Suicidi in cella, Orlando convoca i provveditori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 marzo 2017 Question time alla Camera: il Guardasigilli fa il punto sull’emergenza. I suicidi in carcere arrivano a Montecitorio. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha risposto all’interrogazione del deputato di Scelta civica Luca D’Alessandro sui dati relativi ai casi di suicidio, di tentato suicidio e di autolesionismo verificatisi negli istituti penitenziari. Il deputato, durante il question time della Camera, ha posto anche l’attenzione sul sovraffollamento indicando una quota consistente di detenuti in attesa di giudizio. Il ministro Orlando ha risposto che i drammatici eventi di questi giorni riportano all’attenzione i casi di autolesionismo e i gesti estremi che portano alla morte, ma ha tenuto però a precisare che nell’ultimo triennio i casi di suicidio sono diminuiti e che la situazione, in generale, è lievemente migliorata. Un fenomeno, tiene comunque a sottolineare il ministro, che non è da sottovalutare e impone uno sforzo da parte di tutti gli attori del mondo penitenziario. Il Guardasigilli ha ricordato che, alla luce delle analisi degli Stati generali dell’esecuzione penale, il 5 maggio aveva indirizzato una direttiva al Dap per predisporre un piano di intervento per scongiurare i suicidi. Su Il Dubbio era stata riportata la direttiva che prevedeva, infatti, lo sviluppo di opportune misure di osservazione del detenuto, differenziate a seconda della fase trattamentale e con particolare attenzione ai soggetti tossico-alcool dipendenti; una adeguamento degli spazi detentivi destinati all’accoglienza dei soggetti a rischio, secondo criteri moderni e rispettosi della dignità della persona; l’organizzazione di programmi formativi specifici per tutti gli operatori, favorendo l’interazione anche con coloro che da esterni operano nell’Istituto. Secondo la direttiva emanata dal ministro Orlando, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria deve predisporre un Piano nazionale d’intervento, tenendo conto anche della giurisprudenza della Cedu in materia e in linea con quanto elaborato dal Comitato Nazionale di Bioetica nel 2010. Queste linee guida in realtà dovevano essere state messe in atto già da diversi anni. La conferenza Stato-Regioni, con accordo sottoscritto il 19 gennaio 2012, aveva impegnato le rispettive amministrazioni, attraverso le proprie articolazioni territoriali, a costituire all’interno di ciascun osservatorio regionale permanente sulla sanità penitenziaria, un gruppo di lavoro tecnico-scientifico con lo specifico mandato di procedere a una ricognizione dell’esistente in termini di disposizioni normative e pratiche già in atto. Al question time, Orlando ha annunciato che per il 3 marzo (domani ndr) ha convocato un incontro con tutti i provveditori regionali per fare il punto della situazione sugli interventi predisposti dalla sua direttiva. Inoltre ha annunciato che sono in corso accertamenti amministrativi sui casi di suicidio nel carcere bolognese della Dozza e quello napoletano di Poggioreale. Luca D’Alessandro, nella controreplica, si è detto insoddisfatto della riposta, sostenendo che ci vorrebbe una soluzione adeguata per ridurre l’abuso della carcerazione preventiva. Ha spiegato di essere consapevole della difficoltà da parte del ministro nel combattere "la potente lobby dei magistrati". D’Alessandro, un ministro che fa entrambe le cose si trova in una posizione "anomala". Delusione anche da parte dell’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini che ha assistito al question time dalla tribuna della Camera: "Continua a sottovalutare il problema del sovraffollamento quando tutti coloro che si occupano del carcere sollevano che la tendenza è in aumento. Dire che ha chiesto al Dap di fare una prevenzione dei suicidi, non basta. Ci sono istituti penitenziari completamente abbandonati. Esistono zone di sovraffollamento e di dimenticanza dove non è possibile compiere attività trattamentali e che non prendono in considerazione i detenuti con problemi psichici e sanitari, tossicodipendenti e persone lontane dai luoghi di origine". Bernardini ha osservato che tra il botta e risposta è emersa la volontà di non prendere in considerazione l’amnistia e l’indulto: "L’amnistia è un provvedimento che servirebbe soprattutto per sfoltire le scrivanie dei magistrati dai procedimenti bagatellari. Escluderla significa affidare completamente ai magistrati, attraverso le prescrizioni, quali sono i reati da far cadere in prescrizione e quali invece sono i processi da celebrare. Ma significa anche far tornare in carcere persone che hanno commesso il reato tanti anni fa e che si vedono arrivare la condanna quando magari sono riusciti da soli a ritrovare un equilibrio. La giustizia ritardata è giustizia negata: diventa un problema sociale anche per le vittime" Il Garante dei detenuti Mauro Palma: "registriamo un picco preoccupante di morti" Il Dubbio, 2 marzo 2017 Escalation dei suicidi in carcere. Nella notte di martedì un detenuto egiziano di 30 anni, recluso nel carcere di Caltanissetta, si è suicidato impiccandosi con le lenzuola alla grata della cella. L’uomo, in carcere dal 2014, avrebbe finito di scontare la pena nel 2018. Il giorno prima il magistrato di sorveglianza aveva rigettato la sua richiesta di estradizione. L’egiziano avrebbe lasciato una lettera ma vige il massimo riserbo sul suo contenuto. Il carcere di Caltanissetta ha una capienza regolamentare di 183 posti per 110 celle, al momento vi risultano recluse 253 persone. Delle 203 unità di polizia penitenziaria previste, a gennaio ne risultavano in servizio 157. Con questo ennesima morte, siamo arrivati a 11 suicidi dall’inizio dell’anno su un totale di 22 morti. Nel solo anno del 2016 ci sono stati 40 suicidi di detenuti, 1.011 tentati suicidi, 8.586 atti di autolesionismo, 6.552 colluttazioni e 949 ferimenti. Un dramma che non lascia indifferente il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma: "Oltre all’allarme che desta la notizia in sé, anche alla luce del fatto che nel 2016 i suicidi erano stati 40 in dodici mesi, questi eventi sollevano con urgenza la necessità per l’Amministrazione penitenziaria e per le Asl di dare piena attuazione ai presidi sanitari psichiatrici negli Istituti di pena: i reparti di Osservazione psichiatrica e le Articolazioni per la tutela della salute mentale. Occorre assicurare la loro apertura prevista in ogni Regione, garantendo standard di qualità, attivando Protocolli tra gli Istituti di pena e le Aziende sanitarie territoriali per un effettiva presa in carico dei pazienti detenuti". E Palma conclude: "Il dramma dei suicidi, che in questi primi mesi dell’anno ha avuto un picco preoccupante, richiede un rinnovato impegno di azioni preventive, anche alla luce della Direttiva del Ministro della giustizia di maggio scorso". Anche l’egiziano, infatti, presentava turbe psichiche come gli altri tre detenuti che si sono ammazzati nei penitenziari di Napoli Poggioreale, Bologna e Regina Coeli, a Roma. Come ribadito più volete sulle pagine di questo giornale, il 78 per cento dei ristretti è affetto almeno da una condizione patologica, di cui almeno il 40 per cento una patologia psichiatrica. L’aumento di tale patologia è esponenziale anche perché le Rems - strutture nate come alternativa agli ospedali psichiatrici giudiziari - non bastano e tanti malati sono in carcere nonostante la loro incompatibilità. Rita Bernardini: "il mio lungo sciopero della fame contro le indecenze delle galere" di Dimitri Buffa Il Tempo, 2 marzo 2017 La leader radicale da 25 giorni senza cibo. "Orlando mi ascolti". Venticinque giorni di sciopero della fame. E politicamente non li dimostra. Rita Bernardini, esponente storica del Partito radicale transnazionale non ha perso nemmeno un grammo del proprio smalto combattivo. "Anche se otto chili sono fino ad adesso andati via", ironizza in questa chiacchierata con Il Tempo sul tema delle carceri. Le risposte di Orlando in aula sui numeri delle galere italiane non l’hanno convinta? "Devo dire che neppure ha tutti i dati aggiornati, per il 2017 ha parlato di 10 suicidi ma proprio oggi ce ne è stato uno nuovo di un ragazzo egiziano di 30 anni a Caltanissetta". E questo cosa indica? "Che il tempo reale è importante perché ogni giorno che passa è un giorno negato al rientro nella legalità costituzionale... con queste drammatiche conseguenze". Problematica anche la situazione dei giudici dell’esecuzione penale: hanno più detenuti ciascuno che malati i medici della mutua... "Anche questa tabella da cui si deduce che sono già pochi (ne sono previsti solo 204) e persino sotto organico e mal distribuiti (ne mancano 14, con giudici che gestiscono pochi casi e altri che sono letteralmente sommersi) l’ha ottenuta la sottoscritta dal Csm". Questo significa che nessuno ascolta i detenuti? "Nel dubbio respingono. Capita sovente che non rispondano alle istanze dei detenuti sulla liberazione anticipata e quelli finiscono per scontare più carcere di quello dovuto". Parliamo della ricetta per antonomasia del Partito radicale transnazionale, l’amnistia per la Repubblica e anche la marcia della domenica di Pasqua del 16 aprile prossimo. "L’amnistia andava fatta già nel 2006 quando venne concesso solo l’indulto: si trattò di un errore pazzesco. Montagne di procedimenti hanno continuato a intasare le scrivanie dei magistrati". Come si fa a far capire all’opinione pubblica che indulto e amnistia vanno insieme per praticità e non sono un doppio beneficio... "Basterebbe che la gente sapesse, per esempio, che ci sono circa 8mila detenuti attualmente in carcere che devono farsi meno di un anno di carcere per capire l’importanza dell’indulto e basterebbe comunicare che se si fa un provvedimento di amnistia per reati minori il risultato sarà di liberare, finalmente, le scrivanie dei magistrati da un carico enorme, spesso destinato comunque alla prescrizione, senza che in realtà si scarcerino detenuti pericolosi per la società. Anzi, senza le loro cause penali, sarebbe più facile dedicarsi a inchieste più importanti e a imputati potenzialmente più pericolosi". Perché il provvedimento di Orlando sul penale che contiene anche la delega sulla riforma dell’Ordinamento Penitenziario è tornato in Commissione giustizia dopo due anni? "Perché sul Ddl integrale ci sono enormi divisioni fra le forze politiche: è per questo che chiediamo di stralciare la parte riguardante la riforma dell’esecuzione penale dove non si sono manifestate grandi divisioni. Per questo nuovo emendamento del Governo che ha rispedito l’intero disegno di legge dall’aula alla commissione, dicono di voler introdurre un’unica stazione appaltante per le intercettazioni telefoniche". Un pretesto? "Non lo so, il problema è delicato. Certo è anche difficile credere che se ne siano accorti solo adesso, dopo due anni". Torniamo all’amnistia. "L’amnistia e l’indulto sono istituti previsti dall’articolo 79 della Costituzione più bella del mondo e non vanno demonizzati perché i costituenti hanno voluto consegnarli al Parlamento proprio per svolgere politiche di deflazione processuale quando la macchina della giustizia è intasata, e di deflazione carceraria quando si rischia di sottoporre i detenuti a trattamenti inumani e degradanti". Il problema è tutto della politica? "Mi pare evidente, da tempo si è adagiata sul fatto che sia la magistratura a dover risolvere i problemi della giustizia, mai problemi di questo settore, come di tutti gli altri dello Stato, è la politica che deve risolverli. Dandosi il coraggio di scelte anche difficili e non popolari". Con questo stato di cose quando crede di potere tornare a mangiare Rita Bernardini? "Il digiuno che Marco Pannella chiamava di dialogo serve proprio a richiamare la politica alle proprie responsabilità e al dovere ("obbligo", sottolineava Pannella) di intervenire quando sono in gioco diritti umani fondamentali. Con il mio sciopero della fame, chiedo a Governo e Parlamento di concentrarsi in questo scorcio di legislatura sulla riforma dell’Ordinamento Penitenziario: i giorni che passano scandiscono i giorni di mancato intervento per il varo di un provvedimento necessario. Ieri avrei voluto consegnare a Orlando il librone contenente le 20mila firme dei detenuti che hanno scelto la non violenza digiunando per sostenere il mio sciopero. Mi auguro che presto (come mi ha appena scritto in un sms) ci si possa incontrare per consegnarglielo". Né letti né spazio, l’inferno dei detenuti di Dimitri Buffa Il Tempo, 2 marzo 2017 I numeri del Ministero della Giustizia: tasso di sovraffollamento medio al 110%. Il 35% dei carcerati è ancora in attesa di giudizio. Latitano le attività rieducative come scuola e lavoro. Quarantatré suicidi nel 2014, 39 nel 2015 e nel 2016, 11 dal primo gennaio di quest’ anno. Le carceri italiane si presentano così. E se ad aprile 2016 si parlava di quasi 14mila e 800 detenuti in meno rispetto al 2010, il tasso di sovraffollamento oggi raggiunge il 110%. Se non il 120 per cento. Ci sono più di 3.950 persone senza il letto, e altre 9mila hanno meno di 4 metri quadri a testa. Inoltre, per i grandi istituti c’è da tener presente che ci sono sezioni vuote e sezioni super-affollate. Rebibbia Nuovo Complesso, che viene indicato con una capienza regolamentare di 1.175 posti e una presenza di 1.398 persone detenute, ha un sovraffollamento del 119% complessivo, con sezioni che superano abbondantemente la media nazionale. E il sovraffollamento è solo un indicatore dell’illegalità dell’esecuzione penale nel nostro Paese. Gli altri, tutti negativi, sono la fatiscenza e l’insalubrità delle strutture per non parlare del malfunzionamento