Le carceri scoppiano. Ben 55.827 detenuti per 45.509 posti di Marzia Paolucci Italia Oggi, 27 marzo 2017 La prima relazione del Garante nazionale delle persone recluse. Ben 55.827 detenuti registrati nelle celle per 45.509 posti disponibili: uno scarto tra posti occupati e previsti nei nostri istituti di pena che in alcune situazioni porta a un sovraffollamento di quasi il trecento per cento rispetto alla capienza. Sono i numeri divulgati dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute Mauro Palma nella prima relazione presentata al Parlamento il 21 marzo scorso. Suo è il compito di produrre raccomandazioni attraverso visite, accesso a documenti, colloqui con le persone private della libertà e con gli operatori responsabili. Non solo carcere - C’è però una "complessa area della privazione della libertà" che va al di là del concetto di pena in senso stretto, riporta la relazione. Il Garante esercita infatti il suo controllo non solo in ambito penale ma anche nell’area della sicurezza, del controllo delle migrazioni e nell’area sanitaria. Vale a dire, nelle situazioni di fermo o arresto da parte delle autorità di pubblica sicurezza, nei centri di permanenza temporanea o negli hotspot, luoghi di passaggio temporaneo, controllato e chiuso, per fasi di foto-segnalamento e identificazione dei migranti irregolari. C’è poi l’area sanitaria relativa al ricovero di disabili e anziani in trattamento sanitario obbligatorio, da considerarsi soggetti limitati nella libertà personale a seguito degli istituti dell’inabilitazione e dell’interdizione della capacità d’agire. Penale - Le visite a istituti detentivi in ambito penale sono state complessivamente 35 di cui 12 nell’ambito di visite regionali e 23 ad hoc, frutto di segnalazioni o di verifica di quanto riscontrato in una visita precedente o limitate all’accertamento relativo ad alcuni casi segnalati. Parallelamente, l’Ufficio del Garante ha trattato 108 reclami ex articolo 35 dell’ordinamento penitenziario e preso atto di 126 segnalazioni. Benché la situazione degli istituti di pena in termini di capienza non sia più così critica come anni fa, soprattutto grazie al ricorso alle misure alternative al carcere, c’è ancora uno scarto significativo di circa 10 mila posti tra capienza e presenza che mette a rischio le condizioni di vivibilità degli istituti. Migrazioni - La capienza effettiva dei nostri centri di identificazione ed espulsione al gennaio di quest’anno era di 359 posti, nei primi nove mesi del 2016 vi sono transitate 1.968 persone e solo il 44% di queste è stato rimpatriato. Per gli hotspot, dove le persone giungono al primo arrivo per ricevere assistenza ed essere foto-segnalate e inserite nel database europeo Eurodat, il Garante ha invece individuato una complessiva capienza di 1.600 posti. Numeri importanti sono poi quelli riguardanti i minori stranieri non accompagnati che secondo i dati dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, sono arrivati nel 2016 sul territorio italiano in 25.846, oltre 70 al giorno, quasi il 14% degli arrivi complessivi. Un numero più che raddoppiato rispetto ai 12.360 del 2015. Sicurezza - Sono state visitate 14 strutture delle forze di Polizia per verificare la sussistenza dei requisiti minimi di sicurezza ma il test dice che non ci siamo. La relazione riporta "l’assoluta carenza di camere di sicurezza: delle 2143 ufficialmente censite tra Polizia di stato e Arma dei carabinieri", è scritto nel report di una ventina di pagine, "658 sono del tutto inagibili, per lavori, per abbandono da tempo o per totale inadeguatezza a standard minimi; inoltre 90, della Polizia di stato, sono soltanto parzialmente agibili. Le rimanenti 1395 sono ben al di sotto della necessità, anche in considerazione della loro ubicazione che lascia regioni come la Basilicata senza alcuna camera di sicurezza della Polizia e la Calabria con solo 5 camere agibili. Soprattutto considerando che nel 2016 le persone sottoposte a fermo o arresto da parte di Polizia o Carabinieri sono state rispettivamente 12.395 e 16.726". Salute - Più chiarezza per i Tso - i trattamenti sanitari obbligatori. L’ha invocata Palma nell’osservare la rilevanza del dato dei trattamenti sanitari obbligatori: "Dato peraltro non troppo chiaro perché riferito alle dimissioni e pienamente disponibile solo per il 2015. Un dato che ci parla di 10.882 dimissioni". La top ten delle detenzioni ingiuste di Luca Rocca Il Tempo, 27 marzo 2017 A Napoli la maglia nera degli innocenti in cella. Seguono Catanzaro e Catania Roma è al settimo posto della "classifica" con quasi due milioni di risarcimenti. È la triste classifica delle ingiuste detenzione, la drammatica top ten che registra il numero di innocenti rinchiusi in prigione e la relativa spesa dello Stato, quindi del contribuente, per risarcire le vittime la cui vita è stata devastata. E a svettare sopra ogni distretto, nei dati relativi al 2016, è Napoli, dove nell’anno appena trascorso la Corte d’Appello ha emesso ben 145 ordinanze di pagamento relative ad altrettante ingiuste detenzioni, pari a 4 milioni 426mila 193 euro. Al secondo posto si colloca Catanzaro, con 104casieunaspesadi4milioni 150mila664 euro. Terza in classifica è Catania, con 76 custodie riservate a innocenti e un costo di 3 milioni 216mila 807 euro. Sud protagonista di ingiuste detenzioni anche per il quarto posto. E Reggio Calabria (città dove si registra anche la cifra più alta sborsata per un singolo caso di errore giudiziario, 6 milioni e mezzo) a fare segnare, infatti, 36 clamorosi sbagli, per un costo di 3 milioni 313mila 029 euro. In quinta posizione si piazza Bari, con 73 ordinanze di pagamento e una spesa di 2 milioni 105mi-la 753 euro, seguita al sesto posto da Palermo con 52 ingiuste detenzioni e una spesa di 1 milio -ne 947mila 284 euro. La drammatica classifica, diffusa dal sito errori giudiziari.com (curato da Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi) su dati del ministero dell’Economia, prosegue con Roma al settimo posto. Nella Capitale, infatti, gli innocenti messi in galera sono stati 69, e il relativo costo per il contribuente è stato di 1 milione 878mila 702 euro. Ottava posizione per Milano con 46 errori giudiziari, pari a 1 milione 711 mila 779 euro. Poi si va di nuovo al Sud, precisamente alla nona posizione di Salerno, dove la Corte d’Appello ha emesso 48 ordinanze per le quali lo Stato ha sborsato 1 milione 478mila 540 euro. Infine, al decimo posto, si colloca Messina con 44 ingiuste detenzioni e un costo di 1 milione 416mila 794 euro. Complessivamente, le ordinanze di pagamento emesse nel 2016 dagli organi giurisdizionali su tutto il territorio nazionale sono state 1001, con un conto da pagare inevitabilmente salato: 42.082.096,49 euro. Dal 1992 al 2016 lo Stato ha pagato ben 630 milioni di euro per indennizzare quasi venticinquemila vittime di ingiusta detenzione. Scenario nazionale a parte, anche nel 2015 le cose sono andate malissimo nei vari distretti. Quell’anno, infatti, le ingiuste detenzioni sono state 1.188 e il totale da pagare 36.987.834 euro. Se il primo posto, per numero di casi, lo ha occupato ancora una volta Napoli con 144 ingiuste detenzioni (e una spesa di 3 milioni 737mila euro), e il secondo Roma con 106 ordinanze (e un costo di poco superiore ai 2 milioni di euro), il distretto che ha dovuto sorbirsi la spesa maggiore è stato Catanzaro, con 83 casi per una spesa di 5 milioni e mezzo di euro. Ma, restando ancora a Napoli, nel 2014 le ordinanze di pagamento sono state pari a 4 milioni 249mila euro, nel2013, anno record, oltre 7 milioni di euro, nel 2012 ben 4 milioni 425mila euro. Napoli risulta in cima alla classifica, per numero di episodi di ingiusta detenzione, da ben cinque anni: 835 casi in totale, vale a dire 167 mediamente ogni anno. In sostanza, dal 2012 al 2016, quel distretto ha liquidato oltre 23 milioni 842mila euro in riparazioni per ingiusta detenzione. In media, poco più di 28.553 euro per ciascuna delle vittime innocenti. Nel dicembre scorso la Corte di Cassazione, pronunciandosi su un imprenditore detenuto ingiustamente in carcere per 77 giorni e altri 88 ai domiciliari, ha ribaltato la sentenza di appello stabilendo che per il risarcimento non ci si deve attenere solo a " parametri aritmetici", calcolando, dunque, solo la cifra relativa allo stipendio non incassato, ma occorre valutare anche i danni commerciali (i contratti persi) e il clamore mediatico che all’innocente ha certamente causati irreparabili danni. Innocenti in cella per decenni L’ingiusta detenzione nel nostro Paese continua a mietere vittime su vittime con casi clamorosi di arresti inflitti, anche per decenni, a persone innocenti, che a volte entrano in carcere da giovani, lasciando figli piccoli, e ne escono da adulti, quasi anziani, trovando ad aspettarli figli ormai cresciuti senza il genitore. È il caso, ad esempio, di Angelo Massaro, un 51enne di Fragagnano, provincia di Taranto, condannato nel 1997 per l’assassinio di un suo amico. La verità venne fuori solo dopo 21 anni di carcere, e solo perché un avvocato non si volle arrendere. Il calvario di Angelo iniziò quando gli inquirenti lo intercettarono mentre, una settimana prima della scomparsa dell’amico, parlando al telefono con la moglie disse: "Faccio tardi stasera, sto portando u muert". Una parola che magistrati e giudici lessero come "il morto". Si sbagliavano. Angelo, infatti, stava parlando, nel suo dialetto pugliese, di una semplice pala meccanica ingombrante. Ai sospetti degli inquirenti, però, si affiancarono le parole di un pentito, il quale riferì di aver "sentito dire" che l’assassino era proprio Angelo. Quanto bastò per condannarlo, con sentenza passata in giudicato, a 24 anni di galera. Solo la revisione del processo portò a stabilire la verità e a restituire ad Angelo la libertà, ma dopo 21 anni di galera da innocente. Angelo non tentennò quando Il Tempo lo intervistò e gli chiese se avrebbe chiesto un risarcimento: "Certo che lo chiederò, ma non c’è prezzo per il dolore inflitto a me, a mia moglie e ai miei figli. Se qualcuno sbaglia, però, deve pagare. Chiunque sia". In attesa di sapere quanto lo Stato dovrà tirare fuori per rimborsare Angelo, agli onori della cronaca è salito, nei mesi scorsi, anche il maxi risarcimento di 6 milioni e mezzo di euro assegnato al muratore Giuseppe Gullottaperisuoi22 anni di cella. L’errore giudiziario in cui incorse, relativo alla strage di Alcamo Marina (Catania) del 1976, nella quale vennero uccisi a colpi di arma da fuoco due giovani carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, ha del clamoroso. Gullotta fu accusato del misterioso duplice omicidio insieme a presunti complici, arrestato, processato e condannato all’ergastolo in via definitiva. Che le cose non fossero come la sentenza aveva stabilito si cominciò a capire con evidenza nel 2008, quando un brigadiere riferì ai giudici del Tribunale di Trapani che Gullotta e gli altri condannati non c’entravano nulla con quella strage e che le loro confessioni, in buona sostanza, furono estorte. Di fronte alla successiva assoluzione, a cui si giunse solo dopo 22 anni di galera, gli avvocati di Gullotta chiesero un risarcimento altissimo. "Non si tratta di una richiesta motivata da vendetta - spiegarono i legali, anche perché, d’altra parte, qua siamo oltre il semplice errore giudiziario. Chiederemo 50 milioni di euro perché da parte dei giudici che condannarono Gullotta c’è stato dolo. Quest’uomo è stato vittima di un vero eproprio complotto". Prima di avere il risarcimento, che fu di 6 milioni e mezzo di euro, e non di 50, passarono altri 5 anni dall’assoluzione. Una seconda attesa infinita. Ma fra i risarciti per ingiusta detenzione ci fu anche Vittorio Emanuele di Savoia. Arrestato nel 2006 su richiesta del pm di Potenza Henry John Woodcock, accusato di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e al gioco d’azzardo e di sfruttamento della prostituzione, il Principe venne assolto da più tribunali, fino ad ottenere un risarcimento di 40mila euro, poi devoluti in beneficienza. Che si sia nobili oppure operai, muratori o imprenditori, gli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni in Italia non lasciano scampo. Giustizia e carcere secondo Papa Francesco di Elisa Chiari Famiglia Cristiana, 27 marzo 2017 Il mondo del diritto (laico) rilegge il discorso tenuto nel 2014 dal Papa all’associazione internazionale del diritto penale. Tema attualissimo nei giorni di Francesco a San Vittore e del compleanno dell’Europa. Un