Dopo la visita del Papa a San Vittore perché non aboliamo l’ergastolo? di Francesco Lai* Il Dubbio, 28 marzo 2017 Ha definito la pena perpetua come una pena di morte mascherata. dovremmo dare seguito al suo impegno e alle sue richieste. "È come se il Papa avesse sciolto le sbarre". Potenza delle metafore: con queste poche e semplici parole, una detenuta ha descritto, forse meglio di chiunque altro, il forte impatto emotivo suscitato dalla visita di Papa Francesco nel carcere milanese di San Vittore, avvenuta sabato scorso. L’abbraccio corale rivolto dal Pontefice ai quasi 900 ospiti della casa circondariale di Milano rappresenta solo l’ultima tappa di un viaggio pontificale segnato dalla costante attenzione e vicinanza verso i detenuti e le loro condizioni di vita, spesso disumane, all’interno delle carceri. Un percorso che ormai assurge ad icona del pontificato di Papa Francesco, il cui inizio può essere fatto coincidere con l’intervento che la massima giuda spirituale svolse il 23 ottobre 2014, durante un incontro con i rappresentanti dell’Associazione internazionale di Diritto penale. Quel giorno il Papa parlò di carcere, di ergastolo, di pena di morte, di populismo penale. Lo fece in modo deciso e netto, assimilando l’ergastolo ad una "pena di morte nascosta", antitetica rispetto alla dignità che deve essere riconosciuta ed assicurata ad ogni essere umano, anche a colui che, avendo errato, sia stato privato di uno dei suoi beni fondamentali, la libertà. Un discorso radicale, di rottura e di grande levatura spirituale e morale, in cui il Papa non si soffermò solo sullo scopo rieducativo della pena, ma arrivò addirittura a denunciare la deriva "selettiva", classista, addirittura razzista del sistema penale, praticamente in ogni parte della terra. In quella occasione colpì come l’alto monito rivolto dal Pontefice cadde nel più totale disinteresse, una sorta di "buco nero dell’oblio", soprattutto da parte della politica. Tuttavia, se è vero che le forze politiche ignorarono quel forte richiamo, rifugiandosi in una sorta di "consapevole silenzio", è vero anche che, a distanza di quasi due anni e mezzo, esso viene oggi riletto e ripreso da tutti coloro che si interrogano sullo stato del nostro sistema penale, sulla sua effettiva idoneità a rieducare chi ha sbagliato, e sulla incapacità, ormai troppe volte denunciata, di rispettare i diritti fondamentali della persona, anche se detenuta per i più gravi reati. Significativo come gli argomenti sviluppati dal Santo Padre siano stati oggetto di analisi e riflessione da parte di autorevoli esponenti della dottrina, tra i quali il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli o l’ex Ministro della Giustizia, e docente di Diritto penale, Giovanni Maria Flick che laicamente hanno commentato il pensiero papale in un libro dal titolo Giustizia e carceri secondo Papa Francesco, di recente pubblicazione. Chi invece su questi temi rimane silente è il mondo politico. Ed in questa ottica, non può non essere segnalata la concomitanza tra la visita di Papa Francesco al carcere di San Vittore e le celebrazioni per il sessantesimo anniversario dei trattati di Roma, che di fatto istituirono l’inizio dell’Europa, intesa come Unione. Una sorta di icastico parallelismo che segna un’indelebile distanza tra la massima autorità spirituale, che preferisce entrare in un carcere sedendosi a fianco degli ultimi, ed i detentori del potere temporale che, riuniti in Campidoglio, discutono della Istituzione Europa. Un’Europa che, va detto, storicamente è stata la fucina delle più grandi conquiste democratiche e di civiltà, come l’abolizione della pena di morte o la teorizzazione, con Cesare Beccaria, della inutile crudeltà della tortura intesa come mezzo di ricerca della prova. O, ancora, l’abolizione dell’ergastolo, diventata realtà in alcuni Stati del vecchio continente, come quelli facenti parte della penisola scandinava. Viene allora spontaneo domandarsi perché il tema dell’esclusione della pena perpetua dall’ordinamento, più volte sollecitata dal Pontefice, non debba essere posto al centro del dibattito anche nel nostro Paese. Argomento, quest’ultimo, troppo impopolare per le forze politiche le cui azioni sono sovente ispirate e governate dalla sola ricerca del consenso. Tuttavia, Papa Bergoglio ha voluto donare, anche ai detenuti di Milano, la speranza. Una speranza che, intesa come possibilità di riscatto e reinserimento, stride con la natura del ‘ fine pena mai’ e con le condizioni di vita, spesso degradanti ed umilianti, in cui sono costretti a vivere molti ospiti delle nostre carceri. Una speranza che troppe volte viene soffocata dai numerosi suicidi che, quasi con cadenza settimanale, si verificano all’interno delle nostre carceri, come da sempre denunzia l’Unione delle Camere Penali. Più di 80 anni fa, uno dei più celebri avvocati perseguitati della storia, Mahatma Gandhi, affermava che "tutti i detenuti dovranno essere trattati come pazienti e le prigioni diventare degli ospedali riservati al trattamento e alla cura di questo particolare tipo di ammalati". A distanza di tanto tempo non molto pare essere cambiato, anche se la forte emozione destata dalla visita del Papa a San Vittore e la forza morale con cui il Pontefice si fa portatore dei diritti degli ultimi, ci fa sperare, una volta di più, che le sbarre possano davvero sciogliersi. *Componente Giunta Unione Camere Penali Non si divide il mondo in giusti e dannati di Piero Sansonetti Il Dubbio, 28 marzo 2017 Il Papa ha detto ai detenuti: "qui mi sento a casa". E poi: "voi siete Gesù". La carica sovversiva del suo messaggio anticonformista. Il suo trionfo a Milano è l’annuncio di una svolta? Il Papa è andato a San Vittore, l’antico carcere di Milano. Ha superato le porte di ferro blindato e ha detto: "Mi sento a casa". Poi si è rivolto ai detenuti: "Voi siete Gesù". Li ha salutati uno ad uno. Ha pranzato con cento di loro. Ha ceduto metà della sua cotoletta a un ragazzo musulmano che era seduto al tavolo lì accanto a lui. Non c’è bisogno di raccontare altro sulla visita di Francesco: quelle due frasi brevissime la spiegano molto bene. In genere quando sui giornali, o nelle trasmissioni Tv (ma anche al bar) si parla delle carceri, la frase più comune è un’altra: "gettate la chiave". Oppure si chiedono pene più severe, mura più spesse, sbarre più sicure. Non ho mai sentito dire, in Tv: "tra i detenuti mi sento a casa". Meno che mai ho sentito dire: "i detenuti sono come Gesù". La grandiosità della visita del Papa a Milano è soprattutto nella riaffermazione, quasi provocatoria, di questa sua attitudine intellettuale. E cioè del suo clamoroso, consapevole e voluto anticonformismo. Il papa non accarezza i sentimenti popolari, o della maggioranza; non si adagia sull’onda del senso comune. Sente che la sua missione è di contrastare quei sentimenti e di navigare contro la corrente. Il messaggio cristiano perde tutta la sua forza se accetta di adattarsi ai tempi e alle mode. Sostenere che il detenuto è Gesù, anche per un non credente è una affermazione assolutamente rivoluzionaria. Il papa ci sta dicendo che per lui il mondo non si divide in due, tra quelli che stanno fuori e quelli che stanno dentro la prigione. Nemmeno si divide tra Giusti e Reprobi. Domenica ci ha detto che non si divide neppure tra credenti e non credenti, perché lui si rivolge agli uni e agli altri con lo stesso impegno. Il mondo, più semplicemente, non si divide: l’umanità è una sola, e dentro l’umanità ciascun individuo ha le sue colpe, i suoi meriti, le sue doti, le sue arguzie, le sue chiusure, e quindi è diversissimo da tutti gli altri esseri umani, è unico. E tuttavia è assolutamente identico agli altri esseri umani per diritti e dignità. E ha il diritto, come tutti, ad essere amato, capito, e se occorre perdonato. Il "Reprobo" ha esattamente gli stessi diritti e la stessa dignità del "Giusto". Chiunque egli sia e qualunque cosa abbia fatto. Questo non vuol dire che non debba esistere la legge e non debba essere applicata. Semplicemente vuol dire che Legge ed Etica non coincidono. Sono sfere diverse e lontane. La Legge è una sola, l’Etica no. La legge risponde solo al diritto, non all’etica. L’etica non risponde a nessuno e a nessuno può essere imposta. Il papa è andato a San Vittore come un sovversivo. Esattamente come quel sovversivo descritto dal Vangelo di Matteo (del quale parlava l’altro giorno su queste colonne Valter Vecellio: "Ero prigioniero e siete venuti a farmi visita"). E come un sovversivo, mite e moderato, ha sfidato il senso comune, con l’autorevolezza che gli viene dall’essere papa e stavolta anche con il sostegno di un’incredibile partecipazione popolare. Fin qui, in questi quattro anni, Francesco, almeno in Italia, non aveva incontrato folle oceaniche, come invece, spesso, capitava a Woytjla. Stavolta Monza e Milano gli hanno riservato una accoglienza trionfale. I giornali hanno parlato di un milione di persone. Questa trionfale accoglienza corrisponde ad una adesione alle sue idee, al suo modo di pensare, al messaggio che ogni giorno Francesco si sforza di trasmettere? E dunque è il segno di una inversione di tendenza dell’ondata giustizialista che divide il mondo tra persone "perbene" e i "cattivi"? L’ottimismo ci spinge a credere di sì. Il pessimismo ci spinge a ricordare quella domenica delle Palme di tanti anni fa, quando Gesù entro trionfalmente a Gerusalemme, accolto dagli osanna, dai mantelli sparsi a terra come tappeti, da tripudio popolare che sembrava sancire il successo del suo messaggio. Il popolo gridava: "È Gesù di Nazareth, è il Messia!". Cinque giorni dopo fu inchiodato sulla croce. Compromesso debole sulla Procura europea di Andrea Orlando* Il Sole 24 Ore, 28 marzo 2017 Proprio in questi giorni siamo entrati in una fase cruciale nel procedimento per la creazione dell’Ufficio del Pubblico Ministero Europeo, un progetto fondamentale che mira a potenziare la repressione delle frodi al bilancio dell’Unione mediante un organo sovranazionale per indagare su questi reati e portare a giudizio davanti ai tribunali degli Stati membri gli autori. La proposta della Commissione Europea per la creazione dell’Ufficio del Pubblico Ministero Europeo è stata presentata nel luglio 2013 e l’Italia ne è stata sin da subito una dei più convinti sostenitori. Questa proposta prevedeva l’istituzione di un organismo centrale, composto di magistrati ed investigatori esperti supportati da uno staff specializzato in larga parte proveniente dall’attuale Ufficio Europeo per la Lotta Antifrode. Oggi, dopo oltre tre anni e mezzo di negoziato tra le delegazioni degli Stati membri in seno al Consiglio dell’Ue, resta ben poco di quel progetto. Una maggioranza di Stati membri ha lottato per svuotare quel progetto del suo contenuto innovativo, indebolendo progressivamente la struttura ed erodendo quei poteri che la Procura Europea avrebbe dovuto avere nel disegno originario, per restituirli ai poteri nazionali. Così, la struttura centrale ha perso il suo carattere sovranazionale ed è stata sostituita da un "collegio" di Pubblici Ministeri Europei indicati ciascuno dallo Stato membro di origine. La competenza esclusiva della Procura Europea è stata rimpiazzata da una competenza concorrente che toglie all’organo europeo il potere di indagare sulle frodi e lo restituisce alle stesse autorità nazionali che dovrebbero svolgere questo compito oggi. Il livello centrale è stato svuotato dei poteri di indagine, in larghissima parte affidati ai Procuratori Europei Delegati; resta una generale e generica possibilità di controllo sull’operato di questi, che però rischia di essere più un livello di burocrazia aggiuntivo che un concreto e fattivo aiuto alle indagini. Quanto ai poteri di indagine, è pressoché scomparsa ogni traccia di armonizzazione: il Pubblico ministero europeo dovrà usare in ogni Stato membro poteri diversi, a seconda di quello che la situazione contingente permette. Nel corso del negoziato ho più volte rappresentato l’insoddisfazione crescente dell’Italia per questa deriva che ha eroso progressivamente il valore aggiunto della creazione della Procura Europea. A cosa serve questa forma esangue di Procura europea? Stiamo rispondendo alle aspettative dei cittadini europei di vedere in campo istituzioni forti, autorevoli, efficaci? Io non credo. Ora il negoziato entra in una nuova fase. Negli ultimi mesi alcuni degli Stati membri più opposti alla creazione di una Procura Europea forte, come quella che abbiamo in mente noi, hanno espressamente dichiarato di non voler partecipare al progetto. I Trattati prevedono che l’istituzione del Pubblico ministero europeo sia accettata dall’unanimità degli Stati membri: allo stesso tempo però consente, in caso di mancanza di unanimità, che un gruppo di Stati membri più avanzati mettano in opera questa innovazione tra loro, dando vita a una "cooperazione rafforzata". Non si tratta certo di una situazione ideale. Un’istituzione condivisa da tutti è più forte e il suo funzionamento più fluido. Non é ammissibile che, in nome di una sbandierata necessità di un consenso ampio e per soddisfare anche le posizioni più ostili alla messa in opera di un Pubblico ministero europeo forte, si svuoti di significato l’intero esercizio. È quello che è avvenuto sino ad oggi. Ma ora lo scenario è cambiato: i Capi di Stato e di Governo degli Stati membri, in occasione del Consiglio europeo tenutosi a Bruxelles il 9-10 marzo, hanno dato il via libera alla cooperazione rafforzata per la creazione della Procura Europea. Proprio perché è cambiato lo scenario politico, più coeso verso il fine di creare una Procura europea forte ed efficiente, ci saremmo aspettati nelle scorse settimane un impegno di tutti per recuperare almeno in parte quei valori che il negoziato sin qui ha sacrificato. Non è stato così. L’Italia non può accettare questa soluzione. Si tratta del cedimento ad un’idea di compromesso debole, ingiustificato dalle attuali condizioni politiche e inutile nell’ottica della costruzione di un’Europa forte e autenticamente al servizio dei cittadini. Se cooperazione rafforzata deve esserci, coloro che vi partecipano devono ritrovare il senso dello stare insieme e andare avanti lungo una strada comune secondo valori condivisi. A mio modo di vedere, accettare un testo così deludente tradirebbe le ragioni di questo sforzo comune. Occorre interrogarsi sull’idoneità di questa idea debole di Procura europea sia rispetto allo scopo immediato della sua creazione (la tutela del bilancio dell’Unione dalle frodi), sia rispetto a possibili sviluppi futuri del suo campo di azione. È infatti lo stesso Trattato che prevede, per il futuro, la possibilità per gli Stati membri di affidare al Pubblico ministero europeo il potere di indagare su fenomeni di criminalità transnazionale. Come pensare che questa struttura, che nasce burocratica, debole, legata all’influenza dei singoli Stati membri, possa un domani essere utilmente chiamata a contribuire alla repressione, ad esempio, di reati terroristici, o contro gruppi internazionali di criminalità organizzata? L’Italia era e resta fortemente convinta nel dare il proprio sostegno alla creazione della Procura Europea. Tuttavia, senza chiari segni di apertura, da parte del gruppo di Stati membri che si dicono egualmente interessati a questo progetto, a un ripensamento e a un recupero di valore aggiunto sui temi della