"Ero in carcere e siete venuti a trovarmi". Bergoglio, il Papa del Vangelo di Valter Vecellio Il Dubbio, 25 marzo 2017 Viene accolto, quel Papa venuto "da quasi la fine del mondo", al suono di piatti e stoviglie di metallo, battono le posate su pentole e coperchi. Di solito, in carcere, la "battitura" è il segno se non di una rivolta, di un fermento, una protesta, un malcontento che serpeggia. Oggi no: nel carcere milanese di San Vittore, quel suono ritmato è una sorta di "inno alla gioia", alla speranza. È il modo scelto dai detenuti per salutare Papa Francesco. In tarda mattinata, dopo aver visitato le Case Bianche (un mastodonte di 447 alloggi, un migliaio di inquilini alla periferia est di Milano), il Papa si reca a San Vittore. Il programma prevede una visita in alcune celle, colloqui con i detenuti, pranzo in carcere; gli hanno preparato un menu tipicamente meneghino: risotto, cotoletta, patate, panna cotta. È da credere che lo gradirà molto di più dei pasti al collegio di Santa Marta; i detenuti faranno del loro meglio per servire un pranzo gustoso; ma e soprattutto per la "compagnia", i detenuti. Seguirà qualche minuto di "siesta", nell’ufficio del cappellano. Un qualcosa di assolutamente inedito: chi organizza la visita fa sapere che per trovare dei precedenti si deve risalire ai primi secoli della cristianità, quando i Pontefici venivano incarcerati durante le persecuzioni. Scontato che per far bella figura San Vittore sia stato tirato a lucido, "imbellettato": muri riverniciati, porte e vetrate strofinate a fondo. In fin dei conti è la prima volta in 138 anni che un pontefice varca la soglia di questo carcere. Sono comunque particolari che a papa Jorge Bergoglio non interessano. Quello che a questo Papa preme è poter incontrare, parlare e ascoltare il maggior numero di carcerati possibile; non è per un caso che a loro dedichi la sosta più lunga - tre ore - della sua giornata ambrosiana. E chissà se ne è consapevole: mentre lui visita il carcere, a Roma si celebrano i sessant’anni dei trattati d’Europa. Un’Europa che non è quella sognata dai padri fondatori: non da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, che vagheggiavano gli Stati Uniti d’Europa; ma neppure l’Europa degli Adenauer, dei Churchill, dei De Gasperi, degli Schuman. Però è ben vero che "Il Manifesto di Ventotene" viene elaborato e scritto al confino, una prigione a cielo aperto del regime fascista. Luogo di pena - letterale - e di sofferenza, San Vittore: criminali comuni e tossicodipendenti, malati di epatite e di Aids, il 67 per cento sono stranieri. E, non vanno dimenticati, accanto ai detenuti, quelli che Marco Pannella chiamava i "detenenti": gli agenti della polizia penitenziaria, e il personale del carcere, i cui ritmi di vita sono massacranti quanto quelli dei reclusi. Verrà accolto con una poesia che i detenuti hanno voluto comporre appositamente per lui: "l’insolita visita di un amico inatteso… intrecciando i suoi passi ai nostri". Il Papa rinnova, con questa visita, con quei gesti, con quanto certamente dirà toccando le corde giuste dell’umano sentire, un "appello" che è quello di sempre: in perfetta linea con quel "Ero in carcere e siete venuti a trovarmi" che si legge nel Vangelo di Matteo. Ricordate? Appena insediato, Papa Francesco compie due gesti simbolici, ma di indubbio significato: abolisce la pena di morte, formalmente ancora in vigore in Vaticano; introduce il reato di tortura. Da sempre invoca l’abolizione dell’ergastolo. Nella giornata dell’Anno Santo dedicata ai detenuti, "accoglie" i marciatori che sotto le bandiere del Partito Radicale chiedono "Giustizia, Amnistia e Libertà". Anche a lui, oltre che al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, si rivolgono oltre ventimila detenuti "assetati di giustizia", che per due giorni effettuano uno sciopero della fame… Certamente sarà lì a San Pietro, la domenica di Pasqua, ad accogliere i partecipanti di una nuova marcia, sempre per la giustizia, l’amnistia, e a favore degli ultimi più ultimi. Dice Mohammed, detenuto vai a sapere per quale motivo: "In genere vengo considerato solo un criminale. Potrò mangiare con il Papa. Il suo è un gesto straordinario: viene da noi, gli ultimi fra gli ultimi". Si dirà che un Papa che si comporta da uomo di fede, portatore di speranza e misericordia, è cosa "normale". Si: è "normale"; ma di questi tempi essere "normali" è cosa straordinaria. È la spes contra spem che Pannella invocava fino all’ultimo suo respiro. Una politica degna di tale nome ha di che riflettere, da questi "gesti", da questi comportamenti; dovrebbe raccogliere questo messaggio, operare di conseguenza. Che non lo faccia, non lo voglia fare, non lo sappia fare, è il segno dei pessimi tempi che ci tocca patire. Minori, stranieri, lavoro e disagio psichico: cosa cambia negli istituti di pena di Teresa Valiani superabile.it, 25 marzo 2017 Progetti e proposte in evidenza, nella relazione del Capo del Dap, Santi Consolo, su quanto recepito delle indicazioni arrivate dagli Stati generali sull’esecuzione penale. Glauco Giostra: "Ora raccogliere i contributi da proporre per la legge delega". Minori, stranieri, lavoro e disagio psichico: ecco i progetti attuati o in fase di avvio nelle carceri italiane, in seguito ai suggerimenti arrivati dagli Stati generali sull’esecuzione penale. Mentre si sta pensando di interpellare gli esperti che hanno lavorato ai Tavoli affinché portino il proprio contributo al legislatore delegato. Il coordinatore del comitato scientifico, Glauco Giostra, ha chiesto in tal senso un articolato e una piccola relazione per ogni proposta. "Questa idea - spiega Giostra - era stata coltivata con successo, grazie alla qualità dei contributi pervenuti, in occasione della prima stesura della delega quando raccolsi tutti i pareri in un volume portato poi ai presidenti della commissione Giustizia. Una parte, relativa alla giustizia minorile, era stata ripresa in un emendamento che ora è legge delega. È questo, a mio avviso, il modo migliore per interloquire con il legislatore. La speranza quindi, è che molto di quello che sarà suggerito ora, potrà essere recepito". Fra i progetti avviati dal Dap ce ne è uno su salute e disagio psichico. È stata sottoscritta la convenzione Federsanità Anci per attivare il servizio di telemedicina sul territorio nazionale, garantire la continuità della cura per i pazienti detenuti e assicurare più ampie prestazioni sanitarie in carcere, assicurando la tempestività ed evitando traduzioni in luoghi esterni di cura. Costituito un gruppo di lavoro a cui partecipano anche rappresentanti del Dap. Sono state diramate disposizioni sulla "corretta tenuta del diario clinico che deve entrare a far parte integrante della cartella personale del detenuto, costituendo la storia degli interventi svolti nei suoi confronti". Sul versante del disagio psichico, spiega il Dap, "si sta procedendo con la realizzazione, in ambito regionale, all’interno di uno o più istituti di pena ordinari, di sezioni dedicate alla tutela della salute mentale. Le sezioni, denominate "Articolazioni per la tutela della Salute Mentale", (Asm) risultano presenti presso 20 istituti penitenziari, mentre sono in corso le procedure per l’attivazione di ulteriori strutture in altri 16 istituti penitenziari. Sullo stesso versante, il Dipartimento partecipa al progetto europeo ME.D.I.C.S. - Presa in carico e sostegno dei detenuti con disagio mentale". In carcere corsi di assistenza a detenuti per prendersi cura di quelli disabili di Teresa Valiani superabile.it, 25 marzo 2017 Nella relazione del capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, i progetti attuati e quelli in corso di adozione. Sono previsti corsi per formare all’assistenza detenuti lavoranti che si prendano cura dei detenuti con limitazioni funzionali. Dieci mesi di lavoro, oltre 200 esperti riuniti intorno a 18 tavoli tematici per studiare il sistema carcere italiano e restituire dignità all’esecuzione penale nel nostro Paese, una relazione conclusiva di un centinaio di pagine che ne sintetizzava altre mille. Gli Stati generali dell’esecuzione penale, voluti dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, un anno fa avevano tracciato la rotta per la riforma del sistema penitenziario, ma quanto, di tutto il lavoro svolto dagli esperti chiamati raccolta nel 2015 dal Guardasigilli, è stato poi effettivamente recepito? Come e quanto è cambiato il carcere? La risposta arriva dalla relazione presentata dal Capo del Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), Santi Consolo, nella riunione promossa ieri dal ministro Orlando per fare il punto della situazione a un anno dalla cerimonia che, nell’aprile 2016, concluse il lavoro dei Tavoli. Un percorso destinato a proseguire con un organismo permanente che vedrà coinvolti i coordinatori dei Tavoli e il coordinatore del Comitato scientifico, Glauco Giostra. Fra le misure e progetti adottati dall’amministrazione penitenziaria o che sono in corso di adozione vi è la predisposizione di "innovativi modelli architettonici e gestionali per il nuovo istituto di Nola e per le nuove strutture in ampliamento dell’istituto di Brescia Verziano, opere di cui è prevista la realizzazione in proseguimento dell’attività del Piano Carceri". Previsti investimenti per circa 3,12 milioni di euro nelle colonie di Is Arenas, Isili e Mamone e per circa 2 milioni di euro nell’isola