discorso di Papa Francesco, non uno a caso quello tenuto il 23 ottobre del 2014 all’associazione internazionale del diritto penale. Quel giorno il papa parlò di carcere, di pena di morte, di populismo penale, di tortura, di diritti umani, di dignità, di corruzione. Ora in un libro, uscito nei giorni scorsi, Giustizia e carcere secondo papa Francesco, a cura di Patrizio Gonnella, Marco Ruotolo, per i tipi di Jacabook operatori del diritto, tra loro Elvio Fassone magistrato in pensione e giudice della Corte costituzionale in pensione, Luigi Ferrajoli professore emerito di Filosofia del diritto, Giovanni Maria Flick, professore di diritto penale, già ministro della giustizia, Carmelo Musumeci ergastolano e numerosi altri, analizzano il discorso del papa. Lo rileggono alla luce delle loro esperienze c conoscenze che non sono teologiche, anzi sono a volte conoscenze di persone lontane dalla chiesa, ma che, come papa Francesco, per le ragioni del loro lavoro e del loro servizio si interrogano sullo stato del diritto penale, sulla funzione della pena, sulla capacità effettiva dei sistemi penali di rieducare chi viene riconosciuto colpevole, sull’incapacità, troppe volte, di rispettare pur nella detenzione i diritti della persona. Temi attuali in Italia e nel mondo, perché è bene ricordare che quel discorso del papa, pur interrogando non poco le coscienze italiane, aveva quel giorno una platea mondiale, per la gran parte composta di stati che non si possono definire di diritto nemmeno formalmente. L’attualità del tema diventa tanto più urgente nei giorni della visita del primo papa nella storia del carcere milanese di San Vittore, giorno che ha coinciso per caso, con l’anniversario dei trattati di Roma compleanno dell’Europa come unione. All’Europa cui, troppo spesso, si pensa soltanto come a un’istituzione burocratica, distante e un po’ arcigna ma in cui ci si dimentica di riconoscere un tessuto culturale comune, soprattutto nel diritto e nei diritti: l’Europa è il luogo che ha concepito per primo la democrazia e la separazione dei poteri, il primo continente al mondo ad aver abolito la pena di morte, il primo a teorizzare oltre 250 anni fa con Cesare Beccaria la crudeltà e l’inutilità della tortura come mezzo di ricerca della prova, valori che un’Europa spaventata e in crisi di identità potrebbe rischiare di questi tempi di smarrire - come altre volte è accaduto nella prima metà del Novecento, valori che ritornano e che ci interrogano, soprattutto come europei, nel discorso di un papa venuto dalla fine del mondo. Il mercato della rabbia che alimenta la voglia di forca di Enrico Pedemonte pagina99.it, 27 marzo 2017 Viviamo un’epoca della politica del risentimento. Che è una merce preziosa, come sanno bene i siti di fake news. E che fa aumentare i consensi alle urne. Forse lo ignoravate, ma negli ultimi dieci anni in Italia ci sono stati almeno una dozzina di colpi di stato. Nella sua quotidiana e instancabile attività, Beppe Grillo li ha descritti sul suo blog ed è importante che ne siate informati. Già, perché a vostra insaputa in Italia ci sono stati "colpi di stato d’agosto", "colpi di stato permanenti", "colpi di stato all’italiana" e altri coup d’ogni sorta. Li trovate, conditi con il tipico lessico grondante sdegno e rabbia, nella scheda a pagina 5 dell’edizione cartacea. Il problema di tutto ciò è che questo linguaggio fa scuola. Il 17 marzo il Movimento Cinque Stelle ha denunciato l’ennesimo colpo di stato per interposta persona, grazie a un intervento di Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano, intervistato da Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7. L’occasione era il voto di 19 senatori del Pd rei di avere "salvato" Augusto Minzolini, ex direttore del Tg1 e senatore di Forza Italia, dalla decadenza in Parlamento nonostante una condanna penale definitiva. Il leader grillino Luigi Di Maio aveva subito denunciato con forza l’"atto eversivo", presentandosi davanti ai giornalisti insieme al collega Alessandro Di Battista - il volto buio e l’espressione indignata - e aveva detto: "Non vi lamentate se fuori dal Parlamento i cittadini manifestano in maniera violenta". Il richiamo alla violenza di Di Maio è interessante - e chissà se il politico grillino si renderà conto di essere, in fondo, un po’ maoista ("La rivoluzione non è un pranzo di gala"), ma naturalmente a sua insaputa… A ogni modo, in serata Travaglio ha ribadito la sua piena sintonia con Di Maio: "Il voto che ha salvato Minzolini è un atto eversivo. È un colpo di stato". Il suo giornale, che da tempo fiancheggia il Movimento Cinque Stelle, ha pubblicato la lista dei diciannove esponenti della sinistra che hanno votato per salvare Minzolini esponendoli al ludibrio delle masse grilline. Pubblicare elenchi di persone contro cui scatenare la rabbia popolare fa sempre comodo. Il modello della collera - Ecco allora che la voglia di forca diventa un business model. E si moltiplicano le schiere di coloro che vogliono praticarlo. È facile, redditizio, economico. I seminatori di rabbia usano un linguaggio semplice e una grammatica che conosce solo il bianco e il nero, i buoni e i cattivi. La rabbia dilaga, diventa merce da acquistare nelle edicole, da cliccare sul web, da seguire in televisione. Ma soprattutto funziona: basta coltivare la rabbia dei giovani, dei disoccupati e della classe media per veder aumentare l’audience in tv o per generare traffico sul web. Ed è anche una strategia politico-culturale che fa crescere i consensi alle urne. Sulle ragioni che inducono l’esplosione della rabbia collettiva è stato scritto molto. Ed è difficile capire fino a che punto il radicalismo violento che dilaga nel mondo sia da attribuire a cause economiche (le ineguaglianze) o sia invece indotto dall’evoluzione dei media (internet o i nuovi format tv). Per indagare le ragioni di questa rabbia si stanno esercitando importanti studiosi e l’Italia sembra essere uno dei punti di passaggio obbligati di queste ricerche - pare che nella storia siamo stati spesso cattivi maestri. Il Vate e la politica dell’oltraggio - Un saggio appena pubblicato - e già molto celebrato - sulla storia della rabbia è Age of Hater. A History of the Present ("L’età della rabbia, una storia di oggi", Farrar, Strauss & Giroux) e comincia la narrazione dalle gesta di Gabriele D’Annunzio (e della sua impresa di Fiume). L’autore, Pankaj Mishra, è un noto studioso di origine indiana (oggi abita tra Londra e New Delhi) e utilizza il poeta abruzzese come filo conduttore di tutto il volume (ben 416 pagine!). Allora D’Annunzio sfruttava la rabbia che nasceva dall’umiliazione per la guerra: creò una politica basata su una retorica oltraggiosa e su gesta politiche leggendarie. Inventò il saluto fascista (che fu poi adottato da Hitler e Mussolini) e l’uniforme nera con il teschio e le tibie incrociate da pirata. Vedeva se stesso come il leader che avrebbe guidato un’insurrezione internazionale di tutti gli oppressi, cioè di tutti quelli che si sentivano messi da parte in una società dove la crescita economica e il progresso arricchivano solo una piccola minoranza. È impossibile - leggendo il libro di Mishra - seguire le gesta di D’Annunzio e le sue paradossali provocazioni senza fare un pensiero al radicalismo teatrale del comico genovese. Chi non ricorda la sua traversata a nuoto dello Stretto di Messina, manifestando sprezzo del pericolo e del senso del ridicolo? Mishra ricorda che, in fondo, nelle manifestazioni di rabbia che esplodono qua e là nel mondo occidentale non c’è molto di nuovo. Nel 1890, quando la prima globalizzazione stava accelerando, in Francia si moltiplicarono i politici xenofobi e protezionisti che incitavano il popolo alla rivolta; e nel 1893 gruppi di lavoratori francesi carichi di rabbia massacrarono dozzine di italiani immigrati. Negli stessi anni negli Stati Uniti i suprematisti bianchi attaccavano gli immigrati cinesi con gli analoghi argomenti con i quali inneggiavano al segregazionismo dei neri. E nell’impero austroungarico partiva la retorica anti-ebraica in nome della lotta al capitalismo globale. Ma in tutti casi, il bersaglio privilegiato erano le caste: i governi, i giornali, le élite. Il disagio diventa risentimento - Nei periodi di incertezza e di crisi economica la rabbia sale, e gli obiettivi che vengono praticati dipendono da chi trova la chiave giusta per trasformare il disagio in risentimento collettivo facendo esplodere la collera popolare. O sono almeno due grandi novità rispetto al passato. La prima è la scomparsa dei partiti comunisti che hanno avuto la funzione, nel corso di molta parte del Novecento, di gestire la rabbia popolare offrendo uno sbocco ideale (la rivoluzione e la presa del potere). La seconda è l’avvento di Internet che consente di compiere sperimentazioni fino a dieci anni fa impensabili per modificare le opinioni di intere fasce di popolazione e far salire la temperatura dei sentimenti negativi. La vicenda di Robert Mereer, il miliardario americano che ha investito 77 milioni di dollari per finanziare il partito repubblicano e l’elezione di Donald Trump, aiuta a capire in che modo Internet possa essere utilizzato per influenzare l’opinione pubblica. La storia è stata di recente raccontata nei dettagli dal Washington Post e dal New Yorker, e vai la pena di ricordarla per sommi capi. Economia degli haters - Per farla breve: l’obiettivo di Mereer è, da diversi anni, combattere l’egemonia progressista nel mondo editoriale americano. Per raggiungere questo scopo (e costruire un sistema di media alternativi) ha finanziato breitbart.com, il sito di fake news gestito da Steve Bannon (lo stesso che oggi ha un ruolo chiave alla Casa Bianca). L’approccio scelto è stato quello tipico della Silicon Valley: lanciare migliaia di piccoli esperimenti per selezionare quelli che funzionano. Quali notizie false ottengono risultati migliori? Quali sono più efficienti nel modificare l’immaginario degli elettori? E quali risultano più utili per potenziare l’aggressività dei cittadini nei confronti del partito democratico, dei suoi esponenti e del suo sistema mediatico? Il sistema adottato da Mereer non è molto diverso da quello utilizzato dal Cremlino per influenzare l’opinione pubblica occidentale con la rete di siti di fake news nei Paesi dell’Unione europea, specie a Est. E soprattutto, non è diverso da quello inventato da Gianroberto Casaleggio: creare un’azienda informatica che ha il compito di monitorare i punti sensibili dell’opinione pubblica, sperimentare le reazioni dei cittadini con una rete di siti paralleli per individuare quali sono i nervi scoperti da colpire per trasformare il risentimento in rabbia verso l’ordine costituito e adesione fideistica al movimento. Per ottenere questi risultati è necessario distruggere la credibilità dell’intera impalcatura sociale, e generare una secessione morale e intellettuale dalla realtà di oggi, convincendo il popolo che ogni decisione presa dagli uomini al potere è un colpo di stato, e ogni scelta rappresenta una ruberia. Una battaglia cieca contro l’esistente. Pankaj Mishr a ci ricorda la furia distruttiva del poeta dannunziano Filippo Marinetti quando scriveva: "Vogliamo distruggere i musei, le biblioteche e le accademie di ogni risma". Beppe Grillo - e come lui Donald Trump - usa la stessa violenza iconoclasta nei confronti della stampa, di cui ogni giorno celebra la crisi. Sappiamo tutti dove ci portò D’Annunzio. Auguriamoci che Beppe Grillo si fermi prima. Così internet fa emergere l’odio che c’è in noi di Massimo Mantellini pagina99.it, 27 marzo 2017 La rete è un luogo complesso. Dove si replicano dinamiche e rapporti di forza reali. E dove troppo spesso si naviga a vista. Senza conoscerne le regole. Ma da dove arriva tutto questo odio? A sentire quel che si dice in giro il mistero sembrerebbe facilmente risolvibile: l’odio nel quale siamo immersi viene da Internet. La Rete, del resto, è un capro espiatorio formidabile per qualsiasi nostra debolezza, può essere incolpata di quasi tutto, senza grandi timori di essere smentiti. Non servono numeri (che non ci sono), non servono confronti con gli altri Paesi del mondo (che nessuno fa) per poter accusare Internet di aver corroso le convenzioni sociali e averci trasformati nel giro di pochi anni in perfetti odiatori da tastiera, in agguato, dietro lo schermo, aspettando la nostra prossima preda. Del resto ciascuno di noi ha sperimento prima o dopo una delle molte forme di violenza verbale che gli ambienti digitali