I detenuti potranno usare Skype? Orlando: "la possibilità non riguarderà i capi mafia" di Giampiero Calapà Il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2017 Allarme sulla riforma penale firmata da Orlando, che replica: "Non riguarderà i capi mafia". L’allarme questa volta è lanciato dall’associazione "Vittime del dovere": "Il governo sta rischiando di legalizzare l’evoluzione tecnologica dei pizzini per i boss della mafia: si passerà presto a Skype". Il riferimento è al disegno di legge, di iniziativa governativa, approdato alla Camera dei deputati dopo il passaggio al Senato del 15 marzo scorso. La parte che "preoccupa" è l’articolo 85 alla lettera i: "Fermo restando quanto previsto dall’articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, nell’esercizio della delega di cui al comma 82, i decreti legislativi recanti modifiche all’ordinamento penitenziario, per i profili di seguito indicati, sono adottati nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: (...) disciplina dell’utilizzo dei collegamenti audiovisivi sia a fini processuali, con modalità che garantiscano il rispetto del diritto di difesa, sia per favorire relazioni familiari". Quindi ci sarà la possibilità anche per i detenuti al 41-bis di parlare con i familiari in video-conferenza? Oggi la legge 354 del 1975 prevede: "Colloqui nel numero di uno al mese da svolgersi a intervalli di tempo regolari e in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti. Sono vietati i colloqui con persone diverse dai familiari e conviventi, salvo casi eccezionali determinati volta per volta dal direttore dell’istituto (...). I colloqui vengono sottoposti a controllo auditivo e a registrazione (...); solo per coloro che non effettuano colloqui può essere autorizzato (...), solo dopo i primi sei mesi di applicazione, un colloquio telefonico mensile con i familiari e conviventi della durata massima di dieci minuti sottoposto, comunque, a registrazione. I colloqui sono comunque videoregistrati". Il nuovo disegno di legge sembrerebbe lasciare aperte diverse possibili interpretazioni sull’applicazione di collegamenti audiovisivi "per favorire relazioni familiari". Emanuela Piantadosi, presidente dell’associazione "Vittime del dovere" - familiari di giudici, agenti e carabinieri deceduti o feriti durante lo svolgimento del proprio lavoro, mette in guardia: "Così come è formulata la norma non escluderebbe la possibilità ai soggetti sottoposti al 41-bis di poter usufruire di collegamenti audiovisivi e peggio ancora a quanti si trovano in regime di Alta sicurezza, nemmeno citati. La nostra associazione lo scorso luglio si era già espressa sulle parole del sottosegretario Gennaro Migliore rispetto alla rigidità del 41-bis. Con estrema sorpresa i lavori che prospettano l’utilizzo di strumenti audiovisivi da parte di soggetti condannati per mafia sono proseguiti incessantemente per oltre un anno e siamo alle battute finali, senza che si sia posta debita attenzione alle conseguenze, perché tutte le restrizioni previste dal 41-bis hanno lo scopo di impedire i contatti e i collegamenti con l’associazione criminale di appartenenza". Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, interpellato dal Fatto, ha assicurato: "È una questione che approfondiremo". Dai suoi uffici, in seguito, sono arrivate rassicurazioni: "Si tratta di una delega, la legge è ancora tutta da scrivere, chiaramente la possibilità d’introduzione di strumenti audiovisivi, Skype compreso, non potrà riguardare i detenuti al 41bis". Interviene anche Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’associazione familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili (cinque morti e quaranta feriti nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1993 a Firenze): "Ringraziamo il guardasigilli Andrea Orlando per le rassicurazioni, ma con tutta la buona volontà del mondo non riusciamo a tranquillizzarci per il fatto che siano previsti da quella norma strumenti tecnologici audiovisivi "per favorire le relazioni familiari". Cosa Nostra ha utilizzato quasi mille chili di tritolo nel 1993 per arrivare "a favorire le relazioni familiari" ai detenuti al 41bis, oggi lo sta per ottenere e solo questo conta per le famiglie mafiose". E ancora: "Come abbiamo detto in commissione Antimafia non ci fermeremo davanti a quello che consideriamo un attacco terroristico al 41bis in atto in queste ore". I grillini vogliono congelare la legge su toghe e politica di Errico Novi Il Dubbio, 29 marzo 2017 Emendamento per rinviarne l’entrata in vigore. Con le modifiche proposte i limiti alla candidabilità dei giudici non si applicherebbero alle prossime politiche. Il sospetto che il movimento fosse pronto a un’infornata di pm. Tutte e due, a volerle leggere con malizia, fanno pensare a una volontà di schierare un discreto numero di magistrati nelle liste per le prossime elezioni. E a voler fare ricorso alle toghe magari per altri incarichi, come quelli di governo o di assessore comunale. Si tratta di due emendamenti che neutralizzerebbero in tutto o in parte gli effetti della legge, almeno nell’immediato. La prima, infatti, posticiperebbe l’entrata in vigore delle nuove norme a 6 mesi dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Una clausola davvero singolare: vorrebbe dire rendere inefficaci, per le prossime elezioni, i paletti previsti dal testo. L’altra modifica "pesante" preparata dai Cinque Stelle in vista dell’esame di oggi pomeriggio punta a eliminare una norma introdotta proprio dalla commissione Giustizia di Montecitorio e che non ricorreva nella versione approvata a Palazzo Madama: il limite, previsto all’articolo 1 del provvedimento, per quei giudici (o pm) già usciti dai ranghi della magistratura. Un filtro per chi è in pensione o si è dimesso. Il testo approvato nei giorni scorsi in commissione prescrive che anche in questi casi non si possa essere candidati nello stesso territorio in cui si è prestato servizio negli ultimi 5 anni. Il terzo comma dell’articolo 1 infatti esclude sì il vincolo territoriale per gli ex giudici, ma a condizione che abbiano "cessato di appartenere ai rispettivi ordini giudiziari da almeno due anni". A Palazzo Madama quell’ "almeno due anni" non c’era: erano dunque del tutto esclusi i limiti di candidabilità per chiunque fosse andato in pensione o si fosse dimesso anche pochi mesi prima. Ebbene, il Movimento Cinque Stelle vuole ripristinare la versione licenziata dal Senato tre anni fa. Propone appunto che i limiti territoriali di candidabilità scompaiano per tutti i magistrati già pensionati e per tutti quelli che si sono dimessi: resterebbe solo il vincolo dell’aspettativa da chiedere almeno 6 mesi prima dell’inserimento in lista. Difficile escludere che il partito di Grillo voglia lasciarsi la possibilità di schierare alle Politiche qualche ex toga magari incattivita col Pd per non aver ottenuto la proroga del trattenimento in servizio. Va poi considerato che i limiti di riguarderebbero un’ampia schiera di soggetti: candidati all’Europarlamento, alla Camera e al Senato, ma anche nelle assise locali o alle cariche di sindaco o presidente di Regione. Paletti estesi anche a chi dovesse essere indicato come assessore comunale. E qui entra in gioco una certa tendenza degli ultimi anni ad affidare la carica di assessore alla Legalità, per esempio, a magistrati nel pieno della loro carriera. Il caso più eclatante è quello di Sabella a Roma, altri ce ne sono stati e altri probabilmente i Cinque Stelle si preparavano a crearne. Ma se passasse la legge votata in commissione Giustizia e ora arrivata nell’Aula di Montecitorio, non potrebbero più farlo. Ma è il primo dei due emendamenti, naturalmente, che taglierebbe la testa al toro: entrata in vigore dell’intera proposta di legge posticipata di ben 6 mesi. Una richiesta di modifica che ha del clamoroso. Qui i sospetti si allargano: il Movimento parrebbe davvero intenzionato a riempire le liste con magistrati tuttora in attività. Certo trovarne in numero così alto che siano disposti a scendere in campo sarebbe difficile. Ma intanto è chiaro che la proposta dei Cinque Stelle avrebbe un effetto chiarissimo: far entrare in vigore la legge solo dopo le prossime elezioni. Il calcolo è semplice: entro questa settimana l’Aula della Camera potrebbe anche licenziare il testo, ma poi bisognerebbe attendere l’estate, o addirittura il rientro dalle vacanze, perché il Senato ci possa rimetterci le mani. In coda, nella commissione Giustizia di Palazzo Madama, ci sono già la riforma del processo civile e quella del diritto fallimentare, solo per restare nel campo della giustizia. Basterebbe lasciar passare giugno e i giochi sarebbero chiusi: legge valida ma a partire da aprile 2018. A quel punto qualche pm di grande notorietà potrebbe essere schierato come indipendente nelle liste di Grillo senza neppure correre il rischio di doversi ricollocare, a fine mandato, al di fuori del distretto in cui oggi svolge le funzioni. Con l’approvazione a scoppio ritardato, ovviamente, resterebbero per il momento inefficaci anche le altre misure della proposta di legge, quelle che vanno dall’articolo 5 all’articolo 9, e che regolano appunto il "ricollocamento in ruolo". Oltre ai limiti "geografici" ci sono tra l’altro quelli relativi al vincolo di esercitare solo funzioni collegiali o all’impossibilità di assumere incarichi direttivi. Un bello stop alla carriera dei magistrati col pallino della politica. I Cinque Stelle vogliono congelare tutto. Temono, evidentemente, che il loro sogno di una società fondata sulla giustizia penale finirebbe per restare irrealizzato ancora un bel po’. Intervista all’On. Pietro Ichino: "Basta col protagonismo di alcuni pm" di Giulia Merlo Il Dubbio, 29 marzo 2017 Parla Pietro Ichino, il senatore che ha votato contro la decadenza di Minzolini. "Scelta molto sofferta ma consapevole". E sul rapporto tra giustizia e politica dà ragione a Luciano Violante: "La politica rischia di perdere il proprio primato, ma ha le sue responsabilità". "Di fronte al caso particolarissimo di un giudicato penale di condanna contraddetto da un giudicato civile e da uno amministrativo entrambi di piena assoluzione, ho ritenuto mio dovere applicare l’articolo 66 della Costituzione votando contro la decadenza". Il senatore Pietro Ichino, nonostante le polemiche non rinnega la scelta di aver votato a favore di Minzolini. Spiega la sua scelta. E affronta i nodi del difficile rapporto tra toghe e politica, che il caso dell’ex direttore del Tg1 ha comunque messo in evidenza. Professor Ichino, il 16 marzo scorso lei ha votato in Senato contro la decadenza di Minzolini. Al netto delle polemiche di queste settimane, conferma la sua valutazione? Ho spiegato in due interventi su Repubblica i motivi di quella mia scelta, molto sofferta. E compiuta con la piena consapevolezza dell’impopolarità a cui sarei andato incontro; ma quella di cacciare un membro del Parlamento per indegnità è una scelta che non può essere dettata dai comuni criteri politici, e tanto meno dal "furor di popolo". Di fronte al caso particolarissimo di un giudicato penale di condanna contraddetto da un giudicato civile e da uno amministrativo entrambi di piena assoluzione, ho ritenuto mio dovere applicare l’articolo 66 della Costituzione votando contro la decadenza. Non credo di essere andato contro lo spirito del decreto Severino, e neanche contro la sua lettera: proprio perché esso richiama espressamente l’articolo 66 della Costituzione. Il caso Minzolini, tuttavia, ha riportato al centro del dibattito politico i rapporti sempre più tesi tra politica e giustizia. Come spiega questo cortocircuito? Le tensioni tra politica e giustizia ci sono da molto tempo. In questa vicenda, però, non mi è parso che siano queste le tensioni più aspre che si sono manifestate. Ho molto apprezzato il silenzio, su questa vicenda, del presidente dell’Anm; e anche nelle mailing-list dei magistrati, per la parte dei messaggi circolati di cui ho avuto conoscenza attraverso alcuni amici giudici, ho letto solo commenti molto misurati ed equilibrati. Sono state assai più aspre le tensioni interne alla politica, e addirittura interne al partito democratico. La politica ha qualche responsabilità nelle tensioni con la giustizia? La politica ha la grande responsabilità di non sapersi quasi mai accorgere delle malversazioni, dove ci sono, prima che vengano scoperte dalla magistratura. Inoltre ha la responsabilità più specifica di non aver saputo regolare in modo appropriato il passaggio dalla magistratura inquirente e giudicante a una carica elettiva politica e il passaggio inverso. La presenza nel collegio che ha condannato Augusto Minzolini di un magistrato che era stato per dodici anni parlamentare dello schieramento opposto era una anomalia che avrebbe dovuto essere evitata. Ma anche una parte della magistratura ha le sue responsabilità. Quali? Le scelte di qualche Procuratore della Repubblica, come quella che portò alla richiesta di autorizzazione all’arresto del senatore Azzollini, che per fortuna il Senato respinse, o quella che portò alle dimissioni della ministra Guidi, per poi svanire come neve al sole, fanno pensare più a smania di protagonismo politico che a un esercizio meditato dell’iniziativa giudiziaria penale. In un recente intervento, Violante ha parlato di "una politica che rischia di perdere il suo primato" e del "codice penale diventato la Magna Charta dell’etica pubblica". Condivide questo timore? Sì, questo è un rischio reale. Ieri il senatore Minzolini ha presentato le proprie dimissioni, che aveva annunciato indipendentemente dall’esito del voto sulla decadenza. Accetterà le sue dimissioni? Vede, questo sì sarà un voto nel quale, a differenza del voto sulla decadenza, sarà giusto che pesino le considerazioni politiche. Qui proprio la considerazione di tutti i risvolti politici della vicenda mi inducono ad apprezzare la scelta del senatore Minzolini e a propendere per l’accoglimento delle sue dimissioni. A margine, non posso non chiederle un ultimo commento: da giuslavorista, che giudizio si sente di dare sulle ultime dichiarazioni del ministro del Lavoro Poletti: "Meglio giocare a calcetto che inviare curriculum"? A me sembra che il ministro Poletti, forse in un modo non felicissimo, abbia detto una cosa giusta; ma abbia sbagliato a non aggiungerne un’altra. La cosa giusta è che l’invio del curriculum, quando non sia in risposta alla ricerca specifica da parte di un’impresa, serve a pochissimo: i fiumi di curricula che arrivano alle aziende e agli studi professionali contengono notizie troppo parziali e per lo più pochissimo rilevanti, omettendone molte che sono invece importantissime per produrre un ingaggio, e che per lo più non possono stare in quel pezzo di carta. È verissimo che oggi in Italia, molto più del curriculum contano le relazioni amicali, parentali e professionali. E invece che cosa, secondo lei, il ministro non ha detto e avrebbe dovuto dire? Che questo modo di funzionare del nostro mercato del lavoro è una vergogna. Nei Paesi civili, i figli delle famiglie che non hanno accesso alle reti parentali, amicali o professionali utili per trovare il lavoro hanno a disposizione servizi di orientamento scolastico e professionale capaci di fornire loro l’assistenza indispensabile per compiere le scelte più importanti per il loro futuro professionale. E più in generale tutti i disoccupati, e anche chiunque intenda cambiare occupazione, in quei Paesi, hanno a disposizione servizi capaci di fornire assistenza efficace nel mercato del lavoro. Su questo terreno l’Italia è in grave ritardo. Per colpa di chi? Con la riforma del 2015 abbiamo compiuto le scelte legislative giuste: cooperazione su questo terreno tra operatori pubblici e privati, possibilità per il disoccupato di scegliere l’operatore che preferisce, disponibilità dell’assegno di ricollocazione per remunerare congruamente il buon risultato dell’assistenza. Ma questi strumenti incominciano a funzionare solo oggi, con un anno e mezzo di ritardo rispetto all’entrata in vigore della riforma e due o tre decenni di ritardo rispetto agli altri Paesi europei maggiori. Un po’ di colpa, certo, la ha anche il ministro attuale; ma i decenni di ritardo non possono, evidentemente, essere addebitati principalmente a lui. L’ex procuratore di Taranto, Franco Sebastio, e la deriva dei magistrati in politica di Luca Mastrantonio Corriere della Sera, 29 marzo 2017 L’ex procuratore di Taranto si candida mentre è ancora in corso il processo sui disastri ambientali dell’Ilva. La candidatura a sindaco di Taranto dell’ex procuratore della Repubblica Franco Sebastio è un caso emblematico dei possibili danni collaterali dell’entrata in politica di un magistrato. Sebastio (classe 1942) ha meritoriamente dedicato gran parte della sua vita all’inchiesta sui disastri ambientali imputati all’Ilva di Taranto, città nella quale ha deciso, da neopensionato, di candidarsi con una lista civica, "Muta vento", che presenterà domenica prossima; per ora ha l’appoggio di Rifondazione comunista (per la gioia dei fan dell’espressione "toghe rosse"). Ma Sebastio si candida - prima ombra - mentre alla Camera arriva un testo che vuole regolare i travasi dalla magistratura alla politica, impedendo a un magistrato di candidarsi nella circoscrizione di competenza degli ultimi cinque anni, a meno che non sia un ex magistrato da due anni. Sebastio, incurante