della sanità e delle cure. Segue la carenza cronica di attività rieducative come lavoro, studio e sport. E la difficoltà fino all’impossibilità di mantenere i rapporti affettivi coni propri familiari. Poi ci sono il mancato accesso alle pene alternative, le mancate risposte alle istanze presentate ai magistrati di sorveglianza, ai direttori, agli educatori, l’alta percentuale dei detenuti in attesa di giudizio (35%), la promiscuità tra detenuti in attesa di giudizio e condannati definitivi e fra detenuti vicini al fine pena e detenuti con pene lunghe da scontare. Si constata anche l’impossibilità per i detenuti stranieri di rivendicare i propri diritti per l’assenza dei mediatori culturali, l’inesistenza in molti istituti del regolamento interno, per cui tutto è lasciato all’arbitrio e, last but not least, le modalità di esecuzione del 41bis. E chi più ne ha più e metta. Il monitoraggio del Partito radicale transnazionale sulle carceri è continuo. E spesso i dati riportati da Rita Bernardini sono più precisi di quelli del ministero. Quello che impressiona è la cifra dei reclusi per pene tutto sommato lievi: a fine 2016 erano 7.909 quelli che dovevano farsi meno di un anno. 6.780 da 1 a 2 anni. 5.179 da 2 a 3 anni. 6.033 da 3 a 5 anni. Un indulto con amnistia annessa eliminerebbe quindi un carico di oltre 25 mila persone. Poco meno della metà di coloro che stanno in carcere con calcoli a braccio. Gente non particolarmente pericolosa che potrebbe essere rieducata anche agli arresti domiciliari. Poi ci sono anche 5.122 detenuti da 5 a 10 anni, altri 2.225 da 10 a 20 anni e 465 con condanne oltre 20 anni. Infine 1.687 detenuti che scontano l’ergastolo. Le ultime cifre disponibili, fine gennaio 2017, sulle presenze nei penitenziari italiani parlano quindi di 55 mila 381 unità. Mentre la capienza massima sarebbe di 50 mila e 174 posti. Con un indice medio di sovraffollamento intorno al110 per cento. Al ministero però prediligono la burocrazia delle cifre alla loro effettiva significanza: così non si conteggiano gli spazi indisponibili per lavori e ristrutturazioni in quasi tutti i penitenziari italiani. E tantomeno si fa la tara alle medie falsate dal fatto che ci sono istituti semivuoti in alcune regioni e super pieni in altre. Gli ordini del boss per lettera. Il Pg di Bari: serve legge per intercettare la corrispondenza di Mara Chiarelli La Repubblica, 2 marzo 2017 Un tesoro di informazioni sul quale gli investigatori vorrebbero mettere le mani. Sono le lettere dal carcere e quelle che arrivano, di riposta, ai detenuti. Una corrispondenza sempre molto fitta che non può essere intercettata, come avviene per le mail o le telefonate: la legge non lo consente per garantite la tutela della riservatezza personale. E le indagini ne risentono. L’allarme arriva dal procuratore capo di Bari, Giuseppe Volpe, poche ore dopo che i vertici del clan Strisciuglio sono stati arrestati dai carabinieri del Nucleo investigativo di Bari. "C’è un grave limite legislativo sulle intercettazioni della corrispondenza dei detenuti, un limite grave che il legislatore dovrebbe rimuovere". E l’indagine, raccolta nelle 120 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Giovanni Abbattista su richiesta dei pm antimafia Giuseppe Drago e Patrizia Rautiis, ha evidenziato tra l’altro la preziosità delle comunicazioni epistolari: ben 191 i pizzini sequestrati un anno fa, all’indomani di una maxi rissa scoppiata tra le mura del carcere tra due frange rivali dello stesso clan Strisciuglio. "Agli inquirenti serve una legge che consenta di leggere le lettere da e per il carcere, intercettarle come avviene per le telefonate e le mail, senza però bloccarle - insiste Volpe - Certo, potremmo sequestrarle come avvenuto in questa indagine, ma così facendo sveleremmo l’attenzione investigativa su questo o quel gruppo malavitoso. E le indagini sarebbero, a quel punto, concluse". Un vero peccato, se come evidenzia anche il Gip, la documentazione sequestrata un anno fa "ha confermato la perdurante operatività del clan Strisciuglio, sia in ambito inframurario sia al di fuori, rimarcando peraltro gli stretti collegamenti tra gli esponenti delle tre aree territoriali: i quartieri Libertà, San Paolo ed Enziteto-Catino". Tante, rigorosamente in codice, firmate con nomignoli che, solo in apparenza, parlano di amore e amicizia. Ma rivelano, invece, un fortissimo legame di tipo mafioso - camorristico, finalizzato alla realizzazione degli affari illeciti. "Chi ti scrive queste poche righe - si legge, ad esempio, su una cartolina inviata da un affiliato a un altro, entrambi detenuti ma in città diverse - sono io, il tuo Amore Nico. Voglio solo dirti qui pure, che sei la mia vita e che ti amo molto". Come conferma un altro pizzino: "Ciao, mia amata scimmietta - si legge - come puoi vedere è il tuo Amore (padrino, OES) che torna a fare compagnia al tuo cuore. Ormai fai parte della mia cara famiglia (essendosi affiliato, OES). Sono felice di sapere che resterò nel tuo cuore a vita, come lo resterai tu nel mio". Ma ci sono anche indicazioni sul traffico di droga dal carcere di Bari a quello di Sulmona: "Bevilacqua ti porterà le cioccolate - si legge in una lettera - perché mi dice che sta pieno, però le cioccolate sono parecchie, ok? Non mi dice grazie perché sei il mio fratello a cui ci tengo, u sà". Ed arrivano sempre dal carcere gli ordini relativi alle spedizioni punitive: "Fateli a pezzi a chiunque di loro, come qui anche fuori". Oppure, all’indomani della rissa, l’esplicita chiamata alle armi: "Ora sono tutti fottuti, avvisa tutti gli amici nostri". Omicidi e traffici di droga, decisi da chi ha sempre comandato, al vertice di quella che lo stesso procuratore ha definito "la federazione Strisciuglio", i fratelli Mimmo e Sigismondo. Il controllo, pressoché totale sui quartieri Libertà, San Paolo imposto a suon di proiettili, come dimostrano il tentato omicidio di Gino Luisi nel maggio 2015 (ucciso poi il 31 ottobre 2016) e quello di Gianluca Corallo, che si era messo in testa di prendersi la piazza dello spaccio a San Pio. Ad eseguire gli ordini, assumendo per certi versi autonomia gestionale, gli emissari Lorenzo Caldarola, Alessandro Ruta e Vito Valentino. Di loro hanno parlato a lungo i 12 collaboratori di giustizia sentiti in questa inchiesta. Della gestione delle case popolari, assegnate a chi pagava, delle estorsioni a tappeto, della "cassa comune del clan" tenuta sotto controllo da un "biglietto", il libro mastro contabile del gruppo". Giudici di Pace. Il Ministro Orlando: sulla stabilizzazione chiesto il parere del Cds di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2017 Sui giudici di pace la via scelta dal Governo è quella di andare verso una stabilizzazione. Su questo abbiamo chiesto un parere al Consiglio di Stato. Per il futuro però l’idea è che l’onorarietà sia la regola. Lo ha detto il ministro della Giustizia Andrea Orlando rispondendo questo pomeriggio alla Camera al Question time sulla magistratura onoraria. In particolare, rispondendo all’onorevole Giorgia Meloni che l’aveva accusato di essere stato poco concreto nel suo intervento, Orlando ha affermato: "Inizialmente avevamo ipotizzato una semistabilizzazione con una serie di proroghe molto lunghe, ma la Commissione europea ci ha detto o dentro o fuori, vale a dire o sono onorari o sono magistrati a tutti gli effetti, ma per essere tali la Costituzione stabilisce che devono entrare per concorso, anche perché sarebbero indirettamente equiparati ai magistrati". "Per cui - ha proseguito - stiamo cercando una condizione specifica per superare le barriere poste dalla Costituzione a chi entra nella Pubblica amministrazione. Lo stiamo facendo ponendo una questione politica all’Anm per valutare se sono d’accordo ad un ingresso senza concorso ma anche cercando di capire come tener conto delle indicazioni della Costituzione". "Per il futuro dunque - prosegue il Ministro - l’idea è che l’onorarietà sia la regola. Per il passato però le persone hanno svolto questa funzione per molti anni per cui non possiamo ignorarlo, su questo abbiamo chiesto un parere al Consiglio di Stato, la via è andare verso una stabilizzazioni di riconoscimento del percorso". Il Ministro ha poi affermato che "va dato atto al Governo, dopo anni, di aver approvato la legge 28 aprile 2016 n. 57 di delega per la riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace". La norma prevede il riassetto complessivo dell’ordinamento dei magistrati onorari, introducendo ad esempio la distinzione tra giudici di pace e giudici onorari di tribunale, che vengono inseriti in un solo ufficio giudiziario, nonché prevedendo, al contempo, un ampliamento significativo delle competenze civili e penali, quali, sul piano della competenza civile, le cause condominiali, i procedimenti di espropriazione mobiliare presso il debitore. La competenza per valore viene estesa fino a 30 mila euro e per gli incidenti stradali fino a 50 mila euro. Il giudice di pace avrà poi la possibilità di decidere, secondo equità, tutte le cause di valore fino a 2.500 euro, mentre sul piano della competenza penale saranno attribuite nuove fattispecie di reato. Intanto, con una nota, l’Unione nazionale dei giudici di Pace (Unagipa) fa sapere che ieri pomeriggio al Parlamento europeo, presso la Commissione per le petizioni, si è tenuto un incontro in presenza di giudici di pace, rappresentanti del Governo italiano, la rappresentante della Commissione europea e numerosi europarlamentari. I giudici di pace hanno "duramente contestato il tentativo del Governo italiano e del deputato europarlamentare Cozzolino di frenare la procedura di infrazione, attualmente all’esame della Commissione europea". "Dopo un lungo dibattito, prosegue la nota, la Commissione per le petizioni ha deciso di tenere aperte le petizioni sollecitando la Commissione ad andare avanti con la procedura di infrazione e predisponendo uno scritto diretto al ministro della Giustizia Orlando con il quale si diffida il Governo italiano a riaprire immediatamente le trattative con i giudici di pace". Le sentite scuse del magistrato querelato da don Ciotti di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 2 marzo 2017 Il pm antimafia che accusava "Libera" Catello Maresca scrive una lettera al sacerdote: "Sono molto spiacente, offro una completa e assoluta ritrattazione". "Va bene, va bene, mi scuso! Sono molto molto spiacente, mi scuso senza riserve. Offro una completa e assoluta ritrattazione...". Era dai tempi della mitica abiura dell’avvocato Archie appeso per i piedi in Un pesce di nome Wanda che non si assisteva a una retromarcia come quella che ieri, con le pubbliche scuse del giudice Catello Maresca a don Luigi Ciotti ha messo fine allo scontro più duro degli ultimi anni tra i protagonisti della lotta alla mafia. Una frase per tutte: "Mai ho pronunciato quelle parole che ovviamente non mi possono in nessun modo essere attribuite, parole che non condividevo e non condivido". Meglio così. Ma c’è qualcosa che non torna. Le accuse - Ripartiamo dall’inizio? Di qua c’era Maresca, il pm napoletano della Direzione nazionale antimafia autore tra l’altro dell’inchiesta su Michele Zagaria e i Casalesi. Di là don Ciotti, bellunese trapiantato a Torino, anima e presidente prima del Gruppo Abele e poi di Libera, la rete di associazioni, enti e gruppi locali contro le mafie. Insomma, due icone della legalità schierate sullo stesso fronte finché il magistrato, nel gennaio 2016, aveva fatto il botto. Dando un’intervista a Carmelo Caruso, di Panorama, il cui titolo deflagrava così: "L’antimafia a volte sembra mafia. A iniziare da Libera, che non è più un esempio ma un pericolo". Tra le accuse riportate tra virgolette, eccone una: "Oggi per combattere la mafia è necessario smascherare gli "estremisti dell’antimafia", i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Le critiche - "Sta parlando forse di Libera, l’associazione fondata da don Ciotti?", chiedeva il giornalista. Risposta: "Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". Tesi ribadita, dopo le anticipazioni del settimanale, all’Ansa: "Libera ha svolto e svolge un ruolo fondamentale nella lotta alle mafie" ma "purtroppo, col tempo, a questo spirito iniziale volontaristico si sia affiancata un’altra componente, che potremmo definire pseudo imprenditoriale. Questo ha comportato, in alcune zone del Paese, come la Sicilia, che persone lontane dai valori iniziali abbiano potuto approfittare della fama di Libera per cercare di curare i loro interessi". La reazione di don Ciotti - Don Luigi Ciotti saltò su furente e indignato: "Questo signore lo denunciamo domani mattina. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Il fango fa il gioco dei mafiosi". E dopo aver insistito sul fatto che "per la gestione dei beni confiscati Libera non riceve contributi pubblici" e che "sono pochissimi i beni assegnati a Libera, che gestisce solo sei strutture, di cui una a Roma e una a Catania, su 1.600 associazioni che la compongono", spiegò che sì, "il tema dell’infiltrazione è reale" e "le trappole dell’antimafia sono davanti ai nostri occhi" ma che proprio lui e i suoi avevano lanciato i primi allarmi facendo nomi e cognomi. Insomma: "È in atto una semplificazione per demolire il percorso di Libera con la menzogna". L’articolo sul "Mattino" - Il giorno dopo, mentre sui giornali piovevano titoloni, nuova puntata: in un articolo scritto di suo pugno sul Mattino di Napoli, il pm se la prende con Ciotti anche perché l’ha chiamato "questo signore" (mentre lui l’ha "sempre chiamato con nome e cognome e con il suo meritato titolo") e sospira: "Sono rammaricato perché mi sarei aspettato una reazione diversa da parte sua e degli altri rappresentanti di Libera". Al di là di qualche distinguo, però, non smentisce nulla: "Il problema generale che io ho denunciato, rispetto al quale ho riscontrato alto interesse e condivisione, resterà". E mentre qua e là spuntano affettuosi pacieri, il fondatore di Libera aspetta per un mese e si decide. Querela. Il mea culpa - Un anno dopo ecco il "mea culpa". Con una lettera di Catello Maresca indirizzata al "caro don Luigi" e ai "cari amici di Libera". Ricorda che "i nostri nemici sono altri e noi tutti li conosciamo bene e li sappiamo individuare, perché li combattiamo tutti i giorni" e giura: "Mi dispiace tantissimo per lo spiacevole equivoco che è nato a seguito della mia intervista a Panorama". Spiega che si trattava della sintesi di una chiacchierata "di oltre due ore", che molte sue "dichiarazioni non erano affatto riferite a Libera", che altre erano "frutto della libera interpretazione del giornalista di un concetto più articolato", che il suo unico scopo "era e resta quello di dire: stiamo attenti a non farci - tutti - strumentalizzare" e via così. Di più: rivendica di avere dato subito la sua "pronta smentita alla interpretazione offerta e pubblicata da Panorama" proprio nell’articolo sul Mattino già citato. Quindi elenca: "Mi dispiace perché mai ho voluto neanche lontanamente screditare il vostro quotidiano impegno sul campo delicatissimo dell’antimafia sociale, né mettere in dubbio il valore inestimabile della storia di Libera. Mi dispiace perché alcune mie considerazioni tecniche e tratte dalla mia esperienza operativa sono state strumentalizzate e utilizzate in una ingiusta e scorretta campagna di delegittimazione di Libera e del lavoro di molti volontari". La replica - Meglio così, gli risponde a stretto giro Luigi Ciotti: "La lettera che ci scrive Catello Maresca è per Libera un gesto importante" perché quell’intervista "era stata per tutti noi motivo di sofferenza. Non solo per i giudizi ingiusti e non veri che conteneva, ma perché quei giudizi sono stati in seguito ripresi, amplificati, strumentalizzati da chi mira a screditare il nostro nome e la nostra storia". Pietra sopra. Tutto è bene quel che finisce bene? In tribunale, dove lo scontro fratricida sarebbe stato letale, senz’altro. Resta però dell’amaro in bocca. Vabbé che, come ironizzò Gianfranco Fini ai tempi in cui dava la scalata al cielo, "le smentite non hanno scadenza". Ma forse val la pena che chi ha pubbliche responsabilità ricordi sempre un vecchio adagio veneto scherzoso ma non troppo: "Prima de parlar, tasi". Phishing e riciclaggio sono reati autonomi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2017 Corte di cassazione, Seconda sezione penale, sentenza 1 marzo 2017, n. 10060. No all’assorbimento del riciclaggio nel phishing. La Corte di cassazione con la sentenza n. 10060 della Seconda sezione penale depositata ieri ha respinto la tesi della difesa e ha ribadito l’autonomia dei due reati. La sentenza mette in campo la definizione di phishing: truffa informatica effettuata inviando una mail con il logo contraffatto di una banca o di una società di commercio online, in cui si invita il destinatario a fornire dati riservati come il numero della carta di credito o la password di accesso al servizio di home banking, spiegando la richiesta con ragioni di ordine tecnico. Figure essenziali per sono allora l’hacker che si procura i dati, il collaboratore "presta-conto" che mette a disposizione un conto corrente per accreditare le somme e il destinatario finale delle somme spedite dal cliente "presta-conto". Detto ciò, la Cassazione avverte che l’imputato aveva svolto proprio il ruolo di "presta-conto", aprendo alcuni conti correnti sui quali erano poi confluiti gli importi illegalmente sottratti dai conti di una serie di persone. "Egli - osserva la sentenza - in un’epoca successiva alla commissione dei delitti mediante i quali era stato realizzato il "phishing" (articolo 615 bis e 640 ter del Codice penale) aveva quindi consentito la realizzazione del profitto di tali reati, ma aveva altresì introdotto un ulteriore passaggio necessario al fine di far perdere le tracce del denaro". Allora l’azione dell’imputato, per la Corte, non poteva essere ricondotta, a titolo di concorso, all’articolo 640 ter del Codice penale (impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita) come invece sostenuto dalla difesa. L’imputato, infatti, aveva compiuto operazioni per rendere più difficile la scoperta della provenienza criminale delle somme depositate nei conti correnti e successivamente utilizzate per prelievi di contanti, ricariche di carte di credito, o telefoniche. In questo modo realizzava condotte che, a giudizio della Corte d’appello confermato dalla Cassazione, realizzavano gli elementi costitutivi del reato di riciclaggio. I comportamenti dell’uomo si collocavano quindi in una fase successiva a alla consumazione, quando ormai il reato presupposto di frode informatica si era realizzato perfettamente e aveva peraltro anche esaurito le sue conseguenze. Viene in questo modo confermata la condanna a 3 anni e mesi di detenzione inflitta dalla Corte d’appello per una somma di reati tra i quali la ricettazione e il riciclaggio. Sanzioni contro lo spaccio: per l’allontanamento dai locali basta la condanna in appello di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2017 Per l’interprete giuridico, il Dl 14/2017 ha come chiave di lettura principale la definizione (articolo 4) della sicurezza urbana quale bene pubblico "che afferisce alla vivibilità ed al decoro delle città, da perseguire anche attraverso interventi di riqualificazione e recupero delle aree e dei siti più degradati, l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale, la prevenzione della criminalità, in particolare di tipi predatori o, la promozione del rispetto della legalità e l’affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile". È evidente la natura di prevenzione sociale e criminale del testo di legge che ripropone nel nostro ordinamento esperienze giuridiche nordamericane, le quali legano direttamente la riduzione dei fenomeni criminali, soprattutto predatori, alla tutela del decoro urbano al punto da ritenere esistente una diretta correlazione tra la riduzione dei danni agli edifici e il decremento del crimine. Tale è il contesto in cui l’articolo 13 del decreto consente al questore di disporre, per ragioni di sicurezza, il divieto di accesso ai locali pubblici, o in uno dei pubblici esercizi disciplinati dall’articolo 5 della legge 287/1991, ai soggetti condannati per violazione dell’articolo 73 del Dpr 309/1990 (produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope), con sentenza definitiva o confermata in grado di appello nel corso degli ultimi tre anni per fatti commessi in nei locali o nelle immediate vicinanze. Il divieto non può avere durata inferiore a un anno né superiore a cinque. Nei confronti dei soggetti condannati negli ultimi tre anni con sentenza definitiva per violazione dell’articolo 73 del Dpr 309/1990, il questore può inoltre disporre per la durata massima di due anni uno o più dei seguenti obblighi: - di presentarsi almeno due volte alla settimana presso gli uffici di polizia o il comando dei carabinieri territorialmente competenti ; - di rientrare nella propria abitazione o in un altro luogo di provata dimora entro una determinata ora e di non uscirne prima di un’altra ora prefissata ; - di comparire in un ufficio o in un comando di polizia specificamente indicato negli orari di entrata e di uscita dagli istituti scolastici. Il questore può disporre gli obblighi anche nei confronti di soggetti minori di 18 anni che hanno compiuto 14 anni di età: il provvedimento deve essere notificato a coloro che esercitano la responsabilità genitoriale. Il sistema sanzionatorio prevede l’irrogazione, da parte del prefetto in base alla legge 689/1981, di una sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da 10mila a 40mila euro e la sospensione della patente di guida da sei mesi ad un anno. Inoltre, in caso di condanna per i reati di spaccio di sostanze stupefacenti all’interno dei locali pubblici, o nelle immediate vicinanze, il giudice può subordinare, in base all’articolo 165 del Codice penale, la concessione della sospensione condizionale della pena all’imposizione del divieto di accedere in locali pubblici o in pubblici esercizio specificamente individuati. La misura appare particolarmente invasiva ed efficace, poiché la successiva revoca della concessione della sospensione condizionale della pena comporta l’esecuzione della sentenza di condanna che determina conseguenze particolarmente incisive nella vita della persone. In relazione a quanto sopra esaminato, desta perplessità l’equiparazione dei soggetti condannati con sentenze definitiva, per il reato di cui all’articolo 73 del Dpr 309/1990, ai soggetti ugualmente condannati con sentenza confermata in grado di appello e quindi non passata in giudicato. Invero, l’equiparazione trova un ostacolo insuperabile nel divieto di discriminazione tra soggetti in situazioni giuridicamente differenti, in quanto l’articolo 27, secondo comma, della Costituzione, per il quale l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Per il resto l’impostazione del decreto ripercorre gli articoli 75 e 76 del Dpr 309/1990, che contemplano l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, di sospensione dei patente e del passaporto o del permesso di soggiorno e l’irrogazione di obblighi e di divieti specifici nei confronti di soggetti che utilizzino a titolo personale modiche quantità di sostanze stupefacenti. In termini di difesa sociale, il decreto innova la normativa delle misure di prevenzione del decreto legislativo 159/2011, prevedendo che: - i provvedimenti si applicano anche nei casi di reiterate violazioni al foglio di via obbligatorio e dei divieti di frequentazione di determinati luoghi previsti dalla vigente normativa; - con il consenso dell’interessato ed accertata la disponibilità dei relativi dispositivi può essere disposta la modalità di controllo del braccialetto elettronico, prevista dall’articolo 275 - bis del Codice di procedura penale, ai fini della sicurezza pubblica, per assicurare l’ottemperanza agli obblighi e alle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale. Dipendente pubblico licenziabile in base ai dati dell’ordinanza del Gip di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2017 Corte di Cassazione - Sezione Lavoro - Sentenza 1° marzo 2017 n. 5284. È legittimo il licenziamento del dipendente pubblico se vengono utilizzate per rimando le motivazioni del procedimento penale aperto sui medesimi addebiti. Lo ha stabilito la Sezione lavoro della Cassazione (sentenza 5284/17 depositata ieri) annullando la decisione della Corte d’appello di Roma che aveva avallato la reintegra di una dipendente del ministero delle Politiche agricole, licenziata con il semplice "rimando" al capo di imputazione formulato dal Gip per motivare il provvedimento cautelare a carico della donna. L’insufficienza motivazionale ottenuta per questa via era stata sottolineata già in prima battuta dal tribunale capitolino, che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento e ordinato, come prassi, la reintegra nel posto di lavoro e il pagamento risarcitorio delle mancate retribuzioni e dei contributi non versati nel periodo tra l’interruzione del rapporto e la sua ripresa "comandata". Secondo la corte territoriale, e all’esito di una ricognizione normativa (dallo Statuto dei lavoratori - legge 300/1970 - alla Fornero, legge 92 del 2012), non sarebbe ammesso in sede di procedimento disciplinare il mero rinvio "per relationem" agli atti del procedimento penale, ma occorrerebbe invece "procedere all’autonoma fase istruttoria comprovando le contestazioni addebitate al lavoratore". Sulla base di questo assunto, i giudici dei due gradi di merito avevano censurato il licenziamento della dipendente ministeriale - formalizzato nell’aprile di quattro anni fa - e condannato il ministero alla reintegra nel posto di lavoro e alle restituzioni nei confronti della donna ingiustamente licenziata. Ma la necessità di una autonoma valutazione e motivazione dei fatti tali da giustificare il licenziamento da parte del datore di lavoro - in questo caso pubblico - è stata confutata alla radice dai giudici di legittimità. Secondo la Cassazione, infatti, non esiste alcuna norma che imponga alla Pubblica amministrazione di procedere ad un’autonoma istruttoria ai fini della contestazione disciplinare. Soprattutto, ciò non è previsto dal testo unico sul pubblico impiego applicabile ratione temporis (il dlgs 165/2001) tantomeno nella norma che regola i rapporti tra i due tipi di procedimento (l’articolo 55-ter). E quindi, come già affermato dalla Sezione lavoro (758/2006; 19183/2016) la Pa è libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di "ritenere che i medesimi forniscano, senza bisogno di ulteriori acquisizioni ed indagini, sufficienti elementi di contestazione di illeciti disciplinari al proprio dipendente". Tra l’altro, argomenta la Suprema corte, la prova delle condotte oggetto della contestazione devono essere fornite dal datore non tanto nella procedura disciplinare ma piuttosto nella successiva ed eventuale fase di impugnativa giudiziale. Quanto poi all’aggiornamento del versante penale e delle sue conseguenze sulla sanzione disciplinare, fanno testo le disposizioni del dlgs 165/2011: in caso di successivo proscioglimento penale, la parte potrà riassumere il disciplinare entro sei mesi per chiedere l’allineamento della decisione (p.es. l’annullamento della sanzione irrogata su quelle basi probatorie). Ma vale anche la conclusione simmetrica, vale a dire la riapertura di un disciplinare archiviato senza sanzione se il versante penale si è successivamente concluso con l’affermazione di responsabilità sui medesimi fatti. Infortuni sul lavoro, committente responsabile anche per il sopralluogo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 1° marzo 2017 n. 10014. Il committente che non verifica l’"idoneità tecnico professionale" dell’impresa edile, risponde anche dell’infortunio occorso durante il "sopralluogo" e quindi ben prima della stipula del contratto di appalto. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 1° marzo 2017 n. 10014, condannando alla ammenda di 4mila euro, con pena sospesa, per culpa in eligendo, il primo accomandatario di una società a seguito della morte del "preteso titolare" di una ditta edile caduto dal tetto di un capannone industriale durante un sopralluogo. L’imprenditore si era difeso sostenendo che non era stato siglato alcun contratto di appalto con l’impresa edile e che egli non era neppure presente al momento della visita, che peraltro serviva soltanto a prendere cognizione delle eventuali riparazioni da fare. Inoltre, nessun preventivo era stato fatto, per cui gli era stato attribuita, in via preventiva, una responsabilità che non poteva avere. Per la Suprema corte però la censura non coglie il punto in quanto il Tribunale di Novara ha fondato la responsabilità non sul supposto perfezionamento di un contratto di appalto, ma sulla "mancata verifica dell’idoneità tecnico professionale dell’impresa", dal momento che il rappresentante legale della società aveva comunque consentito ad "effettuare il sopralluogo presso la struttura danneggiata salendo sul tetto". L’articolo 15 del Testo unico in materia di sicurezza sul lavoro (Dlgs 81/2008), infatti, "pone carico del committente, sin dalla fase di progettazione dell’opera e delle conseguenti scelte tecniche, specifiche cautele prescritte, fra cui la verifica nell’ipotesi di cantieri temporanei dell’idoneità tecnico professionale dell’impresa affidataria, la quale implica l’iscrizione di quest’ultima alla Camera di Commercio e l’autocertificazione in ordine al possesso dei requisiti previsti dalla normativa di settore". Requisiti mancanti nel caso specifico dato che la ditta non era più attiva dal 2009 e l’attività di artigiano edile del supposto titolare era cessata addirittura nel 2003. Mentre, prosegue la sentenza, la verifica dei titoli di idoneità prescritti dalla legge "configura adempimento preliminare da parte del committente", da farsi dunque ancora prima della verifica sul campo delle concrete capacità di portare a compimento i lavori commissionati. Da ciò discende, conclude la sentenza, che per far scattare la responsabilità del committente "non è affatto necessario il perfezionamento di un contratto di appalto, sia perché trattasi di adempimenti preliminari alla successiva fase della stipula, sia perché la norma in esame non contempla tale figura contrattuale ben potendo la commissione esaurirsi in una mera prestazione d’opera, quale è certamente il sopralluogo sul tetto ai fini della verifica dei lavori necessari, alla quale devono comunque presiedere le cautele previste". Telemedicina e carceri di Enzo Chilelli (Direttore generale Federsanità Anci) quotidianosanita.it, 2 marzo 2017 Gentile Direttore, anche nell’ultima riunione del gruppo tecnico di progetto "La prevenzione sanitaria nella popolazione carceraria: bisogni di salute e qualità dell’assistenza" (partner Ministero Salute, Regione Emila Romagna, Regione Calabria, Regione Lombardia, Asl Viterbo, Ars Toscana, Oim) si è consumata l’ennesima critica ad un progetto di Federsanità-Anci in merito all’uniformità ed all’interoperabilità delle informazioni di salute in ambito penitenziario. E allora mi vedo costretto a rompere questa regola del silenzio (da sempre mia) per ricordare che questo progetto non nasce per la bizzarria di qualcuno ma ha dietro un Comitato scientifico e progettuale di prim’ordine. Ricordo che è dal 2009 che la competenza sulla sanità penitenziaria è passata, giustamente, al SSN e quindi alle Regioni e che, ad oggi, di uniformità non ce n’è traccia. Ricordo anche che anni fa il Ministero della Salute ha assegnato denari per un progetto Ccm ad alcune Regioni per realizzare una cartella sanitaria penitenziaria di cui non vi è memoria perché i particolarismi regionali non hanno consentito un accordo. Proseguo ricordando che, ad esempio, il progetto Sole della Regione Emilia Romagna (da me premiato quando ero Direttore del Forum per la Pubblica Amministrazione) è in "riuso" fin dal 2001 ma non è stato mai riutilizzato perché il trasferimento dell’intera piattaforma a livello regionale o nazionale avrebbe costi proibitivi in virtù della sua specificità. Ricordo infine che, fin dalla sua istituzione, il SSN prevede norme che danno agli Enti Locali la possibilità di incidere sulla programmazione dei servizi sanitari, e, in questo caso, stiamo esercitando questa facoltà con la convinzione di fare qualcosa di positivo per i cittadini privati della libertà personale a causa di provvedimenti giudiziari ma anche per gli operatori del settore che vivono spesso situazioni complesse all’interno degli Istituti di Pena. La sussidiarietà non deve essere una parola vuota di significato e per questo chiedo un po’ di riguardoso silenzio, almeno fino a quando non saranno visibili e quindi verificabili i risultati, in merito ad un progetto che si sta sviluppando con una dotazione finanziaria inferiore a quanto previsto dal sopra menzionato progetto Ccm; che in pochi mesi deve essere realizzato e che, su base volontaria, potrà offrire alle Aziende sanitarie pubbliche, che rappresentiamo, uno strumento semplice e di facile utilizzo che possa uniformare comportamenti ed attività a favore delle persone private della libertà personale ma anche degli operatori. Cosa prevede il progetto. Una cartella clinica in tecnologia Web Based (Cloud) a cui afferiranno le prestazioni diagnostiche (anche attraverso strumenti di telemedicina) che seguirà il detenuto in modo virtuale nei suoi spostamenti tra i vari Istituti di Pena, evitando il trasferimento di corposi faldoni cartacei e, a fine pena o quando necessario, la possibilità di trasferire le informazioni nel Fse di residenza del detenuto. La base dati sarà visibile esclusivamente agli operatori del Ssn nel pieno rispetto delle norme sulla Privacy che si stanno esaminando con estrema attenzione con i referenti del Garante per la Privacy. Roma: "mio figlio si è suicidato in carcere, voglio giustizia" di Alessia Arcolaci vanityfair.it, 2 marzo 2017 Parla Ester Moratti, madre di Valerio, che si è tolto la vita in carcere, a Regina Coeli. Valerio, soffriva di disturbi della personalità. Era stato scarcerato ma era bloccato in carcere, in attesa che venisse individuata una struttura che potesse accoglierlo. "Nessuno può riportarmi mio figlio ma voglio giustizia", a parlare è Ester Moratti. Suo figlio Valerio, ventiduenne, si è tolto la vita in carcere, a Regina Coeli, il 24 febbraio scorso. Ha annodato un lenzuolo bianco alle inferriate della finestra della sua cella e si è tolto la vita. Valerio, che si trovava in carcere con l’accusa di violenza e resistenza a pubblico ufficiale, soffriva di disturbi della personalità. "Era un borderline - ci racconta sua madre Ester, assistita nella sua battaglia legale da uno degli avvocati dell’associazione Antigone - ma invece di seguirlo come avrebbero dovuto, le strutture specializzate in cui veniva trasferito non facevano altro che imbottirlo di medicinali. Lui li rifiutava e ogni volta scappava per tornare da me". A casa cercava solo qualche ora di serenità, "un piatto di pasta buono e il calore della sua famiglia. Per farlo stare bene gli sarebbe bastato un farmaco modulatore dell’umore, in grado di contenere anche le crisi epilettiche di cui soffriva da diversi anni. Invece lo rinchiudevano in stanza e lo trattavano come una bestia". Dalla Rems di Ceccano, (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, strutture che hanno preso il posto degli Ospedali psichiatrici giudiziari), Valerio è scappato tre volte. "La situazione è precipitata quando il 28 settembre 2015 me l’hanno portato via per trasferirlo in una casa riabilitativa che era una sorta di lager. Lo legavano al letto, gli facevano fare la pipì addosso, lo filmavano quando aveva le crisi". Il dolore e la rabbia sono una cosa unica nelle parole di Ester. "Non attaccava qualcuno senza motivo, se lo faceva era perché veniva istigato. Una volta sono andata da lui e l’ho trovato con un livido a forma di anfibio sul volto. Lo mettevano insieme ai pedofili o a donne che avevano compiuto matricidi, persone che gli raccontavano tutti i giorni cose orribili e che lui, con la sua patologia, odiava. Gli facevano schifo". Proprio per le sue condizioni psicologiche, Valerio non era adatto al regime carcerario, come documentato da diverse certificazioni. "Nell’ultima perizia svolta dal tribunale si dichiara che Valerio era un soggetto ad alto rischio suicidio. Al giudice, in aula, aveva chiesto per almeno tre volte di essere perdonato e rimandato a casa. "Non ce la faccio più, vi prego mandatemi a casa, qui mi ammazzo"". L’ultima volta che Ester ha parlato con suo figlio è stato via email. "Il 23 febbraio mi ha scritto che mi aspettava per tornare a casa, mi aveva mandato le liste delle cose che gli servivano per uscire. Era tutto pronto". Il giorno successivo Valerio si è tolto la vita, come aveva anticipato, tra le righe, in diverse lettere che aveva fatto arrivare alla sua famiglia. "Io qui sto impazzendo, non ce la faccio più - aveva scritto a suo fratello. Sono stanco di fare qualunque cosa, di mangiare, di scappare. Voglio andarmene per sempre, ora ti lascio con la penna ma non con il cuore". "Valerio era un ragazzo intelligente, doveva essere stimolato, come viene fatto a San Patrignano, per esempio". Invece è stato lasciato solo. Adesso Ester, insieme all’associazione Antigone, che si occupa di tutelare i diritti dei carcerati, vuole che sia fatta giustizia, chiede che sia fatta chiarezza sulla morte di Valerio. Per suo figlio e per tutti i ragazzi che si trovano nella sua situazione. "Nessuno può riportarmelo a casa, allora chiedo giustizia. Voglio che la sua morte non sia vana, spero di aiutare qualche altro ragazzo". Milano: solo il Papa si ricorda del carcere di San Vittore di Ruben Razzante* Il Giorno, 2 marzo 2017 Di San Vittore sembrano essersi dimenticati tutti. Ma per fortuna c’è Papa Francesco, che lo ha fatto inserire fra le sue prime tappe della sua prossima visita a Milano. E che sarà ricordato come il primo Pontefice ad aver varcato la soglia di piazza Filangieri 2. Di San Vittore, inaugurato nel 1879 durante il Regno d’Italia di Re Umberto I, sembrano essersi dimenticati tutti. Le visite istituzionali, nel carcere meneghino ormai si contano sulle dita di una mano. Non lo ha inserito nella sua agenda il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Non lo ha visitato il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. E anche la presenza di rappresentanti delle istituzioni locali appare sempre più rara. Ma per fortuna c’è Papa Francesco, che lo ha fatto inserire fra le sue prime tappe della sua prossima visita a Milano. E che sarà ricordato come il primo Pontefice ad aver varcato la soglia di piazza Filangieri 2. Papa Francesco sarà accolto all’ingresso, farà un giro nella storica rotonda e quindi si inoltrerà nei vari raggi. Per pranzo, saranno gli stessi detenuti a servirgli il pasto da loro cucinato: risotto allo zafferano e cotoletta. Oggi siamo lontani dall’emergenza sovraffollamento del 2013 - puntualmente denunciata dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel suo unico solenne messaggio alle Camere - che arrivò a toccare vette disumane. Però San Vittore rimane un simbolo e una ferita aperta nel cuore di Milano. I punti critici sono ancora tanti: il numero dei detenuti che continua a salire, le celle che versano in stato di fatiscenza e i raggi inutilizzati. Secondo gli ultimi dati disponibili, nelle carceri lombarde il tasso di sovraffollamento complessivo è infatti del 127,7%. E si tratta soprattutto di detenuti stranieri, che vivono la detenzione con estrema difficoltà perché mancano interpreti e mediatori culturali. "Con alcuni di loro, come i cinesi, dobbiamo sperare che parlino inglese oppure affidarci ai gesti: alcuni detenuti ci aiutano a comprendere quanto raccontano loro connazionali, in particolare quelli di seconda generazione che parlano italiano, ma sarebbe auspicabile avere figure professionali", denunciava poco tempo fa la direttrice di San Vittore, Gloria Manzelli. Rimane il nodo dell’inutilizzabilità di alcune sezioni: il secondo raggio chiuso da ormai dieci anni, il quarto vuoto e il sesto raggio, la cui ristrutturazione è partita a rilento. C’è da augurarsi che la visita di Papa Francesco sblocchi questa fase di stallo e contribuisca a migliorare e a rendere più dignitose le condizioni di un istituto di pena che, come dice la Costituzione, deve puntare alla rieducazione del detenuto. E non al suo annientamento. *Docente di Diritto dell’informazione all’Università Cattolica Torino: in tribunale il decalogo "salva-processi" di Sarah Martinenghi La Repubblica, 2 marzo 2017 Prima i processi con detenuti, i vecchi casi di stalking per i quali ora c’è l’udienza preliminare ma che erano stati commessi prima dell’innalzamento della pena. Poi i reati di criminalità organizzata e le violenze sessuali. Quelli per infortuni sul lavoro, quelli per reati stradali e i delitti per l’immigrazione, e così via. È una scala a