di Gorgona. Riattivata l’attività di Cassa Ammende che nelle ultime 6 sedute ha approvato 65 progetti mentre altri 199 sono stati istruiti e sono in attesa di approvazione". "Per i detenuti con limitazioni funzionali, dice il Dap, si sollecita la promozione di corsi di care-givers per formare detenuti lavoranti con competenze adeguate secondo il modello di care givers familiare per assicurare alle persone detenute con disabilità l’assistenza per l’igiene della persona, l’aiuto nel movimento e la mobilità in relazione alla limitazione motoria, le modalità di relazione, l’alimentazione del paziente, le forme di allerta e di intervento per le emergenze". Skype nelle carceri, le critiche dell’associazione vittime di mafia Corriere della Sera, 25 marzo 2017 Giovanna Maggiani Chelli (associazioni vittime strage di via dei Georgofili): "Ringraziamo il ministero della Giustizia per la risposta ma con tutta la buona volontà del mondo non riusciamo a tranquillizzarci. Quella tecnologia può favorire i mafiosi". "Pur ringraziando il ministero della Giustizia per la risposta, con tutta la buona volontà del mondo non riusciamo a tranquillizzarci". Così Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, torna a criticare il disegno di legge in discussione alla Camera sull’uso di skype in carcere. Se, come sostiene il ministero "la tecnologia offre oggi nuove possibilità di comunicazione" anche "la mafia in carcere - aggiunge Maggiani Chelli - potrebbe utilizzare skype per favorire le relazioni familiari". "La mafia, Cosa nostra, ha usato quasi 1.000 chili di tritolo nel 1993 per arrivare ‘a favorire le relazioni familiari’ al 41 bis, oggi lo sta per ottenere e solo questo conta per le famiglie mafiose - prosegue. Se poi con la gentile nota di risposta il ministero ci vuole dire che Salvatore Riina, Leoluca Bagarella, i fratelli Graviano e tutti gli altri utilizzatori di tritolo di via dei Georgofili, non avranno skype e sconti, lo dica chiaro, perché noi non lo abbiamo capito e i timori restano tutti insieme alle nostre prese di posizione". "Del resto la notte del 27 maggio 1993, proprio con le allora più sofisticate tecnologie in mano, giusto i primi telefonini introdotti in Italia di cui erano muniti, i mafiosi di Cosa nostra, oggi in regime di 41 bis, hanno potuto avere buon gioco su tutte quelle attenzioni che i ministeri preposti dovevano prestare, e noi l’abbiamo pagata troppo cara", conclude la nota della presidente. Giudici e politica, il potere rimpiange il passato di Livio Pepino Il Manifesto, 25 marzo 2017 Periodicamente, soprattutto in concomitanza con decisioni giudiziarie sgradite a questo o a quel centro di potere, si riapre il tormentone dei "magistrati in politica". Oggi lo spunto è duplice: da un lato, la corsa di Emiliano (magistrato in aspettativa dalle esternazioni spesso sopra le righe) alla segreteria del Pd; dall’altro, il voto del senato sulla incandidabilità sopravvenuta di Minzolini a seguito di una condanna confermata dalla Cassazione ma pronunciata in appello da un collegio di cui faceva parte il giudice Sinisi (sottosegretario nei governi Prodi e D’Alema). Qualunque sia l’occasione, il pensiero unico non ha dubbi: tra le cause principali della caduta di credibilità della giustizia c’è l’impropria "politicizzazione" di giudici e pm. Alla enunciazione del dogma si accompagna, per rafforzarlo, l’evocazione di un’epoca felice in cui i magistrati erano apolitici e, per questo, autorevoli e circondati da generale consenso. Oggi i prestiti di magistrati alla politica attiva sono, nel nostro paese, numericamente esigui; se si guarda alla storia dei 150 anni dello Stato unitario non sono mai stati così pochi. Siedono in parlamento - essendo, ovviamente, in aspettativa - appena una decina di magistrati e i giudici o i pm presidenti di regione, sindaci o assessori si contano sulle dita delle mani. Tutt’altra era la situazione nel bel tempo antico. In epoca liberale la magistratura era un’articolazione della classe politica di governo tout court: la maggior parte degli alti magistrati era di nomina governativa e spesso di estrazione direttamente politica e frequenti erano gli interscambi tra ordine giudiziario, parlamento e governo, al punto che, fra il 1861 e il 1900, metà dei ministri della giustizia (17 su 34) e dei relativi sottosegretari (11 su 21) proveniva dai ranghi della magistratura. La situazione restò inalterata nel ventennio fascista (con l’8% dei senatori reclutato tra le fila della magistratura). Né tale colleganza attiva venne meno con la caduta del regime, se è vero che a reggere il dicastero della giustizia nel primo governo Badoglio furono chiamati in sequenza due alti magistrati e che, dalla Costituente fino alle ultime legislature, numerosi sono stati i magistrati transitati in parlamento. E tutto ciò senza polemiche di sorta per oltre cent’anni. Cos’è cambiato, dunque, negli ultimi decenni, in cui pure, a differenza del passato, sono stati introdotti impegnativi limiti territoriali (e non solo) sia per le candidature politiche dei magistrati che per il rientro in ruolo dopo il mandato parlamentare o amministrativo? I cambiamenti sono stati fondamentalmente due. Il primo risale agli anni Settanta, quando l’omogeneità del potere cominciò a incrinarsi e, con grave scandalo dei benpensanti, alcuni magistrati si candidarono alle elezioni con partiti di opposizione (anziché con i soli partiti moderati, come avvenuto senza eccezioni dall’unità d’Italia fino ad allora). Il secondo - più recente - coincide con l’avvento del sistema maggioritario e la progressiva trasformazione della politica in guerra di potere senza esclusione di colpi (in cui è impossibile mantenere equilibrio e serenità di giudizio). Quest’ultimo cambiamento, in particolare, ha trasformato il contesto e provocato un mutamento degli orientamenti di ampi settori progressisti della magistratura, tradizionalmente favorevole alla partecipazione dei magistrati alla vita politica. Non per caso, ma in ossequio al principio enunciato - come ricordava Marco Ramat - fin dalla nascita di Magistratura democratica, nel lontano 1964, secondo cui esiste una "fondamentale distinzione tra la grande politica della Costituzione, dove la magistratura deve impegnarsi, e la politica di partito, contingente, da cui la magistratura deve estraniarsi". Detto in altri termini: la partecipazione al dibattito ideale e culturale, anche in parlamento, è un’attività positiva e potenzialmente utile per la società che non scalfisce la terzietà del giudice, mentre l’essere parte di un conflitto politico aspro e senza esclusione di colpi attenua quella terzietà in termini di apparenza e anche di sostanza. L’analisi della vicenda storica del paese impone, dunque, conclusioni meno drastiche di quelle oggi dominanti. Provo a sintetizzarle. Promuovere, anche attraverso la critica serrata di comportamenti specifici, un costume di estrema prudenza dei magistrati nel transito dalle aule di giustizia alle istituzioni rappresentative (e di altrettanta prudenza delle forze politiche nel proporre transiti siffatti) è assolutamente necessario. Tutt’altra cosa è la introduzione nel sistema di divieti legislativi drastici e rigidi che avrebbero il solo effetto di incrinare il pluralismo ideale della magistratura contribuendo a riportarla, senza eccezioni, nell’ambito del potere (a cui, come noto, si accede senza bisogno di elezioni). I penalisti: "no al processo a distanza e all’allargamento della prescrizione" Ansa, 25 marzo 2017 No alla fiducia sul ddl penale del ministro della Giustizia Andrea Orlando e stralcio delle due questioni più spinose: l’allungamento dei termini di prescrizione e del così detto "processo a distanza", ossia con gli imputati detenuti collegati via monitor dal carcere. Queste le richieste avanzate dal presidente della Camera penale di Firenze Luca Bisori che ha annunciato la nuova astensione degli avvocati, dal 10 al 14 aprile, proprio nel giorno in cui termina il primo sciopero di quattro giorni, "che ha avuto un’adesione compatta". Bisori ha ricordato il cammino del ddl in una "commissione dove noi avvocati abbiamo dato e siamo disponibili a dare un contributo", ma con l’annuncio che il governo metterà la fiducia "si blocca il confronto". Per Bisori, l’emendamento sulla prescrizione "renderà di fatto i processi interminabili" e non per colpa degli avvocati "che li vogliono fare anche per poter, quando ci riescono, riscuotere dai propri clienti". Nell’ultimo anno giudiziario, ha ricordato, le cifre danno una diversa realtà sulla prescrizione: "nel 2015 i processi prescritti nei collegi sono stati 12, 1.500 davanti al giudice monocratico e ben 9.700 in procura o al gip". Il presidente si è soffermato molto sul ‘processo a distanzà, che non porterà risparmi ("carceri e tribunali dovranno essere dotati di monitor che funzionino"), e non garantirà il diritto agli imputati detenuti di poter essere in aula, di farsi giudicare da un giudice che non li veda solo da un monitor". Per il vice presidente dell’Unione delle Camere penali, Giovanni Flora, tornato a chiedere anche la separazione delle carriere, il ddl "è l’ennesima scorciatoia per arrivare a una democrazia giudiziaria", mentre "i termini di un processo, già sufficientemente lunghi, dipendono dall’organizzazione". Il processo a distanza "è la mortificazione dell’imputato detenuto - ha aggiunto l’avvocato Luca Maggiora -. Per