di questo scenario, si candida nella zona dove ha lavorato fino al dicembre 2015: quando cioè è andato in pensione, controvoglia, con tanto di ricorso, poi abbandonato, al Tar: e allora - seconda ombra - la politica è una seconda scelta? O il proseguimento con altre armi della battaglia giudiziaria? Terza ombra, cruciale: la sua candidatura rafforza l’inchiesta o le argomentazioni dei detrattori? Se lo chiedete a chi la sta portando avanti, forse vi dirà che un faro politico del genere danneggia il processo, che ora è in Corte d’assise, con decine di imputati e una sfilza di testimoni e parti lese che inizieranno a sfilare a campagna elettorale iniziata: tra questi, Vincenzo Fornaro, ex allevatore che ha patito le conseguenze dell’inquinamento, e si candida con la lista ambientalista "Taranto respira", a frammentare il fronte ambientalista-legalitario che rischia di non arrivare neanche al ballottaggio. Morale della favola? Potrebbe essere molto triste: in caso di flop, la candidatura di Sebastio avrebbe solo prodotto delle ombre gratuite su un processo delicato, che lui per primo non dovrebbe voler danneggiare. Il Csm processa il giudice "armato" Angelo Mascolo, che rischia il trasferimento Di Gloria Bertasi Corriere del Veneto, 29 marzo 2017 "Non capisco e mi difenderò". Tosi chiede al ministro di non punirlo. Ieri il Csm ha aperto un fascicolo per incompatibilità ambientale contro il giudice "armato" Angelo Mascolo. "Mi difenderò", ha subito detto il magistrato nel ricevere la notizia della provvedimento della Prima commissione del Csm. La commissione disciplinare potrebbe aprire un secondo fascicolo contro il collega che ha affermato che lo Stato ha abdicato al suo ruolo. Angelo Mascolo a rischio trasferimento. Dopo trentanove anni a Treviso, il giudice "armato" potrebbe dover fare le valigie. Ieri la Prima commissione del Consiglio superiore della magistratura ha infatti aperto un fascicolo per "incompatibilità ambientale" contro il giudice che, dopo una disavventura in auto, ha annunciato, con un lettera ad un quotidiano locale, che d’ora in poi girerà armato perché "lo Stato ha abdicato al suo ruolo". Alla vista della lettera, l’Associazione nazionale magistrati del Veneto ha preso le distanze dal collega auspicando l’intervento del collegio dei probiviri e un provvedimento contro il magistrato che non avrebbe rispettato il codice di sobrietà tradizionalmente imposto ai giudici. Tutti si aspettavano un’azione della Commissione disciplinare, che probabilmente si muoverà nelle prossime settimane e rimarrà segreta fino a conclusione dell’iter come prevedono le norme. Invece, ieri, a sorpresa, si è mossa la Prima commissione del Csm e se a fine procedimento Mascolo sarà ritenuto incompatibile con la sezione penale del tribunale di Treviso sarà trasferito in un’altra sede. Il giudice, che ha sempre risposto serenamente alle polemiche questa volta ha perso un po’ il sorriso. "Trattandosi di legittima difesa, non posso che dire che mi difenderò", dice Mascolo con un tono che non sembra quello di sempre. Segno che qualche preoccupazione c’è, anche se ripete con fermezza: "Non sono pentito di aver scritto quella lettera, nella quale non ho detto niente di straordinario: è tutto quello che è stato costruito su quella lettera che ha creato problemi, perché mi sono state attribuite dichiarazioni che non ho mai fatto". Quando la Prima commissione del Csm apre un fascicolo per incompatibilità ambientale, l’accusato ha diritto a venti giorni di tempo per preparare la propria difesa e a presentare un memoriale in cui dà la sua versione dei fatti. Ed è quello che farà Mascolo. Il procedimento per incompatibilità ambientale deve riguardare situazioni specifiche del territorio e proprio per questo, secondo indiscrezioni, potrebbe chiudersi con un nulla di fatto come è successo ad ottobre a Luigi Bobbio, ex senatore di An e ex sindaco, tornato in tribunale a Nocera Inferiore (Napoli) dopo anni in politica: ha apostrofato con parole pesanti i colleghi di Torre Annunziata ma la richiesta di trasferimento è stata archiviato perché le sue critiche non riguardavano processi di sua giurisdizione. Mascolo, nella sua lettera, non parla di processi trevigiani ma condanna lo Stato per aver abbandonato i propri cittadini con il rischio che questi, di fronte ai pericoli e ai problemi della vita quotidiana, si facciano giustizia da soli. Il giudice non solo non si pente della lettera ma nemmeno ci vede i motivi di un possibile trasloco. "Non riesco a capire quale sia l’incompatibilità ambientale - sottolinea. Le cose che ho detto qui valgono anche altrove e non ho detto nulla di straordinario. Quello che mi hanno attribuito dopo è altra storia e questo mi rammarica. Ma non sono pentito e mi difenderò quando capirò quali sono le contestazioni che mi vengono mosse". Quello di ieri è il secondo provvedimento in pochi mesi ai danni del giudice di Treviso: la scorsa estate era stato aperto un fascicolo in commissione disciplinare perché, dopo aver disposto la scarcerazione di due finanzieri e di un imprenditori accusati di corruzione, ha commentato: "I finanziari nell’accettare due orologi sono stati imprudenti, erano "regalini", non corruzione". Ora Mascolo dovrà rispondere di queste parole e della lettera contro cui si è schierata tutta la magistratura e che ha fatto conoscere il giudice in tutto il Paese: le sue parole, "girerò armato", hanno travalicato i confini del Veneto. In difesa di Mascolo si sono schierati solo il segretario della Lega Nord Matteo Salvini e il presidente del Veneto Luca Zaia. E da ieri anche il sindaco di Verona Flavio Tosi. In un cinguettio su Twitter, Tosi si è rivolto al ministro della Giustizia Andrea Orlando: "Ministro difenda la libertà d’opinione della toga non rossa Mascolo, si occupi di pm politicizzati che indagano innocenti". Immediata la replica di Orlando, "Non ho preso alcuna iniziativa contro il giudice di Treviso". Delitto di Garlasco, archiviata l’inchiesta su Andrea Sempio Corriere della Sera, 29 marzo 2017 Il giovane era stato indagato per l’omicidio di Chiara Poggi. Il gip di Pavia ha depositato il provvedimento, accogliendo l’istanza del procuratore aggiunto e del pm. La difesa di Stasi: "Avanzeremo comunque istanza di revisione". Il gip di Pavia Fabio Lambertucci ha archiviato l’inchiesta su Andrea Sempio, il giovane finito indagato per l’omicidio di Chiara Poggi in seguito al deposito al pg di Milano di indagini genetiche commissionate dai legali di Alberto Stasi, l’ex fidanzato della giovane che sta scontando una condanna definitiva a 16 anni di carcere. Il giudice di Pavia con un provvedimento depositato martedì ha accolto l’istanza del procuratore aggiunto Mario Venditti e del pm Giulia Pezzino. i quali hanno "categoricamente escluso" ogni responsabilità in capo a Sempio, amico del fratello di Chiara e ai tempi del delitto poco più che diciottenne. Il gip nel provvedimento con cui ha archiviato l’indagine su Sempio ha concluso sottolineando l’"inconsistenza degli sforzi profusi dalla difesa Stasi e tendente a rinvenire un diverso, alternativo colpevole dell’uccisione di Chiara Poggi". I difensori di Andrea Sempio si riservano a questo punto di avviare "ogni migliore azione a tutela dell’onorabilità" del loro assistito. Gli avvocati Massimo Lovati, Federico Soldani e Simone Grassi, in una nota, esprimono "soddisfazione" per il provvedimento di archiviazione e la "nostra più viva solidarietà, quella di Andrea e della sua famiglia ai congiunti di Chiara". Sempio, ora 29enne, frequentava casa Poggi perché amico di Marco, il fratello minore di Chiara. "Nessuna corrispondenza del Dna" - "In definitiva, rileggendo criticamente l’elaborato allegato all’esposto, la conclusione che pare di poter trarre è che non vi è alcuna corrispondenza fra il materiale genetico rinvenuto sui reperti ungueali di Chiara Poggi ed il dna di Sempio". Il procuratore aggiunto Mario Venditti e il pm Giulia Pezzino hanno comunque ribadito che "il materiale genetico estratto dai reperti ungueali della vittima non è idoneo ad effettuare nessun confronto, poiché i risultati emersi dalle tre estrazioni di Dna nelle tre prove effettuate dal perito", nel corso del secondo processo d’appello a carico di Stasi, "sono divergenti ed incostanti, quindi del tutto inaffidabili". La famiglia Poggi - "I familiari di Chiara desiderano rinnovare l’apprezzamento e la gratitudine per i tanti magistrati che hanno consentito di accertare con il loro lavoro, lontano da qualsiasi vetrina mediatica, la sicura responsabilità di Alberto Stasi, superando i pericolosi ostacoli che si erano impropriamente frapposti alla doverosa ricerca della verità". È quanto scrivono in una nota gli avvocati Gian Luigi Tizzoni e Francesco Compagna a nome dei familiari di Chiara Poggi, la giovane assassinata a Garlasco nel 2007 per il cui omicidio Stasi sta scontando 16 anni di carcere. "La famiglia Poggi - si legge ancora nella nota - prende atto del puntuale approfondimento investigativo svolto dalla Procura di Pavia, la quale ha categoricamente escluso la prospettata responsabilità di Andrea Sempio nell’omicidio di Chiara Poggi. Non spetta alle vittime valutare se le accuse incautamente rivolte a una persona innocente nell’esclusivo interesse del condannato siano state o meno legittime ma l’augurio della famiglia Poggi è che tutto questo non abbia davvero più a ripetersi". I difensori di Stasi - L’archiviazione di Andrea Sempio non rappresenta comunque l’epilogo dell’intricata vicenda giudiziaria sul delitto di Garlasco. I legali di Alberto Stasi, infatti, hanno confermato che intendono presentare un’istanza di revisione del processo concluso con la condanna a 16 anni dell’ex studente bocconiano alla Corte d’Appello di Brescia nelle prossime settimane. Un’istanza che non è preclusa dalla decisione del giudice pavese di archiviare, su richiesta della Procura, la posizione di Sempio e che sarà basata su nuove indagini difensive condotte dal pool di legali di Stasi, tra i quali gli avvocati Fabio Giarda e Giada Bocellari. L’indagine bis - L’indagine bis era nata da un esposto firmato dalla madre di Alberto Stasi, Elisabetta Ligabò, e depositato lo scorso 20 dicembre alla Procura Generale di Milano. In tale esposto, alla luce di investigazioni difensive affidate ad una società privata "venivano segnalati indizi di colpevolezza", come riporta la richiesta di archiviazione della Procura pavese, a carico di una persona diversa da Alberto Stasi. Secondo l’esito di alcuni accertamenti genetici disposti dai difensori dell’ex studente bocconiano, il Dna estrapolato dalle unghie di Chiara sarebbe stato compatibile con quello del ragazzo, amico del fratello della vittima. Subito dopo aver ricevuto l’esposto il pg aveva trasmesso gli atti per competenza a Pavia e anche alla Corte d’Appello di Brescia, "evidentemente con riferimento a una eventuale revisione della sentenza" - della quale però "non formulava alcuna istanza" - di condanna definitiva di Stasi. Lo scorso 24 gennaio la Corte d’Appello di Brescia, senza esprimere alcuna valutazione, aveva dichiarato il "non luogo a procedere", data la mancanza di specifiche richieste. Reati finanziari Ue: sì alla Procura europea "rafforzata" di Beda Romano Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2017 Oltre metà dei paesi membri dell’Unione ha deciso ieri a Bruxelles di lanciarsi in una cooperazione rafforzata per creare l’attesa figura di procuratore europeo il cui compito sarà di perseguire i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. Per ora, il governo Gentiloni ha preferito non aderire a questa iniziativa perché considera che il compromesso raggiunto tra i paesi membri non è sufficientemente ambizioso. "Abbiamo compiuto un importante progresso - ha detto ieri in conferenza stampa il ministro della Giustizia maltese Owen Bonnici che ha presieduto una riunione ministeriale. Poiché sul progetto della Commissione europea non è stato possibile trovare l’unanimità, un gruppo di paesi ha deciso di perseguire la cooperazione rafforzata". Ora, l’obiettivo è di concludere il negoziato entro giugno, ben sapendo che sarà poi necessaria l’approvazione del Parlamento europeo. Come detto dal ministro Bonnici, la decisione di perseguire la cooperazione rafforzata in questo ambito è giunta perché i paesi membri non sono riusciti a trovare un accordo all’unanimità. Riuniti all’inizio del mese, i capi di Stato e di governo avevano deciso di consentire la cooperazione rafforzata, che prevede un minimo di nove paesi. Secondo il dibattito di ieri tra i ministri della Giustizia, 16 paesi dovrebbero partecipare alla nuova iniziativa. Tra questi, Francia, Germania e Spagna. "Il Lussemburgo ha preso la leadership del gruppo e ha dato ai paesi fino a venerdì per firmare la lettera di notifica in vista di una cooperazione rafforzata", ha detto ieri un funzionario del Consiglio. "Alcuni governi hanno avvertito che potrebbero non aver concluso la loro procedura nazionale entro la fine della settimana, ma ci sarà comunque la possibilità di aderire anche successivamente". Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha detto di sperare che durante il prossimo negoziato vengano riaperti i punti che hanno indotto l’Italia a non aderire: gli strumenti, la struttura e la competenza. "La proposta che è stata avanzata, e che forse poteva giustificarsi nella ricerca dell’unanimità, diventa ridicola nel passaggio della cooperazione rafforzata" (si veda l’intervento del ministro sul Sole 24 Ore di ieri). L’Italia è tra i paesi dove sono più frequenti i casi di frode ai danni del bilancio europeo nel quale viene riversata parte dell’imposta sul valore aggiunto. "Prendiamo atto che l’ambizione è limitata - ha aggiunto il ministro Orlando in un punto stampa alla fine della riunione ministeriale di ieri qui a Bruxelles. Però non possiamo neanche accettare che alla fine si faccia la cooperazione rafforzata sulla base del testo che in qualche modo si era costruito per tener conto di paesi che poi si sono tirati fuori (…). Avevo detto che la montagna avrebbe partorito un topolino, ma a questo punto è una formica". I ministri dei Paesi che vogliono perseguire la cooperazione rafforzata hanno tendenzialmente approvato il testo di compromesso raggiunto nei mesi scorsi, ma alcuni di loro hanno presentato proposte di emendamento. "Sarà sempre possibile per un governo non contento del testo finale sfilarsi dalla cooperazione rafforzata", ha precisato il funzionario comunitario. Tra i nodi che hanno complicato il negoziato, il valore oltre il quale un caso sospetto è attribuito automaticamente al procuratore europeo. Extracomunitari, "protezione umanitaria" anche per il sospettato di gravi reati di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2017 Corte d’Appello di Campobasso - Sentenza 11 gennaio 2017 n. 7. La "protezione sussidiaria" non può essere riconosciuta se ci sono fondati motivi per ritenere che lo straniero abbia commesso, al di fuori del territorio nazionale, un reato grave. Tuttavia, proprio l’alto rischio che egli finisca in carcere nel paese d’origine, dove non sono rispettati i diritti dei detenuti e viene praticata la tortura, può condurre al riconoscimento della "protezione umanitaria", che si caratterizza per essere una misura temporanea ritagliata sulle condizioni specifiche del richiedente. Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Campobasso, con la sentenza 11 gennaio 2017 n. 7, accogliendo il ricorso di un cittadino del Gambia. L’extracomunitario aveva raccontato alla Commissione territoriale di Salerno, sezione Campobasso, di essere nato a Numi Village (Gambia), di essere celibe, di religione musulmana, di etnia sérère, di non avere mai svolto attività politica, di essere affetto da epatite B; di essersi allontanato dal suo paese, nel 2014, per paura che la polizia potesse cercarlo perché, in occasione di un litigio, aveva lanciato una bottiglia di vetro contro un compagno di squadra del fratello causandogli lesioni permanenti al capo. Si era diretto dapprima in Senegal, poi in Mali, in Burkina Faso e in Niger, per giungere infine in Libia, dove aveva trovato impiego presso un autolavaggio. Un giorno, mentre si recava a lavoro, era stato fatto prigioniero dai ribelli ed era rimasto per due mesi in carcere fino a quando il suo datore di lavoro aveva pagato quanto richiesto. A quel punto, su suo consiglio, si era imbarcato per Lampedusa, non sapendo inizialmente che tale località si trovasse in Italia. La Commissione però bocciò la richiesta di protezione internazionale. E così anche il Tribunale. Da qui il ricorso in appello. Per il giudice di secondo grado l’impugnazione è infondata quanto alla richiesta di riconoscimento della protezione sussidiaria. Spiega la sentenza: pur risultando il racconto credibile, ricorre la specifica ipotesi di esclusione prevista dall’art. 16, co. 1, lett. b) del Dlgs n. 251/2007, vale a dire la sussistenza di "fondati motivi per ritenere che lo straniero abbia commesso, al di fuori del territorio nazionale, prima di esservi ammesso in qualità di richiedente, un reato grave. La gravità del reato è valutata anche tenendo conto della pena, non inferiore nel minimo a quattro anni o nel massimo a dieci anni, prevista dalla legge italiana per il reato". E, sulla scorta della stessa narrazione del richiedente - il quale ha riferito che il ragazzo perdeva sangue dalla testa, era stato portato in ospedale e in seguito aveva manifestato problemi mentali - "può ritenersi che egli si sia reso responsabile del reato di lesioni gravissime, sanzionato dall’art. 583 c.p.". L’appello merita invece accoglimento, prosegue la sentenza, quanto alla domanda di protezione umanitaria (ex art. 5, co. 6, Dlgs n. 286/1998). Per essa, infatti, "non opera l’esclusione prevista per le altre misure di protezione", in quanto "rappresenta una misura residuale e temporanea, incentrata sulla situazione individuale del richiedente". Nel caso specifico, prosegue il Collegio, al suo rientro in Gambia, il ricorrente "sarebbe con tutta probabilità sottoposto a regime detentivo". E dalle informazioni desumibili dai rapporti di internazionali emerge che le carceri "sono caratterizzate da carenti condizioni igieniche, malattie, mancanza di assistenza medica, sovraffollamento, caldo estremo e malnutrizione". Inoltre, secondo un rapporto Onu la tortura è "prevalente e abituale" nel paese. A ciò va aggiunto che l’epatite b impone uno specifico programma di cure che sarebbe difficilmente possibile nel suo paese. In definitiva, conclude la sentenza, "ferma restando l’esclusione della riconoscibilità della protezione sussidiaria, il descritto rischio per il richiedente in caso di suo rientro in patria comporta dunque la ricorrenza delle condizioni per la concessione del permesso di soggiorno temporaneo per motivi umanitari". Per il pubblico ufficiale decisivo il riconoscimento di poteri autoritativi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2017 Corte di cassazione, Sesta sezione penale, sentenza 28 marzo 2017 n. 15482. Il pubblico ufficiale è dotato di poteri deliberativi, autoritativi e certificativi; l’incaricato di pubblico servizio non ha poteri nonostante l’attività sia comunque riferibile alla sfera pubblica. Dopo la trasformazione dell’ente pubblico in società per azioni, i soggetti inseriti nella struttura organizzativa e lavorativa di una società per azioni possono essere considerati pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio quando l’attività della società stessa è disciplinata da una normativa pubblicistica e ha finalità pubbliche, anche se vi punta con strumenti privatistici. A puntualizzarlo è la Corte di cassazione con la sentenza n. 15482 della sesta sezione penale depositata ieri. La pronuncia ha annullato il verdetto di condanna dell’ex amministratore delegato di una società di gestione di tratti autostradali. Secondo l’accusa, che contestava il reato di corruzione, in cambio di somme di denaro, il manager avrebbe favorito alcune imprese per ottenere appalti e consulenza con la società di gestione. Le tangenti sarebbero state calcolate in percentuale sull’importo dei lavori e delle consulenze affidate. Tra i motivi del ricorso aveva trovato posto anche la contestazione della qualifica pubblicistica che sia in primo grado sia in appello era stata riconosciuta all’amministratore delegato. La sentenza si sofferma sugli articoli 357 e 358 del Codice penale, chiarendo che le qualifiche di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio sono collegate alle attività effettivamente svolte, "che possono definirsi come pubblica funzione amministrativa o come pubblico servizio non per il legame tra il soggetto e un ente pubblico, ma per la disciplina pubblicistica che regola l’attività, nonché per i contenuti giuridici pubblici che la connotano, che, per quanto riguarda il servizio pubblico sono quantitativamente inferiori rispetto a quelli della funzione pubblica), tali comunque da escludere dalla categoria i soggetti che svolgono semplici mansioni d’ordine ovvero che prestino un’opera meramente materiale". In particolare, con riferimento alla qualità di incaricato di pubblico servizio, l’articolo 358 del Codice penale attribuisce la qualifica a tutti coloro che, a qualsiasi titolo, prestano un pubblico servizio, indipendentemente da un rapporto di dipendenza con la pubblica amministrazione. Lo stesso articolo si preoccupa poi di fornire la definizione di pubblico servizio, da intendere come attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione ma senza i suoi poteri tipici. La giurisprudenza, ricorda la Cassazione, ha provato nel tempo a individuare indicatori del carattere pubblicistico dell’attività svolta, mettendo al centro, di volta in volta, la soggezione a controlli pubblici, il perseguimento di finalità pubbliche, l’impiego di denaro pubblico. Escluse comunque la forma giuridica dell’ente e la sua costituzione secondo il diritto pubblico. Va così riconosciuta la qualifica di incaricato di pubblico servizio anche al dipendente di una società privata che esercita un servizio pubblico. Come pure ci sono state sentenze penali che hanno inserito nel perimetro dell’incaricato di servizio pubblico anche il dipendente di enti privatizzati, riconoscendo che la trasformazione in società per azioni non cancella le caratteristiche originarie dell’attività svolta. Quanto al caso specifico, la Cassazione da una parte esclude, come invece avevano fatto i giudici di merito, la qualifica di pubblico ufficiale per l’amministratore delegato, visto che la società concessionaria non svolge una pubblica funzione, e, dall’altra, gli riconosce quella di incaricato di servizio pubblico visto che le condotte contestate si inseriscono proprio nell’ambito di quelle di affidamento di lavori a società esterne e rappresentano condotte esplicative del servizio pubblico prestato. Circonvenzione di incapace: contratto nullo perché in contrasto con una norma imperativa Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2017 Circonvenzione di incapace - Stipulazione di contratto - Violazione di norma imperativa - Nullità del contratto. Il contratto stipulato per effetto diretto della consumazione di un reato, come nella fattispecie di circonvenzione d’incapace ex art. 643 c.p., deve essere dichiarato nullo ai sensi dell’articolo 1418 c.c., per contrasto con norma imperativa, giacché va ravvisata una violazione di disposizioni di ordine pubblico in ragione delle esigenze di interesse collettivo sottese alla tutela penale, trascendenti quelle di mera salvaguardia patrimoniale dei singoli contraenti perseguite dalla disciplina sulla annullabilità dei contratti. • Cassazione civile, sezione II, sentenza 20 marzo 2017 n. 7081. Vendita - Nullità del contratto - Circonvenzione di incapace - Norma imperativa - Tutela di ordine pubblico - Bene protetto - Libertà di autodeterminazione dell’incapace. Secondo i giudici la legge penale nel delitto di circonvenzione (art. 643 c.p.) tutela non il patrimonio dell’incapace ma la libertà di autodeterminazione dello stesso in ordine agli interessi patrimoniali: ossia l’interesse alla libertà negoziale dei soggetti deboli e svantaggiati e pertanto tale tutela fondandosi su ragioni di ordine pubblico determina, alla stregua dell’art. 1418 c.c., la nullità del contratto derivato dal delitto in questione perché in contrasto con norma imperativa. La peculiarità della fattispecie penale non è nello stato di incapacità (o deficienza) in cui versa la vittima, ma è nella induzione e nell’abuso che si materializzano nell’approfittamento che il reo consuma ai danni della vittima incapace; questo approfittamento si traduce in una forma particolarmente grave di abuso contrattuale, lesiva dell’altrui libertà negoziale quale valore fondamentale riconosciuto dall’ordinamento. • Cassazione civile, sezione III, sentenza 20 aprile 2016 n. 7785. Compravendita immobiliare - Decesso della venditrice - Impugnazione dell’atto notarile - Circonvenzione di incapace - Nullità del contratto - Incapacità naturale - Annullabilità del contratto - Differenze. Nell’incriminazione per il reato di circonvenzione d’incapace, prevista dall’articolo 643 c.p., l’accertamento della situazione soggettiva di deficienza o infermità psichica è indissolubilmente legato a quello riguardante l’induzione a compiere l’atto, per cui non è necessario un sostanziale azzeramento della capacità cognitivo-intellettiva e di quella volitiva ma è sufficiente che l’autore dell’atto versi in una situazione soggettiva di "fragilità’" psichica: il suddetto reato è lesivo, non in forma statica ma dinamica, del libero esercizio dell’autodeterminazione nella cura dei propri interessi e nella conseguente corretta e affidabile circolazione dei beni. Nella fattispecie, invece, prevista dall’art. 428 c.c. (atti compiuti da persona incapace di intendere o di volere), che prevede l’annullabilità degli atti, sottolineano i giudici, è richiesto uno stato patologico psichico che non consente né di comprendere sul piano intellettivo e cognitivo la natura e gli effetti dell’atto che si compie né d’impegnare liberamente la volontà personale: dal punto di vista dei requisiti del soggetto agente in condizione di minorità psichica la norma non richiede alcun altro accertamento. Il "grave pregiudizio" costituisce un requisito obiettivo e del tutto autonomo rispetto alla condizione dell’autore. Allo stesso modo opera la malafede dell’altro contraente, per integrare la quale non è affatto richiesto di concorrere nella realizzazione della condizione d’incapacità soggettiva dell’altro autore dell’atto, essendo sufficiente essere a conoscenza di tale condizione. • Cassazione civile, sezione I civile, sentenza 19 maggio 2016 n. 10329. Circonvenzione di incapace - Contratto concluso per effetto diretto della consumazione di un reato - Conseguenze - Nullità. Nei casi in cui la stipulazione di un negozio giuridico costituisca effetto diretto della consumazione di un reato, ravvisandosi una violazione di norme di ordine pubblico, in ragione delle esigenze d’interesse collettivo sottese alla tutela penale, trascendenti quelle di mera salvaguardia dell’integrità patrimoniale dei singoli contraenti perseguite dalla disciplina civilistica in tema di annullabilità dei contratti (art. 428 c.c.), l’atto deve essere dichiarato radicalmente nullo, ai sensi dell’art. 1418 c.c. per contrasto con norme imperative. Non c’è sempre coincidenza tra le condotte riconducibili all’art. 643 c.p. e quelle previste dalla normativa civilistica in materia di incapacità naturale (art. 428 c.c.) e vizi della volontà, ben potendosi configurare in concreto ipotesi di negozi conclusi dall’incapace, che non sia stato tuttavia vittima di atti di circonvenzione, nel senso richiesto dalla norma penale, da parte dell’altro contraente, così come la rilevanza del dolo, ai fini dell’annullabilità del contratto, non richiede necessariamente uno stato di menomazione psichica nel soggetto passivo, essendo a tal fine sufficiente che i raggiri posti in essere dal deceptor abbiano indotto, mediante un rappresentazione alterata della realtà, il deceptus a stipulare un negozio che, in assenza degli stessi, non avrebbe concluso. La presenza di un quid pluris nelle ipotesi riconducibili all’art. 643 c.p, costituito dal particolare grado d’intensità del dolo posto in essere dal soggetto attivo e dalla, altrettanto particolare, condizione del soggetto passivo, costituisce le ragioni per le quali il legislatore ha ritenuto di ricorrere alla tutela penale del contraente più debole in siffatti casi, così formulando una scelta che non può che rispondere a esigenze di pubblico interesse, che si riflettono, sul piano civilistico, connotando di imperatività il divieto di compiere tali atti. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 7 febbraio 2008 n. 2860. Veneto: contro il sovraffollamento delle carceri cresce la "messa alla prova" di Alessia Ciccotti csvnet.it, 29 marzo 2017 I Csv di Padova e Verona segnalano un forte aumento tra il 2012 e il 2016 delle persone che scelgono di avvalersi dei lavori di pubblica utilità per evitare il carcere o la multa. Coinvolte quasi 500 persone in più di 100 organizzazioni di volontariato. Nei giorni in cui l’Italia torna a registrare il drammatico sovraffollamento delle carceri, arrivano anche segnali positivi dalla cosiddetta "giustizia riparativa". È in forte crescita, infatti, il sistema della messa alla prova, prevista (legge 67/2014) per le persone che hanno commesso reati di minor allarme sociale puniti con pena non superiore a 4 anni (o con la sola pena edittale pecuniaria), per i condannati per guida in stato di ebbrezza o sotto effetto di sostanze stupefacenti, e per i tossicodipendenti condannati per un reato di "lieve entità" in materia di stupefacenti. Tutti soggetti che, grazie appunto alla messa alla prova, possono evitare il carcere o il pagamento di una multa con lavori di pubblica utilità. In molti contesti questo incremento è dovuto al mondo del volontariato che, grazie anche all’azione dei Centri di Servizio, sta accogliendo migliaia di persone impegnate nelle attività quotidiane delle associazioni o in progetti specifici. In Veneto l’adesione a progetti di giustizia riparativa negli ultimi anni è aumentata molto rapidamente. Il CSV di Padova, ad esempio, segnala che dal 2012 al 2016 ha coinvolto complessivamente 240 persone, che hanno svolto un totale di 75.780 ore di volontariato. Le associazioni che hanno accolto le persone che si sono avvalse di questa opportunità sono state 50 e i servizi realizzati sono stati vari: dal doposcuola, alle attività ricreative con i bambini e con gli anziani, dai laboratori creativi, teatrali, musicali, di cucina con persone disabili, al riordino di spazi comuni e alla pulizia del verde e delle aree pubbliche. Nello specifico l’azione del CSV rientra nell’ambito delle convenzioni stipulate nel 2012 con l’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe), nel 2014 con il Comune di Padova e nel 2016 con il tribunale di Padova. Il CSV di Verona il tribunale della città collaborano dal 2011. All’inizio sono stati 11 gli enti accoglienti per un totale di 14 posti messi a disposizione. Ma anche qui si è registrato negli anni successivi un vero e proprio boom di richieste. Nel 2016, gli enti che hanno deciso di accogliere persone sono stati 53, tra cui 34 organizzazioni di volontariato, 2 cooperative, 15 enti non profit, una fondazione e un’impresa sociale. Un dato più che raddoppiato rispetto al 2015. Le persone che nel 2016 hanno iniziato la propria attività sono state quasi 200. Le ore di servizio svolte da gennaio a dicembre hanno sfiorato quota 12mila (11.443). Tanti gli ambiti del terzo settore in cui si sono attivate: dal socio-sanitario e assistenziale alla tutela dell’ambiente, dal culturale e ambientale alla protezione civile e alla cooperazione internazionale. Tra le attività realizzate: supporto a disabili e anziani, servizi di manutenzione, giardinaggio, pulizie e mensa, trasporto di anziani e disabili, lavoro di segreteria, aggiornamento sito web, inserimento dati su supporti informatici, laboratori creativi e manuali. Per molte persone, svolgere lavori di pubblica utilità non è solo un’opportunità per evitare il carcere, ma diventa soprattutto un’occasione di rilancio. "È stata un’esperienza formativa che mi ha lasciato molto più di quanto avrebbe lasciato una semplice pena inflitta, anche solo pecuniaria - racconta Gianfranco, che ha lavorato in un’associazione di volontariato che offre servizi di accoglienza e ascolto per donne sole o vittime di violenza - In associazione, ho svolto più che altro lavori di piccola manutenzione della struttura ma ho comunque avuto la preziosa possibilità di capire concretamente le problematiche sociali, conoscere le realtà di volontariato che si fanno carico di dare risposte adeguate ai bisogni sociali. Decisamente più utile dello scontare e subire una pena in modo passivo". Napoli: Bernardini "Poggioreale e Secondigliano? Un disastro, come la giustizia italiana" di Mario Liguori vocedinapoli.it, 29 marzo 2017 La riforma per una giustizia giusta, i numeri che dimostrano come sia al collasso il nostro stato di diritto, la necessità di un provvedimento di amnistia per "far uscire dallo stato d’illegalità" la Repubblica Italiana, la prossima marcia di Pasqua, il salvataggio del Partito Radicale e il ricordo di Marco Pannella. Rita Bernardini, in questa intervista esclusiva a Vocedinapoli.it, ha raccontato tutto questo, come sempre, senza peli sulla lingua e senza risparmiare aspre critiche all’attuale sistema partitocratico La tipica radicale, quella che non molla mai. Il volto e il corpo costantemente messi alla prova da quelle lotte non violente proprie del metodo radicale. Lo sciopero della fame, tecnica di protesta da sempre incarnata dal leader Marco Pannella, non ha però impedito a Rita Bernardini di proseguire la sua battaglia, nell’ultimo anno più dura ed estenuante del solito. Infatti la coordinatrice della Presidenza del Partito Radicale, da una parte continua a sostenere insieme ai suoi compagni le proposte politiche volte a dare una svolta al sistema giuridico e penitenziario italiano. Dall’altra la Bernardini conduce, insieme agli altri iscritti della famiglia "Pannelliana", una corsa contro il tempo che ha l’obiettivo più grande: la salvezza del partito. Infatti per i radicali, da un lato ci sono la difesa e l’affermazione dello stato di diritto (attraverso il conseguimento di una riforma strutturale della giustizia che sia preceduta da un provvedimento di amnistia), dall’altro incombe su di loro "l’incubo" dei 3.000 iscritti da raggiungere entro il 31 dicembre 2017, altrimenti (così come stabilito dalla mozione del 40° Congresso