struttura, della competenza e dei poteri di quest’organo, non riteniamo ci siano ad oggi le condizioni per una nostra partecipazione. Di questa decisione ho informato oggi anche la Commissaria europea per la Giustizia, i Consumatori e la Parità di Genere, Vera Jourová, nell’auspicio che anche la Commissione si faccia portatrice delle nostre istanze di rafforzamento della Procura europea. *Ministro della Giustizia L’allarme di Violante: "La società giudiziaria ha travolto la politica" di Errico Novi Il Dubbio, 28 marzo 2017 L’ex presidente della Camera: esemplari le bugie su Minzolini. "Vuol sapere cosa prova in modo inequivocabile che la politica ha perso il suo primato? Il fatto che nel valutare la decisione del Senato su Minzolini si sia confusa l’opportunità con la legittimità del voto. Io personalmente ritengo che quel voto sia stato inopportuno. Ma se i giornali scrivono che è un voto illegale, se una parte dell’opposizione lo proclama, se si lascia insomma passare la tesi dall’atto eversivo, senza alcuna preoccupazione per il dato di verità, allora vuol dire davvero che il senso della funzione del Parlamento è andato perduto". Luciano Violante è di ritorno da Pisa, dove ha tenuto una lectio magistralis alla Scuola superiore Sant’Anna. Le agenzie di stampa hanno da poco rilanciato un passaggio, breve ma dirompente, del suo intervento: "In Italia sta nascendo una società giudiziaria: ci deve preoccupare questa concezione autoritaria della vita pubblica". Una società che devia dalla tradizionale composizione dei poteri perché quello politico ha scelto appunto la desistenza. La lezione tenuta dall’ex presidente della Camera ha come oggetto il diritto parlamentare. È dunque inevitabile che la dissertazione si imbatta nel caso Minzolini: "La legge Severino affida alle Camere la possibilità di deliberare, ed è quindi sbagliato affermare, come è stato fatto da alcuni giuristi, che la scelta parlamentare è stata illegittima. Ripeto: inopportuna, ma non illegittima". Della lezione di Violante viene diffuso ancora un altro passaggio: "Il codice penale è diventato la Magna Charta dell’etica pubblica: si tratta di un segno di autoritarismo sul quale penso valga la pena riflettere" . Come si può essere arrivati a questo svuotamento? Interpellato dal "Dubbio", Luciano Violante risponde a partire dalla fenomenologia: "È come se una gran parte del mondo politico non avesse la forza intellettuale e morale per ristabilire il proprio primato sugli altri poteri. C’è un ripiegamento, e questo dissolve quel primato, che va sempre guadagnato. E come se i partiti fossero troppo presi dalla crisi di credibilità che li attraversa per riuscire ad affermare il loro ruolo". Un quadro in cui la retorica dei Cinque Stelle s’impone senza grandi resistenze: "Si diffonde un enorme equivoco rispetto alla questione della purezza. Con un partito, il Movimento Cinque Stelle appunto, che sarebbe detentore di tale virtù. Si è smarrito il dato elementare per cui la legittimazione della politica non trova radice nella purezza ma nel principio di rappresentanza. Certo la rappresentanza è necessaria, ma non sufficiente. Serve anche il rispetto dell’etica pubblica". I grillini beneficiano dell’equivoco e in generale dell’estendersi di quella società giudiziaria di cui parla Violante. Il che non imbarazza Luigi Di Maio nel dichiarare, come ha fatto ieri in un forum con l’Agi, che "un magistrato intenzionato ad entrare in politica non può farlo e comunque non può tornare indietro". Nessuno obietta al candidato premier in pectore che una proposta di disciplinare la materia non è arrivata certo dal suo partito. I dati di verità si sgretolano, come per il caso Minzolini, appunto. Le reazioni a quella vicenda, osserva Violante, "sono davvero indicative: ripeto, io credo che non sia stato opportuno votare contro la decadenza, ma il vero nodo è la confusione tra opportunità e legittimità. Come se le prerogative formali e sostanziali del Parlamento non esistessero più. Gran parte dei mezzi di comunicazione non ha tenuto presente il dato di verità ma solo l’apparenza". Quello di Minzolini continuerà ad essere un caso inopinatamente cruciale nel dibattito politico. Ieri ne ha parlato anche il presidente dell’Anac Raffaele Cantone che si è detto "perplesso per la decisione di Palazzo Madama". Ora tengono banco le dimissioni, che ancora non risultano depositate. In ogni caso diventerebbero giuridicamente efficaci solo nel momento in cui il Senato le accogliesse. Non è detto che accada. E forse in un ulteriore voto controcorrente di Palazzo Madama potrebbe esprimersi una pur impropria rivendicazione di autonomia. Ma non è questa l’idea di Violante, che invece in un rigetto delle dimissioni vedrebbe "l’idea di una reciproca copertura, che avrebbe poco a che vedere con l’affermazione del ruolo. Se Minzolini dice di voler lasciare il Senato per propria scelta non credo abbia senso impedirlo". Resta da chiarire perché la politica sia in fuga da se stessa. Secondo Violante all’origine di tutto c’è la "rottura dei rapporti tra popolo e Parlamento. Il Parlamento elabora le proprie procedure indipendentemente dalla relazione con gli elettori: e questa separazione è avvenuta a partire dalla legge Calderoli". È lì dunque che l’istituzione centrale del sistema ha perso la capacità di esercitare il primato: "Si elaborano procedure in modo ormai separato, laddove il rappresentante dovrebbe tenere conto delle idee che circolano tra i rappresentati. Questo non avviene più", dice Violante. Il rimedio? "Una buona legge elettorale sarebbe la premessa indispensabile per uscirne: non solo perché rinsalda il rapporto tra elettori ed eletti, ma perché costringe questi ultimi a relazionarsi con chi si è recato alle urne anziché chiudersi nel circolo del capo, come avviene ora". Il cosiddetto porcellum "ha avuto effetti molto più gravi di quel che possiamo immaginare. Sarebbe importante rendersene conto, comprendere quanto sia urgente intervenire su quello snodo". Lasciarsi vivere produrrebbe invece un solo effetto: consentire a quella società giudiziaria di guadagnare altro terreno, e di avviare davvero il sistema a una deriva autoritaria in cui anche una riforma elettorale potrebbe diventare impraticabile. Toghe in politica, al via il voto sulla legge. E Cantone: Senato in errore su Minzolini di Sara Menafra Il Messaggero, 28 marzo 2017 Il testo che sembrava destinato a catalizzare il maggior numero di tensioni, quello sul testamento biologico, slitterà ad aprile. E dunque, salvo ulteriori sorprese, domani l’aula di Montecitorio potrebbe effettivamente cominciare la discussione del provvedimento che punta a limitare le possibilità di rientro nei ruoli della magistratura ordinaria per le toghe che abbiano fatto un’esperienza politica locale o nazionale, lunga o corta. Non un divieto di elettorato passivo, ovviamente incostituzionale, e neppure un niet al ritorno nelle aule di giustizia. Piuttosto, un testo che prevede un sistema di cuscinetti e periodi di attesa, in modo che il passaggio tra le due funzioni non sia effettivamente da porte girevoli. "Sarebbe sbagliato limitare ulteriormente la presenza dei magistrati in politica - dice il relatore del testo Walter Verini, Pd - consideriamo che quelli "attivi" ma in aspettativa tra i due rami del parlamento sono oggi cinque, mentre 110 sono insegnanti o professori, 100 gli avvocati e 80i giornalisti". La maggioranza, con qualche distinguo, sembra compatta, mentre a promettere battaglia è soprattutto il gruppo di Forza Italia che, però, a Montecitorio non sembra in grado di creare problemi. Sul tema ieri è intervenuto anche il presidente dell’Anac Raffale Cantone: "I magistrati non possono utilizzare il proprio lavoro per entrare in politica, ma neanche sarebbe giusto sancire l’assoluta incompatibilità - ha detto - il Parlamento, per definizione, è luogo di mediazione e di rappresentanza di tutti i cittadini che a loro volta sono portatori di interesse. Penso però che il magistrato che si è schierato politicamente non può tornare alla sua funzione. Gli deve essere garantito di poter fare altro, ma non certamente di tornare a fare il magistrato". Il presidente di Anac si è schierato ieri col fronte dei critici sul caso Minzolini e la mancata applicazione della legge Severino. Un "pericoloso precedente", dice, perché "rischia di trasformare il voto del Parlamento in un quarto grado di giudizio. Finché è in vigore la Legge Severino va rispettata, non si può dar vita ad una giurisdizione domestica". Proprio ieri era attesa la lettera di dimissioni del senatore ed ex direttore del Tgl. Ma stando alle attese, almeno alla prima votazione palazzo Madama comunque respingerà il suo passo indietro. Perché le porte girevoli tra politica e magistratura dovrebbero essere chiuse di Ermes Antonucci Il Foglio, 28 marzo 2017 È passato un anno da quando la Commissione per la riforma dell’ordinamento giudiziario, istituita dal ministro della Giustizia Andrea Orlando e guidata dall’ex vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura Michele Vietti, ha presentato il suo piano di proposte per rilanciare il funzionamento della giustizia in tutti i suoi aspetti: organizzazione territoriale dei tribunali, accesso alla magistratura, valutazioni di merito e carriera, procedimenti disciplinari, coordinamento delle attività dei pubblici ministeri, partecipazione dei magistrati alla vita politica. A un anno di distanza dalla loro presentazione, è proprio l’ex numero due del Csm Vietti a riportare queste proposte all’attenzione dell’opinione pubblica e soprattutto del legislatore in un libro, "Mettiamo giudizio. Il giudice tra potere e servizio" (Università Bocconi Editore), con prefazione del Guardasigilli Orlando. Nel suo volume Vietti ripercorre le tappe che hanno portato all’elaborazione della relazione finale della commissione di 17 esperti e magistrati da lui guidata. Una relazione preziosa, non solo perché raccoglie i frutti di un complesso processo di sintesi tra posizioni fra loro molto diverse, ma anche perché in tempi dominati dal qualunquismo di chi promette rivoluzioni irrealizzabili, il lavoro svolto dalla commissione ha il pregio di riportare il confronto sul piano della concretezza, del compromesso inevitabile, degli slanci riformisti fatti di piccoli passi, ma pur sempre di cambiamento. E così, ad esempio, se è vero che nelle conclusioni della commissione non si rintracciano cenni alla separazione delle carriere tra giudici e accusatori, è allo stesso tempo vero che si tenta di intervenire in maniera significativa per ridurre l’attività discrezionale del pm, grazie al rafforzamento del ruolo di coordinamento e vigilanza del procuratore generale della Corte di Cassazione, chiamato a emanare linee guida organizzative volte a favorire il corretto e uniforme esercizio dell’azione penale da parte dei procuratori. Previsto, inoltre, l’affidamento in automatico di alcune materie e tipologie di reati a determinati magistrati, con la limitazione quindi della discrezionalità dei procuratori capi a delegare ai loro aggiunti o ad altri magistrati le indagini a proprio piacimento. Le proposte della commissione guidata da Vietti intervengono anche sul delicato rapporto tra politica e magistratura. Vengono infatti posti vincoli più rigidi per il magistrato che vuole darsi alla politica e, soprattutto, che una volta svolte funzioni politiche intende tornare a rivestire la toga. Secondo la commissione, il rientro in ruolo del magistrato dovrebbe avvenire in una regione non solo diversa da quella in cui era stata esercitata la funzione giudiziaria, ma neanche "limitrofa", e solo per incarichi collegiali (non direttivi o se mi direttivi), con divieto di trasferimento per cinque anni. Certo, fosse per Vietti le porte girevoli tra politica e magistratura andrebbero completamente chiuse: "Personalmente - scrive nel libro - ritengo che l’asticella avrebbe potuto essere spostata anche più in alto. Non credo infatti che si disattenderebbero i principi costituzionali se si stabilisse che le due carriere, quella di magistrato e di politico, sono ontologicamente incompatibili in nome dell’antinomia logica tra l’essere super partes del primo e l’essere di parte del secondo". Non si tratta, insomma, di negare al magistrato il diritto di partecipare alla vita politica, ma di far sì che queste due strade "possano incrociarsi una volta sola nella vita della stessa persona": "Se un magistrato sceglie la strada della politica deve percorrerla fino in fondo, ovunque questa lo porti, accettandone tutti i rischi e senza poter più tornare indietro. Ne va della sua credibilità personale e - cosa che ci interessa maggiormente - di tutta la magistratura. Si partecipa al campionato come giocatore o come arbitro, tertium non datur. Da applausi. C’è poi la ridefinizione della geografia giudiziaria, per provare a rendere i tempi della giustizia meno elefantiaci e troppo spesso fonte di scoraggiamento per gli investimenti, facendo sì che i magistrati siano trasferiti nelle sedi in cui occorre personale (e non nelle sedi "vicino casa"). E, ancora, c’è l’importante presa d’atto dell’assoluto appiattimento del sistema di avanzamento di carriera delle toghe, segnato dal trionfo dell’eccellenza e da valutazioni dalla prosa "spesso iperbolica e venata di retorica", al quale si cerca di mettere ordine con la semplificazione delle procedure di istruttoria e di valutazione, l’acquisizione di informazioni da più fonti (inclusi gli avvocati) e una revisione dei criteri valutativi. Insomma, Vietti ci ricorda che esiste un impianto di riforma della giustizia che non sarà rivoluzionario, ma porta comunque cambiamenti e, cosa ancor più importante, è già definito, pronto all’uso e condiviso da settori della magistratura pronti, stavolta, a non fare le barricate. Può essere un inizio e ora tocca alla politica rispondere all’appello. Santi Consolo (Magistratura Indipendente): chi si candida lasci la toga di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 28 marzo 2017 La "destra giudiziaria" ha riunito a Roma l’assemblea nazionale. È la corrente delle toghe tradizionalmente identificata come "destra giudiziaria", anche se i suoi appartenenti si definiscono "non ideologizzati". Magistratura Indipendente ha riunito lo scorso fine settimana a Roma la propria Assemblea nazionale. L’appuntamento, che ha cadenza biennale, era il primo dopo la scissione che diede vita nel 2015 ad Autonomia & Indipendenza, il gruppo che fa riferimento all’attuale presidente dell’Anm Piercamillo Davigo. All’unanimità sono stati confermati nelle proprie cariche di presidente e segretario nazionale Giovanna Napoletano e Antonello Racanelli. Sempre all’unanimità è stata approvata la nuova Carta dei Valori di Magistratura indipendente, unitamente al progetto del nuovo Statuto che dovrà ora essere condiviso nelle varie assemblee dei distretti. L’Assemblea di Mi è stata anche l’occasione per riflettere sull’attuale ruolo del magistrato nella società. Magistrato che deve essere "indipendente, soggetto alla legge, libero da condizionamenti ideologici, portatore di un modello culturale di libertà e non di omologazione, fiero di rivendicare sia il diritto alla qualità del lavoro sia il diritto alla qualità delle condizioni di lavoro e di dignità personale, come espressioni imprescindibili dell’indipendenza e dell’autonomia". Santi Consolo, capo