poter arrivare a garantire un contatto con il cliente potremmo essere costretti ad avere nei processi i "difensori a distanza" ossia in carcere a fianco del cliente. Il problema è che al tribunale di Firenze c’è solo un’aula dove funziona, quando funziona, il collegamento". Giudice inseguito in auto: "Io mi armo, lo Stato non c’è" di Paolo Gallori La Repubblica, 25 marzo 2017 Lettera aperta ai quotidiani del magistrato Angelo Mascolo: "Avevo superato un’auto e me la sono trovata dietro che mi abbagliava. Finché ho incontrato una pattuglia dei carabinieri. E i miei inseguitori hanno detto che volevano solo esprimermi critiche per la guida. Cosa sarebbe successo se mi avessero aggredito e io, armato come è mio diritto, avessi sparato? Troppe leggine tutelano simili gentiluomini". Se un giudice irrompe a livello personale nel dibattito che divide la Nazione tra chi invoca il diritto di armarsi per difendersi e chi invece crede fermamente che l’uso della forza debba restare monopolio dello Stato, la sua opinione pesa. E se lo stesso giudice si schiera con il primo, proprio in quel Nordest dove esercita e dove il tema è rovente, il peso di quella opinione diventa incalcolabile. Perché destinato a spaccare il fronte di coloro ai quali proprio lo Stato demanda l’amministrazione delle sue prerogative chiedendo loro fedeltà e distacco rispetto ai tumulti dell’anima del comune cittadino. Ma è proprio l’esperienza da comune cittadino che si sente in pericolo e scopre di non sentirsi protetto dallo Stato che ha indotto il togato trevigiano Angelo Mascolo a lanciare la sfida. Pubblicamente, con una lettera aperta indirizzata ai quotidiani veneti del gruppo Finegil in cui racconta dell’incubo personale vissuto non tra le pareti domestiche ma in auto, l’abitacolo come unica barriera protettiva dalla violenza della strada e l’acceleratore come unica ancora a cui aggrapparsi per sfuggire al male. Per tenersi a distanza dai fari abbaglianti di un inseguitore senza volto, che ti bracca e ti sfinisce. Come in Duel, il film di debutto di Steven Spielberg. Se nella pellicola l’automobilista corre su strade aride e deserte senza trovare un’anima che corra in suo aiuto, il giudice Mascolo si imbatte invece in una pattuglia dei carabinieri. Ma il finale della storia non è quello che l’inseguito si aspetta. E allora il giudice rompe gli indugi e annuncia: "D’ora in poi sarò armato". Nella lettera Mascolo fa riferimento a un episodio accadutogli qualche sera fa. Aveva sorpassato un’auto di grossa cilindrata e una volta davanti si era ritrovato la maschera aggressiva della vettura incollata dietro e raffiche di abbaglianti ad accecarlo rimbalzando sui suoi occhi dallo specchietto retrovisore. Situazione anche piuttosto familiare agli automobilisti delle grandi città, dove sulle strade accanto alle auto corrono gli stress, i malumori, l’aggressività repressa di chi è al volante. Ma dove il coatto confronto con un "altro" senza identità risveglia anche paure e insicurezze addormentate tra le pieghe più profonde dell’inconscio. Uno di quei momenti in cui ci si ritrova a sperimentare una legge della giungla con cui l’umanità si è illusa di aver chiuso con il contratto sociale. Il giudice è immerso in quello che percepisce come un confronto diretto e dalle conseguenze imprevedibili con un improvviso nemico, quando esce dalla giungla e torna nella civiltà, rappresentata dalla pattuglia di carabinieri. Di fronte alle divise, i selvaggi e aggressivi inseguitori tornano cittadini, ritrovano l’uso della parola. E si spiegano: Mascolo era stato "seguito" per "esprimere critiche sul suo modo di guidare". A freddo, il giudice si fa delle domande. E si dà le sue risposte, arrivando alla fine a dubitare del senso del suo stesso lavoro. "Se fossi stato armato, come è mio diritto e come sarò d’ora in poi, che sarebbe successo se, senza l’intervento dei carabinieri, le due facce proibite a bordo della Bmw mi avessero fermato e aggredito, come chiaramente volevano fare?". E aggiunge: "Se avessi sparato, avrei subito l’iradiddio dei processi - eccesso di difesa, la vita umana è sacra e via discorrendo - da parte di miei colleghi che giudicano a freddo e difficilmente - ed è qui il grave errore - tenendo conto dei gravissimi stress di certi momenti". Il problema della legittima difesa "è un problema di secondo grado - accusa Mascolo - come quello di asciugare l’acqua quando si rompono le tubature. Il vero problema sono le tubature. E cioè: lo Stato ha perso completamente e totalmente il controllo del territorio, nel quale, a qualunque latitudine, scorrazzano impunemente delinquenti di tutti i colori". Per il giudice, "la severità nei confronti di questi gentiluomini è diventata, a dir poco, disdicevole, tante sono le leggi e le leggine che provvedono a tutelarli per il processo e per la detenzione e che ti fanno, talvolta, pensare: ma che lavoro a fare?". Il giudice si arma, l’ira dei magistrati di Gloria Bertasi Corriere di Verona, 25 marzo 2017 Treviso, lettera choc di Mascolo: "Lo Stato non c’è". Anm contraria, la Lega lo difende. Ha scritto una lettera per annunciare che d’ora in poi girerà armato e per accusare lo Stato d’abdicare al suo ruolo. E adesso il giudice di Treviso, Angelo Mascolo, rischia provvedimenti. L’Anm del Veneto ha subito preso le distanze dal collega, stigmatizzandone le parole. "I magistrati veneti, a differenza di Mascolo, credono nello Stato", dice l’associazione. Su Mascolo il Pg ha aperto un’azione disciplinare su un caso precedente. I magistrati prendono le distanze dal giudice Antonio Mascolo e ne condannano l’invettiva contro lo Stato, accusato di aver abdicato al suo ruolo. Di più: si dicono "sgomenti" di fronte a una lettera che un uomo di legge non avrebbe mai dovuto scrivere e tanto meno spedire ad un quotidiano. Mascolo probabilmente non si aspettava che le sue affermazioni provocassero una simile tempesta. La scelta di scrivere muove da una vicenda personale: qualche sera prima, mentre era al volante, ha superato un’auto, che per ripicca lo ha inseguito minacciosa gettandolo nel panico. L’intervento di una gazzella dei carabinieri avrebbe evitato il peggio ma, una volta rientrato a casa, il giudice, scosso, ha deciso di mettere nero su bianco il suo pensiero da cittadino che non si sente protetto dallo Stato, dalle forze dell’ordine e dalla stessa magistratura di cui fa parte. Di qui le reazioni dell’Associazione nazionale magistrati del Veneto. "La giunta veneta resta sgomenta dinanzi alle esternazioni pubbliche del collega e se ne dissocia riservandosi di interessare il collegio dei probiviri per le valutazioni disciplinari", ha detto ieri pomeriggio l’Anm. Mascolo non è nuovo agli onori delle cronache e nemmeno a procedimenti disciplinari visto che la Procura generale ne ha già uno pendente per una vicenda che risale alla scorsa estate. A luglio, dopo aver deciso la scarcerazione di due finanzieri e di un imprenditore accusati di corruzione per aver accettato due orologi del valore di 5 mila euro, Mascolo disse che si trattava solo di un "regalino" facendo intendere che nei rapporti con la Finanza può accadere. Ora, a qualche mese di distanza, scoppia un nuovo scandalo e Mascolo torna nell’occhio del ciclone. Dopo il fattaccio al volante, il giudice ha annunciato che d’ora in poi girerà armato, come consente la legge ai giudici penali che dal 1984 non hanno l’obbligo del porto d’armi. "Se fossi stato armato e avessi sparato avrei subito l’iradiddio dei processi da parte dei miei colleghi", ha scritto il giudice. E ancora: "lo Stato ha perso totalmente il controllo del territorio". Alla vista della lettera, i colleghi di Mascolo sono appunto rabbrividiti. Per primo, Aurelio Gatto, presidente del Tribunale di Treviso. "Non posso commentare opinioni personali che io e penso la magistratura nel suo insieme non possono condividere", ha detto ieri mattina prima che l’Anm prendesse posizione. Di lì a poco, a cascata, sono seguite le condanne dei colleghi, del sindacato di polizia Siulp e di ex magistrati come Felice Casson, senatore Pd. "Un magistrato ha il dovere di mantenere riserbo e contegno", ha detto Antonino Condorelli, procuratore generale della Corte d’Appello di Venezia. Ha aggiunto Pierantonio Zanettin, membro del Csm: "Sono perplesso, fosse stata un’intervista, le parole di Mascolo potrebbero essere state travisate ma è una lettera - ha sottolineato. Un giudice deve sempre ispirarsi a canoni di sobrietà, ora la questione è all’attenzione del Procuratore generale". Dura la reazione di Silvano Filippi, segretario del Veneto del sindacato di polizia Siulp. "Il giudice arriva per caso da Marte? - ha ironizzato - Sono sconvolto, le sue sono idee inaccettabili: hai un bisticcio in strada e ti armi? Direi proprio di no. Io credo nello stato di diritto, non al Far West tant’è che quando stacco dal lavoro, la pistola resta in caserma. Non dimentichiamoci che l’aumento dei crimini è proporzionale alla maggiore diffusione delle armi". Per Filippi, Mascolo ha messo a rischio la sua carriera e a causa della lettera potrebbe essere ricusato in tribunale. "Ha esposto le sue opinioni, qualche imputato potrebbe dire che ha idee preconcette", ha concluso. Casson, magistrato prestato alla politica da oltre dieci anni, al collega ieri ha dato un consiglio: "Se vuole cambiare le leggi che dismetta la toga e faccia politica". Il senatore condanna a tutto campo le parole