Straordinario del Partito che si è svolto a settembre scorso presso il carcere di Rebibbia) il Partito Radicale chiuderà, lasciando incompiuti i sogni libertari tanto voluti da Pannella. Il governo afferma di aver fatto grandi passi avanti sul sovraffollamento delle carceri, tuttavia hai fatto un mese di sciopero della fame. Perché? Lo sciopero della fame l’ho fatto per chiedere al Governo di stralciare la delega sull’Ordinamento penitenziario dal resto del disegno di legge sul penale. Non sono stata ascoltata, il Ministro Andrea Orlando non ha accettato - e mi dispiace - il mio agire con la nonviolenza per tentare un dialogo nel momento in cui si mettono in gioco diritti umani inviolabili. Ha voluto, invece, portare a casa l’intero disegno di legge per di più utilizzando l’abusatissimo "voto di fiducia" su un maxi-emendamento da lui presentato stroncando così ogni forma di dibattito parlamentare. Ora si ritrova con l’Unione delle Camere Penali che giustamente sciopera ad oltranza considerato che il ddl compromette irrimediabilmente il diritto di difesa e che, anziché porre rimedio all’irragionevole durata dei processi, legalizza la scostumata lentezza delle cause penali aumentando i termini di prescrizione dei reati. Siamo alla follia. Hai incontrato il ministro Andrea Orlando sulla questione dei suicidi in carcere e in generale sullo stato di salute del sistema penitenziario. Ci sono segnali incoraggianti per una possibile riforma o per lo stralcio di quella che sarà presentata in Parlamento? Come dicevo, lo "stralcio", che come Partito Radicale abbiamo proposto fin dalla conclusione del Giubileo dei carcerati, non è stato accettato. Quanto alla riforma dell’ordinamento penitenziario contenuta nel ddl, lotteremo perché nell’esercizio della delega il Governo non vanifichi il buon lavoro prodotto dai 18 tavoli degli Stati generali dell’esecuzione penale, voluti proprio dal Ministro della Giustizia. Credi che i tempi per una riforma strutturale della giustizia siano maturi? Quanto dovremmo ancora aspettare? Io credo che siano maturi fin dalla metà degli anni ottanta (Referendum Tortora). Quel che il sistema politico italiano non ha visto nei decenni passati e ancora non vede è che rinunciando ai principi cardine dello Stato di diritto e quindi della democrazia sta portando il Paese alle soglie del baratro. Persino la separazione dei poteri è sempre più compromessa. Che notizie hai sulle condizioni in cui versano il carcere di Poggioreale e di Secondigliano? Per quanto i direttori e gli altri operatori penitenziari spesso tentino di fare del loro meglio, in generale, gli istituti penitenziari non svolgono minimamente la funzione che giustifica la loro esistenza: rieducare e risocializzare i detenuti. A Poggioreale, abbiamo di nuovo superato abbondantemente i duemila reclusi (2.026 per l’esattezza, ndr, dai dati del Ministero di Grazia e Giustizia) rispetto ai 1.644 regolamentari (ndr, fonte: Ministero di Grazia e Giustizia) mentre a Secondigliano viaggiamo su gli oltre 1.300 (nello specifico sono 1.331, ndr, dai dati del Ministero di Grazia e Giustizia) su una capienza prevista di 898 posti (ndr, fonte: Ministero di Grazia e Giustizia). Pene alternative? Se ne parla molto, ma se ne danno molto poche. Così come le percentuali dei detenuti in attesa di giudizio sono da capogiro: a Secondigliano, siamo oltre il 60% quando la media nazionale - già altissima - è al 35% (considerando che circa il 40% di essi sarà poi dichiarato innocente)! Come è andata a finire la storia in merito alla tua candidatura a Garante dei Detenuti dell’Abruzzo? È una storia talmente misera dal punto di vista istituzionale, che provo vergogna per l’insipienza della classe politica regionale abruzzese. Se non vi fidate del mio giudizio guardate i filmati delle sedute del Consiglio regionale abruzzese che da oltre due anni ha all’ordine del giorno l’elezione della figura di garanzia per le persone private della libertà. Da tempo immemorabile dico loro di scartare il mio nome e di dare un garante dei detenuti all’Abruzzo, ma loro niente, se ne fottono semplicemente perché non hanno il senso delle istituzioni. Spiegheresti ai nostri lettori cosa vorrebbe dire un provvedimento di amnistia per il nostro paese? Serve per far ripartire la giustizia e, abbinata all’indulto, per rendere le carceri italiane conformi al dettato costituzionale. La nostra giustizia penale è letteralmente sommersa dai procedimenti penali pendenti tanto che i tribunali non riescono a farvi fronte. L’immagine realista è quella del magistrato sopraffatto dai fascicoli molti dei quali vecchissimi. La legge gli impone di celebrarli tutti (obbligatorietà dell’azione penale), ma lui sa benissimo che non può farcela e così decide lui quali e quanti di quei procedimenti far cadere in prescrizione. Ricordate quando Pannella diceva "l’amnistia strisciante delle prescrizioni"? Ecco quella scelta - tutta politica e da uniformare sul territorio nazionale - competerebbe al Parlamento secondo l’art. 79 della Costituzione. Lo stesso vale per l’indulto che, a differenza dell’amnistia che cancella il reato e che ha sempre riguardato reati non gravi, cancella l’ultimo periodo di detenzione. Ricordo, per fare un esempio che riguarda l’indulto, che quasi 8.000 detenuti sono in carcere per scontare una pena residua interiore all’anno e altri 7.500 hanno una pena residua da 1 a due anni. Che senso ha tenerli nelle "criminogene" (definizione del ministro Orlando) e sovraffollate prigioni italiane? Voglio dire che i nostri padri costituenti hanno previsto l’amnistia e l’indulto per consentire alla politica attraverso il Parlamento di "governare" i momenti in cui la giustizia penale e le carceri sono sopraffatte da numeri esorbitanti e ingestibili. La "politica" si è "quasi" privata di quei due strumenti costituzionali prevedendo, per concederli, una maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale. Accadde dopo "mani pulite": autocastrazione per senso di colpa, la definirei. Noi puntiamo su quel "quasi", perché vogliamo una Repubblica capace di uscire dalla sua perenne illegalità che comporta la violazione di diritti umani fondamentali anche e soprattutto delle vittime dei reati che non riescono ad ottenere giustizia e risarcimenti in un tempo ragionevole. Insomma, quando un’arteria umana è intasata dal grasso, occorre intervenire per rimuoverlo, altrimenti il sangue non scorre e si muore. Ecco, alla nostra giustizia moribonda occorre un’angioplastica. A Pasqua è prevista un’altra marcia a Roma con destinazione Piazza San Pietro. Quali sono gli obiettivi di questa nuova iniziativa visto il successo di quella di novembre scorso? Amnistia, indulto, riforma organica della giustizia… Anche stavolta andiamo da Papa Francesco perché insieme a Marco Pannella ha avuto il coraggio di esortare la politica ad assumersi le sue responsabilità sdoganando parole e proposizioni in Italia impronunciabili come amnistia, clemenza e abolizione dell’ergastolo e del carcere duro. Andiamo in Piazza San Pietro perché il Papa, il 1° gennaio di quest’anno, ha parlato della nonviolenza (senza trattino!) come "stile di una politica per la pace". Lo hanno ascoltato i detenuti che con noi hanno digiunato in oltre 20.000. Rispetto alla mozione approvata a Rebibbia durante il 40esimo Congresso Straordinario, a che punto è "l’operazione salvezza" del Partito Radicale? Tutta in salita. È vero che abbiamo più iscritti se confrontati con il numero registrato nello stesso periodo degli anni scorsi, ma siamo ben lontani dai 3.000 che - pena la chiusura - dobbiamo raggiungere entro il 31 dicembre prossimo. Finora abbiamo avuto quasi mille versamenti che comprendono 740 iscrizioni complete. Segnali incoraggianti ci stanno arrivando dalle carceri: per la prima volta il 10% dei versamenti provengono da detenuti; altro segnale che mi rincuora sono le iscrizioni degli avvocati che sono decine e possono divenire centinaia. L’iscrizione del Presidente dell’Ucpi, Beniamino Migliucci, con le motivazioni che ha voluto dare, costituiscono un gesto di grande significato. Sono contenta che con le Camere Penali presto raccoglieremo insieme le firme per una proposta di legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere dei magistrati, affinché il giudice sia effettivamente "terzo" e imparziale fra accusa e difesa. Di errori giudiziari ne abbiamo fin troppi… oltre mille all’anno: sono un’enormità! Un pensiero a Marco Pannella e tutto quello che rappresenta per il nostro paese. Marco, con la testimonianza della sua vita, credo che ci abbia chiesto una cosa fondamentale: far vivere nella quotidianità del nostro essere le idee e le speranze "radicali": un patrimonio inestimabile che sarebbe un crimine disperdere e sciupare senza rinvigorirlo nel dibattito e nell’azione politica quotidiana. Milano: il dopo-Papa nel carcere di San Vittore di Gianni Borsa agensir.it, 29 marzo 2017 Don Marco Recalcati: incontro profondo con ogni persona, che riaccende la speranza. Con il cappellano del penitenziario di Milano, visitato sabato scorso da Bergoglio, tracciamo un bilancio della visita. "Francesco ha voluto salutare ciascuno, personalmente, ascoltando tante storie toccanti, stringendo a sé" i detenuti. "Ha detto: io in voi vedo Gesù", parole che lasciano il segno per chi vive dietro le sbarre. "Riportare il carcere in un contesto civile e sociale può ricordarci che in prigione ci sono donne e uomini come noi" Ben più di una "visita in carcere": un "incontro personale con ciascuno" dei circa 800 detenuti di San Vittore, "un faccia a faccia che lascia il segno, specie per chi vive in una situazione delicata come questa". Don Marco Recalcati, cappellano del carcere milanese di via Filangieri, racconta al Sir il dopo-Papa, ovvero ciò che rimane tra le mura del penitenziario cittadino, dove, sabato 25 marzo, Bergoglio ha vissuto la tappa più lunga del suo viaggio nel capoluogo lombardo. Qual è, a pochi giorni dalla visita del Pontefice, il clima che si respira nelle celle di San Vittore? Possiamo dire di sicuro che il suo passaggio ha segnato un momento importante per chi vive o lavora qua dentro: questo vale tanto per i detenuti quanto per gli agenti di polizia penitenziaria, i volontari, il personale. Il Papa ha voluto salutare ciascuno, personalmente, ascoltando tante storie toccanti, stringendo mani, stringendo a sé - come ho già avuto modo di raccontare - un recluso per un reato gravissimo prima ancora che quest’uomo gli potesse esprimere il suo desiderio di abbracciarlo. Sono in tanti, ora, a confidare quanta speranza, gioia, bellezza, serenità ha trasmesso Francesco. Ognuno conserva il suo ricordo personale. Il Papa ha anche pronunciato parole profonde… Sì, è verissimo. Ha detto ad esempio: "Qui mi sento a casa, mi sento bene con voi". Sapendo quanta diffidenza e sospetto ci sia nei confronti del mondo carcerario, è chiaro che queste frasi vanno a toccare il cuore di chi, per una ragione o per l’altra, si trova a San Vittore. Bergoglio ha poi spiegato che non bisogna mai dire "se lo merita", riferito al detenuto. La legge e la giustizia faranno la loro strada, ma Dio è grande, ama tutti. E poi, ha fatto capire il Papa, cosa ne sappiamo noi della storia di quella persona che si trova in prigione, dell’infanzia che ha vissuto, della famiglia che l’ha cresciuto, o meno, delle sofferenze o delle privazioni che ha attraversato? Citando poi una pagina del vangelo di Matteo ("Ma quando ti abbiamo visto in carcere"). C’è da immaginare che gesti ed espressioni del Papa siano argomento di discussione, di riflessione, di ripresa ulteriore. Molti detenuti confidano in questi giorni ciò che il Papa ha trasmesso a ciascuno, a seconda della propria vicenda, dello stato d’animo, dei sentimenti che lo attraversano. Ci sono aspetti, qui, legati all’iter processuale di ogni persona, le cui dinamiche sono segnate dalla legge, dai tribunali. Ma esiste poi un altro elemento, connesso in qualche modo al primo, che ha a che vedere con la capacità di rileggere la propria vita, di ripensare al proprio percorso, ai valori, agli affetti, agli errori compiuti. Davvero in questo senso si può riaccendere una speranza, diventa possibile rivolgere lo sguardo al futuro. Il Papa, mi stanno dicendo in molti, "mi ha dato serenità", "ha restituito fiducia". Una detenuta, in lacrime, ha detto: "Per due ore non sono stata in galera". Altri raccontano che il Papa "ha riacceso una luce", oppure "mi ha fatto pensare al senso della mia vita". Si può immaginare che a San Vittore non tutti siano credenti, e non ci siano solo cattolici. Come è stata vissuta in questo senso la presenza di Bergoglio? Direi che è stata ben accolta praticamente dall’unanimità dei carcerati. Ci sarebbero bellissimi episodi da raccontare. Ad esempio, un recluso di fede islamica ha fatto arrivare dal suo Paese una veste bianca, che si indossa nelle festività, poi ha confezionato un pacco e l’ha donato al Papa. Ne è stato felicissimo e orgoglioso! Direi che la visita ci ha fatto sentire tutti uniti, anche coloro che si trovano nel settore dei "protetti", ovvero coloro che hanno alle spalle i reati più efferati. Questo appuntamento col Papa lascia dunque un segno positivo? Sì, direi su due livelli. Anzitutto all’interno del carcere. L’incontro personale con i detenuti, aver stretto le loro mani, averli guardati negli occhi, aver condiviso con loro il pranzo, ha in qualche modo restituito dignità a queste persone. Se ci pensiamo, a Monza il Papa ha attraversato la spianata un po’ di corsa sulla "papamobile"; qui ha avuto un gesto, uno sguardo, una parola per ognuno. Può riportare il carcere stesso in un contesto civile e sociale, può ricordarci che in prigione ci sono donne e uomini come noi, che hanno sbagliato, ma sono persone, proprio come noi. Anche per questa ragione io insisto nel sostenere che il carcere debba rimanere qui, in mezzo alle case, in città. In questo modo i muri si assottigliano un poco. Teramo: prevenzione dei suicidi tra i detenuti, accordo tra Asl e Casa circondariale abruzzolive.it, 29 marzo 2017 Ieri mattina, il Direttore Generale della Asl Roberto Fagnano e il Direttore dell’Istituto Penitenziario Stefano Liberatore, hanno firmato il "Piano Locale Operativo di pronto intervento e di prevenzione del rischio autolesivo e suicidario dei detenuti" con il quale vengono definite le modalità di collaborazione reciproche, tra Asl e Casa Circondariale, per disciplinare aspetti e procedure di prevenzione dei suicidi in carcere. Nell’ambito di un approccio in continua evoluzione finalizzato al "benessere" dei detenuti che mira a garantire la tutela della salute e il loro recupero sociale, è fondamentale l’interazione tra la Direzione del carcere e la Asl cui, dal 2008, è stata trasferita la competenza in materia di salute dei detenuti. Dal 2008, infatti, la Asl di Teramo gestisce il Presidio Sanitario della Casa Circondariale attraverso una specifica Unità Operativa, diretta dal Dr. Massimo Forlini, che consta di un Servizio di attività assistenziale continuativa con medici, infermieri, psicologi e altre figure, attrezzato di ambulatori polispecialistici (radiologia, ecografia, odontoiatria, ecc.). Inoltre, poiché l’Istituto Penitenziario è dotato di sezione femminile e di nido per bimbi fino a tre anni di età (unico in Abruzzo), l’assistenza sanitaria è rivolta anche alle specificità di donne e bambini, con specialità mediche loro dedicate (ginecologia e pediatria). Con questo accordo a firma congiunta, di fatto viene regolamentato e potenziato il servizio multidisciplinare di pronto intervento e prevenzione del rischio di suicidio, nonché di auto ed etero aggressione, che è teso - fin dalle prime fasi della detenzione - ad affiancare il concetto di "sorveglianza" a quello di "sostegno", nell’ottica già definita in precedenza. Uno staff multidisciplinare, dunque, composto non solo da personale sanitario, ma anche da personale della Direzione dell’Istituto (Direttore, Comandante, Responsabili dei Reparti detentivi, Funzionari giuridico-pedagogici, ecc.) che potrà essere altresì integrato, all’occorrenza, da altre figure (ad esempio, i mediatori culturali), prenderà in carico tutti i soggetti che manifestino i sintomi di un intento autolesionistico e/o suicidario. Ma come si individuano i soggetti a rischio suicidio all’interno del carcere? Sta proprio qui, la difficoltà. Come riuscire a identificare le persone più vulnerabili, le circostanze nelle quali questa vulnerabilità per lo più si manifesta, per poter intervenire efficacemente? Esiste un ampio numero di fattori che, interagendo tra loro, conferiscono all’individuo un rischio elevato di suicidio, ed è per questo che - già dall’ingresso in carcere - gli psicologi della Asl somministrano a tutti i detenuti un test, specificamente articolato, che mira a rilevare questi fattori e a riconoscere i soggetti più fragili, da tenere maggiormente sotto osservazione. Le procedure di screening, seppur importanti, rappresentano però solo una parte di un programma di prevenzione del suicidio nelle carceri. Lo screening, per esempio, non è in grado di prevedere quando un tentativo avverrà o quali ne saranno i fattori determinanti, caso per caso. Per essere efficace, la prevenzione del suicidio deve implicare valutazioni regolari nel tempo, ma è fondamentale che non solo il personale sanitario, ma tutto lo staff, sia addestrato a vigilare