dal Dap e storico esponente di Mi, ha posto l’accento sul rapporto magistrati-politica. Secondo Consolo, "chi decide di candidarsi o di ricoprire un incarico politico, al termine del mandato non può più tornare in magistratura". Discorso diverso, invece, per i magistrati "fuori ruolo" che svolgono temporaneamente funzioni non giurisdizionali presso altri uffici della pubblica amministrazione. "Un’attività che arricchisce l’esperienza professionale delle toghe e viene svolta nell’interesse dell’amministrazione della giustizia", come ribadito dal consigliere del Csm Lorenzo Pontecorvo. Per Roberto Alfonso, procuratore generale a Milano, un problema impellente riguarda l’organizzazione degli uffici di Procura. Dopo la riforma dell’ordinamento giudiziario, le Procure si sono eccessivamente gerarchizzate. Si sono creati dei "cerchi magici": i sostituti più vicini al procuratore sono assegnatari di indagini di "spessore" che portano lustro e visibilità. Per contenere il ruolo del Procuratore, in attesa che il Csm approvi la circolare che, nel rispetto della normativa vigente, assicuri l’autonomia e l’indipendenza dei sostituti, sarebbe opportuno che "il capo dell’Ufficio eviti di assegnarsi dei fascicoli in via esclusiva: la co-assegnazione di una indagine con un sostituto è garanzia di trasparenza del suo operato". Il togato Claudio Galoppi ha, infine, affrontato il tema dell’interpretazione della legge. "I giudici sono soggetti soltanto alla legge che deve essere interpretata in sintonia con i principi costituzionali e del diritto sovranazionale, nel rispetto delle scelte del legislatore, ove costituzionalmente legittime". Ciò in particolare per quanto attiene ai temi etici che rappresenteranno la sfida futura, da affrontare non in ottica di stampo confessionale ma di pluralismo interpretativo. "Noi non creiamo il diritto ma lo interpretiamo". Un chiaro riferimento alle recenti sentenze in tema, ad esempio, di adozioni di minori a coppie omosessuali che molto stanno facendo discutere in questi giorni per il ruolo esorbitante del magistrato. Detenzione inumana o degradante: profili sostanziali e processuali di Carmelo Minnella dirittoegiustizia.it, 28 marzo 2017 L’8 gennaio 2013, la Corte europea dei diritti dell’uomo emetteva nei confronti dell’Italia (caso Torreggiani più altri) una severa sentenza di violazione dell’art. 3 Cedu, evidenziando il problema cronico del sovraffollamento carcerario. Detta pronuncia è stata adottata nelle forme della "sentenza pilota", in base alla procedura fondata sull’art. 46, comma 1, Cedu, che consente alla Corte di Strasburgo, allorché riconosce l’esistenza di un problema strutturale, di indicare allo Stato le misure generali che esso deve adottare per porre rimedio alla situazione dell’ordinamento interno incompatibile con la Cedu. Con la sentenza Torreggiani, quindi, la Corte Edu, non ha soltanto esortato l’Italia ad agire per ridurre il numero di detenuti ampliando il ricorso a misure punitive alternative a quelle carcerarie e riducendo al minimo il ricorso alla custodia cautelare in carcere (richiamando tra l’altro le Raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa), ma le ha chiesto di provvedere ad introdurre procedure attivabili dai detenuti per porre fine e rimedio a condizioni di detenzione o trattamenti carcerari in contrasto con l’art. 3 Cedu che, a differenza di quelle al momento in vigore, fossero accessibili ed effettive. Procedure, in altri termini, idonee a produrre rapidamente il risultato concreto della cessazione della violazione del diritto a non subire trattamenti inumani o degradanti ovvero, nel caso in cui la situazione fosse già cessata, ad assicurare con altrettanta rapidità e concretezza forme di riparazione adeguate e sufficienti alla violazione subita dal detenuto. Come ha evidenziato la Suprema Corte, un invito molto simile ad un comando di legislazione, deputato ad operare, quale obiettivo indicatore di scopo, voluntas e ratio legis, anche alla stregua di indefettibile criterio ermeneutico, ai fini della corretta applicazione della disciplina per esso introdotta. Ne consegue che, fronte di diverse opzioni interpretative, il principio da seguire è che va accolta l’interpretazione che comporta per il detenuto il massimo di facilità di accesso ai rimedi all’uopo introdotti nell’ordinamento interno e il massimo di effettività degli stessi (Sez. I, n. 876/2016). Per il furto in abitazione il concetto flessibile di privata dimora di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 marzo 2017 Corte di cassazione, Sezioni unite penali, informazione provvisoria 23 marzo 2017. Interpretazione flessibile delle Sezioni unite penali della Cassazione del concetto di "privata dimora", determinante nel configurare il reato di furto in abitazione. Con informazione provvisoria, resa al termine dell’udienza del 23 marzo, le Sezioni unite hanno così dissipato l’incertezza sulla possibilità di fare rientrare nell’area della dimora privata anche i luoghi dove si esercita un’attività commerciale o imprenditoriale. La nota della Cassazione puntualizza che la risposta deve essere "Negativa, salvo che il fatto non sia avvenuto all’interno di un’area riservata alla sfera privata della persona offesa. Rientrano nella nozione di privata dimora di cui all’articolo 624-bis Codice penale esclusivamente i luoghi, anche destinati ad attività lavorativa o professionale, nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare". Divergenti sinora gli orientamenti delle Sezioni semplici della Corte. Il caso approdato all’esame delle Sezioni unite aveva visto la Corte d’appello confermare la condanna di primo emessa per il reato di furto in abitazione a carico di una persona che, durante l’orario di chiusura di un ristorante, si era introdotto nei locali sottraendo 200 euro alla cassa e impossessandosi di una macchina fotografica di proprietà del proprietario dell’esercizio. La difesa aveva contestato la configurabilità del ristorante come privata dimora, visto che non si tratta di luoghi destinati allo svolgimento di atti di vita privata. L’ordinanza di rimessione, la n. 652 di quest’anno, aveva messo in luce come in Cassazione non si fosse raggiunta un’uniformità di interpretazioni sul concetto di "privata dimora" in grado di unificare tutte le fattispecie che lo chiamano in causa. Si è infatti espressa una forte diversità di criteri. In particolare, con riferimento ai reati contro il patrimonio e a quello di violazione di domicilio, si è finito per estendere in maniera considerevole il perimetro, tanto di comprendere una vasta e articolata casistica di luoghi destinati a privata dimora. In sintesi, alcune pronunce - avverte adesso la Cassazione - hanno messo l’accento sull’uso del luogo, considerandolo di privata dimora solo se utilizzato per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata di chi lo occupa e richiedendo anche una continuità temporale del rapporto tra il luogo e le persone oltre alla concreta presenza delle persone stesse al momento della condotta illecita. Altre sentenze hanno valorizzato il profilo di difesa della privacy, per cui è destinato a privata dimora il luogo nel quale esiste il diritto di ammettere o escludere altre persone, perché vi si svolge la vita di quelli che vi vivono e lo frequentano. Infine, altri interventi si sono soffermati sull’esclusione dalla nozione di "privata dimora" per quei luoghi che, sebbene utilizzati anche per atti di vita privata da parte di alcuni, sono accessibili a un numero indiscriminato di persone. Le Sezioni unite, in attesa di leggere le motivazioni, non sembrano escludere i luoghi di lavoro da quelli di privata dimora; perché però la coincidenza sia possibile è necessario che vi si svolgano atti di vita privata e che non siano aperti al pubblico e neppure a ingressi altrui senza autorizzazione. Parte civile, riqualificazione del reato non impugnabile se non cambia il fatto storico di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 marzo 2017 Corte di cassazione - Sentenza 27 marzo 2017 n. 14812. "La parte civile non è legittimata ad impugnare la condanna generica al risarcimento del danno quando non ha efficacia di giudicato nel giudizio civile circa l’entità del danno risarcibile". Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 27 marzo 2017 n. 14812, chiarendo anche che "la sentenza di condanna che dia al fatto una diversa qualificazione giuridica può essere impugnata dalla parte civile solo quando ad essa corrisponda una diversa ricostruzione del fatto storico". Per queste ragioni i giudici di legittimità hanno dichiarato inammissibile il ricorso di una nota griffe. Nel caso affrontato, spiega la sentenza, il fatto storico attribuito all’imputato è rimasto "uguale a se stesso" in entrambi i gradi di giudizio. Infatti, il minimo comune denominatore delle decisioni dei Giudici di merito - assolutoria in primo grado e di condanna ex articolo 517-ter in appello - "è la concorde e pacifica esclusione della riproduzione fedele (contraffazione) o alterazione del marchio "Gucci". Peraltro, mentre il Tribunale aveva addirittura escluso l’ipotesi della "mera imitazione" del marchio, la Corte di appello è stata di diverso avviso "avendo affermato chiaramente che i due marchi (quello originale e quello asseritamente contraffatto) pur non confondibili sono somiglianti". La griffe, dal canto suo, ha insistito nel chiedere una condanna per falso ma non ha mai contestato il fatto così come storicamente accertato Il giudice di secondo grado, spiega la Cassazione, ha dunque errato nel ritenere che la registrazione, da parte dell’imputato, del marchio non genuino lo esonerasse dalla responsabilità per il reato di falso, ma la riqualificazione del reato - in quello di usurpazione di titoli - non ha tuttavia inciso in alcun modo sulla ricostruzione del fatto. E sulla questione la Suprema corte ha chiarito che se la diversa qualificazione giuridica del reato deriva da una diversa ricostruzione del fatto, quel che vincola il giudice civile in sede risarcitoria "non è la qualificazione giuridica data al fatto in sede penale, bensì il fatto stesso nella sua dimensione illecita la cui diversa ricostruzione la parte civile è legittimata a contestare (salvo allegarne il concreto interesse)". Se invece la diversa qualificazione giuridica "accede al fatto immutato nella sua sussistenza e consistenza storica, la parte civile non è legittimata a dolersene poiché tale diversa qualificazione non vincola il giudice civile. Al giudice civile, infatti, non interessa tanto il reato, quanto - piuttosto - il "fatto illecito" (tant’è che la sentenza penale non ha efficacia di giudicato quanto alla colpevolezza dell’imputato)". Per cui conclude la Cassazione: a) la condanna al risarcimento del danno è stata comminata dalla Corte di appello in assenza di accertamenti positivi sulla sussistenza del danno; b) il fatto, così come storicamente accertato, è sempre stato uguale a se stesso; c) la sua diversa qualificazione giuridica, per quanto errata, non è il frutto di una diversa ricostruzione del fatto, incontestato nella sua dimensione storica. Ne consegue che: a) la condanna generica e la diversa qualificazione giuridica data al fatto dal giudice penale non vincolano il giudice civile nell’accertamento della sussistenza e consistenza del cd. danno-conseguenza, b) la parte civile non è legittimata ad impugnare. Il penalista può ricorrere "da solo" per conto dell’imputato e ottenere il gratuito patrocinio di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 28 marzo 2017 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 27 marzo 2017 n. 15197. Il difensore in sede penale è autorizzato a proporre autonomamente ricorso contro l’ordinanza emessa dal Tribunale di Sorveglianza in relazione alla richiesta di gratuito patrocinio. Non occorre, quindi, un’istanza ad hoc dell’imputato. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 15197/2017. I chiarimenti della Cassazione - La Corte, in particolare ha precisato che anche a seguito dell’entrata in vigore del Dlgs 150/2011 il difensore penale deve ritenersi legittimato a proporre autonomamente, per conto dell’interessato il reclamo/ricorso previsto dall’articolo 99 del Dpr 115/2002. Il ragionamento seguito dai Supremi giudici si basa sulla sentenza n. 30181/2004 delle Sezioni unite. Va ricordato che la decisione, dopo aver esaminato le caratteristiche e le finalità della normativa relativa al patrocinio dei non abbienti a carico dello Stato, ha ritenuto che gli elementi di specialità caratterizzanti il procedimento per l’ammissione al patrocinio a carico dello Stato, consentono di "qualificare quest’ultimo come un procedimento collaterale secondario rispetto al rapporto processuale penale principale, di cui è indiscutibilmente una procedura accessoria, intesa a garantire la difesa del soggetto nel giudizio penale di cognizione ordinaria". Si tratta di sub-procedimento - Dal che discende che tale sub-procedimento va necessariamente coordinato, per le fasi non specificamente disciplinate, con le disposizioni generali previste dall’ordinamento per il procedimento principale con il quale si trova in rapporto di incidentalità e cioè con la disciplina del processo penale ex articoli 568 e seguenti del Cpp. È stato quindi affermato che la "posizione processuale del difensore dell’imputato, nel caso in cui questi abbia fatto istanza per il patrocinio in favore dei meno abbienti debba regolamentarsi in base ai principi desumibili dal combinato disposto dagli articoli 99, comma 3e 613 del cpp". Impugnazione autonoma e parallela - In conclusione deve riconoscersi anche in relazione al procedimento per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, una titolarità di impugnazione autonoma e parallela, rispetto a quella attribuita all’imputato in favore del difensore di quest’ultimo, esercitabile in sede di reclamo ex articolo 99, comma 1, del Dpr 115/2002 e di presentazione di ricorso per Cassazione avverso l’ordinanza di rigetto del reclamo. Lettera "aperta" al Ministro Andrea Orlando di Cesare Burdese* Ristretti Orizzonti, 28 marzo 2017 "Rendere l’architettura più umana significa fare architettura migliore, e significa anche allargare il concetto di funzionalismo oltre il limite della tecnica. La sua missione è ancora di armonizzare il mondo materiale con la vita". (Alvar Aalto) Signor Ministro della Giustizia, Onorevole Andrea Orlando, Le scrivo perché sappia il mio pensiero su quanto oggi sta accadendo nella progettazione architettonica del nostro carcere. Mi permetto di farlo legittimato dal fatto che proprio Lei, a suo tempo, mi ha invitato come architetto esperto, a sedere al Tavolo n.1 Spazio della pena: Architettura e Carcere degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, che ha meritoriamente voluti. A distanza di oltre un anno dalla loro conclusione, dopo un lavoro corale coscienzioso ed appassionato durato molti mesi, con rammarico devo prendere atto che nello scenario istituzionale della produzione architettonica nazionale, nulla è cambiato. Questa mia affermazione è oggettivamente avvalorata dagli ultimi progetti carcerari elaborati dagli uffici ministeriali competenti, recentemente messi a gara per nuove edificazioni ed ampliamenti di Istituti. Infatti, alla luce di quei progetti, è dimostrabile come il pensiero di quanti ne sono responsabili non è stato toccato e che