consentono, ne è stato vittima o spettatore. Come accade sempre il racconto sociologico degli spazi digitali è mediato da esperienze piccole e personali: ognuno di noi osserva il mondo dalla propria lente deformante e ne trae le opportune generalizzazioni. Esiste una correlazione lineare fra la cultura digitale di un Paese e le sue prassi di utilizzo dei mezzi di comunicazione online. Non potrebbe essere diversamente. Internet è un alfabeto come un altro, anche se più complesso. È un luogo sociale articolato, nel quale i comportamenti si modellano nel tempo, anche perché nessuno (ancora) li insegna a scuola. Quella che gli anglosassoni chiamano digital literacy è una forma di competenza oggi tanto indispensabile quanto misconosciuta. Così la gran parte di noi naviga in rete a vista: alcuni imparano poco alla volta dai propri errori, seguendo il percorso dell’amatore che apprende attraverso l’esperienza e la passione. Tutti gli altri, che sono la maggioranza, utilizzano le parole di quell’alfabeto a caso: ma spesso la composizione di simili frasi produce mostri. Una giornalista raggiunge in un paesino delle Marche la signora Gabriella, salita ai disonori delle cronache perché un suo commento su Facebook è stato citato da Laura Boldrini fra gli esempi di messaggi d’odio che la Presidente della Camera riceve quotidianamente in rete. La signora Gabriella è pentita, si vergogna e piange, dice di sapere poco o nulla di come funziona Internet, confessa alla giornalista che non andrà a Roma dove è stata invitata per un chiarimento; poi pubblica su Facebook un messaggio di scuse scritto tutto in maiuscolo che Boldrini a sua volta cita nella sua pagina. Gabriella aveva scritto in rete che Boldrini era una "puttana andicappata": dopo la citazione della Presidente della Camera era stata lei stessa oggetto di pesantissimi insulti. A molti l’idea di Boldrini di combattere l’odio in rete generandone altro non era sembrata delle più efficaci, se non altro perché una simile scelta non tiene conto dei sotterranei rapporti di forza che ovviamente anche in rete esistono. Quando Boldrini elenca per nome e cognome i propri odiatori dal proprio profilo con centinaia di migliaia di follower, oppure quando Enrico Mentana sulla sua pagina Facebook apostrofa uno sconosciuto con il neologismo "webete", le dinamiche sociali che vengono scatenate sono facilmente prevedibili. Forse soddisfano un istinto di rivalsa che ciascuno di noi nasconde ma dicono qualcosa anche della digital literacy di chi le utilizza. E a essere sinceri non ne parlano bene. La difesa d’ufficio di Internet prevede a questo punto la citazione della sua neutralità. Ciò di cui si sta parlando, come sempre, siamo noi. L’odio che osserviamo non è quello dei cosiddetti leoni da tastiera", strani esseri antropomorfi degni del Manuale di Zoologia Fantastica di Borges, ma il nostro, quello banale delle nostre carte di identità. Quello della nostra poca cultura, dei libri che non leggiamo, della modesta classe dirigente che riusciamo a produrre. Il linguaggio di Matteo Salvini o quello di Beppe Grillo sono il nostro linguaggio, al quale, forse, un brillante comunicatore web ha aggiunto il cinismo necessario per renderlo più incisivo. Ma una difesa del genere, pur basata su evidenze difficilmente contestabili, non può da sola essere sufficiente. Non oggi, in questo momento di passaggio nel quale l’alfabeto digitale è patrimonio di pochi mentre l’utilizzo di Internet è diventato ubiquitario. Quasi trenta milioni di italiani utilizzano la Rete ogni giorno: incessantemente trasformano i loro pensieri in brevi frasi di testo, spesso con modesta cognizione di dove siano e cosa stiano facendo. Così l’odio che vediamo attorno a noi in rete è il risultato di come siamo, ma è anche figlio di questa incertezza, del trasloco faticoso da un set di regole a un altro. In fondo abbiamo due sole possibilità per il futuro: utilizzare gli ambienti digitali come alibi per le nostre debolezze, sottolineandone le demoniache possibilità di moltiplicarne gli orrori. Oppure potremo immaginare simili ambienti come un’occasione per migliorare noi stessi, una scommessa di maggiore libertà e cultura. La prima opzione è il luogo in cui siamo adesso, la seconda è quello nel quale sarebbe bello incontrarci domani. La protesta del Sindaco di Napoli De Magistris: "disobbedire al Decreto Minniti" di Andrea Carugati La Stampa, 27 marzo 2017 "Non reprimo l’emarginazione, il Daspo a chi ha troppo potere". "Fidatevi, il lavoro è appena all’inizio…". Poco dopo aver terminato il suo intervento alla convention di Diem 25, il movimento paneuropeo lanciato da Yanis Varoufakis, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris lascia il teatro Italia, nel centro di Roma, e si avvia verso la macchina. Alcuni ragazzi lo avvicinano per ringraziarlo e incitarlo. Lui appare molto soddisfatto dell’ovazione ricevuta dalla platea pochi minuti prima. Un applauso più forte di quello tributato all’ex ministro greco, che è il vero padrone di casa della serata del 25 marzo, poche ore dopo la fine delle celebrazioni per il 60° anniversario dei Trattati europei. De Magistris ricorda di non avere nessuna tessera di partito e sembra credere molto a questo progetto per una terza via europea, contro l’establishment ma anche contro i populismi e i nazionalismi, che mette insieme gli spagnoli di Podemos, ambientalisti francesi e tedeschi, gli italiani di Sinistra italiana e Possibile. Un progetto benedetto dal regista britannico Ken Loach, presente solo in video per colpa di una influenza ma sempre battagliero: "La sinistra è viva, sta a noi dimostrare che esiste un’altra strada". "Napoli città ribelle", tuona dal palco De Magistris, che loda chi "dal basso utilizza spazi abbandonati e li restituisce alla città". "Altro che sgomberare, noi li ringraziamo questi ragazzi". E ancora: "Il governo con il decreto Minniti chiede ai sindaci di usare il Daspo. Noi disobbediremo, il sindaco non userà strumenti di repressione dell’emarginazione sociale. Il Daspo lo diamo a chi ha troppo potere, daremo a tutti i napoletani delle tenaglie per rompere i muri e il filo spinato". L’ex magistrato lancia un "grande movimento di liberazione popolare", loda i movimenti No Tav e No Triv, cita i beni comuni come l’acqua pubblica e la "proprietà collettiva". "Per dire sì a un’Europa della giustizia sociale, e No all’Europa dei Salvini e Le Pen". "Viva la rivoluzione e la libertà", chiude tra gli applausi. Varoufakis, giacca di pelle nera e pantaloni in tinta, parla di una "Europa in avanzato stato di decomposizione", ma non si iscrive tra gli euroscettici. Anzi, lancia un New Deal, con un pacchetto di proposte "che si possono applicare già domani", un’"utopia realistica" che punta sull’economia verde, edilizia pubblica, un piano anti-povertà gestito dalla Bce e la redistribuzione di una quota azionaria delle società quotate. Un modo per "socializzare i profitti derivanti dall’automazione dei processi produttivi". Obiettivo: dare risposte concrete a chi non crede più in questa Europa e ai leader che la guidano. "Salvando il sogno di Altiero Spinelli", il nome più citato nella serata romana. "Nella notte della guerra e dei fascismi seppe credere alla luce, al futuro dell’Europa". Sul palco pugni chiusi, tanti riferimenti alle esperienze dei Social forum di inizio millennio, da Porto Alegre a Genova 2001. "Non bastano grandi idee, serve forza politica, per questo invito partiti, reti e movimenti in tutta Europa a unirsi a noi", dice Varoufakis. L’obiettivo è presentare liste alle europee del 2019, ma anche prima, nei paesi in cui si vota per le politiche. Come l’Italia, ad esempio. "Non faremo un partito per le elezioni politiche italiane", spiega Lorenzo Marsili, numero uno di Diem25 in Italia. "Ma siamo disposti a dare una mano a partiti e movimenti, di sinistra ma anche cattolici e liberali, che vogliano unirsi per creare un’alternativa credibile alla destra e anche al Pd. E il M5S, come dimostra sul tema dei migranti, non è un’alternativa credibile". Fratoianni e Civati guardano con interesse. De Magistris è già in pole position. Confische antimafia, creditori tutelati di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2017 Tribunale di Brindisi, ordinanza del 24 febbraio 2017. Prima di destinare i beni confiscati in base al Codice antimafia (decreto legislativo 159/2011) bisogna pagare i creditori di buona fede. E anche se con il provvedimento irrevocabile di confisca un’azienda diventa patrimonio dello Stato, i beni che la compongono non vanno considerati indisponibili, finché non si è proceduto a liquidare l’attivo per recuperare le somme necessarie a soddisfare le pretese dei creditori. Sbarra la strada a ogni equivoco l’ordinanza dello scorso 24 febbraio, con la quale il Tribunale di Brindisi, sezione misure di prevenzione (giudice delegato Colombo), ha provveduto sull’istanza di un coadiutore dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. L’ordinanza precisa che, nell’ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale, non vanno sovrapposte la fase della liquidazione dei beni e quella della destinazione. Secondo il giudice, il Codice antimafia impone che si proceda alla verifica dei crediti di buona fede vantati nei confronti dell’azienda in sequestro e che poi i crediti ammessi al passivo siano soddisfatti con le somme apprese, riscosse o comunque ricevute nel corso della gestione o, se queste sono insufficienti, con la liquidazione dei beni che fanno parte dell’attività, di valore corrispondente a quello dei debiti da onorare. La tempistica - La fase della liquidazione è quindi "la precondizione imposta dal legislatore per poter utilmente e legittimamente procedere alla successiva destinazione dei beni ai sensi dell’articolo 48" del decreto legislativo 159/2011. Il principio vale anche se il Codice antimafia non prevede una rigida scansione temporale tra queste fasi. Il decreto legislativo infatti non impone che il procedimento di verifica dei crediti e quello della liquidazione inizino e si esauriscano prima che la confisca diventi irrevocabile e quindi prima che i beni vengano trasferiti all’Agenzia per la destinazione. Tra i compiti dell’amministratore giudiziario vi è quello di individuare tutti i creditori dell’impresa in sequestro e di predisporre un elenco da trasmettere al giudice delegato. La verifica dei crediti può collocarsi in un arco di tempo che va dalla ricezione di questo elenco fino al termine di un anno successivo al passaggio in giudicato della confisca; l’articolo 57 del Codice antimafia prevede che il giudice delegato possa fissare l’udienza anche prima della confisca e l’articolo 58 stabilisce che le domande dei creditori possano essere ammesse anche successivamente purché non oltre un anno dalla definitività del provvedimento ablatorio. Di conseguenza, anche la liquidazione dell’attivo può avvenire dopo un anno dalla confisca definitiva o anche oltre questo termine, visto che riguarda la conclusione della fase precedente della verifica dei crediti. Peraltro, nota il Tribunale di Brindisi, può essere ben più opportuno vendere i beni solo dopo la definitiva devoluzione allo Stato. I diritti dei creditori - Sulla base di queste regole e del generale principio per il quale la confisca non deve pregiudicare i diritti dei creditori di buona fede, non è possibile avviare il procedimento di destinazione dei beni se prima non si procede alla vendita dei cespiti necessari per soddisfare i creditori utilmente collocati al passivo. E solo ciò che residuerà dall’attività liquidatoria potrà considerarsi definitivamente devoluto all’Agenzia che provvederà alla destinazione in base all’articolo 48 del Codice antimafia. Se la fase della liquidazione non è stata ancora avviata al momento in cui la confisca diventa irrevocabile, spetterà all’Agenzia (con l’ausilio del professionista coadiutore da questa scelto) curare le operazioni di vendita dell’attivo e di riparto delle somme tra i creditori ammessi. Peculato: ammissibile il patteggiamento solo se viene restituito il profitto del reato di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 28 febbraio 2017 n. 9990. In caso di peculato il patteggiamento è ammissibile solo se si restituisce il profitto del reato. Così si è espressa la Cassazione con la sentenza n. 9990 del 28 febbraio 2017. I giudici della sesta sezione penale infatti chiariscono che l’articolo 444, comma 1-ter, del Cpp,introdotto dall’articolo 6 della legge 27 maggio 2015 n. 69, laddove, rispetto