sul detenuto per tutta la durata della sua incarcerazione. Uno dei punti salienti dell’accordo firmato oggi dalla Asl e dalla Casa Circondariale, sta proprio nella previsione del ricorso anche a specifiche figure di detenuti, denominati "care givers". Saranno, così, alcuni tra gli stessi reclusi, appositamente formati e qualificati dalla ASL, a svolgere l’attività di "cura", intesa come il prestare attenzione così come farebbe un familiare, a quei soggetti, tassativamente segnalati dal medico, che ne abbiano dimostrato il bisogno. La firma di questo "piano operativo" non è solo la mera indicazione del "chi fa cosa", ma è soprattutto un impegno a sostituire le tradizionali attività di sorveglianza con nuove attività di sostegno per intervenire sul disagio individuale, ascoltando, assistendo ed aiutando i detenuti, con lo scopo di restituire loro serenità, dignità e salute. Pisa: l’Osapp lancia l’allarme "rischio di crolli al carcere Don Bosco" Redattore Sociale, 29 marzo 2017 La denuncia del sindacato degli agenti penitenziari Osapp: "Servono lavori urgenti per tutelare per tutelare l’incolumità chi vive il carcere". Al carcere Don Bosco di Pisa servono lavori urgenti perché c’è il rischio crolli. A sottolinearlo è il segretario generale dell’Osapp, l’organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria, Leo Beneduci, in una lettera inviata al ministro della giustizia Andrea Orlando e ai gruppi parlamentari. "Il carcere - è scritto nella nota - ha urgentemente bisogno di interventi strutturali, per tutelare l’incolumità sia di chi in carcere ci lavora e sia di chi in carcere si trova in base ad un provvedimento di restrizione della libertà personale". E poi: "È soltanto di una decina di giorni la notizia che è crollata parte del controsoffitto dell’ufficio matricola della Casa Circondariale di Pisa, ma non sembrerebbe che la notizia abbia destato particolari preoccupazioni nelle autorità locali, regionali e centrali dell’amministrazione penitenziaria, malgrado il fatto che le condizioni della struttura risultino ogni giorno più gravi e dense di pericoli per il personale e per i detenuti". Reggio Emilia: sostegno ai detenuti, al via un progetto finanziato dall’Unione Europea 24emilia.com, 29 marzo 2017 Reggio Emilia fa scuola nel campo nei progetti di sostegno e di reintegrazione sociale e lavorativa dei detenuti e di quanti sono sottoposti a misure alternative alla detenzione. La Cooperativa sociale reggiana L’Ovile, infatti, è capofila del progetto (redatto da Elena Frascaroli, che coordina i rapporti con i partner) sostenuto dall’Unione Europea per la formazione degli educatori che, in cinque paesi del vecchio continente, lavorano fianco a fianco di detenuti e di condannati che scontano la pena fuori dalle mura del carcere e che fino al 31 marzo saranno a Reggio Emilia per la tappa italiana del progetto comunitario. "In collaborazione con l’Istituto Penitenziario di Reggio Emilia, l’Uepe (Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna), il Comune capoluogo e l’Università di Modena e Reggio Emilia - spiega la responsabile dell’iniziativa per L’Ovile, Francesca Cavedoni - realizzeremo non soltanto una serie di sedute di formazione e approfondimento, ma anche incontri, visite e valutazioni di importanti progetti che connotano il nostro territorio e un sistema di affiancamento che ha già generato importanti risultati in termini di integrazione sociale e lavorativa a beneficio di carcerati ed ex carcerati, cui si sono aggiunti altrettanto importanti esiti sul versante della sicurezza, con una drastica riduzione della reiterazione del reato". "L’obiettivo delle istituzioni europee, che ovviamente coincide con quello degli educatori spagnoli, portoghesi, greci, rumeni e italiani coinvolti nel progetto - prosegue Francesca Cavedoni - si sviluppa proprio su questo doppio binario: affiancare nel cammino di reinserimento coloro che, scontata la pena, in moltissimi casi non hanno nè beni nè relazioni nè conoscenze sufficienti a muoversi in ambiti che possono essere profondamente cambiati nel frattempo e, contemporaneamente, evitare i rischi di una ricaduta nel reato, troppe volte scelta come unica alternativa ad una via della legalità che, nell’abbandono, viene considerata impraticabile". "In due anni - spiega al proposito Francesca Cavedoni - abbiamo seguito 30 persone in regime di esecuzione esterna della pena e avviato progetti di lavoro all’interno del carcere, tra i quali quello di un laboratorio di falegnameria - in collaborazione con il salumificio F.lli Veroni - e di coltivazioni orticole; i risultati sono più che soddisfacenti e, insieme al valore umano e sociale, abbiamo potuto dimostrare che questi percorsi costano meno della metà rispetto alla detenzione". Il problema - aggiunge Francesca Cavedoni - è formare bene gli educatori e, soprattutto, puntare ad aumentare la rete di comunità di reinserimento per gli ex detenuti, per i quali troppo spesso sembra non esistere un "dopo" rispetto al carcere". Fino al 31 marzo, dunque, Reggio Emilia sarà al centro dell’iniziativa europea, che insieme a un fitto calendario di incontri di formazione prevede anche una serie di visite al carcere di via Settembrini, al Museo della Psichiatria e, il 29 marzo, un incontro il Sala del Tricolore. Avellino: il governatore De Luca in visita ai detenuti che studiano da chef Il Mattino, 29 marzo 2017 Il governatore nei laboratori-officina dell’istituto modello con 184 reclusi spazi riservati alle famiglie in visita. Con il direttore del carcere di Sant’Angelo Massimiliano Forgione, il governatore De Luca al carcere di Sant’Angelo dei Lombardi. Di ritorno da Morra, De Luca ha voluto deviare per incontrare i detenuti insieme al presidente del Consiglio regionale D’Amelio e il preside dell’Istituto superiore Vanvitelli con indirizzi tecnici e professionali di Lioni, Sergio Siciliano. "Noi abbiamo cinquanta allievi detenuti che frequentano l’istituto alberghiero - dice Siciliano - si tratta di un progetto di istruzione e di integrazione che va avanti da anni e con ottimi risultati. I nostri docenti tengono lezioni per i detenuti che una volta scontata la pena potranno trovare una strada in un settore in piena espansione". Quest’anno si diplomeranno quattro detenuti in servizi per l’enogastronomia e per l’ospitalità alberghiera. De Luca e D’Amelio hanno incontrato nel carcere la visita alla carrozzeria dove si preparano i detenuti alla nuova attività di carrozziere, nell’officina meccanica con un tutor, quindi nella sartoria dove i detenuti confezionano cravatte foulard e nella tipografia oltre che al campo con la vigna e l’orto. Nel carcere si è intrattenuto a colloquio con i detenuti nelle aule scolastiche e ha visitato sia l’infermeria che gli spazi dedicati all’accoglienza delle famiglie, in particolare nelle salette in cui i bambini in vista possono alloggiare. E sulle condizioni delle carceri si svolgerà il convegno organizzato dal Movimento Radicali Italiani e l’Associazione giovani giuristi vesuviani ed al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Nola. L’evento, con la disponibilità del Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Campania Giuseppe Martone, si terrà venerdì 31 dalle 14,30 nella sala multifunzionale della Casa di Reclusione. Nell’istituto si trovano 184 persone detenute, 19 delle quali straniere, su una capienza regolamentare di 122 posti. Introduce l’avvocato Sabina Sirico, responsabile dell’Osservatorio Carceri dei Giovani Giuristi Vesuviani, modera Emilio Enzo Quintieri, già membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani, capo della delegazione visitante le Carceri campane, autorizzata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. "Abbiamo scelto questo istituto - dice Quintieri - perché è una delle poche eccellenze esistenti nel panorama nazionale". Padova: "Flash Mission" di Gioventù Missionaria nel carcere Due Palazzi di Padova regnumchristi.org, 29 marzo 2017 I giovani del Regnum Christi di Padova hanno fatto un’esperienza straordinaria, il primo marzo, proprio in coincidenza con l’inizio del cammino quaresimale di quest’anno. Grazie alla redazione di "Ristretti Orizzonti", il giornale realizzato dai reclusi di Padova, hanno incontrato gli ospiti del carcere Due Palazzi di Padova, hanno ascoltato le loro storie, hanno dialogato con loro, seppure in condizioni protette e nel rispetto delle norme carcerarie. "È stato disarmante" dice Matteo "leggere negli occhi delle persone che avevamo davanti la lucidità con cui affrontano la loro storia, mentre ne sviluppavano il racconto, mista al rammarico. C’era nelle loro parole la consapevolezza di chi ha seguito un percorso interiore, per dare significato al proprio passato e da questo ripartire con speranza, malgrado gli orizzonti ristretti, appunto, della situazione attuale. Ho potuto apprezzare il senso di quello che si chiama scopo rieducativo delle case di detenzione, il valore dell’umanità che a tutti i livelli se ben accompagnata può avere la possibilità di rinascere". La proposta di una "Flash Mission" in carcere è nata dalla locale sezione di Gioventù Missionaria ed è stata accolta da una quarantina di giovani accompagnati da alcuni sacerdoti legionari di Cristo. Marilena Tonello ha raccolto le testimonianze di alcuni di loro. "L’incontro inizia alle 12,45" scrive, davanti al lungo cancello del Carcere Due Palazzi, ma forse è già iniziato prima nel cuore dei giovani che hanno aderito alla proposta, forse spinti dalla curiosità o attratti dalla novità. "Le guardie giudiziarie ci accolgono e dopo i necessari controlli, ci accompagnano verso l’aula della redazione di Ristretti Orizzonti. I nostri passi sono incredibilmente pesanti e mentre ci dirigiamo verso quella stanza, attraversiamo lunghi corridoi dove a destra e a sinistra vediamo alcuni detenuti nelle loro celle". "La prima impressione, dall’esterno, è stata quella di entrare in un condominio" racconta Emanuel, "Poi quando siamo passati attraverso i vari blocchi, quando chiudevano dietro di noi i cancelli, ho iniziato a sentirmi claustrofobico e ho realizzato dove mi trovavo. La cosa che però mi ha colpito è stato il fatto che parte delle storie raccontate dai carcerati erano simili alla storia della mia vita e questo mi ha fatto riflettere molto su come la scelta decisiva che ognuno di noi fa in circostanze simili ci porti in diverse direzioni, che determinano anche la nostra libertà". Alla guida della redazione di "Ristretti Orizzonti", c’è una giornalista, Ornella Favero, da anni impegnata come volontaria in carcere. Ha messo a disposizione le sue competenze, per creare delle opportunità di lavoro per i detenuti e dare loro speranza. "L’esperienza che abbiamo vissuto in carcere è stata per me unica e davvero significativa" dice Sofia. "Mi hanno colpito l’umiltà e la profonda umanità che si sono rivelate dietro a questi soggetti, uomini come tanti altri, che, a causa della pressione mediatica, spesso siamo portati a demonizzare. Sentendo i loro racconti mi sembrava di essere di fronte a delle persone completamente nuove e profonde che in passato hanno sbagliato, ma che ora, ognuno seguendo le tappe del proprio percorso, possiedono le giuste risorse per partire daccapo. Andando al di là delle colpe dei singoli individui, è aumentata in me la consapevolezza del ruolo critico che occupa la nostra società, che siamo noi. Incapaci troppe volte di identificare le situazioni di rischio e di disagio sociale, di delinquenza e di sofferenza psicologica e quindi di aiutare. Potremmo in qualche modo "prevenire" molte realtà di cui abbiamo la testimonianza (non solo dal carcere, ma anche dalla cronaca di tutti i giorni), piuttosto che "curare" a danno compiuto. Un ruolo fondamentale in questo viene svolto dalla scuola, ma anche dai servizi sociali e dagli altri servizi che dovrebbe offrire in modo equo ed efficace lo Stato, come ad esempio il supporto psicologico. Il carcere mi è sembrato un ambiente valido e impegnato nella rieducazione dei detenuti, non solo per le varie attività di lavoro, studio e crescita personale, ma anche perché apre le porte alla comunità. I detenuti, raccontando le loro storie, si assumono le responsabilità delle loro scelte e, condividendo il peso delle loro colpe, iniziano effettivamente a guarire anche psicologicamente. Il pentimento del resto è la chiave per la redenzione terrena e dei cieli". Le parole dei giovani sembrano confermare quelle di papa Francesco che all’inizio di quest’anno ha inviato un messaggio ai detenuti dei Due Palazzi, in occasione di un convegno sull’ergastolo, organizzato proprio da "Ristretti orizzonti". "Siete persone detenute: sempre il sostantivo deve prevalere sull’aggettivo, sempre la dignità umana deve precedere e illuminare le misure detentive. […] Se la dignità viene definitivamente incarcerata non c’è più spazio, nella società, per ricominciare e per credere nella forza rinnovatrice del perdono. Ma in Dio", conclude il Pontefice, "c’è "sempre un posto per ricominciare, per essere consolati e riabilitati dalla misericordia che perdona". Genova: Vivicittà 2017 anche per i detenuti del carcere di Marassi di Andrea Carotenuto Il Secolo XIX, 29 marzo 2017 Detenuti che escono di corsa dalle porte del carcere. Una scena che normalmente susciterebbe grande allarme ma che oggi, a Genova, è invece occasione di festa. Quella organizzata da UISP, l’unione italiana sport per tutti in occasione della Vivicittà 2017, la corsa che apre le porte del carcere e consente ad alcuni dei detenuti di correre insieme agli atleti di diverse squadre verso una libertà che è la meta finale di ogni percorso di rieducazione. "Porte aperte" al carcere di Marassi e "ospiti" che - almeno per un giorno - possono correre al di fuori degli spessi muraglioni che solitamente dividono chi è recluso dal resto della città. Quattro giri a ritmo sostenuto o "a passo svelto" a seconda della preparazione atletica (o dell’età) dei partecipanti. Il significato è multiplo: lo sport che unisce e supera ogni ostacolo, ma anche strumento di rieducazione e di inclusione sociale. Chi ha sbagliato e sconta la pena cancella il suo debito con la collettività e torna a farne parte ma deve fare "gioco di squadra" e rispettare le regole che sono alla base di ogni sport. Lo sa bene l’Uisp che supporta numerosi programmi all’interno di ben 23 carceri italiane dove, da oggi e per qualche settimana, si terranno altre prove sportive come quella organizzata a Genova che, anche quest’anno fa da "apripista" con la sua sesta edizione. Siena: anteprima regionale del docu-film sull’ergastolo ostativo radiosienatv.it, 29 marzo 2017 "Spes Contra Spem. Liberi dentro", proiezioni all’Università di Siena. Sarà proiettato all’Università di Siena in anteprima regionale venerdì 31 marzo il docu-film di Ambrogio Crespi "Spes Contra Spem. Liberi dentro", che affronta le tematiche della detenzione carceraria ed in particolare di quella definita "fine pena mai". L’iniziativa dell’Osservatorio Carceri Camera Penale di Siena e Montepulciano, attivo protagonista nella sensibilizzazione su questi temi, si inserisce nel programma di insegnamento di Diritto Penitenziario del corso di laurea magistrale in Giurisprudenza dell’Ateneo senese, tenuto dalla professoressa Anna Lisa Maccari. La proiezione si terrà a partire dalle ore 14 presso l’aula magna del dipartimento di Giurisprudenza, in via Mattioli 10. Seguirà il dibattito e il confronto con il regista e con i produttori del docu-film, con l’obiettivo di analizzare le tematiche sottese alla detenzione carceraria ed in particolare a quella concretizzata nell’ergastolo ostativo. Interverranno, coordinati da Giuliana Falaguerra, segretario dell’Osservatorio Carcere della Camera penale di Siena e Montepulciano, Rossana Giulianelli, presidente della Camera Penale di Siena e Montepulciano, Maria Letizia Venturini, magistrato di Sorveglianza di Siena, Anna Lisa Maccari, docente di Diritto penitenziario dell’Ateneo, Gabriele Terranova, Osservatorio Carcere dell’Unione delle camere penali italiane, Ambrogio Crespi, regista del docu-film, Rita Bernardini, presidente di "Nessuno Tocchi Caino", Sergio D’Elia, segretario di "Nessuno Tocchi Caino" e co-autore del docu-film, Maria Brucale, "Nessuno Tocchi Caino", Elisabetta Zamparutti, "Nessuno Tocchi Caino" e co-autore del docu-film. Si legge nelle note di regia: "In Italia esistono due tipi di ergastolo, quello noto alle cronache di tutti che possiamo definire "normale" e quello meno conosciuto che è "ostativo". Nel primo caso il condannato ad ergastolo può, dopo 26 anni di detenzione, uscire dal carcere oltre che avere la possibilità di usufruire di permessi premio, semilibertà o liberazione condizionale. Nel secondo caso, quello dell’ergastolo ostativo cioè del "fine pena mai", il detenuto vivrà in un regime di eccezione, senza poter accedere ad alcun beneficio penitenziario. Una pena quindi immutabile, tranne in un caso: collaborando con la giustizia, diventando pentiti". Caserta: "Il teatro in carcere", scene aperte a Santa Maria Il Mattino, 29 marzo 2017 Il penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, diretto dalla dottoressa Carlotta Giaquinto (nella foto), fra gli istituti carcerari italiani che hanno ospitato, lo scorso 27 marzo, la "IV Giornata nazionale del Teatro in carcere" (rassegna che si inserisce nella 55ma edizione della Giornata mondiale del teatro) nel