di Mascolo, "Legittima chiunque ad armarsi e a fare giustizia da sé - ha aggiunto già abbiamo i sindaci sceriffo che sono inaccettabili, se si aggiungono magistrati sceriffo si perde la bussola". Uniche voci fuori dal coro quelle del leader della Lega, Matteo Salvini e del presidente Luca Zaia: "Mascolo ha solo fotografato la realtà". Ieri, l’Anm ha voluto anche precisare: "A differenza del collega, i magistrati veneti credono nello Stato, si impegnano a difenderlo e a difendere tutti i cittadini senza ricorrere a violenza o forme di vendetta che Mascolo pare invece auspicare". Il "nuovo" carcere di Nola: quando alle parole non corrispondono i fatti di Domenico Alessandro De Rossi* Ristretti Orizzonti, 25 marzo 2017 Promosso da Antigone, dalla Fondazione Giovanni Michelucci e con la presenza di architetti del Ministero della Giustizia e dell’Ordine degli Architetti di Roma, si è tenuto mercoledì 22 marzo presso l’Università di Roma Tre, il dibattito dal titolo: "Spazio della pena e architettura carceraria, il caso Nola dopo gli stati generali dell’esecuzione penale", che ha fatto emergere le diverse posizioni degli intervenuti. Questo il teatro e questi gli attori in campo che hanno messo in scena un autentico "dramma" carico di Pathos. Ha portato il suo saluto e ha concluso i lavori il Sottosegretario di Stato alla Giustizia On. Cosimo Maria Ferri, probabilmente, spettatore incredulo di quanto è andato in scena. Ma veniamo alla narrazione. Dopo la flebile presentazione del progetto fatta dall’architetto Luca Zevi, già coordinatore del Tavolo tecnico n.1 degli Stati generali dell’esecuzione penale, dedicato proprio all’architettura penitenziaria, si è scatenata da parte degli altri oratori intervenuti una tempesta di critiche al progetto del nuovo carcere. La "chiave" del dramma, come in tutte le vere tragedie che si rispettino, è nel tradimento. Ma si cadrebbe in errore se si pensasse che l’infedeltà, per continuare nella metafora, sia stata consumata da una sola parte. Per quanto si è capito, tra il Coro delle critiche da un lato e i primi Attori dall’altro, è emersa la figura del Progettista del nuovo carcere come l’unico vero "traditore" ufficiale degli indirizzi elaborati dal Tavolo tecnico. Si aggiunga che dall’ordalia è emersa anche la voce del rappresentate dell’Ordine degli architetti che ha giustamente lamentato un ulteriore tradimento dovuto alla scelta dell’Amministrazione Penitenziaria, la quale, invece di bandire un concorso di idee progettuali, ha preferito una gara più sbrigativa, sostanzialmente basata su di un’offerta tecnica ed economica al ribasso. Questa è la sceneggiatura di massima. Ma il problema, al di là della drammatica metafora teatrale, è che nel dibattito è emersa in tutta la sua evidenza, la manifesta contraddizione tra quanto scritto nella relazione del tavolo tecnico e quanto elaborato nel progetto del nuovo carcere di Nola che, essendo il primo prodotto dopo gli Stati generali, sarebbe dovuto essere il "modello" a cui ispirarsi per le future ulteriori progettazioni. A quel punto il dilemma era svelato: o si difendevano le parole e i concetti rappresentati nella relazione degli Stati generali o si difendeva il progetto che quelle parole e quei concetti, tradiva palesemente. Attraverso varie argomentazioni, l’architetto Zevi, nonostante il ruolo che ha avuto e tuttora a quanto pare ha, è sembrato propendere per salvare l’indifendibile progetto, incomprensibilmente, contraddicendo i contenuti del lavoro portato avanti dall’apposita Commissione ministeriale da lui stesso coordinata! Chi ha assistito all’evento ha vissuto una sorta di sofferto giudizio senza appello in cui alle parole non hanno corrisposto più i significati, agli scritti non hanno seguito in stretta conformità i progetti, alle attese non hanno derivato i fatti. Un genere di raffinata ipocrisia intellettuale volta a difendere i due lati contrapposti: da una parte la Teoria, ampiamente ispiratasi alla bibliografia specializzata scritta da altri autori e, dall’altra parte, la Prassi nella sua stanca consuetudine di riproporre moduli ormai obsoleti. C’è di più, perché come in tutti i drammi ci sono anche tracce di opacità. L’Ordine che ha assistito al dibattito tra più Contendenti, avrebbe dovuto (e dovrebbe) risolvere talune questioni riguardanti prestazioni professionali svolte a titolo gratuito. Infatti, salvo smentite, sembrerebbe che importanti consulenze sarebbero state affidate da parte del Dap (suppongo anche in termini di controllo del complesso iter progettuale) "in materia di progettazione e realizzazione di interventi diretti alla revisione dell’esistente complesso immobiliare di edilizia penitenziaria conformemente ai risultati emersi dagli Stati generali". L’Ordine avrebbe dovuto prestare più attenzione per evitare così duri contrasti tra colleghi architetti. Sarebbe cosa buona e giusta da parte di chi vuole mantenere, appunto, ordine. Vano è il sperarlo, perché nò, magari anche dallo Stato? In chiusura, pur ricordando le ottime buone intenzioni contenute nelle tematiche degli Stati generali voluti dall’On. Ministro Andrea Orlando e in particolare nei contenuti del Tavolo n.1, c’è stato anche l’intervento della politica, nella figura del citato Sottosegretario On. Ferri, che ha dovuto amaramente prendere atto che nel caso del progetto del carcere di Nola è venuto a mancare il rispetto delle linee guida e degli indirizzi fondamentali pronunciati più volte proprio dalla stessa politica e da essa fortemente attesi nella loro realizzazione. Dopo il Pathos dell’aspro confronto andato in scena, ora è tempo che intervenga il Logos, la ragione. Altrimenti, al di là delle parole e delle diverse interpretazioni, più di tutti soffriranno i milleduecento detenuti ammucchiati negli spazi ristretti previsti dal "nuovo" carcere di Nola. Soffrirà la Polizia Penitenziaria e il personale tutto che con essi dovrà lavorare. Soffrirà un territorio fin troppo caricato da un’insopportabile concentrazione di popolazione detenuta. Forse una riflessione, anche se tardiva, sarebbe opportuna per evitare il proseguire in questi malintesi, magari operando con maggiore attenzione nel "merito". Parola troppo abusata e poco praticata. *Architetto, presidente Commissione Nazionale Diritti delle persone private della Libertà - Lidu Analisi del progetto del Dap per il nuovo istituto penitenziario di Nola di Cesare Burdese* Ristretti Orizzonti, 25 marzo 2017 Illustrata nella Tavola Rotonda Spazio della Pena e Architettura Carceraria - Il caso Nola dopo gli Stati generali dell’esecuzione penale, tenutasi lo scorso 22 marzo presso la sede dell’Università degli Studi Roma Tre Il 29 marzo p.v. scadono i termini per la presentazione delle candidature nell’ambito della gara per l’Affidamento dei servizi di architettura e ingegneria per la redazione della progettazione di fattibilità tecnica ed economica - progettazione definitiva - progettazione esecutiva e coordinamento della sicurezza in fase di progettazione delle opere per la costruzione del nuovo Istituto Penitenziario da realizzare a Nola (Na), a trattamento avanzato per 1.200 posti e per un costo complessivo di 120 milioni di euro, dei quali € 5.747.831,24 per prestazioni tecnico/progettuali. Dopo aver attentamente esaminato lo studio di fattibilità messo a gara (predisposto dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, costituito da relazione illustrativa e elaborati grafici architettonici) e dopo molta riflessione, ritengo di poter confermare le osservazioni critiche che già ho espresso, in qualità di membro componente del Tavolo n.1 Spazio della pena: Architettura e Carcere degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, nella riunione del 3 dicembre 2015 presso la sede del Dap a Roma. In quella circostanza fu infatti, in anteprima, presentato dai tecnici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che lo avevano elaborato, uno schema del progetto del nuovo Carcere di Nola. Lo stesso schema tipologico viene sostanzialmente riproposto nello studio di fattibilità della gara in questione. Poiché mi occupo di architettura penitenziaria, non solo come progettista, ma anche come ricercatore ed essendo stato reiteratamente invitato dal Ministero della Giustizia ad esprimermi sulla materia, ritengo spetti a me evidenziare le inversioni di tendenza che si stanno producendo nel delicato settore. Venendo allo schema progettuale dello studio di fattibilità in questione, ritengo esso rappresenti: · un "crimine architettonico" perché disumano; · una proposta calata dall’alto, in un vuoto di tradizione di studi e sperimentazione; · un regresso sul piano del trattamento penitenziario. Quello schema e la procedura di realizzare delle nuove opere, con esso instaurata, non sembrano appartenere ad una repubblica democratica faticosamente in cammino verso un aumento delle garanzie civili, una riduzione dell’intrusione del potere pubblico sulla persona, un’estensione della fiducia. Appaiono bensì appartenere ad uno Stato prevaricatore e troppo fiducioso che nessuno oserà nemmeno sollevare delle critiche nel rendere pubblico uno schema tipologico così assurdo. Nella fattispecie di Nola, i responsabili politici hanno monopolizzato il campo di azione, dipingendosi come risolutori virtuosi di errori provocati da altri in una logica di "riduzione del danno" attraverso soluzioni localizzative e progettuali che non si