a taluni reati (come, nella specie, quello di peculato), si subordina l’ammissibilità al patteggiamento alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato, ossia a condotte riparatorie per un verso volontariamente adottate anche al di fuori di qualsiasi intervento giudiziale prescrittivo e per altro verso temporalmente precedenti la richiesta di applicazione della pena, enuncia una condizione meramente processuale di ammissibilità del rito speciale de quo e si colloca conseguentemente nell’ambito delle norme a natura esclusivamente procedimentale, applicabili quindi in tutte le ipotesi in cui la richiesta di applicazione della pena viene formulata dopo l’entrata in vigore della disposizione, anche laddove il reato cui la richiesta si riferisca sia stato commesso in epoca precedente. Secondo la Corte, dunque, a diversa conclusione si sarebbe dovuto pervenire laddove si fosse trattato di una norma di diritto penale sostanziale, quale quella che introduce la sanzione della confisca del profitto del reato di cui all’articolo 322-ter del Cp, perché in tal caso, proprio la natura sostanzialmente sanzionatoria della disposizione, ne avrebbe impedito l’applicazione retroattiva a fatti di reato commessi prima della sua introduzione. Reati contro la pubblica amministrazione - In materia di reati contro la pubblica amministrazione, con la legge 27 maggio 2015 n. 69, contenente disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso, nonché di falso in bilancio, come è noto, si mira a rafforzare la risposta repressiva, non solo attraverso un complessivo intervento di rivisitazione in peius del trattamento sanzionatorio per i principali reati del pubblico ufficiale contro la pubblica amministrazione, quanto soprattutto attraverso l’introduzione di misure volte a rendere (più) effettivo ed efficace il contrasto giudiziario, operandosi sul fronte delle investigazioni e del recupero delle somme oggetto dell’illecito. È quest’ultimo aspetto quello più interessante e innovativo, essendosi intervenuti a implementare gli strumenti utilizzabili per spogliare il reo del profitto ottenuto dall’attività illecita. Si segnalano: a) la previsione di una nuova misura sanzionatoria (la riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione lesa dalla condotta illecita del funzionario); b) la subordinazione del beneficio della sospensione condizionale proprio all’effettivo pagamento della somma prevista a titolo di riparazione pecuniaria e, comunque, alla restituzione del profitto del reato; nonché c) la subordinazione del patteggiamento alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato. Quanto alla riparazione pecuniaria, con l’articolo 4 della legge n. 69 del 2015 è stato introdotto il nuovo articolo 322-quater del Cp, laddove si prevede che, con la sentenza di condanna per i reati previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320 e 322-bis del Cp, debba essere sempre ordinato il pagamento di una somma pari all’ammontare di quanto indebitamente ricevuto dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione cui il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio appartiene, ovvero, nel caso di cui all’articolo 319-ter, in favore dell’amministrazione della giustizia, restando impregiudicato il diritto al risarcimento del danno. L’efficacia della riparazione è poi rafforzata dalla previsione, introdotta, dall’articolo 2 della legge, nel nuovo comma 4, dell’articolo 165 del Cp, in forza del quale è espressamente subordinato l’accesso alla sospensione condizionale della pena per i delitti di cui sopra al pagamento di una somma equivalente al profitto del reato ovvero all’ammontare di quanto indebitamente percepito dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio, a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione lesa dalla condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, ovvero, nel caso di cui all’articolo 319-ter, in favore dell’amministrazione della giustizia, fermo restando il diritto all’ulteriore eventuale risarcimento del danno. Il rafforzamento della risposta sanzionatoria sul versante patrimoniale, è infine completato dalla modifica introdotta, dall’articolo 6 della legge, nel nuovo comma 1-ter dell’articolo 444 del Cpp, laddove viene subordinata l’ammissibilità della richiesta di patteggiamento per i delitti di elencati prima alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato. È su quest’ultima disposizione che è intervenuta qui la Cassazione, chiarendone la natura giuridica, con effetti importanti ai fini dell’applicabilità anche ai fatti reato commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 69 del 2015. Reato di detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 1 marzo 2017 n 10009. Il reato di detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze, previsto e punito dall’articolo 727, comma 2, del Cp, è integrato dalla condotta, anche occasionale, di detenzione degli animali con modalità tali da arrecare gravi sofferenze, incompatibili con la loro natura, avuto riguardo, per le specie più note (quali, ad esempio, gli animali domestici), al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per le altre, alle acquisizioni delle scienze naturali. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza del 1 marzo 2017 n. 10009. A tal fine, non è necessario che l’animale riporti una lesione all’integrità fisica, potendo la sofferenza consistere anche soltanto in meri patimenti, la cui inflizione sia non necessaria in rapporto alle esigenze della custodia e dell’allevamento dello stesso. Mentre, sotto il profilo soggettivo, il reato può essere integrato anche con una condotta colposa, trattandosi di contravvenzione non necessariamente dolosa. È affermazione pacifica quella secondo cui sono punibili non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà e mitezza verso gli animali, ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilità dell’animale, cagionando allo stesso una sofferenza, come quella derivante da una detenzione incompatibile con la sua natura (sezione III, 21 settembre 2005, Momentì). Con la precisazione, parimenti non controversa, che per la configurabilità del reato non è necessaria la sussistenza di una sofferenza fisica, ma è sufficiente anche solo quella psichica, giacché gli animali sono esseri viventi dotati di sensibilità (tra le altre, sezione III, 26 novembre 2003, Paliani). Anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo, è affermazione consolidata che la detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura, non è una contravvenzione necessariamente dolosa, in quanto può essere commessa anche per semplice colpa: quindi, ad esempio, il detenere animali in condizioni incompatibili con la loro natura o in stato di abbandono, tanto da privarli di cibo e acqua, è penalmente imputabile anche per semplice negligenza (sezione III, 25 giugno 2014, Mihani). I magistrati in politica fanno male alla giustizia risponde Luciano Fontana Corriere della Sera, 27 marzo 2017 Caro Direttore, sarei felice di sapere quale è il suo giudizio sul problema dei magistrati che "scendono" in politica. E su quelli che dopo questa esperienza vogliono tornare al loro lavoro precedente. I casi sono numerosi, a sinistra, al centro e a destra. In particolare, leggevo recentemente che Michele Emiliano si dice disposto ad un accordo con i pentastellati, per abbattere "privilegi e vitalizi e mettere ordine nei rapporti tra politici e lobbisti". Bene, ma non sarebbe buona cosa da parte sua, per esempio, dimettersi dalla magistratura? Rimanere in aspettativa per anni e rientrare, beneficiando nel frattempo di scatti di carriera con relativa attribuzione di aumenti di stipendio, non costituisce un privilegio negato ai comuni cittadini? Giorgio Tescari, Milano Caro signor Tescari, I magistrati che a un certo punto della loro carriera decidono di entrare in politica sono per me un mistero. Mi chiedo come non capiscano che ogni loro candidatura è destinata ad assestare un colpo alla credibilità della magistratura. Pubblici ministeri e giudici decidono su aspetti fondamentali della vita delle persone: sulla loro reputazione, la loro libertà, il loro futuro. Dopo un’indagine, dopo una condanna, nulla sarà più come prima per un cittadino comune, per un politico, per un imprenditore, per un professionista. Non basta, secondo me, che il giudizio sia imparziale: deve anche apparire tale, non può essere sfiorato da alcun dubbio. Per questa ragione un magistrato che decide di candidarsi o di assumere un ruolo politico dovrebbe, come minimo, dimettersi dalla sua attività precedente. Dico come minimo perché personalmente sarei ancora più radicale: non dovrebbe proprio decidere di "scendere in campo". Come fa a candidarsi con un partito su cui magari fino a qualche mese prima ha indagato o firmato sentenze? Come è possibile che non si capisca che tutta la storia professionale di un magistrato sarà inevitabilmente riletta alla luce della scelta politica? Un’ombra di faziosità calerà per sempre sulle sue azioni. Comprendo l’obiezione che viene di solito avanzata: in questo modo si limitano i diritti costituzionali di un cittadino. Non mi sembra però calzante al punto da bilanciare il danno che si provoca al regolare esercizio della giustizia. Soprattutto quando neppure ci si dimette da magistrato e si continua, come scrive lei, a conservare scatti di carriera e di stipendio. Ho letto con piacere che la riflessione è stata posta in maniera convincente anche da Pier Camillo Davigo, segretario dell’Associazione magistrati e in passato pm di punta del pool Mani pulite. La "scuola" di mafia di Vincenzo Ceruso La Repubblica, 27 marzo 2017 La mafia è (anche) un’agenzia educativa. Ha a cuore, per così dire, il percorso che conduce alla costruzione del Sé mafioso. La retorica sui ragazzi di strada, per quanto melensa, esprime un’insopprimibile verità: a volte, in territori culturalmente desertificati, in cui sono scomparsi i partiti e i sindacati, dove le parrocchie sono il rifugio per gli anziani, in cui l’istituzione scolastica respinge i ragazzi difficili, la scuola di formazione mafiosa è la sola proposta educativa. L’organizzazione criminale trasmette inoltre un senso, una visione del mondo per le nuove generazioni, composta da molteplici componenti. Al centro vi è un discorso vittimario, per cui lo Stato è il persecutore. Osservare i profili Facebook dei familiari di quanti sono in carcere per reati di mafia, soprattutto giovanissimi, è istruttivo. Il parente detenuto è ingiustamente tenuto lontano da forze esterne, ed è sempre presente nel ricordo dei suoi cari come modello di virtù. La memoria vittimaria serve a recintare lo spazio che divide dalla società legale, a perpetuare il legame con i carcerati e a condividere una dimensione risarcitoria con le altre vittime, cioè gli altri familiari dei detenuti. Un’ulteriore componente di questa weltanschauung, consiste nell’idea che la mafia si ponga dalla parte del più debole. Ho assistito un giorno ad una scena esemplare di come i valori mafiosi siano radicati, in coloro che sono stati formati alla scuola della mafia. Un ragazzo cresciuto in un quartiere a rischio di Palermo, appartenente ad una una famiglia dedita allo spaccio e frequentatore del carcere minorile della città, voleva esprimere parole di condanna per un danno arrecato ad un’associazione di volontariato. Il minore rivendicava una sanzione per il colpevole e lo faceva davanti agli uomini riuniti in piazza: "Mi hanno insegnato che i poveri non si toccano". Il soggetto collettivo che aveva educato il giovane a questo falso senso di solidarietà era la comunità mafiosa, per lui deputata a giudicare e a punire i torti al posto dello Stato. Un tempo, la sinistra avrebbe parlato, gramscianamente, di egemonia culturale. Ma oggi la sinistra non c’è o è afona sui giovani e sulle periferie meridionali. Dov’è la mafia? È nei salotti, nei comitati d’affari, nell’alta finanza, certo, ma, seppure notevolmente indebolita, si trova dov’è sempre stata: nei quartieri e nelle borgate. Gli altri sono andati via. L’era della violenza che chiama violenza di Titti Marrone Il Mattino, 27 marzo 2017 Forse con una spranga. Forse con una chiave inglese. Forse con venti persone a infierire su uno solo. Forse tutto sarebbe cominciato per via delle avances di un coetaneo albanese alla ragazza della vittima. Ci sono troppi "forse", ancora troppi, per poter ricostruire con esattezza com’è cominciato il pestaggio micidiale inflitto a