposta molto semplice: creiamo finalmente la possibilità di ingressi legali nel nostro Paese per ricerca di posto di lavoro. La più grande sanatoria sul tema è stata messa in atto dal governo Berlusconi che portò alla regolarizzazione di circa 300 mila persone impiegate nel settore dell’assistenza domiciliare. Migranti. Dentro al Cie di Torino tra sbarre e psicofarmaci: "perché ci tengono qui?" di Davide Lessi La Stampa, 30 marzo 2017 "Il Cie è un luogo in cui sono parcheggiate delle persone che non sanno cosa potrà succedere di loro", racconta Guido Savio, dell’Associazione di studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). È una storia di documenti. Lo sa bene Aziz. Lui è un giovane nordafricano che dal Cie di Torino è riuscito a fuggire due volte. "Entrare o non entrare è una questione di sfortuna: sta tutto nell’incappare in un controllo di polizia ed essere beccati senza regolare permesso di soggiorno". Ma anche se si hanno i documenti, varcare i cancelli dell’unico centro di identificazione ed espulsione attivo nel Nord Italia, non è semplice. Lo abbiamo fatto, dopo due dinieghi del Viminale, accompagnando in visita il deputato del Pd Davide Mattiello. I migranti sono chiamati "ospiti" ma da corso Brunelleschi l’impressione è quella di una struttura di massima sicurezza che spunta, quasi dal nulla, in un’area residenziale. Fuori, i dignitosi palazzi di Pozzo Strada. Dentro gli "ospiti": 116 uomini, nessuna donna (sui circa 140 posti disponibili). Persone che aspettano di essere identificate e rimpatriate. Una trentina i richiedenti asilo. In 16, invece, arrivano dritti dal carcere. Sono trattenuti in quattro diverse aree circondate da inferriate alte fino a cinque metri. In ogni area un massimo di 35 persone divise in camerate da sette con letti a castello ben ancorati a terra per non essere usati come corpi contundenti in caso di protesta. L’ultima c’è stata un anno fa. "Mentre due aree sono inagibili per gli scontri del passato", dicono dal centro. Un centro dove i numeri sono destinati a crescere: la capienza, con il decreto Minniti, dovrebbe arrivare a 150 e il "modello Torino" esportato in tutto il Nord e nel resto d’Italia: un centro per Regione. Così funzioneranno i "nuovi Cie". Saranno chiamati Cpr, centri per il rimpatrio. "Ora facciamo una sorta di selezione all’ingresso", dice il personale dell’ufficio immigrazione dalla saletta dove vengono convalidati i decreti di espulsione. A Torino la quota di rimpatri effettuati tocca il 60 per cento. È maggiore della media: negli altri 5 Cie attivi nel territorio nazionale (Ponte Galeria a Roma e il Sant’Anna di Crotone i più grandi, ndr) un terzo dei trattenuti resta senza nome, e solo la metà viene effettivamente espulso. Nel 2015 sui 5.242 trattenuti in Italia 2.746 furono rimpatriati. La macchina nazionale, per ora, è tutt’altro che oliata. E anche sotto la Mole gli errori non mancano. "Sono stato 90 giorni rinchiuso lì dentro", denuncia Omar, ragazzo di 24 anni che viene dal Gambia. È uscito per decorrenza dei termini massimi di permanenza il primo gennaio. Poco dopo gli è stato riconosciuto lo status di rifugiato. "Non ho ancora capito perché mi tenevano lì", dice. Una situazione temporanea e senza prospettive che riguarda la gran parte dei trattenuti dentro al Cie: non a caso, confermano dal centro, sono circa una trentina su 113 i migranti che fanno uso di psicofarmaci. Quasi uno su tre. "Ma con la diminuzione dei tempi di permanenza da 18 a tre mesi la situazione è migliorata", ribattono i gestori. L’appalto è stato vinto dalla Gepsca, multinazionale francese del gruppo Gdf, che si occupa anche di strutture carcerarie. Ma nel centro, a lavorare, sono per di più i dipendenti della coop Acuarinto di Agrigento. La gara vale quasi 850 mila euro l’anno. Il costo medio a giornata per migrante è di 37,8 euro. "Tanti? In realtà riusciamo a malapena a garantire i servizi richiesti dal capitolato di spesa", racconta Emilio, un dirigente della cooperativa mentre cammina vicino alle ronde dei militari. In tutto nel centro lavorano una trentina di persone tra dipendenti della coop e personale medico. Senza contare le forze dell’ordine (circa 25) impegnate nella sicurezza. "In vent’anni abbiamo visto che questo modello è inefficace: più di una persona su due non viene espulsa", spiega Guido Savio, legale dell’Asgi che è stato tra i legali sentiti in commissione al Senato per il piano. L’altra rimane quella dei diritti: "C’è il rischio che si stringano accordi