corso di un happening che ha visto, dalle ore 10, una serie di rappresentazioni teatrali interpretate da un centinaio di reclusi, uomini e donne. Coinvolti i detenuti in cosiddetta Alta Sicurezza e comuni. In scena "Uomo e Galantuomo" e "Non ti pago di Eduardo De Filippo" (reparto Tevere e Tamigi), le esibizioni canore dei detenuti del reparto Nilo e quelli del reparto Volturno in "Ò fatt ‘e cronaca" di Raffaele Viviani oltre l’interpretazione dell’attore Mario Aterrano in Frammenti e il concerto di Lalla Esposito con il maestro Antonio Ottaviano. Prevista anche una riflessione giudiziaria con i magistrati di Sorveglianza dal tema La funzione della risocializzazione della pena. All’evento, realizzato con la collaborazione dell’Ufficio di Sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, sono stati previsti gli interventi del sindaco Antonio Mirra; del Garante dei Detenuti in seno alla Regione Campania, Adriana Tocco e poi il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria; il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli; le presidenti dei tribunali di Santa Maria e Napoli Nord, Casella e Garzo; gli assessori regionali Marciano, Fortini e Angioli e il deputato Camilla Sgambato. L’evento è stato organizzato in collaborazione tra la direzione della Casa Circondariale e l’Ufficio di Sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, con il patrocinio del Conams, (il Coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza). Iniziative del genere si ripetono con frequenza nell’istituto sammaritano. Libri. "Angelo SenzaDio", di Carmelo Musumeci di Agnese Moro Ristretti Orizzonti, 29 marzo 2017 Tra romanzo e realtà, tra carcere e amicizia, il racconto di un incontro che ha cambiato due vite. Scrive sempre bene Carmelo Musumeci, con un linguaggio capace di esprimere forti sentimenti e emozioni; dolore, rabbia, e speranze deluse. Mai superficiale. Mai compiacente. È un cuore che grida sofferenza - patita e inflitta - rimpianto per ciò che sarebbe potuto essere, e amore. Per i suoi cari - che ben lo ricambiano - e per una vita che si vorrebbe potesse essere, per lui per la prima volta, colma di affetti e di serenità. Da poter vivere pienamente. Una prospettiva, nel suo caso, per ora purtroppo ben lontana dal poter essere realizzata, per il fatto che Carmelo sta scontando una condanna all’ergastolo, pena che ferisce i nostri valori costituzionali, che anelano al recupero e al reinserimento del colpevole. La storia che Carmelo ci racconta in questo bel libro "Angelo SenzaDio" ci aiuta a capire quanto sia assurda una concezione della pena che non voglia cogliere il cambiamento della persona. Carmelo, infatti, ci racconta la storia di una rinascita. E di una amicizia. Intimamente legate l’una all’altra. In una vita difficile, giocata sul filo della rabbia e della disillusione, della solitudine e dell’abbandono, in un giorno qualsiasi, si infila nella vita di Lorenzo, il SenzaDio - il nostro protagonista - una nuova presenza. È il termine giusto "si infila": senza presentazioni, preavvisi, orpelli, trombe, nel cuore di Lorenzo viene a trovarsi un angelo. È un angelo abbastanza strano, per la verità, un po’ amorevole e un po’ guerriero. Rompe la sua solitudine e lo aiuta, spesso con un trattamento forte, a ritrovare un se stesso fin lì dormiente. All’Angelo importa solo di lui, del suo benessere, della sua incolumità, e glielo fa capire in molti modi. Non cerca di redimerlo, non è preoccupato per la sua anima. Forse sa che appena si torna ad amare liberamente il cambiamento è già avvenuto. L’amicizia è un’esperienza che il SenzaDio non ha mai fatto prima, e il sentimento principale di Lorenzo di fronte all’Angelo, quello che ci fa intuire la drammaticità della sua situazione precedente, è proprio lo stupore di non essere più solo. È un fatto del tutto nuovo per lui, che lo spiazza, lo smuove, lo lascia indifeso e predisposto a sopportare di provare anche sentimenti positivi nei confronti delle persone. Una situazione inedita che porterà Lorenzo a fare scelte generose e estreme; scelte fino a poco prima impensabili. È un bellissimo racconto, pieno di profonda e struggente umanità. È anche un modo poetico di descrivere la nascita di un’amicizia per quello che questa significa soprattutto per il cuore di chi non avrebbe osato sperare di trovarla mai, e tantomeno nel carcere che ruba, a chi lo vive, anche i sogni. Ma nel "Angelo SenzaDio" c’è anche qualcosa d’altro. Perché ci parla della possibilità di cambiare che ogni essere umano ha dentro di sé. E di quanto sia importante non essere mai lasciati soli. Con un linguaggio tanto poetico, e a tratti davvero struggente, Carmelo ci racconta la storia di un’anima. Che può essere la sua, quella di altri, o di noi che leggiamo, quando, grazie all’affetto e alla fiducia di qualcuno, riusciamo di nuovo a parlare con noi stessi, lasciando una strada sbagliata e dando invece voce alla nostra più profonda umanità, che aspira sempre a cose belle e grandi. La capacità delle persone di cambiare è un tema fondamentale - direi cruciale - dal punto di vista umano, ma anche da quello politico e sociale. Riguarda il modo, ottimistico o pessimistico, che abbiamo di vedere noi stessi, gli altri, la vita e la storia. Se gli uomini non possono cambiare, superando egoismo, violenza, e quanto altro di negativo abita il nostro cuore, anche la storia umana è condannata a restare sempre uguale a se stessa, in una continua lotta per la sopraffazione degli uni su gli altri. Molti vedono il mondo e la vita così; e gli sfugge il nuovo che avanza, mancando di speranza e di coraggio. Per loro il mondo è sempre ugualmente triste e condannato. Il nostro atteggiamento di fronte alla possibilità o meno di cambiare delle persone - e della storia - definisce anche la nostra vicinanza o la nostra lontananza dalla nostra Costituzione. Nata dalla speranza e dalla volontà di tanti italiani di vivere in modo diverso e degno dopo gli anni buissimi del fascismo, della guerra, della odiosa occupazione nazista, delle deportazioni nei campi di sterminio, delle bombe, delle delazioni, delle torture, della povertà, della fame, della ingiustizia e della paura. Tragedie da ricordare, ma anche da superare costruendo una nuova Italia. Ed era tanto difficile farlo. Personalmente sono molto grata a Carmelo, perché con i suoi libri, con la sua vita e con le sue battaglie mi ha insegnato qualcosa di veramente importante per me. Tante persone che come me hanno subito gli effetti di gesti violenti descrivono la propria situazione come un ergastolo. Carmelo mi ha insegnato a capire che questa frase non è vera. E a vedere le risorse che abbiamo a disposizione per tornare a vivere. Certo, il dolore non passa; il passato rischia di essere sempre presente; l’esistenza non potrà più in nessun caso essere quella di prima. Ma abbiamo tante risorse delle quali poter usufruire per sopportare questa condizione. Carmelo non può farlo, ma io posso andare a trovare persone che amo e che mi amano. Posso viaggiare. Posso telefonare, scrivere una mail e avere subito una risposta. Posso godere uno spettacolo della natura che con la sua bellezza mi faccia sentire parte di un tutto speciale. Posso fare una passeggiata, andare al cinema, mangiare qualcosa di buono. Andare in chiesa; andare in libreria e comperare un libro. Guardare le vetrine. Posso abbracciare i miei figli quando voglio, sempre che loro siano d’accordo, e comunque sentire in ogni momento la loro voce. Posso rilasciare un’intervista, partecipare a una manifestazione, votare. Posso stare nel vento, fare un bagno in mare. Dormire e mangiare quando voglio. Stare da sola. Andare a messa. Fare progetti. E attuarli. L’ergastolo, e soprattutto quello ostativo, significa, invece, non poter fare mai queste cose. È la parola "mai" quella fondamentale. Insormontabile. Eppure Carmelo Musumeci ci insegna con la sua vita e con questo libro che anche da questo terribile e disumano "mai" possono nascere fiori, poesia, amore per la vita e per gli uomini. Magari grazie ad un angelo che risveglia tutto il buono che c’è dentro ognuno di noi e che attende con ansia una parola o una carezza per poter sbocciare. Sta a noi, se siamo saggi, raccogliere questo nuovo che nasce e consentirgli di vivere pienamente. Cinema. "Il permesso", di Claudio Amendola. Com’è difficile non essere cattivi di Alessandra Vitali La Repubblica, 29 marzo 2017 Ai detenuti Luigi, Donato, Angelo e Rossana sono state concesse 48 ore di permesso. Una volta fuori, devono decidere in che modo spendere quel poco tempo a disposizione. Vendetta, redenzione, riscatto, amore: ognuno di loro dovrà fare i conti con il mondo che è cambiato mentre erano dentro. È "Il permesso", seconda prova alla regia di Claudio Amendola che è anche interprete del film e ne firma la sceneggiatura (insieme a Giancarlo De Cataldo re Roberto Jannone). Nel cast Luca Argentero, Valentina Bellè, Giacomo Ferrara. Il film sarà in sala con Eagle Pictures dal 30 marzo. L’attore alla seconda regia con il film in uscita il 30 marzo. Quattro detenuti fuori dal carcere per 48 ore, quattro storie di vendetta, riscatto, amore. Il soggetto è di Giancarlo De Cataldo, nel cast lo stesso Amendola con Valentina Bellè, Giacomo Ferrara e Luca Argentero, completamente trasformato per una performance sorprendente. Difficile non essere cattivo quando hai solo 48 ore per provare ad aggiustare una vita andata storta. "Sei mai stato felice con qualcuno, per un momento, nella tua vita?", chiede a uno dei suoi aguzzini Luca Argentero, mentre cerca invano di ritrovare quel momento di felicità, riviverlo per un attimo prima di tornare "dentro". È nello spazio che separa il "fuori" dal "dentro" che quattro detenuti, ai quali è stato concesso di uscire dal carcere per due giorni, consumano vendette, fanno bilanci, cercano il riscatto e i sogni perduti. Quattro vite, quattro storie noir raccontate da Claudio Amendola in "Il permesso" - 48 ore fuori, il film che ha diretto, interpretato e scritto con Giancarlo De Cataldo - anche autore del soggetto - e Roberto Jannone e che uscirà al cinema giovedì 30. Per Amendola la seconda prova da regista a quattro anni da La mossa del pinguino. "Ho aspettato a lungo perché cercavo un soggetto che centrasse esattamente quello che cercavo - racconta - in questo caso una bella storia che mi piace definire ‘western’ perché ha come protagonisti due eroi solitari che vanno fieramente incontro al loro destino. Ho ritrovato l’emozione di lavorare con gli attori, facendo alcune scelte che si sono rivelate decisive, come quella di Luca Argentero che ha accettato la sfida di rendersi irriconoscibile rispetto ai ruoli ai quali il pubblico è abituato". "Un film di genere, così crudo e pieno d’amore" - "È un film crudo e violento ma allo stesso tempo dolce e malinconico perché i personaggi sono mossi da un denominatore comune: l’amore". Claudio Amendola racconta a Repubblica la sua seconda esperienza da regista, "Il permesso", le 48 ore di quattro detenuti che devono decidere cosa fare di quel poco tempo a disposizione fuori dalla cella fra vendette, rancori, desiderio di riscatto. Nel cast Luca Argentero (completamente trasformato, tosto e brutale), lo stesso Amendola, Valentina Bellè, Giacomo Ferrara. Il soggetto è di Giancarlo De Cataldo. Il film uscirà al cinema con Eagle Pictures il 30 marzo. Violenza contro le donne, il quadro nero dell’Istat di Adriana Pollice Il Manifesto, 29 marzo 2017 Una su 5 vittima di abusi, stupri o tentati stupri. Vessazioni psicologiche per 4 donne su 10. "Un fenomeno ampio, diffuso e polimorfo, che incide gravemente sulla quotidianità". Atti sessuali degradanti e umilianti, rapporti non desiderati e vissuti come violenza, abusi o molestie fisiche gravi come stupri o tentati stupri: il 21% delle donne italiane, oltre 4,5milioni, li ha subiti nel corso della propria vita. Un milione 157mila li ha sofferti nelle forme più gravi: 653mila donne sono state vittima di stupro, 746mila di tentato stupro. Sono i partner e gli ex i principali autori della violenza di genere per il 13,6% delle donne tra i 16 e 70. L’ultimo caso ieri a Borgo Vercelli, dove una donna è stata speronata in auto e accoltellata dall’ex marito. Tra le donne abusate dai partner, il 90,6% ha subito rapporti sessuali indesiderati; il 79,6% tentativi di strangolamento, soffocamento e ustione; il 77,8% schiaffi, pugni, calci e morsi. Le percosse, in una minoranza dei casi (1,5%), hanno provocato danni permanenti. Tra le mogli e le fidanzate vittime di violenza, il 37,6% ha riportato ferite o lesioni, il 21,8% soffre di dolori ricorrenti. Neppure la gravidanza ferma gli abusi, anzi nel 7,5% dei casi è il motivo che provoca l’ira dell’uomo. Questa terribile fotografia della società italiana è stata mostrata ieri dall’Istat al convegno "La violenza sulle donne: i dati e gli strumenti per la valutazione della violenza di genere". Per i ricercatori, si tratta di un fenomeno "ampio, diffuso e polimorfo, che incide gravemente sulla quotidianità". I picchi di violenza, spiega l’Istat, sono spesso anticipati da vessazioni psicologiche, uno stato di soggezione che riguarda 4 donne su 10: il 40,4% (oltre 8,3 milioni) le vittime di violenza psicologica, ad esempio attraverso la svalutazione o sottomissione. Se circa un terzo delle donne ha subito nella propria vita una forma di violenza fisica o sessuale, per molte di più l’asimmetria di potere può sfociare in gravi forme di svalorizzazione, limitazione, controllo fisico, psicologico ed economico. Il 40,4%, oltre 8,3 milioni, è stata abusata verbalmente fino a sopportare gravi danni allo sviluppo della propria personalità, una su 4 ha difficoltà a concentrarsi e soffre di perdita di memoria. Gioca un ruolo anche la "violenza economica" che, all’interno della coppia, tocca il 4,6% delle donne in un paese dove l’occupazione è prevalentemente maschile. In Italia nel 2015 il livello di occupazione femminile tra i 20 e i 64 anni si è attestato al 50,6%; quello maschile al 70,6%; il divario retributivo tra uomini e donne è pari al 16,3%. In occasione dell’otto marzo, l’Istat ha diffuso anche i dati relativi alle donne (il 16,1%) che subiscono stalking, dai messaggi assillanti alle richieste pressanti di appuntamento o attenzioni non gradite, fino alle forme più gravi: il 9,3% sono vittime di commenti offensivi sui social network o di diffusione non autorizzata di foto e video sulla rete; il 13% è oggetto di minacce dirette o a figli o parenti; il 75,7% delle donne soggette a stalking vengono seguite, spiate o ricattate. "Prima di arrivare alla violenza efferata ci sono i sintomi - ha commentato ieri la sottosegretaria alla presidenza del Consiglio, Maria Teresa Amici. E questo avviene fin dai banchi di scuola. È impressionante la regressione nei rapporti tra sessi nella scuola italiana". Sul tema è intervenuta anche la vicecapogruppo del Pd alla Camera, Chiara Gribaudo: "Non si può continuare con i buonismi e con la scusa della provocazione. Nelle case l’unica a poter entrare è l’informazione e di certo la Rai non ci ha dato il buon esempio ultimamente. Dalla Tv pubblica deve essere preteso un impegno diretto nella scrittura dei programmi". Il riferimento è al programma di Paola Perego, chiuso dopo la puntata dedicata alle donne dell’est. Pone l’accento sulle politiche di prevenzione e i centri antiviolenza Pia Locatelli, capogruppo del Psi alla Camera e presidente del Comitato Diritti umani. Centri che spesso sono fortemente sotto-finanziati. Migranti. Via libera al decreto Minniti, meno garanzie per i rifugiati di Carlo Lania Il Manifesto, 29 marzo 2017 Al Senato voto di fiducia al testo che cancella l’appello per chi si vede respinta la richiesta di asilo. Due senatori Pd votano contro. Contestare una multa per divieto di sosta in Italia sarà presto più importante che garantire protezione internazionale a chi fugge dal proprio paese per non morire. Nel caso della multa si ha infatti diritto a tre gradi di giudizio - primo grado, appello e Cassazione. Per quanto riguarda il rifugiato, invece, se il disgraziato di turno si vedrà respingere la richiesta di asilo potrà sperare solo in un rovesciamento della decisione da parte della Cassazione. L’abolizione dell’appello nelle procedure per le richieste di asilo è uno dei punti del decreto legge sull’immigrazione che oggi sarà licenziato dal Senato con il voto di fiducia. Una decisione - quella di porre la fiducia - annunciata ieri in aula dal ministro per i Rapporti con il Parlamento Anna Finocchiaro e contro la quale si sono schierati i senatori Pd Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani del Senato, e Walter Tocci che oggi dunque voteranno contro il provvedimento in contrasto con il loro partito. Stando a ministri degli Interni e della Giustizia Minniti e Orlando, ai quali si deve la misure restrittiva, la soppressione dell’appello servirebbe a sveltire le procedure di esame delle richieste di asilo. La misura è stata duramente contestata dalle associazioni che si occupano di immigrazione, ma anche dall’Associazione nazionale magistrati (Anm) e dal Consiglio superiore della magistratura che in un parere inviato nei giorni scorsi al Guardasigilli ha denunciato il rischio di una "diffusa compressione delle garanzie del richiedente". Una limitazione che in futuro potrebbe aprire la strada a un possibile ricorso alla Corte costituzionale. Così