le prassi restano quelle di sempre. Tutto ciò nonostante i frutti della Commissione ministeriale presieduta dall’attuale Garante nazionale dei diritti delle persone detenute Prof. Mauro Palma, conseguente alla condanna dell’Italia della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo per trattamenti inumani e degradanti nelle carceri, della quale ho fatto parte, nonostante i lavori del Tavolo n.1 degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale voluto da Lei Signor Ministro per individuare, in sintesi, interventi architettonici più umani negli istituti esistenti e per i futuri. L’aforisma che ho riportato in calce, che appartiene all’architetto, designer e accademico finlandese Alvar Aalto, aiuta a comprendere. L’architettura (per il carcere) per il momento non si è umanizzata, (ne peraltro come avrebbero potuto cambiare le cose in un lasso di tempo così breve e in un settore tanto complesso?); la sua missione di armonizzare il mondo materiale con la vita, è ancora lontana da esplicarsi. Voglia Signor Ministro, per la fiducia che in passato mi ha concesso, considerare questa mia riflessione come quella di chi non si rassegna a credere che tutto sia perduto e che chi ne ha la responsabilità e il potere non possa non continuare a provvedere, sempre sapendo di poter contare sulle persone di buona volontà. *Architetto, già componente del Tavolo n.1 Gli Spazi della Pena: Architettura e Carcere degli Stati Generali dell’esecuzione penale. Abruzzo: Uil-Pa; carceri tra affollamento, difficile gestione e mancanza del Garante abruzzoweb.it, 28 marzo 2017 Carceri abruzzesi sotto stress tra sovraffollamento, aumento dei detenuti psicotici e gestione delle detenute nelle carceri femminili, con la spinosa questione ancora irrisolta della nomina del Garante dei detenuti per l’Abruzzo. A denunciare la difficile situazione è il vice segretario regionale della Uil-Pa Polizia penitenziaria, Mauro Nardella, con una nota, sottolineando come lo stesso Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, in una relazione in Parlamento nei giorni scorsi abbia confermato nei contenuti l’allarme lanciato dalla Uil. "In Abruzzo si paga dazio perché manca una sentinella del diritto dei detenuti - si legge nella nota di Nardella - Il garante regionale dei detenuti con il suo apporto, infatti, non solo riuscirebbe a destare le attenzioni che son dovute sulle condizioni di vita dei detenuti da parte dei preposti a farlo ma, con l’eventuale soluzione dei loro problemi comportante inevitabile riduzione dello stress, causerebbe un miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita di tutti gli operatori penitenziari". La vicenda abruzzese della nomina di questa figura che dovrà tutelare i diritti e vigilare sulle condizioni di vita delle persone rinchiuse negli otto istituti penitenziari abruzzesi, ma anche negli istituti penali per minori, negli ospedali psichiatrici giudiziari, nei centri di accoglienza per migranti, nelle strutture sanitarie sottoposti a trattamento sanitario obbligatorio, è in stallo ormai da anni. Non c’è convergenza infatti, sul nome di Rita Bernardini, candidata dei Radicali Italiani, la cui nomina viene inserita in ogni ordine del giorno di Consiglio regionale e puntualmente rimandata per la mancanza dei voti necessari all’elezione, 21, mentre la maggioranza di centrosinistra in Consiglio ne esprime solo 18. E sul numero sempre in aumento dei detenuti in Abruzzo che supera in alcuni casi la capienza massima consentita dalle carceri, Nardella sottolinea come "vestire la maglia nera anche da questo punto di vista sarà solo questione di tempo se non si ricorrerà a normative preventive o a costruzioni di nuovi padiglioni". "A tal proposito - continua la nota - non si capisce perché, come nel caso di Sulmona, da questo punto di vista si viaggia a passo di bradipo. Un lavoro che sarebbe dovuto essere completato entro il 2016 e che avrebbe dovuto ospitare 200 nuovi detenuti in spazi più ampi e umanamente accettabili ma che ad oggi ha visto il quasi completamento delle sole aree cortili passeggio e sale colloqui. Ciò significherà, qualora dovessero essere attivati oggi i lavori per l’implementazione del nuovo corpo detentivo, vedere il termine dei lavori non prima della fine del 2019". E spiega, tornando sulla gestione delle detenute nelle carceri femminili e del numero sempre crescente dei detenuti psicotici, come "le detenute recluse nelle carceri di Teramo e di Chieti potrebbero ad esempio essere meglio gestite se il personale di polizia penitenziaria femminile venisse utilizzato in dette sedi nel numero prefissato e non come sta accadendo da qualche tempo a questa parte in istituti non proprio femminili". Il Garante nazionale dei detenuti ha raccolto la denuncia della Uil-Pa circa la gestione dei detenuti psicotici da parte di personale non medico: "una gestione che richiede competenza e responsabilità medica relegando la medesima sezione a un surrogato mal riuscito di ospedale psichiatrico giudiziario" conclude Nardella, portando l’esempio del carcere di Pescara che "offre meno garanzie trattamentali e riabilitative rispetto ai tanto contestati ospedali psichiatrici giudiziari. Nel carcere di Pescara si vive una situazione da questo punto di vista davvero paradossale". Campania: convegno a Sant’Angelo dei Lombardi sulla condizioni delle carceri di Emilio Enzo Quintieri irpinianews.it, 28 marzo 2017 "Condizione delle Carceri, la situazione in Campania". Questo è il titolo del Convegno organizzato dal Movimento Radicali Italiani unitamente all’Associazione Giovani Giuristi Vesuviani ed al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Nola all’esito delle numerose visite effettuate, proprio di recente, nella gran parte degli stabilimenti penitenziari della Regione Campania. L’evento, grazie alla disponibilità del Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Campania Giuseppe Martone, si terrà venerdì 31 p.v. dalle ore 14,30 in poi presso la Sala Multifunzionale della Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi "Bartolo, Famiglietti e Forgetta" in Provincia di Avellino, uno dei migliori Istituti del Sud Italia guidato dal Direttore Massimiliano Forgione in cui, allo stato, sono ristrette 184 persone detenute, 19 delle quali straniere, a fronte di una capienza regolamentare di 122 posti. Il Convegno, che sarà preceduto da una breve visita all’Istituto, sarà introdotto dall’Avvocato Sabina Sirico, Responsabile dell’Osservatorio Carceri dei Giovani Giuristi Vesuviani e moderato da Emilio Enzo Quintieri, già membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani, capo della delegazione visitante le Carceri campane, autorizzata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. Porteranno i loro saluti l’Avvocato Francesco Urraro, Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Nola, l’Avvocato Salvatore Del Giudice, Presidente dell’Associazione Giovani Giuristi Vesuviani e l’Avvocato Michele Capano, Tesoriere Nazionale dei Radicali Italiani. Interverranno, tra gli altri, il Senatore della Repubblica Vincenzo D’Anna, il Prof. Giuseppe Tabasco, Docente di Diritto Penitenziario dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, il Magistrato di Sorveglianza di Avellino Maria Bottoni, il Direttore della Casa di Reclusione di Carinola Carmen Campi, il Direttore della Casa Circondariale di Benevento Maria Luisa Palma, il Garante dei Diritti dei Detenuti della Regione Campania Adriana Tocco, il Direttore della Casa Circondariale di Napoli Poggioreale Antonio Fullone, l’Avvocato Raffaele Minieri della Direzione Nazionale di Radicali Italiani, il Direttore della Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi Massimiliano Forgione ed il Capo dell’Area Giuridico Pedagogica dell’Istituto Enrico Farina. Le conclusioni sono state affidate all’Avvocato Michele Coppola, Vice Presidente dei Giovani Giuristi Vesuviani. All’iniziativa potranno partecipare anche numerosi Studenti Universitari, Criminologi, Psicologi, Medici, Avvocati, Politici, etc. che abbiano manifestato al Comitato Organizzatore la loro volontà di partecipazione e siano stati preventivamente autorizzati. Anche gli organi di informazione giornalistica, radiofonica e televisiva nonché i fotografi, che si siano accreditati, potranno fare ingresso in Istituto e seguire tutti i lavori, grazie all’autorizzazione concessa dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo e dal Direttore dell’Ufficio Stampa Assunta Borzacchiello. Sarà presente, tra gli altri, Radio Radicale diretta da Alessio Falconio, per la registrazione e la trasmissione integrale sui canali e sul sito web della storica emittente radiofonica legata al Partito Radicale. Abbiamo scelto la Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi sita nell’Alta Irpinia per tenere la nostra iniziativa - ha dichiarato l’esponente radicale Emilio Enzo Quintieri - perché questo Istituto rappresenta una delle poche eccellenze esistenti nel panorama nazionale che intendiamo far conoscere affinché venga replicato in tantissime altre realtà del Paese poiché l’esecuzione della pena è veramente conforme al dettato costituzionale non traducendosi in trattamenti inumani e degradanti, severamente proibiti dal diritto interno e sovranazionale. Ringraziamo l’Amministrazione Penitenziaria, centrale e periferica, per la grande disponibilità nell’autorizzare sempre le visite all’interno degli Istituti e per averci messo a disposizione la bellissima Sala Multifunzionale dell’Istituto di Sant’Angelo dei Lombardi. Un ringraziamento particolare va al personale del Reparto di Polizia Penitenziaria comandato dal Commissario Capo Giovanni Salvati ed al Responsabile della Segreteria del Direttore Sovrintendente di Polizia Penitenziaria Alessandro D’Aloiso per il loro prezioso sostegno nell’organizzazione e buona riuscita della manifestazione. Frosinone: carcere al centro di episodi inquietanti, evasioni, omicidi, traffico di droga di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 marzo 2017 Nell’istituto "Giuseppe Pagliei" sono ospitati 634 reclusi su una capienza regolamentare di 506 posti. la fuga del boss Alessandro Menditti, catturato sabato, è solo l’ultimo di una serie di episodi sospetti, tra i quali il "suicidio" di un anziano disabile detenuto. Il carcere di Frosinone è al centro di episodi inquietanti. Non solo l’evasione di una settimana fa del boss Alessandro Menditti (sabato è stato catturato) che sarebbe stata pianificata con l’aiuto dei telefonini e persone esterne, ma anche il giallo della morte di un anziano detenuto disabile classificata in un primo momento come suicidio. La morte è avvenuta otto mesi fa e, nei giorni scorsi, è stata recapitata la notifica della conclusione delle indagini al sospettato di omicidio: si tratta del detenuto Daniele Cestra, un 43enne di Sabaudia rinchiuso nella struttura di via Cerreto per scontare la pena per l’uccisione di un’anziana nell’ambito di una rapina degenerata al Circeo, sospettato di aver strangolato il disabile e poi inscenato un suicidio tramite impiccagione. La vittima, con problemi di deambulazione, venne ritrovata impiccata in cella nell’agosto del 2016 proprio da Daniele Cestra che aveva ricevuto il compito di assisterlo nelle attività quotidiane. Una morte sospetta perché sul corpo dell’uomo, così come è stato notato dai primi soccorritori, vennero trovati diversi lividi. A confermare i sospetti di omicidio e non suicidio, è stata l’autopsia effettuata sul cadavere dell’uomo che riconduce il decesso per asfissia meccanica. Un soffocamento provocato da due mani che avrebbero fortemente stretto il collo della vittima. Gli accertamenti del medico legale avrebbero evidenziato che il detenuto era già morto quando sarebbe stata messa in atto la messinscena del suicidio. Tante però sono state le inchieste giudiziarie che coinvolgono il carcere "Giuseppe Pagliei" di Frosinone. L’ultima, quella più eclatante, riguarda un presunto traffico di droga e cellulari con l’ipotesi di corruzione dell’assistente capo della polizia penitenziaria. L’inchiesta che ha portato il gip Francesco Mancini a emettere, con l’ipotesi di corruzione, 13 misure cautelari, è stata avviata nel luglio scorso, dopo il ritrovamento da parte della polizia penitenziaria di alcuni telefonini nelle celle. Secondo gli inquirenti il prezzo per corrompere l’assistente capo della polizia penitenziaria, un 47enne originario di Piglio, ora ai domiciliari, variava tra i 150 e i 500 euro. I telefonini venivano poi utilizzati dai detenuti sia per parlare con familiari e fidanzate che per continuare a svolgere attività illecite, tanto che un 35enne albanese avrebbe continuato grazie a uno smart-phone a gestire lo sfruttamento della prostituzione della sorella e della compagna. Alla luce dell’ultima evasione del boss della camorra con il ritrovamento dei due cellulari tenuti clandestinamente dal complice e utilizzati per organizzare la fuga con l’aiuto di complici esterni, sembrerebbe che i problemi non finiscano qui. Per ora sono solo ipotesi e sarà un eventuale processo a stabilire la verità. Sembrerebbe che nei giorni antecedenti all’evasione, almeno quattro individui ancora da identificare si sarebbero introdotti più volte all’interno del carcere portandosi dietro bombole di gas, tubi e cannello per la fiamma ossidrica. Tutto ciò sarebbe stato documentato dal sistema di videosorveglianza del carcere. L’ultima intrusione, è quella videoregistrata la notte dell’evasione, tra venerdì e sabato: alle ore 0,15 del 18 marzo i quattro individui si introducono nel perimetro del carcere e se ne vanno poco dopo. Tempo un paio d’ore, e i detenuti Alessandro Menditti e Irijan Boce (caduto dal muro di cinta durante la fuga) prendono il volo dalla loro cella infilandosi nel varco aperto grazie alla rimozione dell’inferriata della finestra. Come sia stato possibile l’intrusione dei quattro sconosciuti e l’utilizzo della fiamma ossidrica senza destare sospetti rimane un mistero e saranno gli inquirenti a svelarlo. Resta però il problema oggettivo della criticità dell’Istituto penitenziario. Attualmente ospita 634 detenuti su una capienza regolamentare di 506 posti. Un sovraffollamento accompagnato dalla carenza di organico, situazione denunciata da tempo da diversi sindacati di polizia penitenziaria. Viterbo: Claudio Tomaino, quel "suicidio" in cella che non convince due Gip di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 marzo 2017 Respinta le richiesta di archiviazione per la morte in cella di Claudio Tomaino il 18 gennaio del 2008. Indagini da rifare sulle cause della morte di Claudio Tomaino, ritrovato senza vita nel 2008 al carcere di Viterbo. Fin da subito era stato bollato come suicidio, ma dopo un tira e molla tra richiesta di archiviazione e opposizione da parte dei familiari, la gip di Catanzaro Barbara Saccà rende nota un’ordinanza in cui respinge in blocco le richieste di archiviazione avanzate dall’accusa. Si dovrà così tornare a scavare sugli ultimi istanti di vita del giovane Tomaino, ancora avvolti dal mistero e da troppi dubbi. Vale anche per la gip di Viterbo, Savina Poli, che a luglio dello scorso anno, respinse allo stesso modo le richieste di archiviazione del sostituto procuratore Renzo Petroselli. Troppe cose non tornano. Claudio Tomaino, rinchiuso nel carcere di Viterbo in attesa di giudizio, viene trovato morto la mattina del 18 gennaio 