possono discutere, e dando credito all’improvvisazione ed all’inesperienza di esperti nominati in deroga a qualsiasi norma deontologica e giuridica e pronunciamenti della magistratura. Limito le mie osservazioni critiche al solo impianto architettonico, riportando testualmente quanto emerso dallo studio sulle tendenze evolutive dell’architettura penitenziaria nel mondo condotto dall’Unsdry nel 1975 - Manager ricercatore Giuseppe Di Gennaro, direttore Tecnico Sergio Lenci. (…) per quanto riguarda lo schema generale dell’impianto architettonico di un carcere, è assodato che ogni qualvolta esso segua una "linea radiale o a palo telegrafico, il suo requisito principale è riferito alla sorveglianza ed alla sicurezza". Ciò implica il fatto che più l’impianto si basa sul perfezionamento delle brevi distanze tra le sue differenti parti, e più la forma del blocco cellulare è identificabile come la parte principale dell’istituzione, più quest’ultima risponde alle esigenze di sicurezza; cosa che comporta sovente ulteriori inviluppi del trattamento in ragione della carenza di locali adeguati. Al contrario, ogni qualvolta l’impianto prende una forma più complessa (per esempio si sviluppa intorno una parte centrale o uno spazio centrale aperto, il cui modello non può essere semplificato in un piano lineare o radiale) ciò rappresenta una ricerca più avanzata di qualità dell’ambiente architettonico per i detenuti e le loro relazioni umane. In sintesi, più l’impianto è suddiviso in parti ridotte, pressoché separate ed autonome, più ciascuna parte è circondata da spazi aperti - con la presenza nel limite del possibile di verde - meno i detenuti restano chiusi nella loro cella senza possibilità di movimento: di conseguenza, nuove forme di trattamento basato su di un sistema di interazioni umane con la comunità possono prendere il posto in una istituzione composta di unità flessibili al di là del blocco cellulare tradizionale, semplice e isolato. Queste osservazioni rivelano che ciò che è valido per l’architettura moderna in generale é altrettanto vero per l’architettura penitenziaria: la ricerca per rispondere alla complessità dei bisogni sociali ed individuali della vita di oggi, rende ancora più complessa l’organizzazione delle costruzioni di cui lo spazio ed il volume possono essere raramente ridotti in schemi semplici ed elementari, come lo schema in discussione invece palesemente ci propone. *Architetto, già componente del Tavolo n.1 Spazio della pena: Architettura e Carcere degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Roma: detenuto di 30 anni si impicca nel carcere di Regina Coeli Il Messaggero, 25 marzo 2017 Non c’è pace nel carcere romano di Regina Coeli. Un detenuto bosniaco di 30 anni, in carcere per tentato omicidio, si è impiccato alla grata del bagno. Il detenuto era ubicato al terzo piano seconda sezione, stessa sezione dove morì un altro detenuto di 22 anni. Un’area che contiene 170 detenuti con un solo agente a vigilare quattro piani. Lo rende noto la Fns Cisl Lazio. Solo ieri un altro detenuto si era arrampicato sul tetto del carcere minacciando di buttarsi per protestare contro la sentenza di condanna a 10 anni per violenza sessuale. L’ultimo caso di un suicidio risale al 24 febbraio: un detenuto italiano di 22 anni si è impiccato utilizzando un lenzuolo legato alla grata del bagno. Il tutto è accaduto alle 23 nella seconda sezione terzo piano. Il detenuto era evaso per ben tre volte dalla Rems di Ceccano. Nel 2015 sono stati 43 i suicidi nei carceri italiani e 123 i morti. Nel 2016 sono stati 39 i suicidi e 120 i morti. Mentre nel 2017, 13 i suicidi e 19 i morti. Solo nel Lazio nel 2017 sono tre i morti (Cassino 7/1/2016 malattia) - Regina Coeli (23/2/2017 suicidio ) - Velletri (7/1/2017 suicidio). Pisa: Casa per detenuti, via al cantiere a Sant’Andrea a Lama Il Tirreno, 25 marzo 2017 Partiti i lavori alla canonica. Obiettivo: aprire entro fine 2017 Domani l’arcivescovo presenta il progetto al teatro di Calci. Il cantiere è già in fase di allestimento, stanno per cominciare i lavori di ristrutturazione della casa canonica di Sant’Andrea a Lama, l’immobile di Calci che ospiterà "Misericordia Tua", la comunità per "il reinserimento umano e spirituale" di alcuni detenuti ammessi alle misure alternative al carcere. Una casa di accoglienza per detenuti ed ex detenuti voluta dalla Chiesa pisana come un segno per celebrare il giubileo della da Papa Francesco che prende il nome dal motto episcopale di monsignor Alessandro Plotti, arcivescovo emerito di Pisa, scomparso il 19 ottobre 2015, per 22 anni guida pastorale della comunità cristiana pisana e sempre particolarmente attento e sensibile al mondo carcerario e a chi vive una condizione di detenzione. Un progetto però che fin dalla sua presentazione ha suscitato le polemiche di un comitato di abitanti e di cittadini calcesani preoccupati per la sicurezza e l’incolumità della frazione e dei residenti del territorio circostante ma anche per l’impatto che la presenza di una casa per detenuti avrebbe potuto avere sull’immagine di un territorio popolato da agriturismi e piccole strutture ricettive legate al turismo. Sebbene nel borgo ci vivano 21 persone, il gruppo a settembre dell’anno scorso era riuscito a raccogliere 150 firme per una petizione che ne chiedeva la cancellazione. Ma la Curia alla fine è andata avanti, forte anche del via libera della maggioranza in con sigillo comunale. Così domani, dalle 9.30, il progetto definitivo sarà presentato pubblicamente alla comunità calcesana nel corso di un incontro pubblico, ospitato nei locali del cinema teatro "Valgraziosa", a fianco della Pieve dei Santi Giovanni ed Ermolao. Interverranno l’arcivescovo di Pisa Giovanni Paolo Benotto, il direttore del carcere "Don Bosco" Fabio Prestopino, il magistrato di sorveglianza Rinaldo Merani, il sindaco di Calci Massimiliano Ghimenti. il direttore della Caritas diocesana don Emanuele Morelli e l’architetto Daniele Rossetti, progettista e direttore dei lavori. E ci sarà ovviamente don Antonio Cecconi, il sacerdote calcesano da generazioni che si è speso molto, anche organizzando assemblee pubbliche che coinvolgessero i cittadini, per fugare paure e preoccupazioni dei residenti. Su "Misericordia Tua" l’Arcidiocesi è pronta ad investire 100mila euro. Da tempo l’obiettivo dell’unità pastorale della Valgraziosa è quello di riutilizzare le canoniche delle parrocchie, ormai abbandonate, per fini sociali. Sedici posti letto, laboratori e un’attività agricola per fornire a chi è stato o è ancora in carcere ma vicino alla liberazione gli strumenti per un reinserimento sociale. Obiettivo: aprire entro fine 2017. I motivi del no erano semplici: nessuna garanzia sulla sicurezza soprattutto legata al numero di detenuti che avrebbero abitato la casa, strada di accesso troppo stretta, servizi che verrebbero messi a dura prova, una probabile svalutazione del valore delle case e un danno agli agriturismi. Foggia: detenuti impegnati in lavori di pubblica utilità "la strada giusta dopo il carcere" foggiatoday.it, 25 marzo 2017 La Giunta comunale ha recepito il progetto della Caritas Diocesana. Per un anno 15 detenuti e degli ex detenuti ammessi all’esecuzione penale esterna saranno impegnati in lavori di pubblica utilità. La Giunta comunale, su proposta dell’assessore comunale all’Ambiente, Francesco Morese, ha recepito il progetto presentato dalla Caritas Diocesana Foggia-Bovino denominato "La strada giusta dopo il carcere". Il progetto si propone l’obiettivo di mettere in campo ogni azione utile a realizzare un reinserimento sociale dei detenuti e degli ex detenuti ammessi all’esecuzione penale esterna. Spiega il direttore della Caritas di Foggia, Don Francesco Catalano: "Un percorso decisivo, la cui attuazione è maturata anche in ragione delle numerose richieste avanzate al Centro d’Ascolto della Caritas da molti ex detenuti. Siamo grati all’Amministrazione comunale per la sensibilità dimostrata nell’accogliere questo progetto, definendo il perimetro della sua applicazione ed aiutandoci a centrare l’obiettivo della ricostruzione di un ruolo sociale e civile per questi nostri concittadini. Un traguardo che è insieme un atto di solidarietà ed un modo per trasformare il reinserimento sociale di detenuti ed ex detenuti in uno strumento da mettere al servizio della comunità". La progettualità proposta dalla Caritas e recepita dall’Amministrazione comunale non comporta oneri per il Comune di Foggia. Essa prevede per gli ex detenuti ed i detenuti ammessi all’esecuzione penale esterna lo svolgimento di attività di pubblica utilità quali il ripristino di parti di arredo urbano in stato di degrado; la cura e la pulizia di aree verdi pubbliche; l’imbiancatura di muri e di edifici e strutture pubbliche; la realizzazione di interventi di pubblica manutenzione. Il progetto avrà una durata di 12 mesi e coinvolgerà un massimo di 15 soggetti. Commenta il sindaco di Foggia, Franco Landella: "Abbiamo accolto con grande favore la proposta formulata dalla Caritas Diocesana, che ringrazio per l’instancabile lavoro svolto quotidianamente accanto agli ultimi ed a chi è in difficoltà. La sua proposta, peraltro, si pone esattamente nel solco di altre iniziative attivate dal Comune di Foggia su questo delicato ed importante terreno, come quella che vede l’Amministrazione comunale collaborare con l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Foggia. La