scendere di gravità, quella individuata dai vertici del Palagiustizia per scegliere la corsia preferenziale di alcuni processi rispetto ad altri che viaggeranno in modo più lento. Il tribunale e la Procura si alleano così per avere una giustizia più efficiente, evitare casi di prescrizione eclatanti come successo per lo stupro ai danni di una bambina dichiarato a distanza di 20 anni dai fatti, e portare avanti procedimenti che vedano dunque una fine in tempi ragionevoli. Il presidente del tribunale Massimo Terzi ha emanato nei giorni scorsi una serie di criteri di priorità sul trattamento dei fascicoli della sesta sezione penale, quella che è stata appositamente creata per i procedimenti a citazione diretta, puniti con condanne al massimo di quattro anni. Sono i processi che si svolgono davanti al giudice monocratico. E sulla stessa scia si sta muovendo il procuratore capo Armando Spataro, che in linea con le disposizioni del Csm e le disposizioni normative già esistenti aspettava i criteri dell’organo giudicante per riorganizzare il lavoro dei propri sostituti. "La procura si è confrontata con il presidente del Tribunale e a giorni emetteremo anche per la Procura le nuove linee guida sui criteri di priorità da seguire" commenta il procuratore capo Spataro. Se si paragona la giustizia a una stazione ferroviaria, succederà che i processi collegiali, quelli per reati gravi come le rapine, il peculato, la concussione, viaggeranno su un "Frecciarossa", quelli come furti in casa, scippi, reati comunque aggressivi contro la persona, in cui c’è anche una vittima da tutelare, saliranno su un "Frecciabianca", quelli per reati minori su un "Regionale". Ma, assicurano da Palazzo, nessuno finirà su un binario morto, non ci saranno cioè depenalizzazioni di fatto, anche se un procedimento che riguarda un tentato furto commesso da un incensurato al supermercato per una confezione di prosciutto potrebbe essere accantonato. Non è la prima volta che la Procura "sceglie" cosa mandare avanti e cosa lasciare in disparte, ma i pm assicurano che i criteri di priorità adottati siano differenti dalla circolare Maddalena che una decina di anni fa aveva fatto discutere, sia perché poneva la questione dell’obbligatorietà dell’azione penale sia perché riguardava i reati commessi prima di una certa data ragionando in tema di condono. Terzi e Spataro si sono invece mossi "in tandem", recependo le indicazioni del Csm, ma anche quelle del legislatore, "sparse" nell’ordinamento, proprio per rendere maggiormente incisiva la riorganizzazione dei procedimenti. "Bisogna evitare sprechi di risorse e prescrizioni" aveva spiegato il presidente Terzi. Civitavecchia (Rm): all’Asl un tavolo tecnico permanente per i diritti dei detenuti centumcellae.it, 2 marzo 2017 Si è svolta ieri una riunione presso la Direzione Generale della Asl Roma 4 con tutti gli esponenti che ruotano intorno al delicato ambiente carcerario. Erano presenti al Tavolo Permanente insieme al Direttore Generale Dott. Quintavalle, il Garante dei detenuti, Dott. Anastasia, il Dott. Cervellini, referente della medicina penitenziaria, Il Dott. Ciranni, medico della casa di reclusione di Civitavecchia, il Dott. Barletta coordinatore del Sert aziendale, il Dott. Scuderi, responsabile del Servizio Dipendenze, la Dott.ssa Celozzi, responsabile del Csm, la Dott.ssa Bravetti, direttrice delle case circondariali di Civitavecchia, il coordinamento infermieristico e della salute mentale e il comandante della Polizia Penitenziaria. Sono state analizzate le problematiche che tutte le parti hanno messo in campo e si è decisa la modalità di avanzamento degli obiettivi principali da raggiungere. Si è effettuata la revisione della Carta dei Servizi, (una Carta informativa che riguarda la salute del detenuto) punto importantissimo per la Asl Roma 4 che è stata la prima azienda Sanitaria ad adottarla. Una ulteriore novità riguarderà il servizio di screening. In accordo con il Direttore del Servizio vaccinazioni, Dott. Sgricia, si è stabilito di estendere gli screening oncologici previsti dal Piano nazionale della Prevenzione (mammella, colon retto e cervice) anche agli ospiti delle case circondariali. Il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, si è ritenuto molto soddisfatto dell’incontro tenutosi con la Direzione Aziendale sottolineando che la collaborazione con la Asl Roma 4 non si è mai interrotta ed è una delle più significative avute in questi anni con le strutture sanitarie. Anastasia ha sottolineato come, definendo alcuni impegni significativi come il rinnovo della Carta dei Servizi e il progetto di portare la popolazione carceraria maschile e femminile nel programma di screening per la prevenzione dei tumori, si compia un ulteriore importante passo per la tutela della salute del detenuto. Torino: il presidente del Comitato Diritti umani e i Garanti Detenuti e Infanzia all’Ipm cr.piemonte.it, 2 marzo 2017 "Il Ferrante Aporti è una istituzione che funziona". Parola di don Domenico Ricca, più noto come Don Mecu, cappellano dell’istituto da oltre trentacinque anni e figura carismatica fra gli stessi ospiti del "Ferrante Aporti". Don Mecu era presente nel corso della vista del 1° marzo, all’Istituto penale per i minori torinese, della delegazione composta dalla vicepresidente del Comitato per i diritti umani del Consiglio regionale, Enrica Baricco, dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte, Bruno Mellano, dalla Garante regionale per l’infanzia e l’adolescenza, Rita Turino, e dalla Garante dei detenuti della Città di Torino, Monica Gallo. È stata l’occasione per conoscere il peculiare funzionamento della giustizia minorile assai diversa da quella per gli adulti. Il Ferrante Aporti - che ospita 34 persone a fronte di una capienza di 46 posti (più due di isolamento sanitario) - offre uno spaccato del funzionamento della detenzione minorile, anche se, di questi 34, 14 soltanto sono effettivamente minorenni, mentre 20 sono maggiorenni. A seguito della riforma introdotta nel 2014, infatti, gli istituti penali per minori accolgono "giovani adulti", sino al compimento dei 25 anni di età, per scontare pene per reati commessi quando gli stessi erano minorenni. "Una sostanziale novità che ha cambiato sensibilmente la realtà della detenzione a causa delle profonde differenze che si trovano fra gli ospiti di 14-15 anni e i maggiorenni che, in alcuni casi, hanno già avuto esperienze detentive in carceri per adulti", come spiegato dalla direttrice dell’istituto, Gabriella Picco. "Ciò ha imposto la necessità di approcci detentivi ed educativi differenziati, aumentando ancor più il lavoro degli operatori" ha precisato la direttrice. Nel corso della visita sono emerse le varie problematiche che affliggono l’istituto e, in particolare, la scarsità di personale, specialmente di agenti di Polizia penitenziaria. Comunque, dopo un lungo periodo di attesa, è da poco stato assegnato all’istituto un comandante, Nico Costa che, tuttavia, resterà soltanto alcuni mesi. La visita ha toccato i locali e gli spazi comuni: aule, sale gioco, infermeria, cucina, lavanderia e laboratori di ceramica e per la produzione del cioccolato: in queste ultime realtà sono impiegati alcuni detenuti che imparano competenze e professionalità utili una volta scontata la pena. Per esempio, un ragazzo che segue il corso di cioccolateria fra pochi giorni inizierà uno stage presso la cucina di un ristorante del centro di Torino. Ma quasi tutti i detenuti studiano, alcuni anche in scuole al di fuori dell’istituto e tutti sono impegnati in attività comunque tese ad offrire loro un "dopo" che eviti di ricadere nel circolo vizioso del crimine e della detenzione. Porto Azzurro (Li): la lettera dei detenuti ai loro professori del Corso di Agraria quinewselba.it, 2 marzo 2017 Tredici detenuti firmano una lettera per ringraziare i professori del primo corso di Agraria tenuto presso il carcere di Porto Azzurro. A settembre è stata varata la prima classe del Corso di Agraria presso il penitenziario di Porto Azzurro, fortemente voluto dalla dirigente dell’ITCG Cerboni Maria Grazia Battaglini e affidato alle cure del coordinatore, prof. Flavio Drago, con l’attivo concorso e impegno della direzione del carcere, dell’assessore regionale all’istruzione Cristina Grieco, della provveditrice di Livorno Anna Pezzati e di tutto il personale della polizia penitenziaria. Il valore educativo, umano e morale dell’iniziativa è testimoniato da una bella lettera, scritta a mano, che i detenuti/studenti hanno recentemente fatto pervenire ai loro docenti della scuola, e che qui proponiamo nella sua interezza, perché permette di gettare una luce oltre le sbarre e di cogliere il loro desiderio di riscatto, di formazione e di integrazione futura. "Cari Professori, tutti noi alunni della vostra prima classe del Corso di Agraria, nonostante le sofferenze e le crude riflessioni che caratterizzano quotidianamente il personale e il comune vivere all’interno di queste buie e gelide mura, nutriamo il forte bisogno di rendervi grazie per tutto l’impegno e il senso di sacrificio che ciascuno di voi ha profuso e che, ancora ad oggi, ciascuno di voi sta sperimentando allo scopo di rendere quanto più possibile costruttivo il nostro indimenticabile percorso di studi. Ahinoi, poche ore soltanto ogni giorno che ci istruiscono, per quanto l’ambiente vi rende e ci rende possibile: ore trascorse assieme con tanta voglia di apprendere, con tanta passione e curiosità da parte nostra, con tanta voglia di insegnare e far comprendere, da parte vostra, molte importanti conoscenze, quanto meno veritiere nozioni, su quanto, cosa e chi circonda questo non-mondo, su quanto, cosa e chi ciascuno di noi intende ancora saggiare e/o per lo meno, sapere cosa rappresenti nella normalità. Grazie di cuore, Egregi Professori, prima ancora grazie alle vostre persone le quali, con un innato senso di vicinanza e di abnegazione, con uno straordinario senso di umanità nei nostri confronti, fra un pronome italiano e un verbo inglese, fra un terremoto o delle fasce climatiche, fra un insieme matematico, un’equazione di fisica o un diagramma a blocchi, fra colori e proiezioni o dialoghi socio-religiosi, han reso e tutt’oggi rendono più vivaci, meno stressanti e monotone, più facili da affrontare tutte le giornate. Da un lato vi sono state e vi sono le vostre professionalità, le lezioni, gli appunti e semplici spiegazioni strutturate ad hoc per istruirci, d’altro canto, vi son stati e vi sono tuttora una cordialità, dei semplici e costanti sorrisi che ci hanno allietato e ci allietano ancora, che ci han fatto sentire e che ci fanno sentire non-esclusi, degni della vostra attenzione e della vostra opera educativa, prima ancora che didattica. Tempo, impegno ed energie, le vostre, sottratti, probabilmente, all’istruzione di altri alunni volenterosi fuori da queste mura, persone come noi che vogliamo ringraziare di cuore, unitamente alla preside dell’Istituto Cerboni, alla direzione del carcere e a tutto il personale di polizia penitenziaria, per essersi quest’ultimi resi partecipi, più o meno direttamente, e tasselli fondamentali di questo straordinario progetto. Un percorso di studi, quello nostro, che speriamo di poter condividere e perfezionare al meglio, con iniziative mirate ai fini della messa in pratica di tutto quanto ogni giorno proviamo ad apprendere, per realizzare una qualche opera, un qualche lavoro, una qualche collaborazione con e per la società, per dimostrare che, nonostante tutto, siamo ancora una utile risorsa, un concretizzabile valore aggiunto per la comunità. Egregi Professori, se pur quanto detto richiederà tempo e grandi sacrifici, se pur in presenza del dubbio circa il concretizzarsi di dette aspettative, noi tutti comunque sia vi ringraziamo per averci consentito il perfezionamento dell’obiettivo più grande e imprescindibile: ognuno di noi sa di poter provare a tornare in società con uno spirito e degli obiettivi esistenziali diversi e positivi, utili per chi ci è attorno, utili e significativi, anzitutto, per noi stessi. Grazie di cuore alle vostre Persone, prima ancora che ai Professori". Trento: "A cosa serve il carcere?". Oggi l’incontro con l’ex magistrato Gherardo Colombo crushsite.it, 2 marzo 2017 Giovedì 2 marzo alle ore 16.00 il Museo Diocesano Tridentino ospiterà in sala arazzi un incontro con Gherardo Colombo, l’ex magistrato divenuto celebre per aver preso parte ad importanti inchieste italiane quali la loggia P2 e Mani Pulite. In occasione dell’incontro in museo, Gherardo Colombo rifletterà sull’efficacia del sistema penitenziario e sulla finalità delle pratiche di reclusione, individuando nuovi concetti e nuove pratiche di giustizia in grado di procurare una vera riabilitazione. Gli studi dimostrano che la gran parte dei condannati a pene carcerarie torna a delinquere. La maggior parte di essi infatti non viene riabilitata, come prescrive la Costituzione, ma semplicemente repressa e privata di elementari diritti sanciti dalla nostra carta fondamentale. La condizione carceraria, spesso caratterizzata da sovraffollamento, violenza fisica e psicologica, invivibilità e degrado, è un moltiplicatore della recidiva che non conviene alla sicurezza collettiva. Vi sono altre strade che, coinvolgendo vittime e condannati, sono in grado di condurre alla responsabilizzazione delle proprie azioni. Gherardo Colombo, attingendo alla sua esperienza di magistrato e di autore di numerosi saggi in materia, indagherà le basi di un nuovo concetto di giustizia, la cosiddetta "giustizia riparativa", che sta lentamente emergendo negli ordinamenti internazionali. Pratiche che non riguardano solamente i tribunali e le carceri, ma incoraggiano un