2008. Le autorità carcerarie parlano subito di suicidio per soffocamento. L’uomo si sarebbe tolto la vita infilando la testa in una busta di plastica dentro la quale aveva immesso il gas di un fornello scaldavivande. Ma su quel presunto suicidio, la madre dell’uomo, ha sempre mostrato dubbi. Alcuni punti oscuri sono ancora da chiarire. Innanzitutto le tracce di sangue rinvenute sul volto del presunto suicida, sul lenzuolo e sulla federa del cuscino. Un suicidio per soffocamento non provoca fuoriuscita di sangue. Non torna nemmeno il ruolo dell’altro detenuto che era con lui e al quale era stato assegnato il compito di controllarlo: non si sarebbe accorto di nulla. E lo stesso detenuto aveva affermato che il giorno prima, il presunto suicida sarebbe stato aggredito e pestato a sangue da altre persone. L’avvocato dei familiari aveva denunciato un’autopsia, a due giorni dalla morte, "assai sommaria". C’è anche una curiosa coincidenza: si sarebbe ucciso pochi giorni prima dell’udienza davanti alla corte d’assise di Catanzaro in cui avrebbe dovuto essere depositata la perizia psichiatrica che avrebbe determinato l’esito del processo. Tutte perplessità che a quanto pare non sono state chiarite dalle richieste di archiviazione. Ma ci sono tanti dubbi anche per il reato per il quale è stato tratto in arresto. Un reato indicibile: parliamo della strage di Caraffa avvenuta il 27 marzo del 2006 nel catanzarese nella quale venne sterminata a colpi d’arma da fuoco un’intera famiglia. Parliamo di Camillo Pane e la moglie Annamaria, i figli Eugenio e Maria, di 20 e 18 anni, zii e cugini di Tomaino. In un primo momento si parla di più autori dell’omicidio poi, invece, è lo stesso Claudio Tomaino ad autoaccusarsi; raccontando che era stato spinto da motivi economici e non solo. Una storia che forse è tutta da riscrivere. Ne è convinta Maria Pane, la madre di Claudio Tomaino, la quale aveva chiesto alla stessa Procura catanzarese di riaprire le indagini su quel caso, con un esposto presentato dall’avvocato Noemi Balsamo. Sicuramente, se era colpevole, non poteva essere l’unica persona a compiere quella strage. Tomaino venne arrestato con l’accusa di omicidio volontario plurimo aggravato in concorso con ignoti: gli inquirenti sono convinti che quella strage sia stata compiuta da Tomaino, ma in complicità con altre persone che non verranno mai rintracciate. Con la sua morte il processo per stabilire la verità è stato ovviamente chiuso. Ma rimane aperta ancora la verità su come sia effettivamente morto in carcere. Per la gip Saccà, in linea con la collega viterbese, appare "necessario procedere ad accertamenti tecnici sulle tracce biologiche presenti sul cuscino e sul lenzuolo in sequestro, nonché verificare se siano presenti tracce biologiche all’interno della busta di plastica sul fornello in sequestro e verificarne la natura, se rinvenute. È poi necessario - scrive ancora il gip - sentire a sommarie informazioni Pane Maria Cecilia in ordine alle lesioni che la donna afferma di aver notato sul corpo del figlio Tomaino Claudio nei giorni precedenti il decesso, verificando, altresì, presso il carcere in cui il detenuto era ristretto, quale siano state le giornate in cui la Pane, prima del decesso, ha avuto colloqui con il figlio". Lecce: il detenuto Cesario Fiordiso morì in ospedale "ma la sua patologia fu trascurata" di Lino Campicelli quotidianodipuglia.it, 28 marzo 2017 Nulla di fatto: la morte di Antonio Cesario Fiordiso, originario di San Cesario (Lecce), deceduto a 31 anni dell’anno scorso nell’ospedale di Taranto dove fu trasferito dal carcere tarantino in condizioni gravissime, resta priva di certezze. E senza certezze restano le presunte responsabilità originariamente individuate nell’inchiesta aperta dal pm inquirente di Taranto dottoressa Maria Grazia Anastasia, che a suo tempo conferì l’incarico di fare luce sulla morte del detenuto al professor Alberto Tortorella e al dottor Salvatore Silvio Colonna. I due consulenti, che effettuarono tutti i rilievi possibili sul corpo di Fiordiso attraverso la riesumazione del corpo del giovane salentino, anche in adesione alle indicazioni del gup jonico dottor Pompeo Carriere, hanno depositato il loro responso. Le loro conclusioni fanno ipotizzare una scarsa, e inidonea, valutazione della patologia che portò alla morte del detenuto. Ma questa è e resta una mera ipotesi su cui gli esperti non hanno apposto sigilli di certezza. Secondo i consulenti, vi è "impossibilità di pervenire a una diagnosi eziologica della sindrome rabdiomiolitica (legata cioè a disturbi gastrointestinali patiti dal 31enne), ragionevolmente primum movens degli eventi patologici che hanno condotto a morte Fiordiso: il che contribuisce a rendere ancor più problematico il giudizio controfattuale relativo alla vicenda in questione". Nola: domani scade il bando per la costruzione del primo carcere senza muri né sbarre di Carmen Fusco Il Mattino, 28 marzo 2017 Scadrà domani il bando ministeriale per la costruzione del nuovo istituto penitenziario di Nola: sarà il terzo della Campania e il primo in Italia ad obbedire al modello Oslo, che sta facendo scuola in tutta Europa: meno recinzioni e più laboratori per riabituare al contatto con la vita esterna i detenuti prossimi al "fine pena". Ma c’è già un rischio: il sovraffollamento. Non ci saranno cinte murarie né posti sentinella. I vetri antisfondamento sostituiranno le sbarre e i detenuti potranno pregare per Dio o per Allah in ambienti di culto diversi. Sorgerà a Nola la prima prigione "aperta" e sarà il terzo istituto penitenziario della Campania per capienza. L’iter per realizzarlo è stato già avviato: scadrà, infatti, domani il bando per la redazione del progetto da 75 milioni. È il diritto alla speranza la filosofia alla quale si ispira il progetto del nuovo carcere di Nola, dove 1.200 detenuti saranno i primi a poter sperimentare le nuove linee della riforma dell’esecuzione penale. Non ci saranno cinte murarie né posti sentinella. I vetri antisfondamento sostituiranno le sbarre e i detenuti potranno pregare per Dio o per Allah in ambienti di culto diversi. È chiaro che quella che sorgerà nell’area di Boscofangone, tra Nola e Camposano, non sarà ima prigione di massima sicurezza, ma ospiterà quei detenuti che dovranno essere prontamente re inseriti nella società. In ogni caso servirà però a de congestionare strutture ormai al limite come Poggio-reale e Secondigliano ed è per questo che si tratterà del terzo istituto penitenziario della Campania per capienza. L’iter per realizzarlo è stato già avviato: scadrà, infatti, domani il bando del ministero delle Infrastrutture per la redazione del progetto. Ai professionisti selezionati sarà riconosciuto un compenso di 5,7 milioni, mentre per realizzare l’opera di milio ni ne saranno necessari?5. Il primo passo dopo anni di annunci, ma soprattutto la prima esperienza frutto del lavoro di esperti, di comitati e di tavoli che sotto l’egida degli Stati generali dell’esecuzione penale hanno dato vita a un modello detentivo che ha guardato agli esempi europei, co me quelli danesi e norvegesi, ha fatto tesoro delle parole di Giovanni Paolo II ed ha tenuto conto della normativa sovranazionale. Per "confezionare" un prodotto più a misura di carcerato - ma sarebbe meglio dire a misura d’uomo - sono state effettuate perfino dette trasferte oltralpe e a Napoli sono stati organizzati gruppi di lavoro tra studenti universitari, docenti e detenuti. Cosa tireranno fuori i progettisti dalle indicazioni contenute nella relazione illustrativa del bandolo si saprà 120 giorni dopo l’affidamento. I lavori, invece, potrebbero essere completati nel giro di quattro o cinque anni. Intanto, però, nonostante alcune polemiche emerse nel corso di una recente tavola rotonda che si è tenuta all’Università di Roma Tre, è già chiaro a quali indicazioni dovranno attenersi tecnici incaricati. Lontano dai centri abitati, ma non distante dal distretto Cis-Interporto-Vulcano, il carcere di Nola dovrà richiamare una forma urbana, vicoli compresi. Al piano terra dovranno essere previsti spazi per attività diurne. Espresso il riferimento a piscina, palestra, cortili per passeggio, biblioteche, laboratori e sala teatro. Televisori di ultima generazione nelle celle e poi parcheggi separati per personale e visitatori. Non c’è dubbio insomma che sembreranno lontani i tempi di Stefano Cucchi, morto nel carcere di Regina Coeli. D’altronde le linee guida del Comitato di esperti per predisporre le linee di azione degli "Stati generali sull’esecuzione penale", i cui lavori sono terminati appena la scorsa primavera, non lasciano spazio ad interpretazioni: "Il diritto alla speranza non può essere negato neppure al condannato all’ergastolo". Lo ha stabilito la Corte di Strasburgo e loro, i componenti dell’organismo del quale ha fatto parte anche il presidente di Libera don Luigi Ciotti, lo hanno ribadito: "Il percorso risocializzativo deve essere modulato sull’uomo e non sul fatto commesso. Non sono ammesse presunzioni legali di irrecuperabilità sociale. Nessuna pena deve rimanere per sempre indifferente all’evoluzione psicologica e comportamentale del soggetto che la subisce". Nola: i dubbi di Scandurra (Antigone): "no alla Campania Prison Valley d’Italia" di Chiara Graziani Il Mattino, 28 marzo 2017 Alessio Scandurra, dell’osservatorio dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione, conosce molto bene il dossier nuovo carcere di Nola. 1.200 posti letto in celle singole da inaugurare nel 2020. Il grosso della spesa per realizzarlo, 117 milioni, sarà un pensiero della legge di bilancio 2019. A elezioni trascorse, il governo che verrà dovrà trovare 64 milioni, più altri trenta per chiudere la partita nel 2020. Il carcere dell’utopia - come è stato presentato questo nuovo indirizzo futuro di un popolo invisibile di 55mila persone a diritti limitati - non sarà, dunque, di facile realizzazione. Parziale eliminazione delle sbarre, spazi per l’affettività, cucine di comunità e piccole cellule con celle singole. Eppure, Scandurra, il nuovo carcere di Nola, che si richiama alle linee guida degli stati generali sulla detenzione, è già contestato. Non crede al carcere senza sbarre? "Quel carcere non sarà quello di Nola. Innanzitutto perché è un progetto che precede gli Stati Generali voluti dal ministro Orlando e, al massimo, può essere in qualche modo adattato ma non ispirato. Inoltre carceri del genere, dove comunque le sbarre ci sono, vengono progettate da vent’anni: non ne ho vista una diventare una struttura detentiva reale. Così come è concepito - celle singole, con gli operatori ed i detenuti a dividere la quotidianità - il nuovo carcere di Nola richiederebbe un esercito di addetti che non c’è. Inoltre l’amministrazione penitenziaria è centralizzata, il modello è unico ed è quello. La gente, per come stanno le cose, sarà destinata a star chiusa dentro come al solito". In celle singole, almeno. Non topaie sovraffollate come quelle che ci hanno fatto condannare dalla Corte europea dei diritti dell’uomo perché infliggiamo condizioni degradanti di detenzione. "Crede? L’esperienza mi ha mostrato tante cose. Tutte le carceri degli ultimi anni sono state progettate, tutte ripeto, con celle singole, Nola prevede 1.200 celle singole? Dia per certo che il minimo della popolazione carceraria, il minimo, sarà di 2.400 detenuti, almeno due per cella, quando non tre. Sempre che si arrivi a vederlo questo nuovo carcere". Ha qualche dubbio? "Ormai so che tutto è possibile. Chissà, magari lo vedremo il nuovo carcere con il suo migliaio di posti di lavoro in più e tante possibilità occupazionali per gli agenti penitenziari campani, parte consistente di una categoria attiva e politicamente attenta a 360 gradì". E allora? "Non mi meraviglierei, però, che tutto il progetto finisse in un cassetto. Magari passate le elezioni nel 2018". Il carcere di Nola serve anche a smaltire un sovraffollamento nazionale che torna a salire. "Sale perché è governato, spesso, dalla politica e dalle paure più dall’esigenza di fare buone ed efficaci politiche. Inoltre Poggioreale e Secondigliano già pesano enormemente sul territorio. Sicuri che basti fare della Campania il distretto italiano delle carceri? Sono 9.735 i detenuti nati in Campania, la regione in Italia con il maggior numero di persone private della libertà. È per questo che la si avvia a diventare carceriera da Felix che era? Una Prison Valley". Carceri come risorse? "Guardi gli Stati Uniti. Si prende un territorio depresso e si crea un po’ di lavoro. Ma le carceri elefantiache in territori poveri o depressi o problematici, creeranno qualche posto, certo. Ma non si può pensare che un territorio con poche risorse regga al decuplicarsi della popolazione. Ed i detenuti sono una popolazione particolare. Le dimensioni di un carcere devono essere proporzionate alle risorse ed alle reti della comunità che se ne fa carico". E l’utopia del 2020? "Forse aspetteremo un po’di tempo in più". Trieste: nominato il nuovo Garante comunale dei diritti dei detenuti di Elisabetta Burla Ristretti Orizzonti, 28 marzo 2017 Il Consiglio Comunale di Trieste ha nominato - nella seduta del 23 gennaio 2017 - il nuovo Garante comunale dei diritti dei detenuti nella persona della scrivente. La sede attuale dell’Ufficio è a Trieste in via Genova 6 secondo piano stanza 239 con orario di apertura il martedì dalle 17.30 alle 18.30 e il giovedì dalle 17.00 alle 18.00; eventuali appuntamenti potranno essere concordati in altre giornate e orari chiamando al numero di telefono 040.6758460 o scrivendo all’indirizzo mail elisabetta.burla@comune.trieste.it. Bologna: bando per il nuovo Garante per i diritti dei detenuti, la scadenza è il 31 marzo comune.bologna.it, 28 marzo 2017 Il Comune di Bologna ha aperto il bando per individuare il nuovo Garante per i diritti delle persone private della libertà personale, visto che il 23 luglio prossimo scadrà il mandato dell’attuale Garante, Elisabetta Laganà, eletta il 23 luglio del 2012. La Presidenza del Consiglio comunale ha avviato l’iter per individuare la nuova figura: c’è tempo fino al 31 marzo per avanzare le candidature. "Con l’apertura del bando - afferma la Presidente del Consiglio comunale, Luisa Guidone - confermiamo l’adozione di una procedura aperta e trasparente. Desidero ringraziare la Garante in carica, Elisabetta Laganà, che ha svolto il suo compito in questi anni con passione e competenza. Il Garante per i diritti delle persone private della libertà personale è figura molto importante per il Consiglio comunale, che già in questi primi mesi di mandato ha dimostrato di essere molto sensibile a questi temi. La Presidenza del Consiglio infatti, in accordo con tutti i Gruppi consiliari, ha già chiesto di calendarizzare visite nelle carceri della città: su questo è mio preciso impegno lavorare e il nuovo Garante sarà, insieme al Consiglio, protagonista di questo percorso". Il Garante per i diritti delle persone private della libertà personale, previsto dallo Statuto del Comune di Bologna ed eletto dal Consiglio comunale è una figura istituzionale che opera in piena libertà ed indipendenza per il rispetto della dignità delle persone private della libertà personale; negli istituti di pena vigila sul rispetto dei diritti, attivandosi nei casi di compressione o mancato esercizio di essi al fine di sollecitare ogni utile intervento presso le