Emanuele Morganti nella notte tra venerdì e sabato all’esterno del circolo ricreativo Mirò di piazza Regina Margherita ad Alatri, provincia di Frosinone. Senza forse, purtroppo, è invece la notizia della morte del ragazzo di vent’anni diffusa nella serata di ieri dalla caserma dei carabinieri. Come sempre di fronte alla morte ingiusta, terribile e inaspettata di un giovane, se ne guardano le foto postate sui social quasi cercando nell’allegria dei sorrisi, nelle pose con i compagni di scuola, un indizio, quasi la premonizione della sorte terribile che lo aspettava. E che naturalmente non c’è, non poteva esserci. Emanuele ha il viso di un bel ragazzo solare, sportivo, simpatico. L’ennesima vittima di un’ennesima serata, stavolta d’inizio primavera, che doveva essere di divertimento con la ragazza - un po’ di musica, un bicchiere da bere con gli amici - e invece è diventata un tempo intossicato, appestato da sguardi in cagnesco tra coetanei scopertisi improvvisamente nemici. Finché gli inquirenti non avranno tutti i tasselli del dannato mosaico di quella notte, possiamo solo immaginare quanto è avvenuto e purtroppo ci può riuscire anche facile vista la frequenza con cui, in contesti del genere, si passa dal sentire violento all’atto dell’aggressione. Avviene quando manca anche la più piccola pausa di una riflessione su cui possa appoggiarsi il barlume di un dubbio sulla conseguenza di un colpo inferto, sulla bestialità della dimenticanza per la sproporzione tra un risentimento percepito in sé e la propria furia cieca lasciata libera come un animale feroce che azzanna alla gola e colpisce a morte. Ciò che ha massacrato Emanuele è la corrente di odio incontrollato scaturita all’interno del locale da un pretesto: una sua reazione infastidita a parole e sguardi rivolti alla ragazza che aveva accanto avrebbe moltiplicato quella corrente di odio fino all’inverosimile. E a scorrere le cronache, sono decisamente troppe le volte in cui ci s’imbatte in episodi di occhiate rivolte a ragazze che fanno salire il sangue alla testa e seminano coltellate, colpi di pistola, violenze di vario tipo. Emanuele sarebbe stato aggredito per essersi ribellato a una di quelle avances sgradite, poi buttato fuori e lì raggiunto da un gruppo di altri giovani, compagni dell’autore di quegli approcci inopportuni. Le prime testimonianze descrivono un rituale di violenza assomigliante alla caccia, con il giovane inseguito fuori dal locale da una torma assatanata in cerca della preda. In una catena di azioni e reazioni, la violenza si è andata sommando ad altra violenza, divampando in carneficina diventi contro uno, Emanuele sbattuto a terra, massacrato di colpi inferti fino a fracassargli il cranio. Un odio così sproporzionato e pronto a sgorgare fa pensare a rancori pregressi e indifferenziati, appartiene a un codice che cancella ogni traccia di umano e sa solo generare altro odio. E nella catena dell’odio che ne genera altro, tra le righe dei particolari ancora da chiarire affiora la parola "albanese" riferita all’autore delle avances, poi allargata come una macchia d’olio fino ai buttafuori che avrebbero mandato fuori dal locale Emanuele, fino ai partecipanti al pestaggio. Basta poco perché una parola così sia subito evidenziata e faccia partire, in rete, il tam tam di un odio di segno uguale a quello abbattutosi sul corpo di Emanuele. Basta poco per procedere di generalizzazioni, decidendo di voler credere che uno rappresenti tutta un’ernia, tutto un popolo, da punire per una vendetta che produrrebbe a sua volta ancora odio, un’al - tra vendetta e poi un’altra ancora. Nel nostro tempo intossicato, quando s’insinua il sospetto che il responsabile venga da fuori, sia uno straniero nella comunità ferita, ci vuole poco perché una nuova scintilla di violenza divampi in un falò. Ma sono fiamme che distruggono tutto, anche la pietà. Roma: a Regina Coeli ancora un suicidio di un soggetto debole nel silenzio delle istituzioni di Camera Penale di Roma Ristretti Orizzonti, 27 marzo 2017 Ancora ieri l’ennesimo suicidio di un detenuto nel carcere di Regina Coeli. Il giovane bosniaco aveva ventinove anni, in attesa di giudizio con l’accusa di tentato omicidio. Si è ucciso dopo avere vegliato per poche ore la salma della figlioletta di un anno. Poi lo hanno riportato a Regina Coeli. Lo hanno lasciato solo. E lui si è appeso alle sbarre annodando le lenzuola. Sempre lo stesso incredibile macabro rituale. Era così difficile prevederlo? Siamo arrivati a dieci casi di suicidio nelle carceri italiane solo nei primi mesi dell’anno in corso, il secondo in un mese a Regina Coeli. Dilagano i suicidi in carcere a causa delle condizioni inumane e degradanti in cui sono costretti a vivere i detenuti. È in forte aumento il fenomeno del sovraffollamento carcerario. Ed è arrivato il momento che in Italia e in tutto il Lazio anche che la giurisdizione si assuma le proprie responsabilità. È aberrante l’assordante silenzio delle Istituzioni: a nessuno interessa il problema, l’unico modo per affrontarlo è consapevolmente dimenticarlo. Noi penalisti romani però interveniamo con fermezza per denunciare l’illegalità delle condizioni carcerarie. La pena deve rieducare e non portare al suicidio. Ci occuperemo del caso dei suicidi con una richiesta formale al Ministro della Giustizia Andrea Orlando, al Direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo, al Garante nazionale dei detenuti e a tutti gli altri organi istituzionali deputati. Chiederemo loro un incontro e all’esito dell’interlocuzione denunceremo e protesteremo. Per dirla con le parole di Cesare Beccaria "non esiste uno stato di diritto ogni volta che una legge permette che in alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa". Non faremo nessun passo indietro nella difesa della dignità dei detenuti, anzi solleciteremo e sosterremo ogni iniziativa destinata a ristabilire la legalità delle condizioni carcerarie, prima fra tutti l’amnistia. Milano: il Papa a San Vittore. "Passava fila per fila a salutare ogni detenuto" di Paolo Foschini Corriere della Sera, 27 marzo 2017 Gloria Manzelli, che dirige la casa circondariale di San Vittore dal 2004, racconta l’emozione della visita di papa Francesco: "Uno per uno. Ha avuto una parola per ciascuno. Non dimenticherò mai che cosa è stato". "Uno per uno. Non ne ha saltato uno. Avrà stretto mille mani. Non per dire: tra detenuti e agenti e operatori almeno mille, sul serio. Non ne ha saltato uno solo. È stata una emozione fortissima". Gloria Manzelli dirige la casa circondariale di San Vittore dal 2004. A dispetto delle sue origini romagnole non è - chi la conosce lo sa - una che si lascia andare a mettere in piazza le emozioni come acqua fresca. E del resto la visita di un Papa in un carcere (questa di Francesco è stata per San Vittore una prima volta assoluta) al netto delle suggestioni evocative comporta una serie di responsabilità e decisioni da prendere la cui complessità si intuisce anche solo pensandola. Con lo stress che si immagina, per chi quelle responsabilità ce le ha. Ma adesso che siamo al giorno dopo, che è andato tutto liscio, adesso che i tanti "speriamo bene" ripetuti per mesi a chi chiedeva "allora?" hanno lasciato il posto ad altrettanti e più "benissimo" detti a chi lo chiede ora, perfino Gloria Manzelli si ritrova a cercare le parole per sintetizzare quanto di Francesco è rimasto dentro e continua come un disco a tornare su quell’immagine: "Uno per uno. Ha avuto una parola per ciascuno. Non dimenticherò mai che cosa è stato". Torniamo indietro a quando glielo dissero: "Guarda che in marzo verrà il Papa". "Sinceramente: quando la voce cominciò a circolare pensai che era impossibile. Poi però arrivò la comunicazione della Curia, e del Provveditore, e lì ho capito che sarebbe successo. Non c’è stato il tempo per pensarci troppo, abbiamo cominciato a lavorare ed è stato un lavoro di squadra per il quale voglio ringraziare tutti, dalla polizia penitenziaria a tutti gli operatori, i medici, gli psichiatri, i volontari, tutti: e naturalmente i detenuti, uomini e donne, che sin dal principio ma soprattutto ieri durante la visita sono stati straordinari". La sua emozione più forte? "Il momento dell’arrivo. Eravamo fuori dal portone ad aspettarlo e quando ho visto la papamobile sbucare dall’angolo in via degli Olivetani, e avvicinarsi, e poi lui scendere e venire verso di noi sorridendo ho pensato "ma sta succedendo veramente?". Indimenticabile". Lui aveva fatto richieste particolari? "Una cosa ci era stata chiesta espressamente. Il Papa non voleva che fosse una passerella, voleva davvero avere modo di incontrare tutti. Non era una cosa semplice dal punto di vista logistico. Ma tutto è ruotato attorno alla volontà di consentire che questo avvenisse: come poi è avvenuto". Come è stato l’incontro? "Commovente, intenso. In alcuni punti, per esempio durante il pranzo con circa cento di loro, anche divertente. Molti detenuti hanno pianto. Ma senza mai scomporsi, sono stati esemplari anche nei trasferimenti. Quando ha incontrato il gruppo dei protetti al sesto raggio si è commosso anche lui". Cosa lo ha toccato di più secondo lei? "Difficile scegliere un momento. Ma forse quando tre detenuti, due uomini e una donna, gli hanno letto le cose che avevano preparato a nome di tutti e a un certo punto hanno detto "preghi per noi e noi pregheremo per lei". È stata una frase molto forte. Il carcere purtroppo è un posto in cui si è portati a chiedere più che a offrire. Ma qui loro gli hanno offerto la cosa più profonda, personale e a mio avviso sincera che avevano. Il Papa li ha ringraziati tanto per questo". E loro? "La parola giusta forse è rapiti. Torno a dirlo: ha avuto una parola, una stretta di mano, una carezza, uno sguardo personale per ciascuno di loro. In rotonda è passato fila per fila, fino a raggiungere l’ultimo in fondo. Più di cinquecento sono stranieri. Non lo dimenticheranno. Come noi, del resto". Trento: "Imprese trentine, fate lavorare i detenuti. Dategli l’occasione di reintegrarsi" di Luca Pianesi ildolomiti.it, 27 marzo 2017 L’appello del direttore del carcere di Spini. Olivi: "Cercheremo di trovare soluzioni". Pappalardo ha spiegato che nonostante le tante richieste il tessuto imprenditoriale e artigianale locale non mostra apertura. Il lavoro come strumento rieducativo è fondamentale. I detenuti lavorano ma solo all’interno della struttura e grazie alle cooperative. L’altro grande problema sono i colloqui. "Da più di un anno chiediamo ad imprese e aziende del territorio di accogliere alcuni detenuti per attività lavorative da svolgersi fuori dal carcere ma non abbiamo mai ricevuto una risposta positiva. Non è possibile che qui si faccia peggio che ad Agrigento o in realtà molto più problematiche di altre parti d’Italia. Il lavoro è un esigenza dell’uomo". A parlare è Valerio Pappalardo, il direttore della Casa circondariale di Spini di Gardolo. È lui a lanciare un vero e proprio appello al tessuto sociale trentino e alle istituzioni durante la presentazione della birra allo zafferano prodotta anche con l’aiuto di sei suoi detenuti e dunque di fronte anche a figure istituzionali come l’assessore Olivi. E lo fa in un momento dove forte sta emergendo la richiesta di dotare il Trentino Alto Adige di un Garante dei detenuti regionale. Una figura che potrebbe garantire non solo i reclusi ma anche chi lavora per la struttura penitenziaria trasformandosi in un portavoce (anche a livello mediatico) delle esigenze di chi il carcere lo vive tutti i giorni. E quello del lavoro, assieme al tema dei colloqui, come riferito dal direttore Pappalardo, è una di quelle questione delle quali potrebbe farsi carico con la politica e con le istituzioni svolgendo un compito di sensibilizzazione. A Spini al momento vi sono recluse 350 persone in gran parte accusate e condannate per reati non gravi, contro il patrimonio o per violazione della legge sugli stupefacenti, e molte di queste nel carcere lavorano. La struttura è riuscita a mettere a disposizione circa 95 posti al maschile e 10 al femminile alle dipendenze del personale carcerario ( e quindi si dedicano alle pulizie, alla preparazione e distribuzione del vitto, alla spesa, alla manutenzione), in 50 imbottigliano detersivi (con la cooperativa Kaleidoscopio), 10 lavorano fissi nella lavanderia industriale (con la cooperativa Venature), 6 sono assunti o fanno tirocinio nella coltivazione di cavoli, zafferano e piante aromatiche (con la cooperativa La Sfera) e una decina si applicheranno nella