come a rischio incostituzionalità potrebbe essere anche la decisione, adottata sempre nel decreto, di istituire nei tribunali 26 sezioni "specializzate" nell’esame dei ricorsi contro il diniego delle richieste di asilo e di quelli contro i provvedimenti di espulsione, e formate da magistrati esperti del fenomeno migratorio. Secondo alcuni giuristi, infatti, la decisione contrasterebbe con quanto previsto dall’articolo 102 della Costituzione, che proibisce l’istituzione di "giudici straordinari e giudici speciali". Non si tratterebbe solo di un problema relativo alle parole "speciali" e "specializzate", bensì più in generale al fatto che verrebbero a crearsi magistrati esperti più che di immigrazione in generale, soltanto di protezione internazionale. Il decreto prevede poi la sostituzione, più volte annunciata dal ministro Minniti, dei Cie con i Cpr, vale a dire degli attuali Centri per l’identificazione e l’espulsione dei migranti irregolari con i Centri di permanenza per il rimpatrio, con inoltre la possibilità di allungare i tempi di detenzione dagli attuali 90 giorni fino a 135. I piani del Viminale prevedono un Cpr in ogni regione ognuno dei quali in grado di detenere fino a un massimo di 100 persone. Nel provvedimento che verrà approvato oggi per poi passare alla Camera è prevista infine anche la possibilità per un Comune di utilizzare i richiedenti asilo presenti nel proprio territorio in lavori socialmente utili, senza compensi in denaro né obbligo di accettazione da parte dei rifugiato. Dall’Arci ad Amnesty, da Antigone al Cir, al Centro Astalli, al Cnca e alla Comunità di sant’Egidio sono state numerose le associazioni della società civile che hanno criticato il decreto, per molte delle quali le misure previste hanno una carattere puramente elettorale. Ma se molti dei provvedimenti previsti probabilmente non verranno mai realizzati (come i rimpatri, per i quali servono accordi bilaterali con i Paesi di origine che al momento non ci sono), diversa è la situazione per quanto riguarda la soppressione dell’appello, misura che potrebbe entrare in vigore non appena il decreto avrà ricevuto il via libera della Camera. Tra tutte quelle previste certamente quella più pericolosa. Tanto da aver spinto i due senatori del Pd ad annunciare l’intenzione di non votare oggi la fiducia. Per Luigi Manconi e Walter Tocci, infatti, il decreto Minniti-Orlando "configura per gli stranieri una giustizia minore e un "diritto diseguale", se non una sorta di "diritto etnico" connotati - spiegano - da significative deroghe alle garanzie processuali comuni". Critici verso il provvedimento anche i Radicali italiani che puntano il dito in particolare sui rimpatri. "Il ministro dell’Interno - commenta il segretario Riccardo Magi - non ha ancora chiarito come farà a renderli effettivi nel rispetto dei diritto europeo e internazionale". Migranti. Nuovi Cie, Minniti avvisa le Regioni: troviamo l’intesa o avanti comunque di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 29 marzo 2017 Al Senato il voto di fiducia sul piano migranti. I dem Manconi e Tocci: "Diremo no"Il ministro dell’Interno: "Vienna rifiuta nuovi arrivi, noi siamo Paese pilota per Ue". Il fatto che questo piano fosse la sua sfida prioritaria da ministro dell’Interno, Marco Minniti non l’ha mai nascosto. Perché "mentre gli altri Stati alzano muri o addirittura rinnegano gli accordi già siglati, come sta facendo adesso l’Austria per non ricollocare 500 persone, noi siamo gli unici ad avere un’agenda nazionale. Ed è con questo che adesso l’Europa si dovrà misurare". E così, alla vigilia del voto di fiducia al Senato sul decreto legge che introduce nuove norme in materia di immigrazione (rispetto al quale due dem, Luigi Manconi e Walter Tocci, annunciano voto contrario), il titolare del Viminale ribadisce la volontà di fare dell’Italia "il Paese pilota che si muove sul doppio fronte: internazionale, come è accaduto con la sigla dell’accordo con il governo libico; interno, con questo pacchetto che rappresenta una novità assoluta perché tutela i diritti degli stranieri, ma al primo posto mette quelli degli italiani che non devono subire i flussi come fossero un’invasione". I 23mila arrivi - La linea è tracciata: rimpatrio degli irregolari e snellimento delle procedure per chi invece chiede asilo. Il numero delle persone sbarcate nei primi tre mesi del 2017 continua a salire, ormai c’è un incremento che sfiora del 60% i dati del 2016. Siamo oltre 23 mila arrivi, senza un’inversione di tendenza l’estate potrebbe diventare complicata. Per questo, ripete Minniti, "abbiamo deciso di procedere in meno di 3 mesi e ci siamo concentrati sui punti chiave del sistema: la creazione di centri di identificazione per chi deve essere espulso sparsi su tutta la Penisola, il fatto che i rifugiati debbano essere accolti per non più di 6 mesi e soprattutto la possibilità di lavorare e quindi di integrarsi nella comunità". Intanto, per Lampedusa, sono stati prorogati gli sgravi fiscali per tutto il 2017. L’incontro con governatori e sindaci - Alle critiche di chi ritiene che il lavoro sia una prerogativa da destinare agli italiani, il ministro ha già risposto che si tratterà di "attività socialmente utili, non retribuite e volontarie, finanziate dalla comunità europea con fondi destinati solo a questo scopo". Lo ribadirà nei prossimi giorni durante l’incontro con governatori e sindaci, ai quali chiederà collaborazione proprio per incrementare il numero delle strutture per la cosiddetta accoglienza diffusa "senza pesare troppo sui cittadini, ma anzi cercando di sfruttare al meglio questa possibilità", anche grazie ai contributi destinati agli enti locali. I primi risultati sono già arrivati. Oltre 40 Comuni dell’Emilia-Romagna hanno già fatto sapere che metteranno a disposizione alcuni centri. Risposte positive sono giunte anche dalla Lombardia e dal Veneto. Certo, i nodi da sciogliere sono ancora parecchi e il principale riguarda proprio i nuovi Cie (Centri identificazione e espulsione), perché le resistenze dei presidenti di Regione sono forti, soprattutto in vista delle elezioni amministrative. Ma il negoziato è in corso, altri fondi potranno essere stanziati per chi decide di partecipare alla distribuzione dei richiedenti asilo. Raddoppiare le espulsioni - "Cerchiamo un’intesa perché non vogliamo agire d’imperio", ha sempre detto Minniti, senza però nascondere la determinazione a realizzare comunque il piano. I centri di identificazione "saranno fuori dai centri abitati, preferibilmente vicino agli aeroporti e potranno ospitare al massimo 150 persone in attesa di rimpatrio. Non ci saranno interferenze nella vita dei cittadini e dunque non c’è alcun motivo di rifiutare queste strutture". Lo dice lasciando intendere che senza un accordo si procederà comunque anche perché, come più volte ha sottolineato il capo della polizia Franco Gabrielli, "senza un’identificazione rapida degli stranieri irregolari non abbiamo la possibilità di rimpatriarli". E invece l’obiettivo è proprio quello di raddoppiare le espulsioni riuscendo a farne almeno 10 mila entro la fine dell’anno. Migranti. Manconi e Tocci: "No alla fiducia sul dl Minniti-Orlando" La Repubblica, 29 marzo 2017 I due Senatori Pd: "Il decreto configura per gli stranieri una giustizia minore e un "diritto diseguale", se non una sorta di "diritto etnico". Il comitato per i diritti umani Onu bacchetta l’Italia: eliminare il reato di clandestinità, limitare l’uso della detenzione e no ai rimpatri collettivi. "Abbiamo deciso, dopo un’attenta riflessione, di non votare la fiducia sul decreto legge Minniti-Orlando in materia di protezione internazionale e contrasto all’immigrazione illegale". È quanto affermano in una nota i senatori del Pd Luigi Manconi e Walter Tocci. "Molte le ragioni di questa scelta - spiegano - ma una ha un peso particolare. Il decreto, infatti, configura per gli stranieri una giustizia minore e un "diritto diseguale", se non una sorta di "diritto etnico". Secondo i due esponenti del Pd, il decreto contiene "significative deroghe alle garanzie processuali comuni, non giustificabili in alcun modo con le esigenze di semplificazione delle procedure di riconoscimento della protezione internazionale. Da un lato, infatti, per queste controversie si abolisce l’appello, ammesso persino per le liti condominiali o per le opposizioni a sanzioni amministrative. Per altro verso, nell’unico grado di merito ammesso, il contraddittorio è talmente affievolito da escludere, salvo casi eccezionali, la partecipazione dell’interessato al giudizio. Giudizio che verrà celebrato, così, in camera di consiglio in sua assenza. Dunque, il richiedente asilo non incontrerà, tranne che in particolari circostanze, il proprio giudice". "Ne consegue - sostengono i parlamentari - che un principio determinante per il nostro sistema di garanzie, vigente nell’intero ordinamento, viene negato ai soggetti più vulnerabili e a proposito di un diritto fondamentale della persona. Eppure sia l’esigenza di snellire e semplificare le procedure per il riconoscimento della protezione, sia quello di ridurre l’inevitabile crescita delle cause giudiziarie, sarebbero perseguibili con altre metodologie, tali da non compromettere né i diritti fondamentali della persona (e il diritto di difesa è una delle basi essenziali dell’ordinamento) né il principio dell’eguaglianza davanti alla legge", concludono i senatori Manconi e Tocci. Oggi il Comitato per i diritti umani dell’Onu, nel suo report con le osservazioni sull’Italia, ha sottolineato come sia necessario procedere alla eliminazione del reato di clandestinità ma anche limitare l’uso della detenzione dei migranti, misura che va utilizzata solo come extrema ratio. Nel documento il comitato ha invitato, inoltre, l’Italia ad astenersi dall’effettuare rimpatri collettivi in evidente violazione del diritto internazionale, il che implica anche la necessità di rivedere gli accordi bilaterali in materia di immigrazione, partendo proprio dall’intesa con il Sudan, visto che il comitato dedica specifica attenzione al caso del rimpatrio forzato di 48 sudanesi da Ventimiglia. Il Comitato ha prestato attenzione anche alla tematica dell’accoglienza, giudicata inadeguata e decisamente bisognosa di miglioramenti, ed alla questione specifica dei minori stranieri non accompagnati, per cui ha chiesto una revisione della normativa. Infine è stata anche presentata negativamente la sovra-rappresentazione degli stranieri in carcere. Migranti. Ventimiglia e non solo, la criminalizzazione della solidarietà di Livio Pepino Il Manifesto, 29 marzo 2017 Ci sono fatti illuminanti su quello che sarà il nostro futuro se non si contrastano prassi e culture che si stanno diffondendo in modo preoccupante. Il primo fatto è accaduto a Ventimiglia, confine ligure con la Francia e, per questo, luogo di "stazionamento" di molti migranti in attesa di varcare il confine. Ventimiglia e la zona dei "Balzi rossi" sono stati nell’estate scorsa sotto i riflettori per le proteste contro il blocco della frontiera francese poste in essere da migranti, dapprima accampati sulla spiaggia e successivamente ripiegati in città dove, peraltro, le strutture di accoglienza erano e sono insufficienti. Così molti dormono in strada e vengono sfamati dalla Caritas o da una mensa parrocchiale. Ma anche queste non bastano. Perciò ogni sera volontari francesi provenienti dalla Val Roja distribuiscono a chi ne ha bisogno panini, acqua e the. Ma a Ventimiglia vige una ordinanza, emessa dal sindaco l’11 agosto 2016, che vieta la distribuzione di cibo ai migranti e così - incredibile ma vero - nei giorni scorsi tre volontari sono stati denunciati per il reato di "inosservanza dei provvedimenti dell’autorità" previsto all’art. 650 del codice penale. All’altro capo dell’Italia, nel mare che divide la Sicilia dalle coste africane e in acque internazionali, si muovono da qualche tempo alcune navi di organizzazioni non governative che vigilano su eventuali naufragi e, nel caso, soccorrono i naufraghi o recuperano i corpi di chi non ce l’ha fatta. Anche qui è accaduto che la Procura della Repubblica di Catania abbia aperto una "indagine conoscitiva" sulle organizzazioni interessate sospettate di favorire l’immigrazione clandestina se non addirittura - come sostengono alcuni commentatori - di agevolare gli scafisti. Questa criminalizzazione della solidarietà che, paradossalmente (o forse no), colpisce chi cerca di sopperire alle lacune delle istituzioni ha dei riferimenti precisi. Essa, infatti, è ormai regola negli Stati Uniti, dove il diritto penale sempre più persegue non solo i poveri ma anche chi vuole esercitare il diritto (o il dovere morale) di aiutarli. Il fenomeno è descritto in termini analitici, e con ampia esemplificazione, in un recente e lucido libro di Elisabetta Grande (Guai ai poveri. La faccia triste dell’America, Edizioni Gruppo Abele, 2017) da cui si apprende, tra l’altro, che in molti Stati il divieto di camping penalmente sanzionato colpisce non solo l’homeless che vi fa ricorso, ma addirittura il proprietario che consenta al senza tetto di dormire in tenda sul proprio terreno per più di cinque giorni consecutivi, o che analogo divieto si estende all’autorizzazione a parcheggiare nel proprio spazio privato l’auto utilizzata da un homeless come abitazione. Quanto alla somministrazione di cibo ai poveri, poi, si è assistito finanche all’arresto di un novantenne, fondatore di un’organizzazione benefica, colpevole di servire pasti caldi agli homeless su una spiaggia e, come lui, di altri attivisti dalla Florida al Texas o alla richiesta di cifre altissime, come tassa per l’occupazione di suolo pubblico richiesta, in California e in South Carolina, alle organizzazioni che distribuiscono cibo nei parchi. Il meccanismo della criminalizzazione è lo stesso adottato dal sindaco di Ventimiglia: l’adozione di ordinanze contenenti proibizioni dettate da motivazioni per lo più speciose, come quella di garantire la sicurezza dei consociati, messa in pericolo dall’assembramento dei bisognosi che si recano a mangiare, o addirittura quella di proteggere la sicurezza alimentare o la dignità degli homeless, che meriterebbero un cibo controllato e un luogo coperto in cui consumare il pasto (tacendo che cibi e luoghi siffatti in realtà non esistono). La cosa più inquietante è che quelle ordinanze, comparse la prima volta alla fine degli anni Novanta, hanno visto di recente una notevole intensificazione, con un aumento del 47% nel solo periodo tra il 2010 e il 2014, parallelamente al crescere della povertà e del numero di soggetti esclusi anche dai buoni alimentari assistenziali. Ci fu, nella storia, un tempo (nell’Alto Medioevo) in cui la povertà divenne fonte di diritti, tanto da far assurgere il patrimonio della Chiesa a "proprietà dei poveri", destinata a chi non era in grado di mantenersi con il proprio lavoro e non alienabile neppure dai vescovi. Ma fu eccezione: quando il diritto si è occupato dei poveri lo ha fatto, per lo più, in chiave di punizione e di difesa della società. Ciò è stato messo in discussione, nel nostro Paese, dalla Costituzione repubblicana, che pone a tutti un dovere di solidarietà e indica l’uguaglianza sociale come obiettivo delle istituzioni. Sarebbe bene non dimenticarlo, anche da parte dei sindaci e dei procuratori della Repubblica. Norvegia. Il sistema carcere può essere umano? Elisa Bianchini blastingnews.com, 29 marzo 2017 In Norvegia credono sia possibile e lo hanno messo in pratica, con risultati eccezionali. Quando parliamo di carcere pensiamo sempre a sbarre, filo spinato, guardie armate e cortili di cemento da cui è visibile solo un quadrato di cielo nella sola ora d’aria concessa durante la giornata (in quelle strutture dove è concesso ). Non è così in tutto il mondo però, in Norvegia sorge il carcere di Bastoy: una serie di mini appartamenti con doccia, frigo e televisore privato, immerso nel verde fra alberi di pini e betulle. Una struttura dal costo di 187 milioni di euro che ospita assassini, stupratori e pedofili in una cornice bucolica che assomiglia più ad un campus universitario che ad un carcere. Perché la Norvegia ha creato un simile sistema carcerario? - Lo stato norvegese parte dal presupposto, condiviso sulla carta da molti Paesi, che il carcere abbia una funzione educativa e riabilitativa sul detenuto per questo vengono ricreate le stesse condizioni nelle quali poi la persona dovrà vivere una volta scontata la pena. I detenuti non vengono mai sottoposti a situazioni di degrado o umilianti, trascorrono la loro pena quasi sempre all’aria aperta, facendo jogging, arrampicata o giocando a baseball. Lo sport e i giochi di squadra in particolare insegnano alle persone il lavoro di squadra e l’importanza dell’affidarsi agli altri. "Se trattiamo le persone come fossero animali quando sono in prigione, è probabile che si comportino come animali. Per questo qui cerchiamo di trattare i detenuti come esseri umani" ha dichiarato Arne Nilsen, ex direttore di Bastoy, in un’intervista al Guardian. I risultati sono eccezionali - Per coloro che considerano questo sistema come mero e dispendioso buonismo, mostriamo i risultati eccezionali dell’idea norvegese. Il tasso di recidiva nel Paese è del 20 per cento, a Bastoy in particolare sfiora il 16 per cento, uno dei più bassi al mondo. Negli Stati Uniti, paladini delle pene severe con scopo dissuasivi, il