istituzioni competenti. Svolge attività di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani e sulla finalità rieducativa della pena, avvicinando la comunità locale al carcere. Trapani: volontari di "Insieme per sperare" incontrano detenuti della Casa circondariale lagazzettatrapanese.it, 28 marzo 2017 Si è tenuto lo scorso 25 Marzo, nel Teatro della Casa Circondariale di Trapani un incontro tra detenuti dei Reparti Mediterraneo e Adriatico e i volontari dell’Associazione Nazionale di Volontariato "Insieme per sperare". Presenti all’incontro il Comandante della Polizia Penitenziaria Commissario Giuseppe Romano e il Capo Area Trattamentale Antonio Vanella. L’Associazione "Insieme per sperare" nata a maggio del 2013 ha come obiettivo la beneficienza e la solidarietà sociale. I volontari dell’Associazione da sempre vicini alle categorie disagiate hanno animato l’incontro con canti religiosi e momenti di evangelizzazione, coinvolgendo anche i detenuti che, saliti sul palco, hanno offerto le loro testimonianze di vita, raccontando le proprie storie che hanno colpito i volontari per i messaggi positivi di speranza e redenzione attraverso le opportunità di lavoro e trattamentali che oggi l’Istituto di San Giuliano può offrire alla popolazione detenuta. La signora De Vita Nicolina e il dott. Lombardo Giuseppe, organizzatori dell’incontro, nel ringraziare per l’opportunità avuta oggi di toccare con mano il disagio e dare una speranza, dichiarano che "l’incontro di oggi ha offerto momenti di confronto con una realtà , quella carceraria, ancora semi sconosciuta e di riflessione sul tema del reinserimento sociale del detenuto; ci saranno sicuramente ulteriori occasioni d’incontro nelle quali, l’associazione porterà un contributo tangibile in termini di beni primari dei quali moltissimi detenuti sono sprovvisti in quanto non abbienti". Genova: "Skills for Freedom", dal carcere alla comunità. Incontro al Teatro Ducale ligurianotizie.it, 28 marzo 2017 Da diversi anni l’Arci si impegna nell’ambito del lavoro in carcere, sviluppando progetti e reti, che favoriscono la realizzazione di azioni dedicate ai detenuti, alla loro vita, "fuori e dentro le mura". Nel 2015, Arci Liguria, proseguendo questo cammino, affronta una nuova sfida, dal respiro europeo e si mette alla guida di "Skills for Freedom. Artistic paths to develop the professional skills of prisoners" (Percorsi artistici per lo sviluppo di competenze professionali nei detenuti), un progetto finanziato dal Programma Erasmus - KA2 - Settore Educazione Adulti. Skills, dando per assodata la presenza, la diffusione e la efficacia di attività artistiche, in particolare teatrali, realizzate insieme ai detenuti per facilitarne la permanenza in carcere e favorirne il percorso di riabilitazione, si pone come fine ultimo quelle di facilitare il reinserimento post-pena, nel mercato del lavoro; un obiettivo ambizioso, che persegue attraverso un lavoro di 3 anni, appoggiandosi ad una rete di 10 partner, in 8 paesi. A metà del proprio ciclo di vita, Skills for Freedom si presenta al pubblico e restituisce gli esiti del lavoro finora svolto, presentando il Quadro europeo delle competenze, trasversali e specifiche, acquisite dai detenuti impegnati nelle attività artistiche e teatrali (Common European framework for the transversal and specific skills developed by prisoners through artistic and theatrical trainings) e introducendo le attività che sono attualmente in corso, nelle carceri di Marassi e Pontedecimo, ad opera di Arci Genova, Arci La Spezia e Teatro dell’Ortica e monitorate dall’Équipe di Formatori Associati - Éfa. L’evento, che avrà luogo nella Sala del Munizioniere a Palazzo Ducale a Genova il prossimo 30 marzo. Bari: all’Ipm "Fornelli" partita di calcio come occasione di educazione alla legalità lostradone.it, 28 marzo 2017 "Ho 14 anni e sono qui per rapina a mano armata" ha detto uno dei giovani ospiti del carcere minorile "Fornelli" di Bari. "Come si può andare dentro a soli 14 anni? Quando ho ascoltato quel ragazzo fare questa affermazione ho pensato che fosse impossibile - commenta Gaetano Mongelli, studente del dell’Itet "Tannoia" di Corato. Ancora non riesco a credere che quel ragazzo abbia avuto a 14 anni la capacità di agire in quel modo: piuttosto credo che quel ragazzo come tanti altri sia stato pilotato da qualcuno nella rapina". La conoscenza della realtà dura del presente ma anche di quella passata dei ragazzi del carcere per minorenni "Fornelli" come esperienza diretta di educazione alla legalità. Un’esperienza che non può essere disgiunta dalla solidarietà umana. Quella che hanno provato gli studenti delle classi 4BA, 4CI, 4DI, 4FG dell’Itet "Tannoia" giocando una partita di pallone con i ragazzi del "Fornelli". "Giocare con loro è stato bellissimo - continua Gaetano, non posso nascondere le paure che avevo all’inizio e che si sono prolungate per il resto della partita. Ma proprio giocando ci siamo resi conto che sono bravi ragazzi, e poi lo sport unisce tutti. A un certo punto uno di loro ha abbracciato e baciato il nostro amico Anouar che ha una disabilità fisica. Purtroppo i pregiudizi invadono il mondo e questi ragazzi ne saranno colpiti. Alla fine di questa giornata quello che mi è rimasto è l’aver visto con i miei occhi le vite rinchiuse lì dentro". Una esperienza straordinaria alla cui organizzazione si è dedicata anima e corpo la prof.ssa di Diritto Tania Sciscioli che ha saputo realizzarla grazie alla passione e alla competenza che mette nella sua professione, sostenuta da tutto il Dipartimento di Diritto ed Economia, ec oadiuvata nell’iniziativa dai prof. Giuseppe Albanese, Franco Bruni, Piero De Palma, Lucia Leuci, Rosa Maria Mastrandrea, Maria Quatela. Il Dirigente scolastico prof.ssa Nunzia Tarantini ha guidato di persona la delegazione del "Tannoia". È così che l’educazione alla legalità, che nel "Tannoia" occupa una chiara e forte collocazione all’interno del curricolo, si fa promozione della consapevolezza in ogni alunno di essere in prima persona responsabile del proprio futuro e di quello degli altri. È così che i giovani possono sviluppare un sentimento profondo di cittadinanza attiva, nell’esercizio dei propri diritti e nel rispetto dei doveri contratti nei confronti della società cui appartengono. Questa la cornice di valori in cui si colloca da alcuni anni la collaborazione tra il "Tannoia" e la Casa Circondariale di Trani dove le classi quinte si recano per conoscere la realtà degli Istituti di Pena e il regime di detenzione. Il fine è quello di realizzare una educazione alla legalità e alla cittadinanza attiva offrendo esempi concreti di opportunità di cambiamento e di conoscenza del territorio di vita e delle sue dinamiche sociali, culturali, economiche: perché la conoscenza porti i ragazzi a farsi agenti di cambiamento e di diffusione di legalità e coscienza civile. La partita di calcio ha costituito il momento culminante di un percorso la cui prima fase è stata l’incontro tenuto a novembre presso l’Itet "Tannoia" da Nicola Petruzzelli, Direttore dell’Istituto Penale "Fornelli", sul regime della carcerazione minorile. A lui vanno i ringraziamenti sentiti della comunità dell’Itet di Corato, come pure al sig. Fanelli e al dott. Di Summa dell’Uspi Bari, a tutti gli educatori e al personale della struttura. Ai ragazzi del "Fornelli" un grazie particolare per l’accoglienza riservata agli ospiti. Verona: "Invisibili", performance teatrale itinerante nei luoghi del carcere veronasera.it, 28 marzo 2017 In occasione della Giornata Mondiale del Teatro, la direzione della Casa circondariale di Verona realizza una performance teatrale itinerante nei luoghi del carcere. Invisibili è il titolo dello spettacolo che andrà per la prima volta in scena lunedì 27 e martedì 28 marzo alle 19, con ingresso solo su invito. Il testo, scritto e diretto da Isabella Dilavello e da Alessandro Anderloni per la compagnia del Teatro del Montorio, è liberamente ispirato da Le città invisibili di Italo Calvino. Si tratta del terzo spettacolo frutto del laboratorio teatrale diretto da Anderloni che l’associazione culturale Le Falìe organizza dal 2014 nel carcere scaligero con il sostengo della Fondazione San Zeno. Un percorso che, con incontri a cadenza settimanale, coinvolge un gruppo di detenuti delle sezioni comuni e che ha già portato sulle scene L’attesa della neve, Senza il vento e Speratura: testi che sono il frutto di un lavoro di drammaturgia collettiva con i partecipanti al corso. I trenta spettatori per replica ammessi alla rappresentazione avranno la possibilità di percorrere alcuni luoghi del carcere, aree trattamentali, passeggi, palestra, zone comuni dove assisteranno alle scene teatrali in forma di evento itinerante. Il carcere sarà dunque contenitore e palcoscenico stesso, in un’interazione che vedrà gli spettatori stessi protagonisti delle vicende raccontate. In occasione della Giornata Mondiale del Teatro, la direttrice Maria Grazia Bregoli ha voluto estendere l’invito soprattutto ai giovani studenti partecipanti ai laboratori scolastici negli istituti superiori di Verona, nello spirito di apertura e di condivisione della vita carceraria con la città e di sensibilizzazione verso le nuove generazioni. Lo spettacolo Invisibili nasce da un lavoro su Italo Calvino. "Si dice che ogni uomo è un’isola", raccontano a tal proposito Isabella Dilavello e Alessandro Anderloni, "ma quando proviamo a visitarla, a conoscerla, quest’isola che siamo, scopriamo costruzioni, angoli, percorsi accidentati, luci, quartieri bui. Come fossimo una città, dove i desideri sono le luci che ci guidano, dove i ricordi e le memorie a volte odorano forte come spazzatura. Dove spesso ci muoviamo invisibili agli occhi di chi non ha tempo e voglia di vederci". Attraverso il testo di Calvino, concludono, "gli attori del laboratorio si sono ritrovati nel labirinto della loro essenza, in luoghi immaginifici che tuttavia somigliano loro. Da quelle città immaginarie sono partiti per trovarne altre. Quelle che più corrispondono alle loro mura, al loro inferno e al loro paradiso". Enna: per la Festa del libro l’illustratore Fuad Aziz con i detenuti del carcere dedalomultimedia.it, 28 marzo 2017 È un religioso silenzio quello che accoglie l’illustratore e scrittore iracheno che stamani ha incontrato i detenuti della Casa Circondariale "L. Bodenza". Un silenzio carico di significato quando Fuad parla di multiculturalità e pace agli ospiti della Casa Circondariale provenienti da tanti paesi del Mondo . "Sono nato in un paese dove, quando io ero bambino, c’era la guerra - ha detto Fuad ai detenuti - Credevo che nel 2000, che da piccolo vedevo lontano e quasi come un approdo, la guerra non dovesse esserci più. Invece non è andata così. La guerra è terribile perché distrugge non solo le persone e le cose, ma annienta i ricordi". Prima il giovane Damiano Giunta, dell’Unione Ciechi di Enna aveva letto un brano del libro di Fuad "Sole e mare" , trascritto in braille, ai detenuti che lo hanno ascoltato in silenzio e ad occhi chiusi. Presenti al carcere anche un consigliere dell’Unione, Carmelo Prestifilippo e Dario La Paglia che, insieme ad un altro ragazzo, Gabriel Prestina, hanno ricopiato il libro di Fuad in braille e realizzato, con una nuova tecnica, le immagini in rilievo in modo da consentire ai non vedenti di leggerle con le mani. Una copia del libro in braille è stata donata a Fuad mentre l’altra, l’Unione Ciechi, l’ha regalata alla biblioteca del carcere. L’illegalità di massa che deve far riflettere di Giovanni Belardelli Corriere della Sera, 28 marzo 2017 Parlare di una nuova era di Tangentopoli rischia di portare fuori strada. In realtà la vera questione è l’enorme diffusione di comportamenti fuorilegge. Viviamo davvero in una perenne Tangentopoli, come i continui scandali, episodi di corruzione, inchieste della magistratura sembrerebbero indicare? Benché continuamente evocata (se si digita su Google "nuova Tangentopoli" si ottengono oltre 250 mila risultati) questa rappresentazione è ingannevole. Non tanto e non solo perché a volte dietro il molto fumo di un’indagine, alimentato dai media, si finisce con il trovare una limitata porzione di arrosto (potrebbe essere questo il caso dello scandalo Consip, almeno in relazione al ministro Lotti e a Tiziano Renzi); quanto perché l’idea di una Tangentopoli continua, che coinvolge il mondo della politica e degli affari, distoglie il nostro sguardo da un’altra questione: la diffusione ormai raggiunta nella società italiana da comportamenti illegali di massa. Pensiamo ad esempio a quanti beneficiano della legge 104, che tutela le gravi disabilità: mentre nel settore privato vi fa ricorso il 3,3 per cento dei dipendenti, la percentuale sale al 13,5 per cento nel settore pubblico, e in particolare nelle istituzioni scolastiche (proprio quelle a cui sempre ci si appella perché diffondano tra i giovani il senso della legalità). Il dato è così anomalo da suggerire la massiccia presenza di irregolarità. Del tutto chiara l’illegalità nei casi di assenteismo fraudolento da parte di quanti - medici nel Napoletano o impiegati in questo o quel comune - falsificano la presenza al lavoro. In questi casi colpisce il senso di impunità, cui forse va aggiunta la percezione che si tratti di piccole furbizie, di qualcosa di non veramente grave. Non si spiegherebbe altrimenti come comportamenti del genere continuino nonostante i tanti casi scoperti negli ultimi anni. Ma l’elenco di questi comportamenti di illegalità diffusa potrebbe essere molto lungo. Si va dalle false dichiarazioni Isee nelle iscrizioni all’università (un’indagine del 2013, riferita ai tre atenei statali della Capitale, rivelava che solo il 63 per cento erano regolari) alle ingiustificate esenzioni del ticket che riguarderebbero, secondo dati di un anno fa, un italiano su dieci. Poi ci sono naturalmente i dati sull’evasione fiscale, sull’abusivismo edilizio, sulle false pensioni di invalidità e così via. E le tante affittopoli italiane, cioè i casi in cui gli immobili pubblici sono stati assegnati a un affitto di favore o semplicemente ridicolo, quando non occupati e basta. O ancora, l’abnorme numero di incidenti stradali in certe zone del Paese; un numero che a Napoli, ad esempio, è 11 volte maggiore rispetto a Roma. In effetti, è forte la tentazione di collocare soprattutto nel Mezzogiorno la presenza di comportamenti di illegalità diffusa; sono davvero impressionanti, al riguardo, certi dati sulla Sicilia riportati di recente da Paolo Mieli (Corriere, 20 marzo). Si potrebbe spiegarlo con la presenza della malavita organizzata e di situazioni di particolare degrado sociale, ma anche con l’uso particolarmente dissennato delle risorse pubbliche a fini di consenso (elettorale). Certo è che la Capitale non pare voler restare troppo indietro quanto alla diffusione di comportamenti al limite, od oltre il limite, della legalità: migliaia di appartamenti occupati abusivamente o per i quali si pagano affitti di dieci o venti euro in pieno centro storico; indagini continue che hanno interessato il corpo dei vigili urbani, raramente o mai sanzionati; le municipalizzate Atac e Ama utilizzate per l’assunzione di parenti e amici; senza dimenticare i parcheggiatori abusivi ovunque e le auto in sosta nelle zone riservate ai pedoni. Interrogarsi su tutto ciò vorrebbe dire chiedersi perché l’arrivo del benessere, a