digitalizzazione dell’archivio della previdenza pubblica (con la cooperativa Kinè). Un apparato, però, garantito o dalla stessa struttura o dalle cooperative e più in generale solo da realtà che portano un po’ di mondo esterno all’interno. "Ma il mio dispiacere più grande è che non riusciamo a realizzare il percorso inverso - prosegue Pappalardo - a far uscire i detenuti perché questo aiuterebbe davvero ai fini della rieducazione. Per noi che vi lavoriamo ciò è fondamentale perché senza la rieducazione il carcere finisce per essere solo un contenitore e anche noi ci sentiamo svuotati di parte del nostro ruolo. Io mi batto perché non sia così. E da anni inviamo mail, contattiamo aziende e imprese per chiedere loro di dare la possibilità di mettersi alla prova ad alcuni detenuti, ovviamente i più meritevoli, quelli sui quali noi, in prima persona, garantiamo e ci assumiamo la responsabilità. Ma le risposte non arrivano". Un appello che però è arrivato forte e chiaro all’assessore allo sviluppo economico e al lavoro della Provincia Alessandro Olivi, presente all’incontro a Spini, che ha replicato: "Non posso che raccogliere questa richiesta e assicurare che come assessorato cercheremo, anche per mezzo dell’Agenzia del Lavoro, di creare canali più diretti tra il mondo del lavoro ‘esterno’ e i detenuti. Inoltre quel che possiamo fare è anche andare a sondare il terreno all’interno della macchina provinciale. Lavori di archivistica o simili potrebbero andare incontro a queste esigenze. Quel che è certo è che il lavoro è innanzitutto dignità ed è libertà, speranza, affrancamento. E quindi capisco che per dei detenuti possa assumere ancora più importanza anche in chiave di prospettiva futura. Nell’ottica di uscire una volta scontata la pena. Mi porto a casa i compiti - ha concluso con un sorriso l’assessore - e cercheremo di fare il possibile". Impossibile, invece, per la Provincia, sarebbe risolvere l’altro grande problema del quale si lamentano i detenuti e che ha riportato il direttore Pappalardo: quello dei colloqui. "La regola che si può fare solo una telefonata è assurda - ha detto - crea malumore e rabbia. Spesso capita che dopo un colloquio un detenuto rimanga un po’ interdetto. Le relazioni tra chi è dentro e chi è fuori sono difficili e, in molti casi, basterebbe permettere a un detenuto di fare una telefonata in più a casa per chiarirsi, per non tenersi dentro dubbi e incomprensioni. Questa è una legge che a livello politico bisognerebbe cambiare e che alleggerirebbe, non poco, la condizione di chi è costretto in carcere". Un mondo a parte e molto complesso, come ha sottolineato in conclusione il direttore Pappalardo alla domanda se almeno i sei detenuti che avevano aiutato a produrre la birra alla fine avessero potuto assaggiarla o offrirla agli altri carcerati. "Un assaggino, ma con l’alcool bisogna stare molto attenti - ha detto - perché si trasforma subito in merce di scambio, come le sigarette. Per esempio, il vino, ci sono periodi che viene proibito. Ci sono alcuni detenuti che non lo bevono e lo mettono da parte e lo vendono agli altri che quindi, poi, finiscono per averne ‘troppo’ a disposizione. E ciò può creare problemi di alterazioni e anche di sicurezza". Un mondo a parte che merita comunque di essere migliorato, per quanto possibile, anche con l’aiuto della società esterna. Perché dentro o fuori facciamo tutti parte dello stesso sistema. Tolmezzo (Ud): detenuto al 41bis tenta il suicidio, salvato dagli agenti zoom24.it, 27 marzo 2017 Allarmanti i dati del Sappe: ogni 9 giorni un detenuto si uccide in cella mentre ogni 24 ore ci sono in media 23 atti di autolesionismo e 3 suicidi sventati dal Corpo di Polizia Penitenziaria. Ha tentato di uccidersi nella sua cella del carcere di Tolmezzo un detenuto di origini calabresi da poco sottoposto al regime penitenziario del 41bis: ma l’uomo è stato salvato dal tempestivo intervento delle Agenti di Polizia Penitenziaria in servizio. È accaduto nel primo pomeriggio di domenica ed a darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe che plaude al provvidenziale intervento degli Agenti di servizio. "L’insano gesto - posto in essere mediante impiccamento - non è stato consumato per il tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari. Soltanto grazie all’intervento provvidenziale degli Agenti di sezione si è evitato che l’estremo gesto avesse conseguenze. L’uomo era da poco stato sottoposto al regime del 41bis", evidenzia Giovanni Altomare, segretario regionale per il Friuli Venezia Giulia del Sappe. I dati. "Negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 21mila tentati suicidi ed impedito che quasi 168mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze", sottolinea Donato Capece, segretario generale del Sappe. "Il dato oggettivo è che la situazione nelle carceri resta allarmante. Altro che emergenza superata! Contiamo ogni giorno gravi eventi critici nelle carceri italiane, episodi che vengono incomprensibilmente sottovalutati dall’Amministrazione Penitenziaria. Ogni 9 giorni un detenuto si uccide in cella mentre ogni 24 ore ci sono in media 23 atti di autolesionismo e 3 suicidi in cella sventati dalle donne e dagli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria. Aggressioni risse, rivolte e incendi sono all’ordine del giorno e i dati sulle presenze in carcere ci dicono che il numero delle presenze di detenuti in carcere è in sensibile aumento. Ed il Corpo di Polizia Penitenziaria, che sta a contatto con i detenuti 24 ore al giorno, ha carenze di organico pari ad oltre 7.000 Agenti". La vita dei detenuti. "Da quando sono stati introdotti nelle carceri vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto sono decuplicati eventi gli eventi critici", conclude Capece. "Se è vero che il 95% dei detenuti sta fuori dalle celle tra le 8 e le 10 ore al giorno, è altrettanto vero che non tutti sono impegnati in attività lavorative e che anzi trascorrono il giorno a non far nulla. Ed è grave che sia aumentano il numero degli eventi critici nelle carceri da quando sono stati introdotti vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto. Nell’anno 2016 ci sono infatti stati 39 suicidi di detenuti, 1.011 tentati suicidi, 8.586 atti di autolesionismo, 6.552 colluttazioni e 949 ferimenti". Rovigo: il carcere minorile in via Verdi? Amidei (Fi): "si può fare" rovigooggi.it, 27 marzo 2017 L’idea del senatore polesano Bartolomeo Amidei. "La priorità è evitare la creazione di altri spazi vuoti in centro, come col Maddalena o la Silvestri". Una presa di posizione importante, quella del senatore di Forza Italia Bartolomeo Amidei, che non chiude le porte all’insediamento in città del carcere minorile. "Carcere minorile in via Verdi? L’importante è che la struttura non sia abbandonata". Sul dibattito che riguarda la futura destinazione dell’ex casa circondariale interviene anche il senatore Bartolomeo Amidei (Forza Italia). "Prima di ogni considerazione in merito, bisogna far sì che la struttura non sia lasciata a sè stessa e al proprio destino com’è successo invece con l’ex Maddalena o come rischia di succedere con l’ex caserma Silvestri, giusto per citare solo due esempi eclatanti e sotto gli occhi di tutti". Premesso questo, il parlamentare non chiude le porte a priori all’ipotesi carcere-minorile. "È un’idea su cui poi ragionare, una tra le tante - rileva - e la vicinanza con il tribunale può peraltro giocare a favore, a patto però di intervenire con un recupero generale, riorganizzando gli spazi interni che già non erano più idonei ad ospitare i detenuti". Questo, senza dimenticare un altro aspetto importante, quello del personale: "Non avrebbe senso infatti spendere soldi pubblici per ritrovarsi magari un centro correzionale all’avanguardia ma sguarnito su questo fronte come successo con il nuovo carcere, anche perché i minori, al pari e forse più dei reclusi maggiorenni, hanno bisogno di operatori formati per il loro recupero e successivo reinserimento nella società". "Rovigo, e insisto su questo punto, non ha certo bisogno di altri spazi vuoti ma di ripensare invece a nuove destinazioni d’uso per tanti edifici e spazi un tempo occupati da istituzioni pubbliche e che ora rischiano seriamente di accentuare, con il loro abbandono, un senso di incuria e di degrado che non porta né può generare alcunché di positivo". Isernia: concorso di poesia "Colei che ha cambiato la mia vita", premiati i detenuti isnews.it, 27 marzo 2017 La cerimonia si terrà martedì presso il carcere di Ponte San Leonardo. Successo per l’iniziativa promossa dalla Fidapa in collaborazione con l’Area Educativa della casa circondariale. "Colei che ha cambiato la mia vita": è in programma per martedì (28 marzo) presso la sala teatro della casa circondariale di Isernia la premiazione del concorso nazionale di poesia rivolto ai detenuti di tutti i penitenziari italiani. La cerimonia avrà inizio alle ore 10.30. Il concorso, partito a settembre 2016 e ideato dal funzionario giuridico pedagogico Francesca Capozza, è stato organizzato dalla Fidapa Bpw Italy sezione di Isernia, presieduta da Rita Santoro, in collaborazione con l’Area Educativa della Casa Circondariale di Isernia. I detenuti hanno composto poesie mirate alla descrizione ed espressione di ricordi e vissuti emotivi-affettivi relativi alla figura femminile (madre, sorella, moglie, figlia, compagna, amica ecc.) che ha cambiato positivamente la loro vita. Il concorso ha ottenuto un ampio riscontro e sono pervenute 234 poesie tra le quali la giuria tecnica, composta dalle Fidapine Ester Di Capita, Ada Gigliotti, Delia Pastore, Gina Perrella, Rita Santoro e Giuseppa Valente, ha scelto le tre vincitrici. Caserta: Giornata nazionale del teatro in carcere, i detenuti vanno in scena Biagio Salvati Il Mattino, 27 marzo 2017 Il penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, diretto da Carlotta Giaquinto, fra gli istituti carcerari italiani che ospiteranno, domani la "IV Giornata nazionale del Teatro in carcere" nel corso di un happening che vedrà una serie di rappresentazioni teatrali interpretate da un centinaio di reclusi, uomini e donne. In scena Uomo e Galantuomo e Non ti pago di Eduardo De Filippo, esibizioni canore O fatt ‘e cronaca di Raffaele Viviani oltre l’interpretazione dell’attore Mario Aterrano in Frammenti e il concerto di Lalla Esposito con il maestro Antonio Ottaviano. Previsti gli interventi del sindaco Mirra; del Garante dei Detenuti in seno alla Regione, Adriana Tocco, del provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria; il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli; le presidenti dei tribunali di S. Maria e Napoli Nord, Casella e Garzo; gli assessori regionali Marciano, Fortini e Angioli e il deputato Camilla Sgambato. L’evento patrocinato del Conams. La sfida dei ragazzi a rischio in cammino per riscattarsi di Elisabetta Pagani La Stampa, 27 marzo 2017 Progetti europei di pellegrinaggio riabilitativo al posto del carcere minorile: "Imparano a costruirsi il futuro". Centinaia di adolescenti belgi camminano da 35 anni sui sentieri d’Europa per evitare di tornare in carcere. Sono diretti a Capo Nord, Santiago di Compostela, Roma, Istanbul. A loro, nel tempo, si sono aggiunti i vicini francesi. Poi sono arrivati spagnoli e tedeschi. Un giorno, forse, li seguiranno gli italiani. Sono minorenni sottoposti a misure penali: nel loro passato furti, aggressioni, in qualche raro caso omicidi. Nel loro futuro, si augurano nei diari di bordo che compilano chilometro dopo chilometro, "la vita, perché prima non ce l’avevamo". Il viaggio - Il cammino che insegna la fatica e la soddisfazione, la determinazione e la libertà, e agisce come strumento di riabilitazione. "Una riabilitazione che funziona più del carcere, perché la recidiva è di appena un terzo" osserva Oikoten-Alba, l’associazione fiamminga che per prima, nel 1982, ha lanciato il progetto che adesso si cerca di portare in Italia. Da allora ha seguito 560 ragazzi in giro per l’Europa. Tre mesi di cammino, un accompagnatore non professionista e quasi 2.000 km tra salite e discese della strada e dell’anima. Un percorso non senza cadute, perché capita che qualcuno cerchi di scappare o sgarri con una serata alcolica. Se l’inciampo è grave torna dietro le sbarre, se si può rimediare continua. E, una volta arrivato a destinazione, addio carcere: inizia il difficile lavoro di ricostruirsi, o costruirsi, un futuro. La rete - Nei giorni scorsi, le associazioni che si occupano di cammini riabilitativi si sono