sostanziale rinnovamento nel tessuto profondo della nostra società, poiché interessano l’essenza stessa della convivenza civile. La conferenza di Gherardo Colombo si colloca nell’ambito della mostra "Fratelli e sorelle. Racconti dal carcere". Informazioni: museodiocesanotridentino.it. Napoli: volontariato in carcere, al via il percorso formativo gratuito del Csv di Carmela Cassese comunicareilsociale.com, 2 marzo 2017 È in partenza il nuovo il corso di formazione gratuito "Carcere e volontariato", promosso dal Csv di Napoli e provincia. Un percorso formativo che vuole avvicinare la realtà carceraria alla vita del cittadino comune. Mission dell’iniziativa è stimolare l’interesse verso il volontariato penitenziario, fornendo ai partecipanti le competenze di base per operare in questo ambito di intervento. Gli incontri, in totale 8, si terranno al Centro Europeo Studi di Nisida. Interverranno in qualità di formatori: Chiara Masi (Dirigente penitenziario- Casa Circondariale Napoli - Poggioreale - Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Ministero della Giustizia) Isabella Mastropasqua (Dirigente Ufficio: Prevenzione della devianza - Dipartimento per la Giustizia Minorile e di comunità - Ministero Della Giustizia) Pasquale Calemme (Presidente Cnca Campania) Ornella Favero (Presidente Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia) Rodolfo Matto (Teacher di Yoga della Risata presidente dell’Associazione Italiana di Yoga della Risata) Genoveffo Pirozzi (Docente di psicologia generale ed applicata presso l’IIS G. Piscopo di Arzano) Don Fabio De Luca (Cappellano dell’Istituto Minorile di Nisida) Don Gennaro Pagano (Direttore Centro Educativo Diocesano Regina Pacis). "Per chi è costretto a vivere-dichiarano i promotori- nelle strutture penitenziarie è importante realizzare interazione e rete con il territorio. Questo tipo di esperienze permettono di ampliare e creare sinergie, e questo è l’obiettivo principale, perché quello che si riesce a fare all’interno del carcere con l’aiuto della cittadinanza deve poter avere anche una continuità fuori, e ciò si realizza anche creando nuove sensibilità e competenze attorno a quelli che sono i problemi delle persone detenute". "Percorsi di questo tipo - sottolinea Don Fabio De Luca, cappellano dell’Istituto Minorile di Nisida - sono necessari, soprattutto considerando i tempi in cui viviamo, caratterizzati da un’assenza dello stato sociale fortissima. Non è un caso che spesso la Chiesa si sostituisca allo Stato, non per sua volontà, nell’aiutare persone che si ritrovano in particolari difficoltà. Il volontariato, in questo caso, può fare tantissimo. Questi giovani che escono dal carcere e che non hanno nessun punto di riferimento hanno la necessità di avere qualcuno che li guidi, sostenga ed assista e che aiuti loro ad avviare un reinserimento sano e pulito all’interno della società. Hanno bisogno di input positivi, di uno spunto nuovo che può senz’altro arrivare dal volontariato". Caserta: i detenuti del carcere di Arienzo debuttano ad Officina Teatro edizionecaserta.it, 2 marzo 2017 La voglia di poter regalare un’esperienza culturale ed emozionale, la necessità di dare alcuni mezzi adatti alla redenzione a persone in riabilitazione e la convinzione che attraverso il teatro si può giungere ad una catarsi, ha spinto il regista e attore Antonio Perna a portare in scena "Aspettando San Gennaro". "Ambientare i due protagonisti\cavie in una gabbia", racconta il regista, "mi è sembrata la scelta più vicina alla loro condizione umana che quotidianamente loro sentono addosso". La speranza nel cambiamento, a volte forte a volte lontana, ha portato gli autori-detenuti alla realizzazione del testo, in parte modificato attraverso improvvisazioni o concetti più vicini agli attori. Testo allargato dalla presenza di un membro della comunità islamica, che ha portato ad inserire la questione musulmana, carnefice da un lato di episodi tristemente noti e vittima dall’altro nella discriminazione dei popoli e delle religioni che si trovano a condividere lo stesso paese. Il tutto viene espresso quasi sempre nella lingua napoletana, lingua vicina agli interpreti, permettendo loro di essere totalmente sinceri, donandoci un sorriso per poi, come nei classici della nostra tradizione, lasciare l’amaro in bocca. Le scenografie e i costumi sono realizzati dagli stessi detenuti attraverso il laboratorio dell’esperta Teresa Papa che spiega: "L’elemento predominante della scena è la gabbia, simbolo di una vita che soffoca e non ci rende liberi. I costumi surreali e onirici ci rimandano a fiabe, animali, giochi… e ci ricordano la vera natura dell’uomo. Un gioco di colori e di simboli che ci consentono di cercare la chiave della nostra gabbia, perché esiste, ed è nella nostra mente". L’opera teatrale è la storia di due personaggi chiusi in una gabbia che aspettano un eventuale cambiamento. La società li osserva e commenta dall’esterno. Tra questi due mondi, un islamico cerca di inserirsi. "Aspettando San Gennaro", nato da un laboratorio di scrittura teatrale con i ristretti della Casa Circondariale di Arienzo a cura di Gaetano Ippolito, punta lo sguardo sulla situazione che quotidianamente si trovano a vivere i detenuti: chiusi in una cella in attesa di un cambiamento che deve partire da loro, e che a volte viene ostacolato da loro stessi e da qualche componente della società che con parole o azioni inconsapevolmente li trasforma e ci trasforma in bestie chiuse in gabbia. Di fondo la credenza di aspettare che il cambiamento arrivi dall’alto, cosa che quasi mai accade e che catapulta i protagonisti, al momento della verità, al dover prendere una decisione, una decisione di azione o di attesa. Il testo è liberamente ispirato ad "Aspettando Godot" di Samuel Beckett. Il progetto è stato realizzato grazie alla dedizione e all’impegno della Direttrice della Casa Circondariale di Arienzo, la dottoressa Maria Rosaria Casaburo e dalle sue instancabili collaboratrici, le educatrici Maria Rosaria Romano e Francesca Pacelli. Lo spettacolo va in scena in anteprima ad Officina Teatro sabato 4 marzo alle ore 21 e domenica 5 marzo alle ore 19. Le rappresentazioni sono entrambe ad ingresso gratuito, ma è consigliabile la prenotazione per il numero limitato dei posti. Le rappresentazioni rientrano nell’ambito del progetto "Oltre le mura" finalizzato all’inclusione sociale, sostenuto dal Csv Asso.Vo.Ce con il Bando della Microprogettazione sociale 20142015. Siena: il coraggio di sognare un mondo nuovo, gli attori-detenuti si raccontano di Tommaso Chimenti recensito.net, 2 marzo 2017 "Si dice che non si conosce veramente una nazione finché non si sia stati nelle sue galere. Una nazione dovrebbe essere giudicata da come tratta non i cittadini più prestigiosi ma i cittadini più umili" (Nelson Mandela). Molto spesso si crede che il teatro in carcere in Italia sia solo ed esclusivamente quello all’interno della Fortezza a Volterra. Che faccia rima con Punzo e soci. O con i Fratelli Taviani. Invece, a livello nazionale, molte compagnie sono state artefici di eventi e manifestazioni, di creatività significative dai pionieri Alfonso Santagata e Claudio Morganti a Lodi al Tam a Padova, dal Ticvin a San Vittore fino a Vannuccini a Rebibbia. Ma soprattutto nella realtà toscana (Gianfranco Pedullà a Pistoia e Arezzo, i Metropopolare a Prato, Elisa Taddei e i Krill a Sollicciano), è tutto, fortunatamente, un fiorire di esperienze di laboratori pedagogici e didattica teatrale dentro le mura anguste e claustrofobiche delle case circondariali come dei penitenziari. Basta non avere la pretesa attoriale e artistica ma istruttiva e didattica, basta non avere la presunzione di creare un teatro stabile. Empoli, Firenze, Livorno, Lucca, hosognato2Massa Marittima, Montelupo Fiorentino, Pisa, Pistoia, Pontremoli, Prato, San Gimignano, Siena, Volterra, Isola d’Elba; in ognuna di queste strutture professionisti e volontari portano la loro esperienza scenica a chi, forse, il teatro non ha mai avuto la possibilità né di vederlo né tanto meno di poterlo fare (per info: teatrocarcere.it). "Ho sognato un mondo nuovo" Ed ecco questo incrocio elettrico ed elettrizzante con i detenuti, con le loro storie di sofferenza, emarginazione, disagio e degrado, che portano sulla scena parole millenarie oppure racconti tratti dalle proprie esistenze in una catarsi, un osmosi, un dare e ricevere con la platea, uno scambio che ci fa sentire vicini a chi ha sbagliato, molte volte per mancanza di possibilità di scelta e opportunità, per ignoranza e analfabetismo, e che ci fa dire: "Potevo esserci io al suo posto". Non si tratta di buonismo. Molti detenuti, grazie al teatro, imparano a leggere e a scrivere, a esprimere le proprie emozioni, a tirarle fuori senza quella rabbia distruttiva e autolesionista che li ha affossati e li ha spinti proprio dove stanno adesso. Siamo stati spettatori e testimoni della pièce che il regista Altero Borghi (da ventidue anni docente all’interno di vari penitenziari: diciassette a San Gimignano, poi Siena e recentemente anche Grosseto e Massa Marittima) ha cucito (insieme a Serena Cesarini Sforza, suo l’intenso monologo sulla violenza alle donne) con le testimonianze di una dozzina di detenuti della Casa circondariale di Siena. "Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni" (Fëdor Dostoevskij). Il titolo "Ho sognato un mondo nuovo" (Associazione Sobborghi Onlus; nuove repliche il 10 e il 31 marzo) porta con sé una patina di speranza, ha un sapore di futuro, contiene un profumo di un domani da prendere, vedere, sentire, toccare una volta fuori dalle sbarre, lontano dai chiavistelli che ti si chiudono dietro ad ogni passaggio, delle serrature che schioccano. Tutti abbiamo diritto a sognare un mondo nuovo, soprattutto chi è qua dentro, recluso. Inevitabilmente c’è del naif, si respira dell’ingenuità ma anche quella leggerezza e quella purezza d’intenti che porta gioia attraverso la semplicità. Siamo in un bar, una sorta di "Classe morta", dove l’orologio si è bloccato da tempo immemore (come queste vite sospese in attesa della fine della pena) e i clienti dormono di un sonno stanco (bella presenza scenica Giuseppe P.), rassegnato, senza forza né volontà, zombie in letargo. Ma l’arte porta con sé la libertà, il sogno fa uscire dalla gabbia con la mente. Come delle epifanie, delle apparizioni salvifiche si materializzano sul palco dodici storie che, tra autoironia ("Siamo V.I.P.: Viviamo In Prigione") e riflessioni amare e scanzonate, ci parlano, metaforicamente, di Terra Promessa (il mondo che sta là fuori, che hanno perso, che si sono lasciati sfuggire e soffiare e che adesso stanno, giorno dopo giorno, riconquistandosi), di storie di clandestinità, dell’Anno che verrà, della voglia di riscossa e rivincita che rilascia nell’aria la potenza di David Bowie, quel desiderio feroce di ripartire, di mettersi alle spalle i brutti momenti, risalire la china, rialzarsi dopo una rovinosa caduta agli inferi. Napoli: CO2 a Secondigliano, la musica per ridare emozioni ai detenuti di Franco Mussida Corriere del Mezzogiorno, 2 marzo 2017 Oggi con l’inaugurazione dell’audio-teca nel carcere di Secondigliano si chiude una prima fase del progetto CO2 e se ne apre un’altra: Secondigliano ora diventa a tutti gli effetti parte di una rete nazionale di 12 audio-teche pensate per dare ossigeno e sollievo emotivo ai detenuti. Audio-teche di sola musica strumentale non più divise per generi, per titoli o autori, ma per stati d’animo. Poste in altrettante carceri, promuovono un diverso modo di ascoltare musica, restituendole il ruolo di grande educatrice del sentire individuale, che, specie nel mondo della musica popolare, pare si sia perduto nel tentativo di mirare ad un uso sempre più istintivo dei suoi poteri. Posso dire che questo progetto, nato nel 2013 dopo che l’appena eletto Presidente della Siae Gino Paoli mi chiese di pensare appunto a un progetto musicale da realizzare nelle carceri, ha ricevuto il suo vero battesimo proprio a Secondigliano. A tal proposito devo ricordare, con riconoscenza, che la Siae, in rappresentanza di artisti, compositori e autori associati, segue e sponsorizza CO2 con orgoglio e convinzione anche con l’attuale presidente Filippo Sugar, ritenendo il progetto qualcosa di molto importante e affine alle sue finalità, inserendolo così nell’iniziativa globale di "ristrutturazione" dell’ente. Ricordo quel giorno di Maggio del 2013 quando, davanti a una trentina di detenuti in maggioranza napoletani, con l’eccezione di qualche africano e di alcuni albanesi, presentai il progetto. Dovevo raccontare della sperimentazione che stavamo mettendo in piedi, chiedendo a una decina di detenuti di ascoltare musica solo strumentale di tutte le forme - pop, jazz, classica, elettronica, etnica, musica da film, etc... - e di analizzarla emotivamente, vivendo così un’esperienza di ascolto consapevole degli effetti emotivi che questi stessi ascolti provocavano. Avevo davanti una sessantina di occhi che mi scrutavano ben oltre la pupilla. Li vedevo inizialmente sconcertati, perché nel descrivere il progetto non potevo esimermi di parlare dell’acqua calda, ovvero del fatto che l’ascolto della musica fa sorgere emozioni e sentimenti forti, e i napoletani lo sanno benissimo. Per questo al centro delle loro fronti vedevo appuntato un invisibile post: Ma questo ci fa o ci è ? Cosi smisi di parlare, presi la chitarra e li invitai a fare un giro tra i climi emotivi, descrivendoli e soffermandomi sul potere dell’intervallo musicale di farci cambiare di stato emotivo, di farci volare e sognare, con l’armonia, in cieli sognanti diversi, soffermandomi per un bel po’ nel cielo di uno stato d’animo che in