partire dagli anni del "miracolo economico", abbia reso l’Italia più ricca ma non abbia portato a un maggior senso di legalità e a una maggiore coscienza civica. Molto più facile ricorrere al grande alibi di una Tangentopoli continua, a quella denuncia di una politica sempre corrotta che alimenta il successo dei Cinque Stelle. Una rappresentazione consolatoria che però poco corrisponde alla realtà di un Paese i cui abitanti, certo non tutti ma una cospicua minoranza sì, avrebbero bisogno di interrogarsi seriamente anche sui propri comportamenti. Migranti. L’annuncio dell’Austria "Usciremo dal piano ricollocamenti" Corriere della Sera, 28 marzo 2017 Vienna rivendica di avere già rispettato gli accordi presi con l’Europa: "Nel nostro Paese accolti molti più migranti che in Italia". Vienna potrebbe varare già da martedì il ritiro dal piano di ricollocamenti di profughi e migranti deciso dalla Ue. La proposta del ministro della Difesa Hanz Doskozil (socialdemocratici) è stata accolta dal ministro degli interni Wolfgag Sobotka (popolari). Secondo il ministro della Difesa, l’Austria ha "più che rispettato" gli obblighi europei. Il confronto con l’Italia - In particolare Vienna giustifica la decisione con il fatto di aver accolto negli ultimi due anni in proporzione "molto più domande d’asilo dell’Italia, ovvero 4.587 contro 1.998 domande per un milione di abitanti". Il ministro ha inoltre evidenziato che "i profughi che in realtà dovrebbero trovarsi in Italia hanno presentato domanda d’asilo in Austria", ribadendo il fenomeno dell’ingresso "illegale" di profughi dall’Italia verso l’Austria. Doskozil ha anche sottolineato che l’accordo terminerebbe comunque a settembre e che "l’Austria è uno dei paesi che porta maggior peso" nella questione dei flussi migratori. "Abbiamo fatto a sufficienza la nostra parte nella gestione umanitaria", ha aggiunto. Il governo potrebbe varare già domani quello che - come è stato ribadito - "non è un’uscita dall’accordo Ue, perché l’Austria, visto gli impegni già presi, non sarebbe neanche più tenuta ad accogliere ulteriori profughi". I ricollocamenti - Secondo l’accordo, l’Austria deve farsi carico di 1.491 richiedenti asilo arrivati in Grecia e di altri 462 arrivati in Italia. Nel 2015 l’Austria aveva accettato circa 90mila richiedenti asilo e altri 30mila nel 2016. Intanto il commissario europeo Dimitris Avramopoulos richiama ancora una volta gli Stati membri a rispettare gli impegni presi sui ricollocamenti. "Non ci sono più scuse", avverte il greco. Ma una delle sorprese della giornata è che in Italia i richiedenti asilo registrati e candidabili ai ricollocamenti sono solo 6.000, mentre in Grecia 20.000. "I numeri possono sempre aumentare", spiega Avramopoulos, che ai Paesi Ue chiede di accogliere 1.500 profughi al mese dall’Italia e 3.000 dalla Grecia. La cifra delle persone da ridistribuire dall’Italia - che fino ad oggi ha beneficiato solo di 4.400 trasferimenti sui 34.950 previsti entro settembre 2017 - "è bassa perché nel vostro Paese arrivano soprattutto migranti economici, e questo si somma con una certa lentezza delle procedure burocratiche", spiegano fonti europee. Migranti. Kater I Rades, una memoria che brucia di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 28 marzo 2017 Venti anni fa esatti, il 28 marzo del 1997, si consumava un misfatto a mare che avrebbe tristemente anticipato le stragi che hanno riempito di vittime negli ultimi anni le fosse del Mediterraneo. Così, ricordare la Kater I Rades, tornare a sentire come abbiamo fatto i sopravvissuti di quell’eccidio, non è purtroppo esercizio di memoria. È pura attualità. L’origine materiale e violenta della stagione dei respingimenti. Una chiara dimostrazione di cosa può provocare un blocco navale militare più volte evocato, anche in sede europea, contro i disperati in fuga attraverso le coste della Libia. E di come l’uso dei mezzi militari produca stragi. Anche allora dilagava un clima di isteria contro i profughi. In quel caso gli albanesi che arrivavano con le carrette a mare, con la Lega Nord - ben rappresentata da Irene Pivetti allora a capo del parlamento - che cominciava a chiedere espressamente di sparare sulle navi dei profughi e di ributtarli a mare. Così, il 28 marzo del 1997, una nave militare italiana speronò in acque internazionali la carretta del mare Kater I Rades, provocandone l’affondamento con la morte di oltre cento persone - 105 per la precisione - molte delle quali donne e bambini. Fuggivano tutti dalla guerra civile che era scoppiata in Albania contro il fallimento delle Piramidi finanziarie e il presidente Sali Berisha che le aveva promosse e che, per rispondere alla rivolta popolare, aveva dichiarato lo stato d’emergenza. La Sibilla era tra le navi italiane impegnate in un "blocco" deciso dal governo Prodi in accordo con quello albanese e con il presidente Sali Berisha senza l’assenso del parlamento e senza che ancora fossero conosciute le regole d’ingaggio delle forze militari impegnate nell’operazione di "respingimento e dissuasione" dei profughi albanesi in fuga. La versione dei fatti fornita dalla Marina militare apparve subito lacunosa. Risultò che la Sibilla si era avvicinata al cargo albanese che era in evidenti condizioni precarie di navigazione, nonostante il mare mosso, per "consigliare" con un megafono all’imbarcazione di tornarsene in Albania. Nelle condizioni del mare a forza cinque, una nave militare delle dimensioni e della stazza della Sibilla era tenuta a rispettare una distanza di sicurezza di almeno cento metri. Cosa che naturalmente non avvenne. Aldilà dei fatti accaduti "a mare" resta ancora adesso tutta quanta la responsabilità, oggettiva e politica, del governo di allora per il "pattugliamento navale" e la finalità per la quale era stato organizzato. Fu subito un rimpallo di responsabilità. Colpa di Andreatta alla Difesa? Colpa di Lamberto Dini ministro degli esteri? No, colpa di Giorgio Napolitano allora ministro degli Interni che, con il decreto d’emergenza e le espulsioni, aveva messo in moto il meccanismo del blocco navale. Una cosa sola fu certa: quelle misure vennero prese da tutto il governo. Il primo governo di centrosinistra, con i Ds (allora Pds) in posizione dominante, si era messo d’accordo con un personaggio impresentabile come il premier albanese Sali Berisha, per un blocco navale e per l’invio di una forza militare che intanto lo sostenesse. Un "muro" di navi da guerra, dinanzi alle coste albanesi per interdire la navigazione ai profughi diretti verso l’Italia, deciso senza mandato parlamentare, con l’opposizione di forze della maggioranza di governo come Rifondazione comunista (tutta, ancora non c’era stata la rottura) e i Verdi. E con l’aperta ostilità dell’Alto commissario Onu per i rifugiati, Fazlum Karim. Ecco l’humus da cui prese le mosse la Bossi-Fini. E pensare che il governo italiano, replicando al rappresentante dell’Onu, aveva escluso e negato l’esistenza del blocco navale. Olanda: i giudici abusano della custodia cautelare, metà dei detenuti è in attesa di giudizio 31mag.nl, 28 marzo 2017 La popolazione carceraria dei Paesi Bassi è meno della metà di quella media europea ma la metà di questi non sta scontando una condanna definitiva. I giudici scelgono con troppa leggerezza la custodia cautelare durante le indagini di polizia, a sostenerlo è la Commissione olandese per i diritti umani. La scorsa settimana è emerso che circa quattro persone su 10 detenute nelle carceri olandesi non sono state rinchiuse in seguito ad una sentenza definitiva ma sono in attesa di giudizio. Secondo il Comitato, la media sarebbe ben al di sopra di quella UE. I ricercatori hanno esaminato circa 300 casi e sono giunti alla conclusione che in due terzi di essi, la scelta della carcerazione era stata quantomeno discutibile. Nella maggior parte dei casi in cui le persone sono state detenute in regime di custodia cautelare, su richiesta del dipartimento di pubblica accusa, la decisione non era stata adeguatamente valutata. In due casi indagati, addirittura, mancherebbe del tutto la motivazione: il giudice si sarebbe limitato a compilare un modulo dove avrebbe semplicemente barrato una formula prestampata, senza indicare nel dettaglio le ragioni della decisione. La carcerazione in attesa di giudizio, ha aggiunto nel commento la College voor de rechten van de mensen, potrebbe avere degli effetti devastanti nella vita privata delle persone indagate. Secondo il rapporto, la prassi violerebbe la Convenzione europea sui diritti umani che prescrive come "norma" che indagati e imputati attendando gli sviluppi del procedimento da persone libere. La commissione, inoltre, suggerisce forme alternative di sorveglianza: braccialetto elettronico e obbligo di dimora possono essere soluzioni efficaci che rispettano, tuttavia, i diritti di chi è in attesa di un processo. Se i Paesi Bassi hanno una popolazione carceraria che ammonta a meno della metà di quella media europea, ossia 53 su 100mila abitanti contro i 116 del resto del Continente, viceversa il numero di abitanti in custodia cautelare ammonta al 43% dei detenuti contro il 25% della media europea. Congo. Giornalisti di Rai3 arrestati: cosa nascondono Nguesso ed Eni? di Fulvio Beltrami lindro.it, 28 marzo 2017 Prima dell’arresto dei due giornalisti, il Governo di Brazzaville ha interrotto le comunicazioni internet e telefoniche per impedire l’invio a Rai3 dell’intervista con Fabio Ottonello. Grazie alla intensa attività diplomatica dell’Ambasciatore Andrea Mazzella, supportata dal Ministero degli Interni italiano, Luca Chianca e Paolo Palermo, inviati speciali della trasmissione ‘Report’ di Rai3, arrestati il 15 marzo scorso a Point Noire, nel Congo Brazzaville, sono stati liberati potendo rientrare in Italia lunedì 20 marzo. La detenzione nel Paese africano poteva complicarsi, e i tempi di liberazione dilatarsi costringendo Chianca e Palermo a subire una incerta sorte condivisa da decine di connazionali detenuti nelle galere africane -ricordiamo Christian Provvisionato detenuto in Mauritania sotto accusa di truffa informatica ai danni del Governo. La vicenda di Christian Provvisionato, da 19 mesi in carcere a Nouakchott, capitale della Mauritania, in attesa di processo, è legata ad un complicato caso di spionaggio internazionale che vede coinvolta una società italiana, la Hacking Tean, come rivelano i file di Wikileaks, probabilmente associata alla Wolf Intelligence, una multinazionale della cyber sicurity con sede centrale a Monaco, in Germania. Chianca e Palermo sono stati più fortunati. La loro disavventura è durata solo 5 giorni e ha avuto un lieto fine. Eppure la vicenda nasconde lati oscuri. Secondo quanto riportato dalle autorità congolesi all’associazione internazionale in difesa dei giornalisti Reporter Sans Frontieres - RSF i due giornalisti italiani "si sono messi loro stessi nei problemi, entrando in Congo con dei visti turistici per condurre una inchiesta giornalistica. Nella pratica giornalistica in Congo si deve venire a viso scoperto". Questo è quanto afferma Tierry Moungalla il portavoce del Governo congolese durante un colloquio telefonico con RSF. Una versione dei fatti che non convince l’associazione internazionale. Secondo le sue fonti i due giornalisti si erano recati in Congo per intervistare l’imprenditore Fabio Ottonello, sospettato di aver messo a disposizione un aereo privato per il trasporto in Svizzera di una parte della tangente destinata alle autorità nigeriane offerta dalla multinazionale italiana ENI. Stessa versione viene offerta sul sito di Rai3. Il fatto risale al 2009, quando l’ENI si dimostra interessata ad acquisire assieme alla Shell il giacimento petrolifero Opl245, uno dei più importanti del Paese africano. Nel 2009 iniziano le trattative con il Governo nigeriano gestite, per conto di ENI, da un intermediario: Emeka Obi. Nel 2011, l’ENI bonifica 1,09 miliardi di dollari a un conto vincolato del Governo nigeriano presso la banca JP Morgan Chase a Londra. Le evidenze emerse dall’inchiesta della magistratura italiana parlano di condotta illecita della transazione. L’indagine condotta dai PM di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro si conclude nel dicembre 2016. Vengono indagati per corruzione internazionale l’ex Amministratore delegato della ENI, Paolo Scaroni, e il suo successore, Claudio Descalzi, all’epoca a capo della divisione petrolifera del gruppo. I due inviati di Report, secondo le autorità congolesi, sarebbero giunti nel Paese senza chiedere di essere accreditati. Per questo sono stati arrestati. Reporter Sans Frontiers ha versione diversa. Chianca e Palermo erano si giunti in Congo Brazzaville con visti turistici, ma avevano immediatamente chiesto di essere accreditati come giornalisti al Governo tramite le autorità consolari italiane. Quindi, nessuna operazione segreta o illecita è stata compiuta. Sotto pressione lo stesso portavoce Moungalla conferma la versione di RSF. "Sono stato informato dalle autorità consolari italiane della loro volontà di essere accreditati per un reportage che intendevano fare qui in Congo. E mi sono rifiutato". Il Governo congolese ha l’autorità di rifiutare di accreditare due giornalisti e, se convinto della loro malafede, di espellerli dal Paese. Per il caso di Chianca e Palermo il Governo di Brazzaville ha deciso di andarci giù pesante arrestandoli presso la città portuaria e snodo petrolifero di esportazione Point-Noire. Le Autorità congolesi hanno sequestrato l’apparecchiatura tecnica dei due giornalisti e li hanno rinchiusi in prigione, dove hanno subito trattamenti disumani e senza formali accuse. Dopo qualche giorno sono stati liberati ed espulsi dal Congo. Secondo le indagini condotte da RSF, i due giornalisti sono stati rinchiusi in una cella di due metri quadrati piena di insetti e sporcizia. Sarebbero stati sottoposti a forti pressioni psicologiche. Reporters Sans Frontieres rivela particolari inediti. Qualche ora prima dell’arresto dei due giornalisti, il Governo di Brazzaville ha dato ordine di interrompere le comunicazioni internet e telefoniche in tutta la regione di Pointe Noire. Edifici pubblici, scuole, ospedali, aziende private e 1,1 milioni di cittadini congolesi abitanti nella regione sono stati privati, per quasi tutta la giornata del 15 marzo, delle comunicazioni allo scopo di impedire ai giornalisti di inviare a Rai3 l’intervista con l’imprenditore Fabio Ottonello. Un simile provvedimento è normalmente preso dai governi africani in caso di gravi disordini sociali o colpo di Stato. Sono misure considerate dalle intelligence del continente estreme e autorizzate esclusivamente in caso di grave pericolo alla sicurezza nazionale. L’intervista ad un imprenditore italiano a Point Noir non può rappresentare un grave pericolo alla sicurezza nazionale, eppure queste misure estreme sono state immediatamente attuate dai massimi vertici del Governo di Brazzaville. Sempre secondo Repoters Sans Frontieres, la liberazione dei due giornalisti italiani è stata ottenuta assecondando la richiesta sine qua non delle autorità congolesi della confisca del loro materiale elettronico e la cancellazione di tutti i dati. Alla luce di queste informazioni è evidente che il Governo di Brazzaville era intenzionato a impedire la diffusione dell’intervista. Qualcosa non quadra. Perché il Governo congolese si dovrebbe dimostrare così intenzionato a impedire