riabilitazione agli occhi della comunità di coloro i quali hanno avuto problemi con la giustizia, significa un principio virtuoso e di giustizia, capace di generare effetti positivi". Aggiunge l’assessore comunale all’Ambiente, Francesco Morese: "Il ‘riscatto socialè è fattore fondamentale per sconfiggere i pregiudizi e sottrarre queste persone al rischio di un ritorno in quel cono d’ombra che li ha portati in carcere. È particolarmente importante, inoltre, che questo obiettivo sia raggiunto mettendo al servizio della città attività finalizzate alla tutela ed al recupero del nostro patrimonio pubblico". Lecce: diritti dei detenuti immigrati, Uil e Casa Circondariale firmano un protocollo leccenews24.it, 25 marzo 2017 Uil Lecce e Casa circondariale di Borgo San Nicola firmano una convenzione in favore dei detenuti immigrati. Salvatore Giannetto: "Un passo in avanti importante verso il miglioramento dei servizi per gli stranieri in stato di detenzione". Garantire assistenza sociale, legale e previdenziale ai detenuti immigrati. È questo l’obiettivo della convenzione siglata ieri mattina dal direttore della casa circondariale di Lecce Rita Russo e dal segretario generale della Uil di Lecce Salvatore Giannetto, all’interno dell’istituto penitenziario. Nasce, dunque, un protocollo d’intesa dettato dalla necessità - più volte rappresentata dalla Direzione del carcere di Lecce - di far fronte alle esigenze dei detenuti stranieri privi di riferimenti sul territorio e alle difficoltà legate all’attivazione di procedure di assistenza amministrativa in favore di persone irregolari o senza permessi di soggiorno detenute nella struttura leccese. "Il compito primario della Uil - ha spiegato il segretario provinciale Giannetto - sarà quello di far conoscere ai detenuti immigrati i loro diritti per aiutarli a scegliere la prestazione sociale prevista per il loro status giuridico". "Quindi - prosegue il segretario - metteremo a loro disposizione tutti i servizi erogati dal sindacato, in particolare per quanto concerne l’assistenza fiscale, previdenziale, legale e formativa, così da aiutarli, ad esempio, nell’elaborazione dei modelli Isee, dichiarazione 730 e Modelli Unici, nelle pratiche di ricongiungimento, accesso al Red (reddito di dignità), rinnovo dei documenti di identità e permessi di soggiorno". "Offriremo inoltre consulenza per il dissequestro di prodotti e per le locazioni. Tutti i servizi, naturalmente, saranno erogati in forma gratuita". "Ringrazio la direttrice Rita Russo - ha concluso Giannetto - per la sensibilità dimostrata e la piena collaborazione all’iniziativa, che ci consente di realizzare anche nell’istituto penitenziario quella parte della nostra mission sindacale di ascoltare il disagio sociale e di fornire riscontri concreti a tali situazioni. Ringrazio anche le categorie Uil-Pa (Pubblica Amministrazione) e Uil Penitenziari che hanno supportato questo importante progetto, attraverso il quale potremo contribuire alla preziosa opera di tutti gli operatori penitenziari volta al reinserimento sociale dei detenuti". Con la sigla del protocollo, peraltro, il sindacato s’impegna a rispettare il regolamento penitenziario e ad osservare le norme vigenti in materia di privacy. Ciò al fine di garantire una corretta erogazione dei servizi previsti dalla convenzione, che ha la durata di un anno e potrà essere rinnovata al momento della scadenza. Soddisfatta anche il direttore del penitenziario leccese, Rita Russo: "Faremo accedere all’interno dell’istituto, una volta a settimana, i rappresentanti del sindacato Uil che ringrazio fin da subito per la disponibilità dimostrata", ha dichiarato. Catania: detenuti e giovani migranti al servizio della comunità di Giorgia Lodato meridionews.it, 25 marzo 2017 "L’agricoltura li spinge al lavoro e responsabilità". Per la Giornata mondiale del servizio sociale alcune realtà del territorio hanno raccontato le loro esperienze al dipartimento di Scienze politiche dell’università di Catania. Attività che spronano soggetti in difficoltà a riscattarsi tramite lavori utili per la società, l’ambiente, il territorio e i beni culturali. Promuovere la comunità e consentirne lo sviluppo vuol dire non solo formare i giovani ed evitare la fuga di cervelli, ma lavorare sul reinserimento di migranti, detenuti, minorenni penalizzati. Anche in Sicilia, dove l’agricoltura apre diverse porte a questi soggetti, offrendo loro un’opportunità di riscatto personale e sociale. Esemplare in questo senso il progetto Equilibri naturali che si è svolto nel 2014 nell’area marina protetta di Siracusa, la prima nata senza barriere per i disabili e che ha visto collaborare diverse categorie. Lo racconta a MeridioNews Maria Concetta Storaci, segretaria del consiglio nazionale Ordine assistenti sociali, durante la giornata mondiale del servizio sociale. "Tutte le azioni volte all’inclusione prevedono interventi per il diritto di cittadinanza dell’altro, spesso finanziati dalla comunità europea e dai ministeri dell’Ambiente e della Giustizia. I detenuti restituiscono qualcosa alla società durante il percorso di pena che conducono, mentre i disabili vengono inclusi a tutti gli effetti nella comunità", spiega Storaci. Sono stati proprio i detenuti, infatti, a costruire nella falegnameria allestita all’interno del carcere di Cavadonna percorsi subacquei e terrestri, steccati, accessi e scivoli per i portatori di handicap, oltre alla ludoteca ambientale collocata nel penitenziario. "Non è difficile farli entrare nelle aziende e nel mondo del lavoro - continua Storaci - perché questo sistema restituisce molto all’ente ospitante e agli operatori sociali". Nessuna resistenza o diffidenza dunque, piuttosto una sfida colta non solo dai direttori delle carceri, ma anche dai detenuti stessi, per cui il permesso per uscire a lavorare e il piccolo budget guadagnato portano grande emozione e senso di responsabilità. "È un trend crescente, iniziato timidamente nel 2014 con la nascita dell’Istituto della messa alla prova, che oggi sta coinvolgendo sempre più soggetti", spiega Letizia Bellelli, direttrice di Uepe Catania, l’ufficio per l’esecuzione penale esterna che si occupa di persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria di natura penale in fase esecutiva o processuale. "In entrambe le fasi - chiarisce - piuttosto che scontare una pena covando rabbia all’interno di un istituto penitenziario queste persone possono svolgere lavori utili per la comunità, l’ambiente, il territorio e i beni culturali". Attività che possono restituire alla società un impegno reale e svolgere una funzione educativa per chi le porta avanti. Come Taraq, Tess e i tanti giovani migranti che vengono dall’Africa, dal Bangladesh, dalla Guinea e scendono subito in campo. Nel vero senso della parola. Sono tanti i progetti legati all’agricoltura promossi dalla cooperativa Il Nodo, di cui è presidente Fabrizio Sigona, che da più di dieci anni si occupa di accogliere piccoli gruppi in centri collettivi o in appartamenti sparsi tra Catania e Acireale. "Sono ragazzi, in molti casi minori stranieri non accompagnati, che hanno fatto un percorso e hanno bisogno di risposte immediate, che non si danno restando fermi senza far nulla, ma lavorando sull’integrazione socio lavorativa in tempi brevi", racconta Sigona. Due di loro sono impegnati nel progetto Il verde in comune e affiancano il giardiniere nei lavori di manutenzione della villa Belvedere di Acireale. Sotto gli occhi degli abitanti del posto, tra cui c’è anche chi non gradisce l’iniziativa. Altri progetti puntano all’inserimento dei ragazzi in aziende agricole. Molti, infatti, possiedono conoscenze sull’argomento, che approfondiscono durante le loro esperienze. Come il corso per tecnici degli orti urbani organizzato in collaborazione con il dipartimento di Agraria dell’università di Catania, a cui hanno partecipato migranti e giovani disoccupati italiani che hanno imparato come si prepara il compost, come si potano e curano le piante. "L’agricoltura rappresenta un aspetto importante su cui puntare - sottolinea Sigona - Stiamo costruendo una cooperativa sociale per creare altri orti urbani, cento su Catania e cento su Acireale, da mettere a disposizione dei giovani italiani e stranieri". Del consorzio Il Nodo fa parte la cooperativa Futura, che aiuta i minori a rischio a integrarsi nel tessuto sociale, promuovendo lo scambio culturale attraverso la lingua, il cibo e le tradizioni. "Da noi si sentono a casa - dice la presidente Liliana Di Maria - e sono felici perché invitano gli amici, partecipano a laboratori e spettacoli teatrali, e hanno l’opportunità di uscire anche fuori dalla Sicilia". Avezzano (Aq): presentato progetto di recupero per 50 detenuti cityrumors.it, 25 marzo 2017 Voci dal carcere che riannodano i fili di una memoria dolorosa e vite che rivisitano il proprio passato, alla ricerca del recupero di sé, tramite un progetto della Asl che coinvolgerà 50 detenuti. L’iniziativa è stata presentata questa mattina, nel carcere di Avezzano, ed è stata illustrata agli stessi ospiti della casa circondariale dai responsabili del centro di salute mentale della Asl e dalla direzione del penitenziario. In un’atmosfera poco formale, i detenuti hanno dialogato con i curatori del progetto che si articola, sostanzialmente, in 3 incontri. Durante questi confronti, tra educatori ed esperti da una parte e ospiti del