carcere dovrebbe essere più presente: quello della consolazione. Si lasciarono andare tutti. Sulle loro facce ora rilassate spuntarono sorrisi veri e sinceri, quelli che partono da un cuore non più coperto da emozioni di circostanza. A questo punto volevano partecipare quasi tutti, ma si dovette fare una selezione. Alle persone che hanno sostenuto il progetto CO2 vanno non solo i miei profondi ringraziamenti, ma anche una parte della Medaglia che, per l’anno 2017, il Presidente della Repubblica Mattarella ha voluto dare al progetto CO2. Peppe Rienzo, agente delle polizia penitenziaria che canta e suona bene, e che ha recentemente fatto un disco ispirato al progetto CO2. Il dottor Liberato Guerriero, direttore del carcere di Secondigliano, che ci mise il cuore per far partite il progetto, e il gruppo di educatori. Gli insegnanti: Andrea Libero Cito, Peppe Colucci, Lino Vairetti, Marco Zurzolo E Thessy Sembiante, che ha supportato il progetto con preziosi suggerimenti. È da un detenuto di Secondigliano che abbiamo tratto la frase che è diventata lo slogan del progetto: La musica può vincere la carcerazione interiore. Leggete cosa ha dichiarato per iscritto questo detenuto: "Ho scoperto la musica strumentale, ho fatto un percorso di miglioramento poco per volta, mi sento più libero, meno complesso. Non mi sento più in imbarazzo a parlare dei miei sentimenti... Ho subito per tanto tempo, ero timido, non sapevo come comportarmi; poi due settimane fa sono stato chiamato dal pubblico ministero al mio processo e dopo tante volte che nei processi ho sempre rifiutato di rispondere e mi sono sempre nascosto, questa volta ho risposto a tutte le domande. Ora mi sento più libero, ho vinto la carcerazione interiore". Valter, un altro detenuto di Secondigliano con un importante background culturale, scrive: "CO2 ha rappresentato una "fuga" dal carcere, il cuore e la mente si sentono liberi. Il periodo di sospensione estiva ha generato una costante attesa. Ricordo il giorno che mi è stata assicurata la ripresa, mi sono sentito sollevato. La cosa strana è che sentire un cd o la radio in cella, mi infastidisce. Quando varco la porta di CO2 divento una Persona". Come dicevo all’inizio di questo scritto, è iniziata un’altra fase del progetto CO2, con il sostegno del Cpm Music Institute di Milano, la scuola di musica che presiedo e che si occupa dell’organizzazione e gestione di CO2, e dell’Università di Pavia che ne ha certificato l’efficacia individuale e sociale: stiamo infatti completando la traduzione in 8 lingue del software dell’audio-teca che, oltre ad orientare la consultazione, permette la valutazione e la successiva elaborazione dei dati sulla musica ascoltata. Ciò permetterà agli educatori di avere un nuovo efficace strumento di supporto pedagogico, e ai detenuti di tutti i Paesi di ascoltare a cuore aperto il suono delle musiche delle loro terre d’origine. Forse si alimenterà un po’ la nostalgia, un sentimento pervaso d’amore, ma si limiterà di certo la solitudine, con i suoi scuri fantasmi. Oggi gli stranieri nelle carceri italiane sono tanti: nel carcere Santa Maria Maggiore a Venezia l’80%, una percentuale di poco inferiore che si riscontra anche nelle strutture di Lorusso e Cutugno (Torino), Opera e San Vittore (Milano), Monza, Marassi (Genova), Parma, La Dozza (Bologna), Montacuto (Ancona), Sollicciano (Firenze), Rebibbia Femminile (Roma) e Secondigliano a Napoli. Chi conosce le problematiche della detenzione sa che la vera elaborazione dei delitti commessi passa attraverso una positiva metamorfosi interiore, un rischiararsi del cuore, un aprirsi alla vera compassione per sé stessi e per gli altri. In questo processo la bellezza può svolgere un ruolo determinante e CO2 è scienza che si lega all’arte della musica. È la musica che si riappropria di un ruolo che va oltre il piacere dell’ascolto, che svolge il suo naturale ruolo educativo raggiungendo il cuore della gente stimolando gli organi affettivi. Gioia, nostalgia, speranza, malinconia, amore non sono infatti solo sentimenti, ma organi primari della nostra comune struttura affettiva, che si illumina e si rispecchia con e nella musica. Eutanasia. A scuola se ne può parlare coi ragazzi? Sì, anzi si deve di Paolo Conti Corriere della Sera, 2 marzo 2017 Il 78 per cento degli studenti (sondaggio Skuolanet) vorrebbe affrontare il tema in classe. Una sfida per i docenti che devono prepararsi e confrontarsi con la contemporaneità. la lezione di Saramago. "Penso che per gli studenti sarebbe molto meglio partire dalla contemporaneità. Si rimane sempre indietro di un secolo; nella scuola si vive come dentro una specie di capsula senza collegamento con il tempo presente, mancano i nessi". Sono riflessioni di José Saramago, premio Nobel per la Letteratura nel 1998. Non si riferiva alla scuola italiana, ma all’archetipo universale dell’istituzione. Impossibile non ripensare a quella frase in queste ore, proprio mentre Skuola.net certifica che il 78% degli studenti italiani vorrebbe parlare di eutanasia non solo a casa, in famiglia o con gli amici ma proprio a scuola. Confrontandosi cioè con i propri coetanei e soprattutto con gli insegnanti, cioè con coloro che li stanno indirizzando verso la vita da adulti. Saramago descriveva una "capsula senza collegamento col tempo presente". Infatti non c’è alcun obbligo di legge che costringa il corpo docente ad affrontare tematiche di attualità. Cioè la materia di cui sono composti i giornali di carta, i notiziari on line e i telegiornali. La fatica di affrontare il presente - Ma è altrettanto vero che una scuola incapace di fermarsi a pensare, quindi a "insegnare" qualcosa di legato al dibattito politico, sociale, internazionale, religioso, si auto-condanna a diventare solo e soltanto un obbligo, un dovere, una costrizione e non la palestra culturale di allenamento alla vita reale che dovrebbe essere. È vero. Può essere faticoso, per un insegnante di filosofia, di lettere, di storia informarsi bene sulla legislazione italiana che vieta l’eutanasia, o leggere con attenzione le cronache delle ultime ore di chi ha imboccato la strada per la Svizzera, comprenderne le ragioni, valutarne gli eventuali torti, formarsi insomma un’opinione per fronteggiare le domande dei ragazzi e aprire una discussione non ideologica, concreta, basata sui fatti e non sulle voci riportate da altri. Ma la scuola può davvero limitarsi ad affrontare solo l’aoristo del greco, Manzoni, Ovidio nelle ore di latino? Non abbandonare il campo - I ragazzi, lo abbiamo visto in mille occasioni, non cercano altro che interlocutori capaci di ascoltarli, di comprendere il loro punto di vista e le loro ansie. In queste ore non si fa che parlare dei temi legati al fine vita, al diritto di andarsene dignitosamente evitando sofferenze tanto atroci quanto inutili. Sono tematiche che stanno attraversando tutta la società, dai frequentatori dei bar al legislatore, chiamato a comprendere l’urgenza di nuove regole. Se la scuola continuasse a far finta di niente, ad abbandonare il campo dello scambio di idee e di esperienze, rischierebbe di perdere definitivamente un appuntamento essenziale: quello con la contemporaneità, col mondo in cui si vive. Proprio come ci ha lasciato detto Saramago. Grazie ai Radicali il tema del fine vita è tornato centrale: ora non lasciateci soli di Filomena Gallo* e Antonella Soldo** Il Dubbio, 2 marzo 2017 Dj Fabo era uno che riempiva le piste e che con la sua musica riusciva a far ballare tutti. Oggi la sua storia riempie i giornali, i social, i notiziari e persino i talk show. Oltre che le discussioni private dei cittadini italiani. La prima notizia, dunque, sembrerebbe essere proprio questa: il fatto di aver imposto al dibattito pubblico un tema spesso tacciato come superflua rivendicazione - per così dire - piccolo borghese o come ennesima provocazione radicale. E non è una notizia da poco, visto che dal settembre del 2013 - quando dopo mesi di mobilitazione nelle piazze di molte città italiane, come Associazione Luca Coscioni e Radicali italiani depositammo al Parlamento una proposta di legge di iniziativa popolare con le firme di 66mila cittadini - questo tema è rimasto inchiodato al disinteresse più totale. Tanto che quella proposta di legge non ha trovato alcuna accoglienza da parte dei parlamentari a cui era rivolta, e non ha trovato spazio sui media, se non qualche trafiletto ogni tanto qua e là. Quello dell’eutanasia è stato, infatti, uno degli argomenti più trascurati dall’informazione. Ancora una volta, è stato il corpo di un uomo, il suo dolore e le sue speranze, a forzare resistenze e indifferenze, ad aprire spazi che non sembravano disponibili. E come spesso accade nelle battaglie radicali è stata necessaria una disobbedienza civile - quella di Marco Cappato che si autodenuncia per l’aiuto prestato a Fabo - per mettere questo tema al centro del dibattito, assumendosi la responsabilità e il rischio di un processo il cui esito potrebbe portarlo ad una condanna molto grave. Ma quelle della nonviolenza sono, per i radicali, "le armi delle situazioni impossibili", come le definiva Mariateresa Di Lascia, storica dirigente. Ovvero gli strumenti da mettere in campo quando ogni altra via appare impraticabile, quando sembra non rimangano più speranze, e quando l’individuo non ha altro che il proprio corpo per resiste- re. È allora che questo corpo ostaggio di un potere cinico si fa strumento di lotta. A lui è affidata una prova di responsabilità totale, che consiste nel darsi completamente senza cedere alcun frammento di sé, sapendo di avere davanti un fine non barattabile se non con il raggiungimento del fine stesso. È questo il senso profondo degli atti nonviolenti come lo sciopero della fame o come l’autodenuncia, e la sua irriducibile differenza, ad esempio, rispetto alle grandi manifestazioni di massa. In altre parole, l’elemento politico della nonviolenza ha bisogno dell’individuo tutto intero che non può scindersi, che è, in una parola, responsabile. Il corpo di Fabiano Antoniani, dunque, così come il corpo di Piergiorgio Welby. La passione per la musica dell’uno, così come quella per la poesia e la pittura dell’altro. La voglia di vivere di entrambi. "Caro Presidente io amo la vita, vita è la donna che ti ama", scriveva Welby al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Valeria come Mina. Tutte e due hanno dovuto esporsi all’accusa di abbandono dei propri uomini ("se fosse circondato d’amore non vorrebbe morire"). Tutte e due hanno dovuto mostrare l’intimità dei propri affetti, della camera da letto, delle lenzuola (Il Corriere della Sera scriveva alcuni giorni fa: "Fabo con la testa su un cuscino a righe bianche e rosse"). "Morire mi fa orrore - scriveva ancora Welby - purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita: è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche". Napolitano, commosso, rispose a quel messaggio poco dopo averlo ricevuto, richiamando il Parlamento alle proprie responsabilità. Un analogo appello dj Fabo l’ha rivolto al presidente Sergio Mattarella: purtroppo è morto senza ricevere da questi e dal resto delle Istituzioni italiane alcun cenno. Una risposta robusta l’hanno data, invece, i cittadini che in questi giorni si sono emozionati, e commossi, hanno sentito quest’uomo sofferente e coraggioso, anche solo per un momento, vicino. Si tratta ora di non far tornare il buio e l’indifferenza su questo tema insieme all’oblio su questa vicenda. A questi cittadini perciò ora chiediamo di non lasciarci soli come radicali a sostenere questa battaglia, e se necessario di tornare in piazza con noi a chiedere al Parlamento di fare la propria parte. *Segretario Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica **Presidente di Radicali italiani Piccoli migranti, super tutela. Divieto di respingimento e diritto a salute e istruzione di Eden Uboldi Italia Oggi, 2 marzo 2017 Lo prevede il disegno di legge approvato dal Senato che passa ora alla Camera. Divieto di respingimento per i minori non accompagnati, ai quali devono essere assicurati i diritti alla salute e all’istruzione. Lo prevede il ddl sulle misure per la protezione e la tutela dei minori stranieri non accompagnati, approvato ieri dal senato e che ora torna alla camera. Al testo del provvedimento, licenziato ieri con 170 voti favorevoli, 50 contrari e 8 astenuti, sono state apportate solo poche modifiche, in merito alle coperture richieste dal ministero dell’economia, ma ha mantenuto gli stessi contenuti votati dalla camera. Le disposizioni, che si applicano sia ai soggetti di minore età non accompagnati cittadini di paesi dell’unione Europea che a quelli extracomunitari, offrono varie tutele agli oltre 7 mila ragazzi che ogni anno arrivano in Italia, senza adulti di riferimento. L’art. 2 sancisce il divieto di respingimento, aggiungendo un comma 1-bis all’articolo 19 del dlgs 286/1998 che nega il riaccompagnamento del minore alla frontiera, "salvo che non sia disposto nel loro superiore interesse il riaffidamento" alla famiglia d’origine. Oltre ad offrire un corredo di servizi di prima assistenza e accoglienza al momento dell’arrivo nel territorio italiano, il disegno di legge afferma il diritto alla salute all’art. 15, il diritto all’istruzione all’art. 16 e il diritto all’assistenza legale all’art. 18. Particolare attenzione è rivolta a due categorie: le vittime di tratta e i minori richiedenti protezione internazionale. Mentre i primi beneficeranno di un programma di assistenza ad hoc, "che assicuri adeguate condizioni di accoglienza e di assistenza psicosociale, sanitaria e legale, prevedendo soluzioni di lungo periodo, anche oltre il compimento della maggiore età", come stabilisce l’art 