di rimpatrio con Paesi terzi non sicuri", dice il deputato Mattiello. E il pensiero va all’agosto scorso: in 48 rimpatriati, con un volo charter partito da Torino, in Sudan. Lì dove, per l’Onu, è in corso la peggiore crisi umanitaria in 70 anni. Messico. Detenuti in rivolta carcere di Cadereyta, ore d’inferno con 2 morti e 13 feriti di Lorenza Mariani Secolo d’Italia, 30 marzo 2017 La situazione precipita di ora in ora: la rivolta scoppiata nel carcere messicano di Cadereyta, nello stato settentrionale di Nuevo Leon, continua ormai da ieri ad alimentare violenza e a seminare panico, distribuendo feriti da una parte all’altra degli schieramenti, tra agenti penitenziari e detenuti. Detenuti in rivolta: due morti e 13 feriti E così, se fino a qualche ora fa si parlava solo di lesioni più o meno gravi registrate nel corso dell’insurrezione, oggi le notizie aggiornano quello che è un vero e proprio bollettino di guerra ad un ulteriore peggioramento della situazione: e la tragica conta segna in elenco due detenuti morti e 13 feriti ufficiali, (che alcuni media locali dicono essere anche di più: addirittura 45). E pensare che solo tre giorni fa una maxi evasione attraverso un tunnel sotterraneo in un altro carcere messicano, quello di Ciudad Victoria, nello stato messicano di Tamaulipas, ha messo a segno una delle più ingenti evasioni di massa: 29 i prigionieri scappati, di cui 16 di loro sarebbero ancora a piede libero. Dunque oggi la situazione della rivolta nell’istituto di pena di Cadereyta è ulteriormente peggiorata: due persone sono morte, ancora non si sa in che modo, mentre i detenuti hanno iniziato a incendiare i materassi e a prendere d’assalto la farmacia. Le cause della rivolta e l’ultimo precedente - Secondo il portavoce della sicurezza locale, Aldo Fasci, i disordini sono iniziati quando alcuni prigionieri sono entrati nella farmacia del penitenziario per rubare della droga. Altre versioni, invece, a proposito delle cause all’origine della maxi rissa poi diventata una vera e propria rivolta all’interno del carcere, che si trova nel comune di Cadereyta Jimenez, a circa 960 chilometri a nord di Città del Messico, sarebbe scoppiata anche a causa del malcontento interno per la mancanza di acqua e cibo. Fatto sta che una lite è degenerata in rissa, e dei tentativi di aggressione si sono trasformati in una vera e propria rivolta carceraria. Tra l’altro questo ennesimo caso d’insurrezione violenta tra prigionieri arriva appena un giorno dopo un’altra rissa registrata nella stessa prigione, dove circa 600 detenuti hanno organizzato una protesta contro controlli e perquisizioni: un precedente che ha provocato sette feriti, tra cui due agenti penitenziari. Iran. Tre detenuti condannati a morte per ragioni di coscienza paperblog.com, 30 marzo 2017 La Repubblica Islamica, conferma drammaticamente la sua intolleranza verso la libertà di opinione e di coscienza e la sua crudeltà. Tre detenuti, sono stati condannati a morte, decisa sulla base delle loro opinioni personali, in materia religiosa. I tre sono: Sina Dehghan, Mohammad Nouri e Marjan Davari (Death Penalty News). I primi due, Sina Dehghan e Mohammad Nouri, sono stati arrestati nell’ottobre del 2015, con l’accusa di aver espresso delle considerazioni offensive verso l’Islam, parlando in una chat privata aperta con l’applicazione mobile "Line". Con loro è stato arrestato anche Sahar Elyasi, rilasciato su cazione perché minorenne e poi condannato al processo a sette anni di detenzione. All’epoca dell’arresto, Sina Dehghan aveva appena finito il suo servizio militare presso una base di Teheran, gestita direttamente dai Pasdaran. Poco dopo l’arresto, Sina Dehghan è stato selvaggiamente picchiato durante la detenzione presso il palazzo dell’intelligence di Arak. La pena di morte contro Sina Dehghan e Mohammad Nouri è stata decisa dalla Sezione 1 della Corte criminale della Provincia di Markazi, presieduta dal giudice Mohamad Reza Rahmati. La condanna, quindi, è stata confermata nel febbraio del 2017 dalla Corte Suprema iraniana che, non contenta, ha aggiunto 16 mesi di carcere ulteriore, accusando gli imputati di insulto alla Guida Suprema Khamenei. Nel Settembre del 2016, Iran Human Rights aveva riportato che Sina Dehghan, appena ventenne, aveva firmato una confessione di colpevolezza, dopo aver ricevuto la promessa della prossima liberazione. La terza condanna a morte è stata decisa contro una donna, Marjan Davari, arrestata nel settembre del 2015. Anche in questo caso, le