tasso di recidiva è del 75 per cento, ma anche in Italia la situazione non è migliore, la percentuale di ricommettere gli stessi reati, se non peggiori, è del 68 per cento. Non solo il sistema carcerario permette di raggiungere simili risultati, l’aiuto dello Stato in proposito è fondamentale. Prima ancora che il detenuto abbia lasciato il carcere, lo Stato lo aiuta a trovare una casa e un lavoro adatto ai suoi studi e alle sue abilità. Questo sistema di welfare, oltre a cure sanitarie e pensioni minime garantite a tutti, permette alle persone di risollevarsi da situazioni di povertà e degrado che conducono spesso a delinquenza e criminalità. La Norvegia ha dimostrato concretamente che la vera giustizia non è punire i colpevoli, ma rispettarli, solo in questo modo si può insegnare il rispetto, e non la sopraffazione, verso gli altri. Egitto. Giornalista freelance in carcere senza processo da 14 mesi di Riccardo Noury articolo21.org, 29 marzo 2017 Quando fai un giornalista in Egitto e vieni arrestato, di rinvio in rinvio puoi rimanere anche più di tre anni e mezzo in carcere senza essere processato: lo sa bene Mahmoud Abu Zeid, meglio noto come Shawkan, di cui abbiamo spesso parlato su questo portale. Ismail Alexandrani in prigione ci sta da 458 giorni e la prospettiva è di passarcene almeno altri 45: così ha deciso il 26 marzo un tribunale del Cairo, prorogando la sua detenzione per un altro mese e mezzo. Alexandrani, 32 anni, sociologo e giornalista investigativo freelance specializzato nelle questioni della penisola del Sinai (questioni particolarmente sensibili in materia di sicurezza, data la presenza di gruppi terroristi e di bande criminali dedite al traffico di esseri umani) è stato arrestato alla fine del 2015 all’aeroporto di Hurghada, al rientro da un ciclo di conferenze in Germania. L’accusa nei suoi confronti è duplice: terrorismo e diffusione di notizie false. Alexandrani nega ogni addebito, sostenendo che i suoi articoli e le sue ricerche sono basati su fatti concreti. Certo, i titoli e i contenuti di alcune sue pubblicazioni non devono essere stati visti di buon occhio dal governo del presidente al-Sisi: come ad esempio "Violenza in Sinai: la guerra dello stato contro la società e la produzione del terrorismo", edito dalle Edizioni universitarie di Francia nel 2015. Nel novembre 2016 Alexandrani aveva ottenuto il rilascio ma, come avviene spesso in Egitto, la procura per la sicurezza dello stato si era opposta al provvedimento. Della vicenda di Alexandrani si stanno occupando gruppi egiziani e associazioni internazionali per la difesa dei diritti umani. Ricordate la Somalia? Sta morendo di fame di Federica Iezzi Il Manifesto, 29 marzo 2017 Vent’anni dopo la missione italiana e l’omicidio di Ilaria Alpi, Mogadiscio è scomparsa dalle cronache. Ma è in piena carestia: 360mila bambini malnutriti, 900mila persone a rischio. L’Italia della cooperazione c’è con un ospedale pediatrico all’avanguardia. La memoria italiana ha lasciato la Somalia a 20 anni fa, con la missione di peacekeeping Restore Hope, a cui partecipo’ anche il nostro contingente, e l’omicidio di Ilaria Alpi. Da allora solo notizie sporadiche: raccontati approssimativamente gli attentati del jihadista al-Shabaab, cellula somala di al-Qaeda, sfiorate da lontano le tematiche legate a siccità, carestie e malattie correlate, taciute le questioni politiche che girano intorno a istituzioni deboli, fazioni in lotta e disoccupazione dilagante. Accanto alla vita che riprende su Lido Beach, Jazeera Beach e Warsheekh Beach, le più frequentate spiagge di Mogadiscio, e accanto alle elezioni del nuovo presidente Mohamed Abdullahi Mohamed, "salutate" a febbraio da un attentato nel mercato di Kaawo-Godeey, nel quartiere Wadajir, il lavoro italiano non si è fermato. Siamo ad Hargheisa, capitale del Somaliland, riconosciuta dalla comunità internazionale come regione autonoma della Somalia, soggetta al governo federale di Mogadiscio. Le mappe coloniali africane dal 1960 hanno subito solo due modifiche significative: la separazione dell’Eritrea dall’Etiopia nel 1993 e l’autonomia del Sud Sudan nel 2011. La Somalia britannica nel 1991 ha autoproclamato la sua indipendenza, ma l’affermazione come paese non è mai arrivata. In questo lembo di terra è cresciuto il progetto del Mohamed Aden Sheikh - Children Teaching Hospital (Mas-Cth). Ospedale costruito grazie all’ingegno italiano, è stato fortemente voluto da Mohamed Aden Sheikh, medico chirurgo, ministro della Salute in Somalia negli anni ‘70 e prigioniero politico del regime di Siad Barre. La costruzione nel 2012 è stata seguita da un periodo di formazione in loco di una nuova generazione di medici e infermieri. Ed esattamente un anno dopo, il Mas-Cth ha iniziato la sua attività. Il quadro è quello di un paese con oltre sei milioni di persone che necessitano di assistenza alimentare, più della metà della popolazione secondo le stime dell’Onu. Più di 363mila bambini sono affetti da malnutrizione acuta, tra questi 71mila lottano contro forme di malnutrizione grave. Secondo il Cluster Nutrizione per la Somalia, se non verranno forniti aiuti con urgenza i numeri potrebbero quasi triplicare: in 944mila rischiano di entrare nel tunnel della malnutrizione nell’arco di quest’anno, inclusi 185mila bambini che avranno bisogno di sostegno urgente salvavita, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Più di 50mila bambini, secondo l’Onu, rischiano di perdere la vita. E la risposta della comunità internazionale alla minaccia della carestia in Somalia, ripercorre i gravi errori dell’ultima crisi risalente al 2011, che uccise 250mila persone. L’Unicef, con il supporto dell’European Civil protection and Humanitarian aid Operation (Echo), ha istituito centri di nutrizione nei campi rifugiati somali, che finora hanno permesso un tasso di recupero del 92,4% per i 42.526 bambini gravemente malnutriti in tutta la Somalia. Il programma ha mostrato grandi progressi a partire dal 2013, fornendo assistenza a migliaia di bambini malnutriti e donne in gravidanza o in allattamento. Ad aggravare il quadro è il gran numero di rifugiati che sta rientrando forzatamente nel paese: 57.329 somali sono tornati a casa dal dicembre 2014, quando l’Unhcr ha iniziato a sostenere il rientro dei rifugiati somali dal Kenya (di cui 17.359 solo nel 2017). E per la fine dell’anno è previsto il rientro di oltre 79mila rifugiati: prese d’assalto la zona di Baidoa, a nordovest di Mogadiscio, e la zona di Kismayu, a sudovest della capitale. Ma molti rifugiati continuano a ritrovarsi senza un riparo e versano in condizioni igieniche gravi, diretta conseguenza della promiscuità nei campi profughi non ufficiali, nati nelle periferie delle città. La qualità dell’acqua provoca la rapida diffusione di diarrea e malaria. Non ci sono latrine, le pratiche non igieniche espongono le comunità al rischio di gravi epidemie. Si contano ad oggi oltre 8.400 casi di diarrea acuta e colera. Più di 200 i decessi. A pieno regime il Mas-Cth, nei suoi 13mila m2, garantisce assistenza sanitaria a tutta la popolazione pediatrica, fino a 14 anni. E ad oggi sono 50mila i bimbi visitati nell’arco dei passati cinque anni. Ogni giorno i piccoli pazienti accolti al Mas-Cth sono tra i 50 e 70. Otto camere di degenza pediatrica e neonatologica per un totale di 36 posti letto, due camere di isolamento dedicate a bambini portatori di malattie infettive contagiose, ambulatori medici e di piccola chirurgia, farmacia, laboratorio analisi, centro malnutrizione e padiglione chirurgico, disegnano il corpo dell’ospedale. Lo staff sanitario locale è costituito da cinque medici, 15 infermieri, due tecnici di laboratorio, due farmacisti, un nutrizionista, un health promoter e, come supporto, da personale per le pulizie, cuochi, addetti alla lavanderia, autisti, guardie, logisti, tecnici. Negli anni passati personale internazionale ha accompagnato il team locale con attività di insegnamento e training specialistico. E attualmente specialisti internazionali coadiuvano l’attività del centro mediante missioni umanitarie. Quali sono i programmi futuri dell’ospedale? Lo abbiamo chiesto alla dottoressa Khadra Ibrahim, direttore generale: "La gestione amministrativo-finanziaria è attualmente sotto la completa responsabilità del governo del Somaliland. I piani legati alla sostenibilità sono dunque stati ereditati dallo stesso governo. I prossimi passi da affrontare sono l’ottimizzazione dei trattamenti per la malnutrizione, già in esecuzione in un’ala dell’ospedale, la specializzazione delle cure nella già presente terapia intensiva neonatale e l’ampliamento del dipartimento chirurgico, già operativo". Abbiamo anche chiesto alla dottoressa Ibrahim se il Mas-Cth ha inciso nelle politiche sanitarie del Somaliland. "È l’unico ospedale pediatrico del Somaliland. È diventato, relativamente in poco tempo, un punto di riferimento per l’intera popolazione pediatrica somala. La programmazione di periodi di tirocini formativi per il personale sanitario e l’attenta gestione mirata alle cure dei più piccoli, hanno reso l’ospedale meritevole di guadagnare gli standard qualitativi occidentali". Intelligente modello di cooperazione internazionale, entrato imponentemente nell’assetto sanitario del paese, il Mas-Cth, incidendo sulle politiche sanitarie del Somaliland, riveste oggi l’importante compito di punto di riferimento per l’intera popolazione pediatrica. L’opera, finanziata dall’associazione torinese Soomaaliya, grazie ad un contributo del Ministero degli Affari Esteri, dalla Fondazione La Stampa ‘Specchio dei tempì, da contributi della Marco Berry Onlus e della Mediafriends Onlus, rimane il più grande progetto sanitario realizzato dalla guerra civile nel 1991. Afghanistan. La guerra del poliziotto Massimo ai trafficanti di eroina di Paolo Salom Corriere della Sera, 29 marzo 2017 Nel Paese la produzione di oppio è in aumento e raggiunge l’80 per cento del totale mondiale: in Europa l’emergenza cresce. Un poliziotto racconta la vita in prima linea: gli agenti afghani, gli agguati, i colleghi caduti sul campo. La guerra di Massimo contro i signori della droga afghani non ha orari, non conosce festività e si svolge, come in quei giochi di intelligenza dove bisogna indovinare una figura immersa in un’altra, sullo sfondo del conflitto contro i talebani. "Gli scontri armati sono un dato di fatto che non si può ignorare - ci dice, seduto su un divanetto nel suo ufficio a Kabul. Può capitare che un’operazione pianificata per settimane venga interrotta da un attentato che investe l’area dove stai per agire. Oppure i sospetti che stiamo seguendo improvvisamente si facciano scudo dei combattimenti che sbarrano la strada a interi distretti di questo immenso Paese". Massimo è vicequestore della Polizia in forza alla Direzione centrale servizi antidroga (Dcsa), ufficio interforze (Carabinieri, Polizia, Finanza) che porta la lotta al narcotraffico là dove ha origine. "Siamo in diverse sedi nel mondo - spiega al Corriere - e non svolgiamo soltanto un lavoro di prevenzione contro gli stupefacenti diretti in Italia ma siamo veri e propri esperti per la sicurezza che lavorano presso le rappresentanze diplomatiche". Massimo (per ragioni di sicurezza non possiamo indicare il cognome), un passato da "operativo" in Italia, ha quasi concluso la sua missione biennale in uno dei Paesi più pericolosi non soltanto per il conflitto che lo devasta da oltre un trentennio. Ma anche perché l’Afghanistan, al momento, è il centro nodale del commercio di oppio: qui viene prodotto l’80 per cento della componente fondamentale dell’eroina - droga che è tornata ad affliggere anche l’Italia - con un giro d’affari tra i 2 e i 4 miliardi di dollari (7-10% del Pil nazionale). Secondo i dati dell’ultimo rapporto delle Nazioni Unite (Unodc), nel 2016 le piantagioni distribuite soprattutto nelle regioni di Helmand, Badghis, Nangahar, hanno "regalato" il 43 per cento in più di oppio sull’anno precedente: da 3.300 a 4.800 tonnellate. Non solo, in barba a tutti gli sforzi per convertire i campi a coltivazioni "innocue" (principalmente zafferano), gli ettari destinati alla droga son passati da 183 mila a 201 mila. Una guerra già persa? Il vicequestore, barba lunga ("per rispetto alle usanze locali") precocemente imbiancata, capelli a zero e uno sguardo nervoso di chi è abituato a reagire agli imprevisti in una frazione di secondo, allarga le braccia: "Certo, qui si vanno a smuovere interessi enormi. Ma dobbiamo intenderci, in Afghanistan la droga non è qualcosa di estemporaneo, utilizzata per sballare e divertirsi, nonostante le conseguenze. Qui l’oppio spesso è una necessità". Infatti: chiunque sia passato dall’Afghanistan, sa che molte mamme arrivano al punto di fumarlo per poi soffiare in bocca ai loro bambini, perché non sentano i morsi della fame. Non solo: i proventi di questo commercio, in un Paese annichilito dalle guerre, portano un reddito minimo nelle case dei contadini che altrimenti non avrebbero che tè e pane per arrivare a fine giornata. "E non dimentichiamo poi l’intreccio con armi e contrabbando, le milizie che fanno il bello e il cattivo tempo. Questa è la situazione: e il mio compito qui è soprattutto quello di un osservatore che, in stretta collaborazione con gli uffici di altri Paesi e con i colleghi afghani, cerca di individuare i traffici verso l’Italia, dove si organizzano i carichi, quali rotte percorrono, dove arrivano a destinazione". Massimo è appena rientrato da un "giro" ma è impossibile estorcergli particolari più precisi sui suoi "compiti". A Kabul, spiega, lavora per elevare il più possibile le capacità operative dei colleghi afghani: "Se partecipo ai loro blitz? La mia preoccupazione è soprattutto che gli uomini del ministero antinarcotici di Kabul assimilino gli standard internazionali, perché un domani dovranno fare tutto da soli. Io, quando sono con loro, devo essere invisibile. Così come avviene per i colleghi delle agenzie antidroga americana, britannica, tedesca. Un lavoro complesso, di squadra. Ma che la guerra rende imprevedibile: un giorno ti trovi in palestra con i colleghi che sono diventati tuoi amici, e poi, il giorno seguente, scopri che il tuo vicino è saltato su una mina, o è rimasto coinvolto in uno scontro a fuoco fatale. Di lui resta solo il ricordo e un funerale". Tra pochi mesi Massimo tornerà in Italia, con la sua pesante (e preziosissima) esperienza nella lotta alla droga. E poi? "Cosa farò? - sorride. Mi taglierò la barba. Forse". Filippine. Settemila morti in pochi mesi per cercare spacciatori con metodi medievali di Anna Maria De Luca La Repubblica, 29 marzo 2017 Una denuncia che dà voce ai più emarginati si è levata dall’Associazione Luca Coscioni, in occasione della sessantesima sessione della Commissione ONU sulle Droghe. A richiamare l’attenzione internazionale è la vice Presidente delle Filippine, Maria Leonor "Leni" Girona Robredo. "Settemila persone eliminate dalla polizia filippina in pochi mesi, con uno schema di ‘scambiò assurdo e medievale, per cui se il presunto colpevole non viene trovato è il coniuge o un suo parente ad essere arrestato. Una denuncia che dà voce ai più emarginati si è levata dall’Associazione Luca Coscioni, in occasione della sessantesima sessione della Commissione Onu sulle Droghe. A richiamare l’attenzione internazionale è la vice Presidente delle Filippine, Maria Leonor "Leni" Girona Robredo. Le richieste di aiuto. Molti cittadini si sono rivolti alla vice-presidente per denunciare i metodi brutali messi in atto dalla polizia: "La nostra gente - ha detto la vice presidente - si sente senza speranza e impotente, intrappolata in uno stato d’animo di paura, che tutti dovremo prendere in considerazione. La campagna ha preso di mira le comunità più povere, che vengono radunate con la forza e perquisite senza mandato in luoghi ampi come campi da basket, dove le donne vengono separate dagli uomini, le persone con i tatuaggi raggruppate in un angolo". Il tavolo a Vienna. Organizzato grazie al sostegno dell’Internazionale liberale e della Drug Policy Alliance, l’incontro sulle esecuzioni extra-giudiziarie nelle Filippine è stato l’occasione per lanciare un allarme internazionale su quanto sta accadendo. Come ha affermato Alison Smith in rappresentanza di Non c’è Pace Senza Giustizia), "le autorità filippine dovrebbero avviare immediatamente le indagini e perseguire i responsabili. Nei primi otto mesi del governo Duterte - denuncia Chito Guascone, il presidente della Commissione per i diritti umani della Repubblica delle Filippine, che sta chiedendo l’apertura di inchieste ufficiali - ci sono stati più morti che durante il primo anno della dittatura di Marcos". Appello ai Paesi europei. L’associazione Coscioni chiede "che tutti i Paesi europei si attivino per porre fine alle esecuzioni extragiudiziarie nelle Filippine: "Perché con la scusa della "guerra alla droga" si commettono crimini gravissimi e si mette a tacere l’opposizione. Ci sono sufficienti elementi - ha detto Marco Perduca, dell’Associazione Luca Coscioni - per attivare la giurisdizione della Corte Penale internazionale e avviare delle indagini indipendenti per i crimini contro l’umanità, commessi da polizia ed esercito filippino. Anche se nessuno Stato si vorrà assumere la responsabilità di farlo, lo faremo secondo le procedure previste dalla Corte dell’Aia come organizzazioni non-governative".