19, primo comma, modificando l’art. 13 della legge 228/2003, per i secondi verrà istituito una specializzata d’ascolto presso ogni Commissione territoriale ai sensi dell’art. 20. Il ddl, oltre ad accorciare i tempi di permanenza dei minori nei centri di prima accoglienza, va a predilire l’istituto dell’affidamento famigliare rispetto al ricovero in una struttura, tanto da promuovere la creazione di un elenco di possibili affi datari. "La clandestinità costringe questi minori a condizioni oscure, li consegna nelle mani delle organizzazioni criminali, li costringere a vivere di espedienti, li espone all’abuso e allo sfruttamento. Le politiche restrittive sui migranti creano le condizioni per nuove forme di emarginazione e rabbia e abbiamo già visto dove portano politiche così miopi ed egoiste. Questa legge, al contrario, prevede un percorso organico di tutela dei minori non accompagnati", ha spiegato il senatore Roberto Cociancich, uno dei parlamentari promotori del disegno di legge. Migranti. A Milano il questore controcorrente: "più accoglienza significa più sicurezza" di Salvatore Garzillo Libero, 2 marzo 2017 "Maggiore accoglienza significa maggiore sicurezza". Si presenta con queste parole il nuovo questore di Milano, Marcello Cardona, con lo spirito dell’inclusione che gli deriva dall’esperienza dell’emergenza migranti e in particolare al Cara di Mineo. Un approccio che dovrà fare i conti con la dura campagna politica contro "l’accoglienza a tutti i costi" che proprio a Milano trova il suo terreno di scontro più aspro. "Produrre sicurezza non significa che dobbiamo blindare le città o che dobbiamo blindare i quartieri - ha detto Cardona durante il suo primo incontro ufficiale con i giornalisti. Produrre sicurezza credo che intanto sia un dovere istituzionale, ma produrre sicurezza anche per gli stranieri che hanno il diritto di avere loro sicurezza. Dobbiamo far sì che anche attraverso la sicurezza si trovi un punto di incontro tra religioni, costumi e modi di essere. Non è detto che bisogna vedere le cose sempre in senso negativo". Mentre pronuncia queste frasi Cardona allarga le braccia, come se involontariamente volesse mimare un abbraccio. Il nuovo questore è uomo diretto, conosce bene la stampa (è giornalista pubblicista) e gli effetti che possono avere le sue dichiarazioni pubbliche. Ma è soprattutto un poliziotto orgoglioso del "sistema Italia" e della gestione dei migranti. Nonostante le critiche. Cardona è nato a Milano da genitori calabresi, ha iniziato la sua carriera a Sondrio 25 anni fa. Oggi ne ha 61, è sposato e ha due figlie nate sotto la Madonnina. A Milano è arrivato nel 1982 per lavorare nella Criminalpol. Ne11996 è stato trasferito a Roma e da li la carriera lo ha portato a ricoprire importati ruoli fino a diventare questore di Varese, Livorno e Catania. "Ciò non toglie - sottolinea Cardona - che i problemi del terrorismo ci sono, sono importanti, il nostro territorio è stato investito in modo fortunatamente positivo". Cardona si riferisce all’uccisione del terrorista Anis Amri a Sesto San Giovanni, un successo a livello internazionale seppure totalmente casuale. "Il quadro della sicurezza a Milano è estremamente soddisfacente facendo un paragone con le altre grandi città italiane e con le capitali europee. C’è una attività preventiva importante come hanno dimostrato l’organizzazione di Expo, l’episodio dell’attentatore di Berlino e come confermano le statistiche con i reati in calo del 5%. Credo che anche attraverso una accoglienza organizzata e ben fatta il livello di sicurezza può aumentare in modo incredibile". Turchia. Appello all’opinione pubblica dai detenuti a Sakran retekurdistan.it, 2 marzo 2017 Yusuf Aydin, che è stato sottoposto a tortura nel carcere di Sakran Prison, ha inviato un messaggio attraverso la sua famiglia e ha affermato: "Cosa succede dopo? Io no so se potremo utilizzare il nostro diritto di visita e di chiamata, ma voi dovete essere preoccupati e schierarvi con noi. Sto facendo urgentemente facendo appello all’opinione pubblica ad essere sensibile". Lo sciopero della fame è avviato da 18 detenuti nel carcere di Aliaga Sakran il 15 febbraio contro le violazioni dei diritti nel carcere continua. Negli ultimi giorni 40-50 guardie hanno provocato i detenuti nel carcere chiuso n° 4 di tipo T con la scusa che i detenuti non si erano tolti le scarpe.. Yusuf Aydin, che era rimasto ferito durante l’attacco e sottoposto a tortura, ha fatto appello all’opinione pubblica. Ha detto quello che ha dovuto affrontare sua figlia Melisa Aydin. Le torture continuano - Affermando che suo padre è stato in carcere negli ultimi 24 anni, Melisa ha dichiarato: "Mio padre mi ha detto che stavano bene per adesso, ma che la tortura continuava in carcere. Io non so se successivamente sarà positivo. Era chiaro erano entrati nel reparto con l’intento di picchiarci. Hanno cominciato a picchiarci utilizzando qualche avvenimento come una scusa. Abbiamo risposto all’attacco gridando, "la dignità umana supererà la tortura". Hanno portato me e diversi amici nella stanza con le spugnature. Hanno spezzato le gambe a Yilmaz Suncak e hanno cercato di rompere il mio naso. Voi dovreste essere preoccupati - Melisa ha affermato che suo padre gli ha detto: " Cosa accadrà dopo? Io no so se potremo utilizzare il nostro diritto di visita e di chiamata, ma voi dovete essere preoccupati e schierarvi con noi. Sto facendo urgentemente facendo appello all’opinione pubblica ad essere sensibile." Melissa ha anche detto:" Sebbene ha cercato farci vedere che stava bene, come la sua famiglia sappiamo che c’è qualcosa che non va.Noi saremo con lui. Mio padre è ammalato e non gli è stato consentito di essere curato, e soprattutto è stato torturato. C’è qualcosa da fare allo scopo di impedire tutto questo. Prima di tutto essere la loro voce, secondo è il Ministero della Giustizia. Ma il Ministero della Giustizia sostiene l’ingiustizia invece della giustizia". Norvegia. Corte d’Appello: in carcere Breivik non è trattato in modo disumano di Andrea Tarquini La Repubblica, 2 marzo 2017 Accolto il ricorso dello Stato contro la sentenza di primo grado che lo aveva condannato per violazione dei diritti umani a causa dell’isolamento carcerario dello stragista di Utoya. Questa volta Anders Behring Breivik non ha avuto soddisfazione. Al processo d’appello il terrorista dichiaratamente neonazista - autore delle stragi del 2011 nel centro di Oslo e poi nella vicina isola di Utoya - ha perso la causa da lui intentata contro lo Stato norvegese per "condizioni di detenzione disumane". Egli non si rassegna, ha detto il suo legale, avvocato Oystein Storrvik: presenterà ricorso davanti alla Corte suprema del regno, e se necessario anche alla Corte di giustizia europea. Ma oggi, con la sentenza emessa poco dopo le 11 dalla corte d’appello della capitale, egli ha incassato una sconfitta. Nel lungo documento, 55 fitte pagine, i giudici hanno infatti dichiarato che l’estremo isolamento in cui Breivik è detenuto nel carcere di massima sicurezza di Skien è dovuto al fatto che secondo giustizia, polizia, psicologi, egli è considerato tuttora un criminale estremamente pericoloso. E d’altra parte, ha notato Fredrik Sejersted, il Procuratore generale che rappresentava lo Stato nel dibattimento, "egli è trattato da detenuto Vip". Dispone infatti di un locale di detenzione di tre stanze: camera da letto, spazio per leggere e lavorare con angolo cucina, spazio per esercizi fisici. Gli sono negati sia l’accesso a internet sia contatti con altre persone. Con persone in libertà, perché più volte egli ha tentato da prigioniero di stabilire contatti con esponenti dell’estrema destra violenta in tutto il mondo. E con gli altri detenuti, non pochi dei quali hanno manifestato desiderio di ucciderlo, disgustati dal suo atroce crimine. Accadde nel luglio 2011. Travestito da poliziotto, armato fino ai denti, Breivik dapprima attaccò con ordigni esplosivi il palazzo del governo di Oslo, uccidendo otto persone. Poi in gommone raggiunse la vicina isola di Utoya, dove l’organizzazione giovanile del partito laburista (socialdemocratici, allora al governo) celebrava la sua festa d’estate. "Radunatevi tutti nello spazio principale, sono un agente speciale, devo avvertirvi d’un pericolo d’attentato", disse. Poi, quando tutti i giovani si riunirono, cominciò a ucciderli a uno a uno. Con un fucile a pompa, una pistola mitragliatrice e con l’automatica. Con la quale a non poche delle vittime dette il colpo di grazia alla nuca. Poi prese il cellulare e chiamò la polizia: "Sono il comandante Breivik, missione compiuta, venitemi a prendere", disse come in lucido delirio. U una strage che scosse il mondo intero, e traumatizzò le pacifiche società scandinave, più dell’assassinio decenni prima (crimine mai risolto) del mitico premier socialdemocratico svedese Olof Palme, ‘il Kennedy del Grande Nord’. Al processo in prima istanza si dichiarò ‘adoratore di Odino e difensore della razza bianca e cristiana contro la società multiculturale e la minaccia islamicà. Nell’agosto 2012 fu condannato a 21 anni di reclusione, prolungabili a tempo indeterminato se la giustizia giudicherà che egli resta e resterà un pericolo pubblico. Anno dopo anno, non solo non ha mai espresso alcun pentimento. Le sue posizioni sono diventate sempre più radicali. Ora si dichiara nazista, a ogni apparizione in aula s’irrigidisce nel saluto hitleriano. La sua corrispondenza è controllata, ed egli giunse persino a scrivere lettere d’amore a Beate Zschaepe, la neonazista tedesca leader e unica sopravvissuta del gruppo ultrà tedesco-orientale Nsu (Nationalsozialistische Untergrundsorganisation), responsabile dell’assassinio di dieci stranieri e di una poliziotta. "Le condizioni di detenzione distruggono la mia psiche", si era lamentato Breivik appellandosi all’articolo 8 della Convenzione che garantisce il diritto alla vita privata. In prima istanza, al processo svoltosi nell’aprile 2016, il tribunale gli dette ragione. Ma lo Stato non volle arrendersi e presentò appello. La sfida di Breivik continua: egli è deciso a ulteriori appelli, con l’obiettivo dichiarato di richiamare attenzione su di sé, ritenendosi esempio ed eroe per i neonazisti i razzisti e gli islamofobi di tutto il mondo. Ma oggi parenti e amici dei giovani massacrati a Utoya hanno avuto soddisfazione dai giudici. "Oggi penso a tutte le sue povere vittime, io che li guidavo e sopravvissi per caso alla strage", ha dichiarato Eskil Pedersen, allora leader della gioventù laburista, "e lo Stato ha fatto bene a presentare appello. Mostra che la democrazia è giusta ma anche forte, non si arrende agli assassini che sfruttano slealmente le sue leggi". L’avvocato difensore di Breivik insiste: "Attenti, il suo stato di salute mentale non mi sembra davvero buono". Irlanda. L’Italia fa scuola: la sigaretta elettronica anche nelle carceri di Barbara Mennitti sigmagazine.it, 2 marzo 2017 L’Irlanda si appresta a seguire le orme dell’Italia e del Regno Unito. La sigaretta elettronica potrà essere utilizzata anche all’interno delle strutture detentive a tutela di detenuti, guardie carcerarie e personale amministrativo. Dopo gli inglesi, i gallesi e gli italiani, potrebbero essere gli irlandesi i prossimi detenuti a poter utilizzare la sigaretta elettronica nelle carceri. La questione è stata sollevata in tribunale da un avvocato difensore: al suo assistito era stato consigliato di smettere di fumare per motivi di salute, ma non era possibile inviargli una e-cig in carcere per "problemi di approvvigionamento". E se smettere di fumare senza aiuto è già difficile in condizioni normali, lo è ancora di più nella restrizione di un carcere. Ma sembra che anche per gli irlandesi si tratti solo di una questione di tempo. Un portavoce dell’Irish Prison Service (il corrispettivo del nostro Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), sentito dal quotidiano The Journal, ha infatti dichiarato che l’introduzione delle sigarette elettroniche negli istituti penitenziari dell’isola è parte di una nuova politica sul fumo di prossima approvazione. L’Irlanda si appresta dunque a seguire le orme dell’Italia e del Regno Unito, dove dopo un progetto pilota condotto in Galles e in tre carceri inglesi, la vendita dell’e-cig è stata ammessa più di un anno fa in tutti gli istituti penitenziari del Regno. Al tempo si parlò di un vero e proprio boom, visto che in soli quattro mesi i detenuti avevano acquistato ben 16mila 600 sigarette elettroniche e nel solo mese di dicembre 2015 erano stati venduti 40mila pacchetti di sigarette in meno. Probabilmente il successo è destinato a ripetersi anche in Irlanda, dove i divieti di fumo sono ancora più stringenti di quelli che vigevano nel Regno Unito. Ai detenuti irlandesi è infatti proibito fumare, anche se l’autorità può accordare il permesso di farlo. Anche in quel caso, però, la possibilità rimane ristretta a determinate aree, come la cella del carcerato e gli ambienti all’aperto. Dall’Irish Prison Service fanno sapere che al momento stanno "testando lo strumento dal punto di vista della sicurezza". "Le sigarette elettroniche - spiega il portavoce - saranno disponibili su base molto ristretta nel negozio interno e non sarà possibile che i detenuti le ricevano da qualcuno all’esterno. Si tratterà di uno strumento approvato con capsule approvate". Una misura che va a favore della salute di detenuti e di tutto il personale carcerario. Ma non solo. Nel 2014 il New York Times riportava che, nelle carceri di quegli Stati americani dove era vietato fumare ma era consentita l’e-cig, si registrava una diminuzione degli atti violenti e delle risse. La sigaretta elettronica serviva a calmare gli animi.