carcere dall’altra, prendendo spunto da concetti mirati di filosofia orientale, buddismo e riflessioni su destino e felicità - verrà offerto ai detenuti la possibilità di fare un percorso interiore che avrà come filo conduttore la riconciliazione con se stessi e gli altri e il perdono. Non a caso il progetto, elaborato dal centro salute mentale della Asl e sostenuto appieno dalla direzione del carcere, ha come titolo "Passi verso la riconciliazione". L’iniziativa, come movente storico, si ispira a genocidi di Ruanda e Sud Africa dei primi anni 90, che condusse in alcuni casi alla riconciliazione tra vittime e carnefici. Il progetto Asl intende cogliere proprio questo motivo ispiratore, la riconciliazione con sé e gli altri, e utilizzarlo come strumento per tentare il recupero di chi sconta debiti con la giustizia. Tra gli altri, alla presentazione del progetto, erano presenti la psicoterapeuta della Asl, Stefania Ricciardi, coordinatrice dell’iniziativa, il direttore dell’istituto di pena, Anna Angeletti, i direttori del Centro salute mentale di Avezzano, Angelo Gallese e del Sert, Adelmo Di Salvatore, operatori dell’area educativa del carcere e il Centro servizi volontariato, che ha contribuito alla realizzazione del progetto, rappresentato dal presidente Gino Milano. Il primo dei 3 incontri con i detenuti si terrà 31 marzo prossimo su "Siamo vittime del nostro destino?", che avrà come relatore il teologo-biblista Giuseppe Florio. Gli altri 2 confronti riguarderanno la responsabilità verso se stessi e gli altri, tenuto dal mediatore di conflitti, Stefano Cera (13 aprile) e "La felicità nonostante tutto", curato dal prof. Franco Picini, responsabile sezione buddista del Lazio (21 aprile). A chiusura del ciclo di incontri vi sarà, il 12 maggio prossimo, una seduta finale con tutti i relatori e gli stessi ospiti del carcere non solo per tirare le conclusioni dell’iter interiore ma soprattutto nell’ottica di valorizzare al meglio l’esperienza nel proseguimento della permanenza all’interno della casa circondariale. "Il progetto", dichiara la dr.ssa Ricciardi, "ha una precisa valenza soprattutto in un istituto come quello di Avezzano dove gli ospiti, dovendo scontare pene non eccessivamente lunghe, hanno margini per poter praticare un percorso di revisione critica, su di sé e gli altri, per capire cosa si è spezzato in loro e per cercare di ricomporre i sogni di vita". Milano: religioni in carcere contro i "cattivi maestri" del fondamentalismo di Alberto Giannoni Il Giornale, 25 marzo 2017 Partirà nei prossimi mesi, promosso da Università degli Studi, ministero della Giustizia, Arcidiocesi, Coreis (la Comunità religiosa islamica dei musulmani italiani di via Meda), Unione buddista, Biblioteca Ambrosiana, Caritas Ambrosiana e Comunità ebraica. Ed era stata proprio la Comunità ebraica di Milano a proporre queste lezioni di "pluralismo religioso", come antidoto a un pericolo che purtroppo si è rivelato molto attuale: le infiltrazioni nelle carceri di "cattivi maestri" pronti a reclutare soggetti deboli, violenti o disperati. Il progetto, rivolto al personale penitenziario e ai detenuti di nove istituti di pena della regione, si chiamerà "Conoscere e gestire il pluralismo religioso negli istituti di pena lombardi". Obiettivi dichiarati: contrastare l’analfabetismo religioso, prevenire la creazione di "stereotipi dell’altro", favorire il dialogo fra diverse culture e religioni, sostenere le figure più vicine al detenuto. Fra gli artefici del progetto Davide Romano, assessore della Comunità ebraica, che ha lanciato l’idea di estendere i corsi ai detenuti. E lo ha fatto nel corso del recente incontro nella sinagoga centrale di via Guastalla fra l’arcivescovo Angelo Scola, il rabbino Alfonso Arbib e i vertici della comunità ebraica, in occasione della giornata per lo sviluppo del dialogo fra cristiani ed ebrei: "Da anni - spiega ora Romano - sappiamo quanto i terroristi islamici siano spesso piccoli delinquenti non religiosi che si radicalizzano in carcere". "Per questo - prosegue - ho fortemente voluto questo progetto: per iniziare davvero a combattere il terrorismo alla radice, proprio là dove si costruisce il jihadista. Un progetto nato per la Lombardia, che spero possa al più presto essere esportato nel resto d’Italia. L’attentato di Londra ne conferma l’urgenza". Ferrara: i detenuti incontrano i figli sotto l’occhio dei Garanti estense.com, 25 marzo 2017 Marighelli e Garavini in carcere a Ferrara per "I sabati delle famiglie". Il garante delle persone private della libertà personale, Marcello Marighelli, e la garante per l’infanzia e l’adolescenza, Clede Maria Garavini, parteciperanno oggi, sabato 25 marzo, alla Casa circondariale di Ferrara a "I sabati delle famiglie", due ore speciali di colloquio che padri e figli possono trascorrere assieme al resto della loro famiglia. Il programma prevede laboratori e momenti di gioco. Uno spazio che fa parte del progetto "Comunque papà", iniziativa promossa per sollecitare una maggiore attenzione ai figli da parte delle persone detenute, sostenere i bambini più piccoli in un’esperienza traumatica come la carcerazione di un genitore, rendere più sopportabili le difficoltà dovute alla lontananza e superare il problema dei colloqui senza alcuna intimità. "Il rapporto con la famiglia e soprattutto con i figli - spiega Marighelli - è un tema molto sensibile per i padri detenuti, tanto che è uno degli ambiti sul quale arrivano il maggior numero di segnalazioni e un problema evidenziato spesso anche nei colloqui. L’origine del mio impegno nel progetto - continua il garante -, nato quando ero garante dei detenuti del Comune di Ferrara e che intendo promuovere e diffondere anche adesso in questo mio nuovo ruolo di garante regionale, sta quindi nell’aver accolto le esigenze dei detenuti". I bambini, conclude, "sono il motore di questi incontri: la mediazione passa attraverso di loro, che interagiscono con i loro pari e stimolano gli adulti a partecipare". Ha manifestato grande interesse a conoscere questa esperienza anche la garante regionale per l’infanzia e l’adolescenza, Clede Maria Garavini. "Questi momenti, espressione di protezione delle relazioni figli-genitori hanno un alto valore e rivestono un significato particolare nella crescita dei bambini, se condotti con appropriatezza". L’attenzione per la continuità affettiva, conclude Garavini, "si manifesta anche attraverso la cura degli spazi in cui i genitori incontrano i figli". Paola (Cs): cultura in carcere, terzo detenuto laureato in un anno all’Unical unical.it, 25 marzo 2017 Il rettore Crisci si congratula e illustra l’idea del Polo universitario penitenziario. "Nella giornata di oggi un detenuto del carcere di Paola ha conseguito la laurea in Scienze dell’educazione. A lui porgo le mie congratulazioni e colgo questa occasione per ricordare che il nostro Ateneo è particolarmente sensibile ai temi sociali, convinti che la cultura rappresenti, per i detenuti, una grande opportunità di riscatto e di acquisizione di responsabilità e di autonomia". Lo dichiara il rettore dell’Unical Gino M. Crisci a margine della seduta di laurea, che si è celebrata questa mattina nell’aula Fac 2. "Proprio per garantire, ai soggetti in stato di detenzione, l’effettiva fruibilità del diritto allo studio universitario - spiega il rettore - ho voluto costituire, qualche mese fa, un Comitato scientifico che si occupi della costituzione di un Polo universitario penitenziario, che accompagni i detenuti che intendono seguire i nostri corsi di laurea, nell’iter che li porta dall’iscrizione fino alla laurea. Tutto, naturalmente, in accordo con i direttori degli istituti penitenziari del sistema carcerario calabrese e lucano. Fanno parte del Comitato i professori Pietro Fantozzi, che è anche mio delegato in materia, Ciro Tarantino, Giuliana Mocchi e Franca Garreffa. Grazie al loro lavoro e a quello dei tanti volontari che ogni giorno si spendono per questa causa, già nello scorso mese di giugno abbiamo avuto i primi due detenuti laureati, entrambi reclusi presso la Casa di reclusione di Rossano". "Oggi, invece, - continua Crisci - un altro studente ha potuto raggiungere questo importante obiettivo, ribaltando quella che è l’idea di base del percorso universitario tradizionale: non è l’allievo che si presenta nel luogo e nei tempi definiti dall’istituzione universitaria, bensì è l’Università che si rende disponibile a entrare in contatto con lo studente nei tempi e luoghi stabiliti dall’Amministrazione penitenziaria. Un obiettivo non facile da raggiungere ma di alta funzione sociale, per il quale il professor Fantozzi si sta impegnando con grande determinazione, tanto che ha intenzione, nei prossimi mesi, di visitare tutte le carceri calabresi per promuovere la rete di collaborazione necessaria a far nascere il Polo universitario penitenziario dell’Università della Calabria". Brindisi: teatro in carcere. "Oltre i confini", lunedì 27 esibizione di tango dei detenuti brundisium.net, 25 marzo 2017 La AlphaZTL Compagnia d’Arte Dinamica diretta dal coreografo Vito Alfarano propone per la IV giornata nazionale di teatro in carcere una esibizione conclusiva del laboratorio "Oltre i confini", attività socio educativa a favore della popolazione detenuta, questa volta dedicato al Tango. Lunedi 27 marzo alle ore 15 all’interno della Casa Circondariale di Brindisi i detenuti si esibiranno con le coreografie