radunate a Roma per la conferenza internazionale Walking Transitions, organizzata dall’università di Dresda nell’ambito del progetto Erasmus "Between Ages: Network for Young Offenders and Neet". Obiettivo: lo scambio di idee fra partner europei. "Finora in Italia ci sono state solo esperienze sporadiche e di pochi giorni - spiega Roberta Cortella, moderatrice della conferenza e regista (il suo La retta via documenta proprio il viaggio di due giovani detenuti belgi) - noi vorremmo invece che il cammino fosse una possibilità strutturata per minori in carcere o a rischio". "Nel nostro ordinamento - aggiunge Isabella Zuliani, presidente dell’associazione Lunghi Cammini di Mestre e da anni attiva in questo campo - c’è uno strumento giuridico molto innovativo che si chiama messa alla prova e che potrebbe includere questi pellegrinaggi". I protagonisti - Ma chi sono i ragazzi che partono? "In Belgio - spiega Sophie Boddez, pedagoga del gruppo educativo di Oikoten - la maggioranza sono detenuti autorizzati dal giudice, ma ci sono anche adolescenti con situazioni complicate". Sedici progetti all’anno, ai tempi d’oro, "oggi 5-6, a causa della crisi e dei tagli dello Stato". Le mete? Santiago e Roma, principalmente, dove una ragazza e la sua accompagnatrice hanno concluso il percorso incontrando il Papa. Sono invece in aumento i cammini in Francia: 30 all’anno, per un costo di 300 euro al giorno e una tabella di marcia che prevede tappe da 15-30 km. Il modello è simile: "Cento giorni senza cellulare, in un rapporto uno a uno con un accompagnatore e il sostegno a distanza di una squadra educativa" spiega Paul Dall’Acqua, direttore di Seuil, fondata dallo scrittore camminatore Bernard Ollivier. Negli anni si sono aggiunte, per cammini più brevi, anche Spagna e Germania. "Dal 2011 ad oggi - calcola Karsten König della facoltà di Scienze sociali di Dresda - sono partiti 400 ragazzi e il 97% di loro ha raggiunto la destinazione". Il rientro Arrivare alla meta non significa concludere il percorso. I ragazzi archiviano la parentesi carcere ma continuano ad essere seguiti da giudice e assistente sociale. Dati complessivi sull’effetto riabilitativo del cammino non ce ne sono, e si stanno raccogliendo, ma i risultati delle varie associazioni sono positivi: il 73% dei ragazzi francesi riesce a inserirsi nel contesto sociale. "La marcia è una terapia - osserva Dall’Acqua - il giovane guadagna autostima e scopre che gli altri possono essere fieri di lui". "Tornare alla vita reale è difficile - sottolinea Boddez, soprattutto per ragazzi che magari hanno avuto per la prima volta un adulto di riferimento durante il cammino, ma il 94% si dichiara fiducioso. Un paio di anni fa - conclude - abbiamo incontrato un uomo che aveva camminato con noi negli Anni 80. "È stata dura, ho avuto alti e bassi" ci ha confessato "ma quell’esperienza mi ha dato il coraggio di pensare che anche io avevo una chance nella vita". Il magistrato: "idea interessante, potremmo inserirla nella nostra messa alla prova" di Elisabetta Pagani La Stampa, 27 marzo 2017 "Inserire i cammini nello strumento della messa alla prova? Perché no? Mi sembra interessante". Apre alla possibilità di portare anche in Italia i pellegrinaggi educativi Gemma Tuccillo, magistrato da pochi giorni a capo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. In diversi Paesi europei si usa il cammino come strumento di riabilitazione per minorenni sottoposti a misure penali. Cosa ne pensa? "Che è un’iniziativa positiva. Tutti gli strumenti che aiutano a reinserire il ragazzo nella società e a renderlo più consapevole, evitando la struttura detentiva, sono interessanti. In Italia abbiamo la messa alla prova, che punta proprio a questo: evitare il carcere". I cammini però ancora non si fanno in modo strutturato. Potrebbero essere inseriti, come auspicano alcune associazioni, proprio nella messa alla prova? "Sì, potrebbe essere uno dei contenuti. Certo poi per metterli in pratica bisogna studiare bene il progetto". Che risultati dà la messa alla prova? "Ottimi, i fallimenti sono davvero residuali, lo dico anche sulla base della mia esperienza come giudice del Tribunale dei minori. La messa alla prova è un ottimo strumento: non serve per "accorciare" la permanenza in prigione dei ragazzi ma per evitarla completamente. A richiederla è il difensore del minore in udienza, prima che si arrivi alla sentenza di condanna. Il procedimento viene sospeso e, se si raggiunge l’obiettivo, estinto". Quali sono le forme più comuni di messa alla prova? "Abbiamo avuto esperienze di studio all’estero, ma rappresentano una piccola parte del totale. In generale si tratta di periodi di studio - da pochi mesi fino a un anno - affiancati da percorsi di formazione specifica o di volontariato. L’esperienza ci dice che funzionano. Per un minore evitare il carcere, qualora sia possibile, è sempre importante". Il mondo vuole fermare il conto alla rovescia atomico di Elena Molinari Avvenire, 27 marzo 2017 Si apre oggi a New York il summit Onu per discutere la messa al bando delle armi nucleari. È la prima volta dal 1945 Le potenze nucleari sono decise a impedire il divieto. Mancano due minuti e mezzo alla fine del mondo. Ad aver avvicinato il rischio dell’autodistruzione terrestre è stata l’accelerazione dei cambiamenti climatici e soprattutto, come sempre da oltre settant’anni, la minaccia di una guerra nucleare che scateni un’apocalisse di matrice tutta umana. Per questo, a fine gennaio, un gruppo di scienziati atomici ha spostato in avanti di trenta secondi il simbolico "orologio del giorno del giudizio", che non è mai stato tanto vicino alla mezzanotte dal 1953, quando l’Unione sovietica testò la bomba all’idrogeno e diede il via alla corsa agli armamenti nucleari con gli Stati Uniti. Oggi come allora il rischio ha intensificato gli sforzi di chi vuole tornare indietro, disarmare le testate nucleari e riportare la lancetta dei minuti in posizioni più sicure. E ora la comunità internazionale è più ricettiva: per la prima volta dalla fondazione delle Nazioni Unite, i Paesi membri sembrano pronti ad approvare una misura giuridicamente vincolante che metta al bando gli ordigni atomici. Il test della volontà globale si avrà a partire da domani, quando cominciano i lavori di una Conferenza, convocata dall’Assemblea Generale Onu con una risoluzione, che sfoci in un trattato per l’eliminazione delle armi nucleari. È vero che i Paesi armati nuclearmente e i loro alleati (Italia compresa) si sono opposti alla risoluzione, una realtà che impedirà a un eventuale trattato di avere effetti concreti immediati. Rimane, però, in ogni caso, ben 123 nazioni hanno già dichiarato la loro opposizione politica a questi arsenali, che a quasi 50 anni dalla firma del Trattato di non proliferazione contano ancora 15mila testate, di cui 4.400 pronte all’uso. Un simile sforzo fu intrapreso nel 1946, quando la prima sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite istituì una Commissione per "affrontare i problemi sollevati dalla scoperta dell’energia nucleare e altre questioni correlate", e presentare proposte "per l’eliminazione delle armi atomiche dagli armamenti nazionali". Ma la rivalità e diffidenza tra le superpotenze dell’epoca ha finora tolto mordente alla commissione. Nel corso dei decenni successivi, la comunità internazionale è riuscita solo a stabilire restrizioni volte a limitare il numero di Paesi che possedevano tali armi, e anche questo con scarso successo. Il Trattato di non proliferazione, entrato in vigore nel 1970, ha diviso il mondo in due categorie: da una parte i cinque Paesi che già possedevano armi atomiche al 1 gennaio 1968 (Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti), dall’altra quelli che non ne avevano. Questi ultimi accettarono di non acquisire armi nucleari e di sottoporsi a verifiche internazionali. Allo stesso tempo, le cinque potenze si impegnavano ad avviare negoziati in materia di disarmo. I risultati non sono stati incoraggianti. Da allora, altri quattro Paesi hanno acquisito o sviluppato arsenali nucleari: Corea del Nord, India, Israele e Pakistan, mentre le iniziative verso il disarmo languivano. Per questo, la comunità internazionale è divenuta sempre più preoccupata dei rischi legati al continuo miglioramento tecnologico delle armi nucleari e degli effetti del loro uso accidentale o intenzionale. La frustrazione per la mancanza di progressi concreti è stata la scintilla della decisione di convocare nel 2017 una conferenza, aperta a tutti gli Stati membri. La risoluzione è stata adottata con 123 voti positivi, con 38 contrari e 16 astensioni. Tra gli Stati che possiedono le armi nucleari la Francia, Israele, Russia, Regno Unito e Stati Uniti hanno votato contro, mentre altri tre (Cina, Pakistan e India) si sono astenuti. La Corea del nord ha votato sì. Immediatamente, alcuni Stati detentori di armi nucleari hanno lanciato una campagna contro la Conferenza, invitando i loro alleati militari ad astenersi dai negoziati poiché a loro dire il divieto avrà effetti negativi sulla sicurezza internazionale. "Gran parte della comunità mondiale chiede il disarmo nucleare, ma una ristretta schiera di paesi vuole conservare gelosamente il potere distruttivo di tali armi", spiega Maurizio Simoncelli, vicepresidente di Archivio Disarmo. La Conferenza si terrà a New York dal 27 marzo al 31 e poi ancora dal 15 giugno al 7 luglio e potrebbe rivelare che, a 70 anni, il meccanismo multilaterale istituito per negoziare misure di disarmo è finalmente in grado di codificare il no quasi globale al rischio di un olocausto nucleare. La sicurezza umana prima di tutto. Il coraggio di agire subito di Lisa Pelletti Clark* Avvenire, 27 marzo 2017 Partono i negoziati per la messa al bando degli arsenali nucleari. Diciamo basta a questi strumenti di morte. "Sto invecchiando. Sono ormai stanca. Ma non posso morire prima che il mondo abbia messo al bando le armi nucleari, non potrei riposare in pace". Sono le parole della mia amica Seiko Ikeda, Hibakusha, cioè una sopravvissuta al bombardamento atomico su Hiroshima. Seiko aveva dodici anni e ricorda benissimo quel 6 agosto 1945. Da decenni gira il mondo, con i suoi racconti così vividi, per far capire che l’umanità e le bombe atomiche non possono convivere sullo stesso pianeta. E che l’unico modo per garantire che non vengano mai più usate è quello di eliminarle tutte. Lunedì 27 marzo, al Palazzo di Vetro a New York, inizieranno i negoziati per un Trattato che metta finalmente al bando le armi nucleari. È il positivo risultato di un percorso iniziato qualche anno fa e denominato "Iniziativa Umanitaria". Visti i decenni di stallo a livello diplomatico, uno stallo che in questi anni di tensioni crescenti e di superpotenze che invocano una nuova crescita degli arsenali nucleari diventa ogni mese più pericoloso, alcuni Stati e organizzazioni non governative hanno pensato di spostare il fulcro del dibattito: non più questione militare, di sicurezza nazionale o regionale, ma tema umanitario che impone una scelta a livello etico prima ancora che politico. Una qualsiasi deflagrazione nucleare, oltre ai morti immediati sul luogo dell’esplosione, avrebbe conseguenze ben oltre qualsiasi confine, a centinaia di chilometri di distanza; e nessuna nazione od organizzazione internazionale sarebbe in grado di proteggere le popolazioni colpite. Si tratta di minacce serie, gravi, che possono concretizzarsi in effetti irreversibili. Effetti che riguarderebbero nell’immediato principalmente le città e la popolazione civile. Ciò è inaccettabile. Le città non sono bersagli! E i cittadini non sono semplici pedine sullo scacchiere della storia. Il ragionamento alla base della "Iniziativa Umanitaria" è semplice: compito degli Stati e delle organizzazioni internazionali è proteggere gli esseri umani o almeno salvare le persone dopo una catastrofe; poiché nel caso di una guerra in cui si usino armi nucleari nessuno sarebbe in grado di proteggere le popolazioni civili abbiamo l’obbligo morale ed etico di impedire un tale utilizzo. L’unico modo per farlo è metterle al bando e smantellarle tutte. Tutte, non solo quelle dei nostri "nemici", quali la Corea del Nord o l’Iran. Da lunedì inizierà concretamente il cammino verso la definizione di uno strumento giuridico internazionale per questo obiettivo, con la speranza che, via via, tutti gli Stati abbiano lungimiranza e coraggio per aderirvi. I negoziati che hanno portato all’adozione del Trattato di Non Proliferazione nucleare (Tnp) sono