ragioni sono di coscienza: la Davari è accusata di aver tradotto un libro sull’Eckankar, movimento religioso induista, molto popolare negli Stati Uniti. La prigioniera, quindi, è stata accusata dal regime di "diffondere corruzione sulla Terra". A condannarla a morte è stato il giudice Salavati della Sezione 15 della Corte Rivoluzionaria di Teheran (Hrana). Durante la detenzione nel carcere di Evin, il regime iraniano ha negato a Marjan Davari ogni contatto con la famiglia e con il suo legale. India. Compassione verso i detenuti nello stato del Karnataka L’Osservatore Romano, 30 marzo 2017 "Quasi quattrocentomila persone languono senza amore, speranza e aiuto in 1382 case di detenzione in India. Per questo motivo, vi invitiamo a trascorrere un anno come volontari o addetti a tempo pieno nella nostra comunità". È l’appello lanciato da padre Sebastian Vadkumpadan, coordinatore nazionale dell’associazione Prison Ministry India, un’organizzazione cattolica dello stato del Karnataka che da oltre 30 anni porta sollievo ai carcerati rinchiusi nelle prigioni del paese. Conta oltre 6000 volontari che mettono entusiasmo, competenze ed energie per dare speranza e migliorare la qualità della vita dei detenuti. "Prison Ministry India offre ai giovani volontari la possibilità - sottolinea il sacerdote - di essere coinvolti in un percorso di riabilitazione". L’iniziativa parte da un episodio avvenuto lo scorso anno nel periodo pasquale, durante una delle numerose opere di misericordia. Nel giovedì santo, monsignor Kuriakose Bharanikulangara, vescovo di Faridabad, durante la cerimonia della lavanda dei piedi nel carcere di Tihar, a New Delhi, aveva lavato i piedi di dodici prigionieri. Alla fine della liturgia un altro prigioniero si è avvicinato all’altare e ha domandato: "Eccellenza, può lavare anche i miei piedi?". Per il vescovo e i presenti quella richiesta è stata una vera sorpresa. Il presule, quindi, ha accolto con gioia la domanda del tredicesimo carcerato, detenuto con false accuse. "Dovremmo andare tutti alla ricerca del tredicesimo prigioniero - ha spiegato monsignor Peter Remigius, vescovo di Kottar e presidente di Prison Ministry India - disposto ad accogliere il nostro sostegno e supporto. È possibile che essi non siano disponibili ad accoglierci, ma noi dobbiamo sempre avere uno spazio amorevole per loro". Grazie al sostegno di diocesi, congregazioni e istituzioni ecclesiastiche lo scorso anno centinaia di detenuti hanno riguadagnato la libertà. Sulla scia delle opere attuate nell’anno della misericordia, l’organizzazione - riferisce AsiaNews - ha deciso di dare il via in tutta l’India al "reclutamento" di volontari per dare il proprio contributo nel ricercare il "tredicesimo prigioniero". Cina. Sacerdote della diocesi di Shenyang detenuto da mesi senza condanna asianews.it, 30 marzo 2017 Il tribunale del popolo non rende pubblica la sentenza per p. Fei Jisheng, sacerdote della diocesi di Shenyang. I cattolici locali: "I giudici riconoscono la sua innocenza, ma il tribunale lo vuole condannato". L’arresto è avvenuto il 18 ottobre scorso con l’accusa di appropriazione indebita di una somma di denaro che però apparteneva al sacerdote. Dietro i capi d’imputazione l’intenzione delle autorità di fermare l’opera evangelizzatrice del religioso. Nel sistema giuridico cinese, in genere le persone accusate di un crimine conoscono in maniera molto rapida la loro sentenza, una volta che sono andate a processo. Nel caso di p. Fei Jisheng, un prete cattolico del Liaoning, il cui capo d’accusa è di "appropriazione indebita", il tribunale del popolo incaricato di giudicare ha deliberato il 21 marzo scorso, ma nessuna sentenza è stata ancora pronunciata in via ufficiale, segno di un certo imbarazzo delle autorità locali. Il 21 marzo, p. Fei Jisheng, sacerdote della diocesi di Shenyang, è stato processato a porte chiuse dal tribunale popolare di Gaizhou, distretto della città portuale di Yingkou, nella provincia del Liaoning. La polizia si era schierata davanti al tribunale per impedire l’accesso e solo l’avvocato di p. Fei e quattro testimoni sono stati ammessi in aula, mentre decine di cattolici erano ammassati davanti all’edificio a pregare e intonare canti. Una fonte anonima della Chiesa del Liaoning spiega ad Ucanews: "Ci è stato comunicato che il verdetto sarebbe stato emesso il 23 marzo, ma che la corte non lo avrebbe reso pubblico prima di una quindicina di giorni, senza ulteriori spiegazioni". I giudici riconoscono la sua innocenza - Secondo i cattolici locali, questo ritardo nel verdetto e nel renderlo pubblico testimonia l’imbarazzo delle autorità locali verso p. Fei. "Credo che i giudici sappiano che p. Fei è innocente, ma il tribunale vuole condannarlo. Dal momento che molti cattolici in tutta la Cina stanno seguendo il caso da vicino, le autorità sono in imbarazzo a rendere pubblico il verdetto" - è la spiegazione della stessa fonte. P. Fei Jisheng, 40 anni, è uno di quei giovani sacerdoti della Chiesa in Cina che hanno a cuore l’annuncio del Vangelo alla società cinese di oggi. Egli è stato ordinato sacerdote della Chiesa "ufficiale" nel 2000, per la diocesi di Shenyang, che le autorità hanno poi aggregato alle diocesi vicine per formare la "diocesi di Liaoning". Questo prete manciù ha trovato ispirazione dal dinamismo dei pastori protestanti e dalle iniziative del movimento carismatico cattolico cinese per dar vita ad un nuovo cammino di scoperta della fede cristiana. Intitolato "Classi apostoliche", questo percorso, lanciato nel 2007, ha presto riscosso successo, sia con le popolazioni del nord-est cinese, escluse dalla crescita economica, che con quelle che si sono adattate con esito positivo alle nuove condizioni di un’economia e di una società in piena ristrutturazione. Le "Classi apostoliche" si sono diffuse in tutto il Liaoning e nelle province limitrofe di Jilin e Heilongjiang, così come in altre regioni del Paese. Un sacerdote nel mirino delle autorità - Tale successo non è sfuggito alle autorità, che hanno iniziato a sorvegliare p. Fei da vicino. Nel mese di novembre 2015, il sacerdote è stato brevemente trattenuto dalle autorità. Nel giugno del 2016, lui e quattro persone vicine sono stati "detenuti in segreto" dalla polizia per un mese. Le autorità lo accusavano di aver esercitato il suo ministero sacerdotale al di fuori dei confini della sua diocesi, senza autorizzazione. Il 18 ottobre scorso, p. Fei era a Fushun, città vicina a Shenyang, dove ha visitato una comunità di suore, quando è stato nuovamente arrestato dalla polizia. Venuta a conoscenza dell’arresto di p. Fei, la diocesi di Shenyang ha dato mandato ad un avvocato di difenderlo. "Questo ci ha permesso di sapere che padre Fei è stato incriminato per furto di una somma di denaro in una casa di riposo", dice P. Dong Hongchang, vicario generale di Shenyang, mentre aggiunge che, secondo lui, la vera ragione per il suo arresto è il successo delle "Classi apostoliche", un’iniziativa che il governo considera come opera di "organizzazioni illegali". Sui social network, i cattolici cinesi stanno facendo circolare un documento di trenta pagine che spiega, secondo loro, il vero motivo per il rinvio a giudizio di padre Fei. Il documento è senza dubbio scritto da membri delle classi apostoliche. Esso spiega che l’arresto del sacerdote è da attribuire a Han Weixing, ex vice direttore della casa per anziani menzionata nell’atto di accusa. P. Fei, spiega il documento, stava contribuendo al buon funzionamento di questa casa di riposo, quando ha sospettato Han Weixing di corruzione e lo ha licenziato, nel maggio 2016. Desideroso di vendetta, Han Weixing ha poi denunciato il sacerdote presso l’Ufficio affari religiosi locali per "attività illegale di predicazione", ma le autorità non hanno dato seguito alla denuncia. Han Weixing ha poi ha portato il caso ai piani più alti ed è stato allora, nel giugno 2016, che è stata avviata un’indagine nei confronti del sacerdote e delle Classi apostoliche. Nel frattempo, i membri delle Classi apostoliche avevano trasferito una cassetta di sicurezza appartenente a p. Fei dalla casa di riposo alla diocesi di Shenyang, e hanno utilizzato, in accordo con il prete, una somma di 10mila yuan (1.300 euro) per regolare i costi associati al loro programma d’evangelizzazione. La polizia si sarebbe basata sul ritiro di quel denaro per sostenere l’accusa di appropriazione indebita, ma ciò sarebbe in contraddizione con il fatto che la cassetta di sicurezza ed il suo contenuto in realtà appartengono al sacerdote e che la giustizia non può rimproverargli di essersi appropriato del denaro che gli appartiene. Secondo alcuni cattolici locali, è molto probabile che le autorità cinesi cerchino di reprimere il movimento Classi apostoliche, di cui temono il dinamismo missionario. È anche possibile che p. Fei abbia attratto l’ostilità di alcuni dei suoi fratelli sacerdoti che non avrebbero apprezzato le attività delle Classi apostoliche nel territorio delle loro parrocchie.