a tutti i costi la diffusione dell’intervista riguardante uno scandalo avvenuto in Nigeria? Paese che non ha particolari relazioni con il Congo Brazzaville. Impossibile non ipotizzare che l’ordine sia venuto direttamente dal Presidente Denis Sassou Nguesso che comanda il Paese con il pugno di ferro, dopo aver vinto la guerra civile da lui stesso provocata negli anni Novanta. In Congo nessuna azione di tale rilievo con implicazioni internazionali contro occidentali è possibile senza il green light del dittatore Nguesso che ha ottenuto nel 2016 un terzo mandato presidenziale, contro la Costituzione e la volontà popolare. Chi voleva difendere Nguesso? Nel Congo Brazzaville opera da anni l’ENI, oggetto delle inchieste dei due giornalisti di Rai 3. Dal 2013 è un Paese strategico per il cane a sei zampe. Il legame tra ENI e il Paese africano è cementato da amicizie personali con il dittatore Nguesso e la sua famiglia, trattato con i guanti di velluto dal Governo italiano nonostante le accuse internazionali di gravi violazioni dei diritti umani commesse contro la sua popolazione. Durante la guerra civile (1993 - 1999) le milizie Cobra di Nguesso commisero orribili crimini contro l’umanità. Dal 2006 il dittatore e la sua famiglia sono accusati, dalla comunità internazionale, di trattenere la maggior parte delle ricchezze del Paese, lasciando letteralmente morire di fame la popolazione. Nonostante ciò, nel febbraio 2015 questo Capo di Stato africano detestato da molti suoi omologhi in Africa, e dal quale la Francia ha preso le distanze, venne ricevuto con tutti gli onori dall’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Durante la visita furono firmati importanti accordi (miliardari) per lo sviluppo energetico in Congo con ENI, e la formazione - assistenza in campo ferroviario con il gruppo FS Italiane. L’Italia e l’Eni sono interlocutori privilegiati della famiglia del Presidente. L’ENI sembra godere di un potere immenso nel Paese africano. Un potere che permette azioni estrattive altamente dannose per l’ambiente e la salute dei cittadini. A denunciarlo, nel 2016, è il Network di Fede e Giustizia Africa Europa (Aefjn) in un articolo denuncia: "Le attività dell’ENI nel Congo-Brazzaville". Aefjn è una associazione cristiana di attivisti dei diritti umani e avvocati, fondata nel 1988, con l’obiettivo di promuovere la giustizia nei rapporti commerciali e politici tra Unione Europea e Africa. Oltre a numerose antenne in Africa, Aefjn ha 13 uffici in Europa (Belgio, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Malta, Olanda, Spagna, Polonia, Portogallo, Svizzera e Gran Bretagna). "Le attività del gigante petrolifero italiano ENI in Congo-Brazzaville sono un interessante esempio di comportamento dubbioso delle multinazionali europee che operano all’estero, in particolare nei Paesi in Via di Sviluppo. ENI usa in Congo metodologie di estrazione petrolifera tra le più dannose per l’ambiente e la salute umana rendendo ridicolo il codice etico da essa stessa adottato", denuncia la Aefjn nel suo articolo, mai riportato dai media italiani. L’articolo, pubblicato sull’autorevole sito internazionale, ha spinto la Fondazione Heinrich Böll a condurre analisi relative a documenti interni a ENI, da dove si avvince che oltre il 50% delle zone congolesi destinate alle attività petrolifere sono soggette alle tecniche di estrazione denominate tar sand. Ovvero idrocarburi non convenzionali perché sono in forma semi-solida e sono un miscuglio di sabbia e argilla compattata con bitume e asfalto. Nello stato di Alberta, Canada le tar sands coprono un’area di 140,000 chilometri quadrati - più grandi dell’Inghilterra e sono coperte da uno strato di foresta boreale. Secondo la International Boreal Forest Conservation l’estrazione e la raffinazione di questi tipo di idrocarburi è il processo più inquinante che si conosca e quello a maggior emissione di CO2, con drenaggio delle zone umide, deviazione dei fiumi e distruzione di tutti gli alberi e vegetazione della foresta). Come in Canada anche in Congo Brazzaville questa tecnica estrattiva sta creando gravissimi danni ecologici, costosissimi da risanare. Secondo gli esperti il costo di risanamento ambientale è 125 volte superiore al costo di estrazione del petrolio dalle tar sand. Queste attività considerate illegali nella maggioranza dei Paesi africani sono possibili in Congo Brazzaville grazie alla deficienza legislativa del settore petrolifero. L’intervento della Fondazione Heinrich Böll ha vanificato gli sforzi all’epoca compiuti da Paolo Scaroni di smentire l’inchiesta condotta da Aefjn dichiarando che la multinazionale non ha mai condotto simile pratica di estrazione nel Congo Brazzaville. Nonostante le misure estreme adottate dal Governo di Brazzaville per impedire la diffusione in Italia dell’intervista sul caso di corruzione in Nigeria che coinvolge direttamente l’azienda di Stato italiana, la redazione di Reporter ha annunciato che oggi, lunedì 27 marzo, l’inchiesta ENI andrà comunque in onda alle 21.30 su Rai3. Israele. I coloni: siamo tanti, è tramontata l’idea dello Stato palestinese di Michele Giorgio Il Manifesto, 28 marzo 2017 I "settler" israeliani si contano: mezzo milione in Cisgiordania e oltre 200mila a Gerusalemme. La loro presenza nei Territori occupati ha messo fine alla soluzione dei Due Stati. Lo pensa anche lo scrittore Yehoshua. Mike Pence: Trump sta considerando seriamente il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme. I contatti fra Israele e l’Amministrazione Trump sulle future costruzioni nelle colonie ebraiche nella Cisgiordania occupata proseguono e finora non sono state raggiunte intese definitive. Lo spiegava due giorni fa Benyamin Netanyahu. Il premier ha smentito le indiscrezioni di stampa su una presunta disponibilità israeliana a limitare l’espansione degli insediamenti. "Voglio precisare - ha detto - che in quelle informazioni ci sono molti elementi non corretti. Posso confermare che i nostri colloqui con la Casa Bianca proseguono e spero si concluderanno presto". Comunque andranno a finire i negoziati, i coloni israeliani nei Territori occupati esultano e brindano alla fine dell’idea di uno Stato palestinese accanto a quello ebraico. Secondo i dati del ministero dell’interno aggiornati al 1 gennaio 2017, resi noti domenica dall’ex parlamentare e fondatore del movimento dei coloni Yaakov Katz, in Cisgiordania sono insediati 420,899 israeliani. Nel 2016 erano 406,332. L’aumento dal 2012, quando i coloni erano 342,414, è stato del 23%. Questo dato non comprende gli israeliani, oltre 200mila, residenti negli insediamenti costruiti nel settore palestinese (Est) di Gerusalemme, occupato durante la Guerra dei sei giorni del 1967. I coloni perciò invitano a prendere atto di questa realtà che, dicono, ha messo fine per sempre alla soluzione dei Due Stati, Israele e Palestina. "Il numero degli ebrei che vivono oggi in Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr) la dice lunga - spiega Katz - I fatti sul terreno in questa regione sono irreversibili e rendono obsoleta l’idea dei Due Stati…Qualsiasi cosa diranno o penseranno Angela Merkel, Trump o qualcun altro, (quella soluzione) appartiene al passato e non al futuro". Un punto che fa sempre più breccia anche tra le colombe di centrosinistra (non solo in Israele) che poco alla volta, senza darlo a vedere, passano nell’altro campo, a destra. L’agenzia di stampa della destra religiosa israeliana Arutz 7 ieri ricordava che a fare i conti con la "realtà" delle colonie è stato anche il noto romanziere Abraham B.Yehoshua sostenitore per anni dei Due Stati. "Questa soluzione non è più possibile - ha proclamò lo scorso dicembre Yehoshua ai microfoni di Kol Israel, la radio pubblica - Ho creduto nei Due Stati per 50 anni, ho combattuto per essa…come intellettuale devo affrontare la realtà e non illudermi, devo domandarmi se questa soluzione è davvero possibile. Interiorizziamo che è impossibile deportare 450.000 coloni, non accadrà, in nessun caso. Possiamo dividere Gerusalemme? È il momento di cominciare a pensare di soluzioni alternative". Quali siano le "alternative" Yehoshua non lo precisò. Anche lo scrittore israeliano, considerato un pacifista all’estero, pensa che la soluzione sia lo status quo, ossia colonizzazione e occupazione militare? In quel caso non sarebbe diverso da Donald Trump che il mese scorso, durante l’incontro con Netanyahu alla Casa Bianca, tra un sorriso e una battuta aveva evocato altre possibilità oltre quella dei Due Stati, senza però indicarne alcuna. A questo punto è irrilevante che qualche esponente occidentale, come ha fatto ieri l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Federica Mogherini, riaffermi l’impegno dell’Europa per lo Stato di Palestina e l’illegalità degli insediamenti israeliani. Tanto la colonizzazione nessuno la ferma e lo Stato palestinese sovrano non potrà esistere. Presto il governo israeliano e la destra, laica e religiosa, potrebbero festeggiare un altro traguardo di eccezionale importanza. Parlando di fronte alle centinaia di delegati, tra i quali non pochi coloni israeliani, alla conferenza annuale dell’Aipac (il più importante gruppo di pressione americano a sostegno di Israele), il vice presidente americano Mike Pence l’altra sera ha affermato che Trump sta considerando seriamente la possibilità di trasferire l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, proprio come aveva annunciato durante la campagna elettorale. Sullo sfondo c’è la tensione nei Territori occupati, in queste ultime ore di nuovo lungo le linee tra Gaza e Israele. Il movimento islamico Hamas ripete che vendicherà l’assassinio compiuto venerdì scorso a Gaza city di uno dei suoi comandanti militari, Mazen Faqha. Assassinio che attribuisce a Israele. Tel Aviv da parte sua non conferma e non smentisce. Gli indizi in effetti indicano la pista israeliana. Il killer (forse due) ha agito con grande professionalità. Ha atteso Faqha per ore nel garage della sua abitazione e mentre l’esponente di Hamas parcheggiava l’auto gli ha sparato quattro colpi alla testa con una pistola con il silenziatore. Poi con calma si è dileguato. Gli investigatori di Hamas inizialmente avevano parlato di un collaborazionista di Israele, poi si è fatta strada l’ipotesi di un agente dei servizi segreti israeliani scappato da Gaza forse via mare. Russia. Per Navalny quindici giorni di carcere. Mosca: "Cortei provocazione" di Simone Pieranni Il Manifesto, 28 marzo 2017 Centinaia di arresti dopo le proteste in diverse zone della Russia. L’ambiguità del "dissidente" tra ultranazionalismo e liberismo. La sensazione è che siano stati tutti colti di sorpresa. Le proteste "anti corruzione" che hanno caratterizzato il week end russo (non solo a Mosca ma in molte parti del paese) e che hanno portato all’arresto di centinaia di persone compreso l’ideatore delle manifestazioni, Alexei Navalny, sembrano essere state un avvenimento inaspettato tanto dalla dirigenza russa quanto dallo stesso "dissidente". Per il giornalista del Guardian Alech Luhn, fermato insieme ad alcuni manifestanti, gli arresti a Mosca sarebbero stati nell’ordine di un migliaio e avrebbero coinvolto per lo più giovani. Luhn ha avuto la possibilità di parlare con alcuni dei ragazzi arrestati e tutti sono stati concordi nel motivare la loro presenza in piazza come sfogo contro la corruzione del paese. Secondo il Cremlino le manifestazioni sarebbero state una "provocazione" e la repressione che ne sarebbe seguita una logica conseguenza di "manifestazioni non autorizzate". L’uomo che viene descritto come il rappresentante delle proteste contro il Cremlino è Alexei Navalny. 41 anni, nato e laureato a Mosca è da tempo impegnato a denunciare la corruzione dei vertici del paese, identificando il male assoluto nella figura del premier Medvedev; in pochi forse pensavano che la sua attività, sviluppata negli ultimi tempi soprattutto on line, potesse dare vita a manifestazioni di piazza di questo tipo. Dopo gli arresti e le azioni della polizia russa, gran parte dei paesi europei e gli Usa hanno chiesto l’immediato rilascio degli arrestati compreso Navalny, condannato a 15 giorni di carcere e a una muta di circa 300 euro. Ma quanto rimane da capire si trova presumibilmente sul fondo di una società che appare in difficoltà e che comincia a dimostrare un sentimento di sfiducia nei confronti della guida padronale di Vladimir Putin. Il dato di quanto accaduto nel week end infatti è duplice: da un lato ci sono stati molti giovani che hanno partecipato alle proteste; dall’altro è innegabile che le manifestazioni si siano diffuse non solo nelle grandi città ma anche nella periferia del paese. Alexei Navalny, nel frattempo, è già diventato un eroe delle cronache mainstream occidentali; ma nel corso della sua carriera politica è stato capace di creare divisioni anche all’interno di un variegato, per quanto talvolta nascosto, fronte anti Putin. Le sue posizioni nel tempo hanno provocato più di un sopracciglio alzato anche tra i membri del suo ex partito, il raggruppamento liberale Yabloko, dal quale è stato espulso nel 2007, nonché da parte di altri attivisti come l’ambientalista Evgenya Chirikova. Navalny contribuì a creare ulteriori spaccature quando prese parte a una manifestazione dichiaratamente ultra-nazionalista nel 2011 e in seguito a sue affermazioni di stampo razzista contro gli immigrati e in particolare contro i georgiani. Nel 2008 quando ci fu il conflitto con la Georgia Navalny adottò una posizione fortemente nazionalista appoggiando le operazioni militari russe (mentre si è schierato contro Putin nel caso della crisi ucraina). Le sue esternazioni sia nei confronti dei migranti, sia sulla necessità di politiche ultraliberiste, hanno aperto anche uno squarcio nella sinistra russa anti putiniana, divisa tra la necessità di appoggiare una persona capace di catalizzare attenzione e la sensazione di non poterne condividere granché i contenuti politici. A Navalny viene riconosciuta una capacità di mobilitazione, grazie all’utilizzo di parole semplici, come lo slogan "ladri e cialtroni" indirizzata ai politici russi. La sua strategia ha unito abilità economica a fiuto politico: nel tentativo di smascherare la corruzione ha provveduto via via a inserirsi in consigli di amministrazioni e board di aziende russe. Poi nel 2013 è stato condannato a 5 anni di carcere a Kirov. Nonostante questo - e a seguito di una cauzione - Navalny fu in grado di partecipare alle elezioni, ottenendo a sorpresa il 27% dei voti nella corsa all’incarico di sindaco di Mosca nel 2013. A febbraio di quest’anno è arrivata la conferma della condanna, con pena sospesa, per appropriazione indebita al termine di un processo che lui stesso ha definito "politico". È l’accusa che - dichiarata nulla dalla corte europea - potrebbe impedirgli di correre alle presidenziali del 2018. Una candidatura annunciata e che secondo i rumors sarebbe temuta dallo stesso Putin. Del resto già nelle elezioni del 2011 Navalny e la sua campagna avrebbero contribuito al risultato sotto le attese del partito di Putin. Dato che i media lo ignorano Navalny ha saputo muoversi con grande abilità sui social media, attirando le attenzioni dei giovani in preda, in Russia come altrove, di quel sentimento dell’antipolitica visto come antidoto a una crisi della rappresentanza che pare non risparmiare nessun paese.