iniziati dopo il grande spavento della crisi dei missili a Cuba, nel 1962. E hanno acquistato velocità nel 1964 quando anche la Cina ha fatto sapere di essersi dotata di armi nucleari. Ormai ci siamo forse dimenticati che l’obiettivo finale del Tnp era certamente impedire la proliferazione delle armi nucleari ma soprattutto arrivare a un disarmo nucleare completo, da raggiungersi tramite negoziati in buona fede a cui i firmatari si impegnavano solennemente. Col passare dei decenni ci si è fermati sempre più sugli obiettivi parziali ed è passata l’interpretazione che l’importante era impedire che nuovi Stati si armassero di ordigni nucleari. "Non devono cadere nelle mani sbagliate", si diceva. Ma per le armi nucleari non esistono mani giuste: sono strumenti troppo distruttivi e inumani, e ancora oggi le 15.000 testate ancora attive potrebbero cancellare il nostro mondo svariate volte. È per tali motivi che negli ultimi anni molti Paesi non nucleari (in particolare quelli che non stanno sotto il cosiddetto "ombrello atomico" dei P5) che hanno rispettato la loro parte di accordo si sono sentiti sempre più defraudati dal fatto che le 5 potenze nucleari (Stati uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia, Cina) non facciano nemmeno un piccolo passo verso un disarmo effettivo. E sono proprio questi Stati, grazie alla leadership di Paesi come l’Austria, la Norvegia, il Brasile, la Nuova Zelanda, l’Irlanda, l’Indonesia, la Nigeria nell’ambito della già ricordata "Iniziativa Umanitaria", che stanno cercando di spostare l’asse del dibattito indicando una nuova strada. Tra le principali voci a sostegno di questo percorso c’è soprattutto quella di Papa Francesco che in numerose occasioni, e in linea con i pronunciamenti ufficiali vaticani degli ultimi anni, ha continuato a sostenere l’importanza della conferenza Onu che prenderà il via la prossima settimana. Lo ha fatto lo scorso gennaio formalmente anche davanti al Corpo Diplomatico presso la Santa Sede e soprattutto nel messaggio per la Giornata mondiale per la pace 2017, in cui ha rivolto "un appello in favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari: la deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca assicurata non possono fondare questo tipo di etica", cioè "un’etica di fraternità e di coesistenza pacifica tra le persone e tra i popoli". E l’Italia? Il Governo italiano ha confermato la linea degli ultimi anni e ha votato contro la convocazione dei negoziati, forse per mancanza di fiducia nella possibilità di realizzare lo smantellamento degli arsenali nucleari come conseguenza di un divieto totale delle armi atomiche. La via preferita è stata, al contrario, quella di un ipotetico approccio diplomatico graduale, che però - come già detto - ha contribuito a creare lo stallo in cui siamo impantanati da decenni. Per questo recentemente la Rete Italiana per il Disarmo e la campagna Senzatomica hanno scritto al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e al ministro degli Esteri Angelino Alfano, chiedendo un ripensamento e un cambio di passo: "La sicurezza che desideriamo e intendiamo realizzare è la sicurezza umana, cioè la sicurezza delle persone, fondata sul rispetto dei diritti inviolabili e sul soddisfacimento dei bisogni essenziali. Bisogna trovare il coraggio di agire adesso, per conto dell’umanità presente e futura. È il momento di condividere questa grande e nobile impresa". Eppure il nostro Paese avrebbe molto da offrire. Ricordiamo tutti la leadership italiana nella campagna per la Moratoria sulla pena di morte, o nelle campagne per la messa al bando delle mine anti-persona o delle munizioni a grappolo. Ormai lo sappiamo, quando un Paese agisce sulla scena internazionale rappresentando pienamente le aspirazioni della maggioranza dei propri cittadini, si sviluppa una splendida sinergia e si raggiungono obiettivi inaspettati. La speranza della società civile italiana impegnata per il disarmo nucleare è che ciò possa avvenire anche per il cammino di messa al bando degli ordigni atomici. Come critica, lungimiranza, intelligenza vorrebbero. Speriamo non manchi il coraggio di farlo. *Lisa Pelletti Clark fa parte del Direttivo "Beati i Costruttori di Pace" ed è co-presidente internazionale dell’International Peace Bureau Isis. L’Onu vota una risoluzione storica per la difesa dei patrimoni culturali di Francesco Semprini La Stampa, 27 marzo 2017 "2347: Questo numero entrerà nella storia". Così il sottosegretario agli Esteri, Vincenzo Amendola, ha annunciato l’approvazione della prima risoluzione delle Nazioni Unite che affronta con un approccio organico e di sistema la difesa del patrimonio culturale dell’umanità minacciato da guerre e gruppi terroristi come l’Isis. Una risoluzione "storica" e "un grande successo italiano" alla vigilia del G7 della Cultura di Firenze del 30 e 31 marzo. Una proposta di Italia e Francia, sulla quale il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si espresso all’unanimità. "La protezione del patrimonio culturale è tradizionalmente uno dei pilastri della politica estera italiana", ha detto il rappresentante della Farnesina parlando di un testo maturato in ambito "mediterraneo e mediorientale". Un obbligo non solo morale, ma anche un imperativo per la sicurezza mondiale, visto che spesso lo Stato islamico ha trovato nel traffico illegale di beni culturali trafugati la fonte di finanziamento del terrore da esso perpetrato. A ricordarlo era stato lo stesso ministro degli Esteri, Angelino Alfano, nel corso del summit di Washington di metà settimana della Coalizione globale per la lotta all’Isis, parlando di "Pil del terrorismo". Un impegno ancora più incisivo per l’Italia che ospita il più alto numero di siti Unesco sul proprio territorio. Impegno duplice quindi, come conferma la partecipazione alla riunione del Cds del comandante del nucleo dei carabinieri impegnato nella tutela del patrimonio culturale, Generale Fabrizio Parrulli. La speciale unità dell’Arma sta lavorando con Unesco alla definizione di un accordo che consenta il dispiegamento all’estero sotto bandiere Onu della "task force" Unite4Heritage. I cosiddetti "caschi blu della cultura" sono già entrati in azione dopo gli ultimi terremoti che hanno colpito l’Italia - ha spiegato il generale - e il protocollo d’intesa in dirittura di arrivo ne permetterà l’impegno internazionale. La risoluzione, che ha ricevuto una settantina di sponsorizzazioni, è stata definita un "grande successo italiano", dal ministro di Beni culturali e turismo Dario Franceschini, mentre a New York la Direttrice Generale dell’Unesco Irina Bokova ha reso omaggio alla leadership italo-francese rappresentata da parte parigina dal ministro per la Cultura e la Comunicazione Audrey Azoulay. "Stiamo facendo un investimento nel futuro", ha ribadito Amendola a chi chiedeva l’entità delle risorse necessarie a tradurre la risoluzione in realtà, perché "quel che investiamo oggi difendendo il patrimonio di Paesi come Siria, Mali, Iraq e Libia, lo risparmieremo in un domani in termini di aiuto allo sviluppo". Bali. Carmine Sciaudone detenuto da mesi accusato di immigrazione clandestina di Roberta Sottoriva radioluna.it, 27 marzo 2017 La nota famiglia di Latina disperata: " È tutto un equivoco, aiutateci a riportarlo in Italia". Carmine Sciaudone, figlio del noto costruttore di Latina, arrestato a Bali per immigrazione clandestina alcuni mesi fa e assolto dalle accuse, è detenuto da 9 mesi nell’isola indonesiana perché contro la sua assoluzione è stato presentato appello. La famiglia a Latina è fortemente preoccupata e lancia un oggi un grido disperato di aiuto attraverso le colonne del Messaggero. "È tutto un equivoco, temo per la vita di mio figlio, aiutatemi a riportarlo a casa", è l’appello del papà. La notizia dell’arresto del film-maker pontino era stata diffusa alcuni mesi fa da un giornale locale nel quale si legge che l’arresto è avvenuto il 22 maggio scorso del 2016 ad opera dell’Ufficio Immigrazione locale mentre il ragazzo era a bordo di un barcone per cenare nel porto di Benoa. Il visto a quanto di apprende gli era scaduto e lui stava riparando un proiettore. Secondo il governo locale invece lavorava clandestinamente. Nulla ha potuto fino ad oggi il tentativo dei familiari di sbloccare la situazione anche coinvolgendo la Farnesina. Russia. Arrestato l’oppositore Navalny e la folla circonda la polizia: "Fascisti" di Giuseppe D’Amato Il Messaggero, 27 marzo 2017 Il leader d’opposizione in piazza con migliaia di persone per manifestare contro la corruzione: centinaia i fermati. Aleksej puntava alle presidenziali del 2018 contro Putin ma una recente condanna rischia di fermarne la corsa. Slogan, tensione e scontri alla manifestazione non autorizzata degli oppositori di Putin a Mosca. Centinaia di persone sono state fermate dalla polizia, tra cui anche uno dei leader, Aleksey Navalny. La folla: "Fascisti". "Lui per noi non è Dima!", "Questa è la nostra città", "Siamo qui, potere!". Ecco alcuni degli slogan gridati dalla gente nella dimostrazione non autorizzata dal Comune di Mosca. Centinaia di persone sono state fermate dalla polizia, tra cui anche uno dei leader delle opposizioni, Aleksej Navalny. L’obiettivo dell’azione spontanea, ma decisamente ben organizzata, era quello di alzare un velo sulla piaga della corruzione in Russia. Dopo il successo del film "Lui per voi non è Dima", che ha collezionato soltanto su YouTube ben 11 milioni di visioni, Aleksej Navalny, aveva deciso di invitare i suoi sostenitori a scendere in strada per "richiedere indagini su fatti di corruzione in cui sono implicate alte cariche dello Stato". Al centro dei sospetti vi è l’ex presidente, oggi premier Dmitrij Medvedev, che controllerebbe un impero composto da ville, yacht ed immobili del valore di più di un miliardo di dollari, quindi ben al di sopra delle sue possibilità economiche. L’entourage del primo ministro ha, però, alzato un muro di diniego. La sua portavoce, Natalija Timakova, ha dichiarato di non aver alcuna intenzione di commentare "gli attacchi propagandisti di un personaggio condannato, che ha ammesso di stare già conducendo un qualche tipo di campagna elettorale e sta lottando contro le autorità". Siamo infatti entrati nell’anno delle presidenziali, che si dovrebbero tenere il 18 marzo 2018. Il netto favorito è l’attuale capo del Cremlino, Vladimir Putin. Navalny, che tra l’altro è capo della Fondazione per la lotta alla corruzione, vorrebbe partecipare al voto, ma probabilmente non ci sarà poiché è stato recentemente condannato da un tribunale di provincia per una strana e controversa vicenda, da lui stesso definita "politica". A Mosca l’appuntamento per la protesta era piazza Pushkin. "Camminate lungo i corsi e non vi addensate" era stato l’invito degli organizzatori. Anche perché sotto al monumento al grande poeta russo si erano posizionate le squadre antisommossa della polizia. Secondo i calcoli ufficiali del ministero degli Interni tra 6 ed 8mila sono state le persone presenti alla manifestazione. Il quotidiano Moskovskij Komsomolets ritiene, però, che ve ne fossero molte di più, perché in tanti hanno preferito non arrivare fino al monumento e si sono disperse prima. Chi è giunto in piazza è stato accolto dalle squadre antisommossa e da agenti che gridavano coi megafoni alla folla di andarsene e di "pensare alle conseguenze". Ciononostante in tanti hanno proseguito e circa 700 di loro sono stati fermati. Navalny, che ha cercato di tranquillizzare i suoi (dalla stazione di polizia dove era trattenuto) e li ha richiamati alla lotta pacifica, rischia una multa fino a 30 mila rubli (circa 500 euro) o lavori obbligatori fino a 40 ore o un arresto amministrativo fino a 10 giorni. Questa manifestazione è stata forse la più significativa azione organizzata dalle opposizioni dal 2011-2012 ad oggi. Persino il traffico nella centralissima via Tverskaja è stato bloccato per ore. I social media sono pieni di immagini della dimostrazione, mentre gli organi ufficiali non commentano e danno poca importanza all’evento. Nelle ore successive è stata poi perquisita la sede della Fondazione per la lotta alla corruzione. Analoghe manifestazioni di protesta si sono tenute in altre città del gigantesco Paese slavo tra cui San Pietroburgo (dove circa 10mila persone si sono messe ad urlare "Non ci siamo dimenticati di Borio Nemtsov" e "No alla guerra"), ad Ekaterinburg (il cui sindaco Evghenij Rojzman ha elogiato i dimostranti) ed in vari centri siberiani e sugli Urali.