create per il video danza Intangout di fronte alla Direzione della Casa Circondariale di Brindisi, il Comandante, Commissario, educatori, magistrati, psicologi, Sindaco della Città di Brindisi, Assessore alla Cultura, Assessore al Teatro, Consigliere delegato alla cultura, direttore del Teatro Verdi di Brindisi e speaker dell’emittente radiofonica Ciccio Riccio. Il laboratorio Oltre i confini ha l’obiettivo di fornire ai detenuti partecipanti gli strumenti di socializzazione per una nuova riscoperta del sé, sia come singolo individuo che in relazione con gli altri, attraverso l’arte seguendo uno specifico percorso formativo. Nel biennio 2016/2017 i detenuti hanno studiato la tecnica del Tango Argentino con la Maestra Ilaria Caravaglio e saranno i protagonisti in assoluto del video arte/danza dal titolo Intangout ispirato, appunto, al Tango e alle sue origini e che verrà distribuito su campo internazionale. Il Tango, ballo ibrido di gente ibrida, nasce come ballo introverso ballato tra uomini soli e poi danzato nei bassifondi di Buenos Aires. Guadagna i salotti europei solo ai primi del Novecento, in forme, però, più eleganti e stilizzate. Intangout racconterà del tango attraverso il detenuto e del detenuto attraverso il tango con un parallelismo continuo. Si parte dalle origini del Tango quando si ballava tra uomini mettendo in luce le similitudini che uniscono il Tango alla condizione di vita di un detenuto, alla sua vita in carcere, nella sezione maschile, proiettato "sentimentalmente" fuori che per necessità balla con un altro uomo. I detenuti, che durante il percorso hanno studiato anche con il campione mondiale di Tango Argentino Cristhian Sosa, saranno anche ospiti speciali al prossimo Campionato Italiano di Tango Argento che si terrà a Brindisi l’1 maggio al Teatro Verdi dalle ore 19, danzando di fronte ad una platea piena di spettatori e ad una giura internazionale di altissimo spessore. Intangout è una produzione AlphaZTL con le coreografie di Vito Alfarano e Ilaria Caravaglio, la regia di Vito Alfarano e la troupe video diretta da Dario Franciosa. Torino: mostra fotografica "Cose recluse" e quotidianità dietro le sbarre aletheiaonline.it, 25 marzo 2017 S’intitola "Cose recluse" ed è incentrata sulla quotidianità delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale la mostra fotografica che s’inaugura lunedì 3 aprile alle 17 all’Urp del Consiglio regionale di via Arsenale 14, a Torino. L’esposizione, promossa dall’Ufficio del garante regionale dei detenuti, propone il reportage realizzato dal fotografo Daniele Robotti e dalla scrittrice Mariangela Ciceri all’interno della Casa di reclusione San Michele di Alessandria: un "viaggio" all’interno delle celle e degli spazi comuni per cogliere - attraverso l’immagini e parole - emozioni e stati d’animo, difficoltà, sogni e speranze in uno spazio abitativo che non si è scelto e all’interno del quale non è sempre facile trovare la propria dimensione. Con il fotografo intervengono, moderati dal garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, la direttrice della Casa di reclusione di Asti Elena Lombardi Vallauri, direttrice del San Michele quando venne realizzato il reportage, l’attuale direttore e il responsabile dell’area educativa del San Michele Domenico Arena e Piero Valentini, il garante per i detenuti e la consigliera per le Politiche sociali del Comune di Alessandria Davide Petrini e Rossella Procopio e le psicologhe dell’Associazione Alboran Elena Malaspina e Ivana Scotti, collaboratrici del progetto "Cose recluse". "Ignoto 1" in televisione. Il processo si fa così: parla solo l’accusa di Angela Azzaro Il Dubbio, 25 marzo 2017 "Ci avevano sempre insegnato che i giudici parlano con le sentenze, ma evidentemente, adesso, i giudici parlano anche con la televisione". Aldo Grasso, il principale critico e studioso italiano della televisione, conclude in questo modo, tra l’amaro e il sarcastico, il video editoriale del Corriere della sera dedicato a Ignoto 1, Yara dna di una indagine. È il documentario che sta andando in onda su Sky Atlantic e di cui, domenica sera, vedremo la terza delle quattro puntate. Il film, che è nato da una idea della Bbc ed è diretto Hugo Berkeley, ricostruisce con dovizia di particolari l’inchiesta sull’omicidio della piccola Yara Gambirasio, che ha portato a condannare in primo grado Massimo Giuseppe Bossetti. Cronaca - Yara Gambirasio sparisce da Brembate di Sopra il 26 novembre del 2010. Va in palestra e non torna più a casa. Per tre mesi tutto il paese e tutta l’Italia sperano di ritrovarla viva. Ma le speranze finiscono tragicamente il 26 febbraio: il corpo privo di vita della ragazzina viene ritrovato in un campo abbandonato di Chignolo d’Isola, a circa 12 chilometri dal luogo dove era sparita. Le indagini diranno che la tredicenne è morta lo stesso giorno in cui si sono perse le sue tracce. La desolazione è forte. Non si deve più cercare Yara, si deve cercare l’assassino. Gli inquirenti si concentrano in particolare sul materiale biologico, ritrovato sugli slip di Yara, che non appartiene alla ragazza. Si isola un dna che viene chiamato Ignoto 1, da cui il titolo del documentario. Per tre anni si cerca a chi appartenga finché, attraverso una mappatura effettivamente eccezionale di tutta la zona, non si arriva a identificare chi sarebbe l’ormai famoso Ignoto 1. Circo mediatico - La sparizione di Yara diventa subito un caso mediatico. La cronaca, per quanto drammatica, ha alcuni elementi che suscitano un forte interesse per la tragica vicenda in cui ha perso la vita una tredicenne e ha travolto la serenità della famiglia Gambirasio. Più che cronaca, sembra un romanzo su cui puntare l’attenzione voyeuristica degli italiani. Dopo tre anni viene individuato l’Ignoto 1, sarebbe Massimo Giuseppe Bossetti. Sarebbe lui l’assassino. Ma per lui il condizionale non è ammesso. Da subito, nei suoi confronti più che i dubbi valgono le certezze: la sentenza è già stata emessa, la condanna è certa. Bossetti è il colpevole. Lo ha stabilito non il tribunale, ma un processo mediatico diffuso, generalizzato, spietato. Primo grado - Il 1° luglio del 2016 Massimo Giuseppe Bossetti, muratore di Mapello, sposato con figli, viene condannato all’ergastolo per aver ucciso Yara Gambirasio. Contro di lui più che prove, una macchina mediatica che difficilmente una singola persona, peraltro non facoltosa, può vincere da solo. La cosiddetta prova regina è quella del dna, ma molti sono i dubbi a partire dal fatto che, pur avendo la difesa chiesto più volte di ripetere l’esame, questa verifica non è mai stata accolta. Bossetti continua a dichiararsi innocente, ma all’Appello che si terrà probabilmente questa primavera, ci arriva con le armi ancora una volta spuntate. Contro di lui non solo la procura, le televisioni, il giudizio popolare. Ora c’è anche un documentario che sposa completamente il punto di vista della procura che ha indagato. Stile epico - Le prime due puntate di Ignoto1 sono centrate sul ruolo degli investigatori. Letizia Ruggeri, la pm titolare del caso, che si vanta di aver parlato poco con i giornalisti, nel documentario è invece il filo conduttore che ricostruisce l’intera vicenda. La difesa non è entrata in scena e ancora non sappiamo se accadrà nei prossimi episodi. Solo chi indaga è protagonista. Ruggeri è filmata anche nei suoi momenti di vita personale, descritta non come un pubblico ufficiale ma come una eroina che si batte per la Verità. Il comandante dei Ris, Giampietro Lago, viene fotografato in posa, anche lui eroe in un mondo dove è netta la separazione tra buoni e cattivi. Aldo Grasso, tra le altre critiche, si chiede che senso abbia fare un documentario sul caso forse più raccontato da giornali e tv. La domanda è condivisibile, soprattutto se il documentario in questione non crea scarto rispetto al processo mediatico ma semmai ne accentua i difetti, rendendo la difesa di Bossetti sempre più difficile. Quasi impossibile. Una domanda - Ormai diversi studiosi sottolineano come il processo mediatico rischi di condizionare fortemente il processo vero e proprio. E se questo vale per la televisione, vale anche per un film compiuto come Ignoto 1: il racconto avvincente, l’utilizzo di una colonna sonora che emoziona, il montaggio come se fosse una fiction, sono elementi che influenzano fortemente lo spettatore. A tal punto che ci si chiede se sia lecito, mentre è in corso ancora il processo, mandare in onda un documentario così fortemente schierato con la tesi dell’accusa. Non si tratta di limitare la libertà di espressione, ma di interrogarsi sui limiti, ormai degenerati, del processo mediatico. È una domanda legittima per chi ha a cuore lo Stato di diritto. Ma anche per chi ha a cuore la memoria di Yara Gambirasio, che da tutta questa speculazione rischia di essere travolta o usata per fini che di nobile hanno poco. Forse è il caso di fermarsi, prima che sia troppo tardi. "L’incorreggibile", il film di Manuel Coser che racconta il carcere di Gabriella Brugnara Corriere del Trentino, 25 marzo 2017 Il regista Manuel Coser porta il suo lavoro al Diocesano. "Da tre anni sono impegnato in un progetto che si prefigge l’obiettivo di portare un elemento abbastanza insolito nel contesto carcerario: quello dell’ascolto, che non intende essere di carattere valutativo". È stata la lettura di Educazione di una canaglia di Edward Bunker ad accendere l’interesse di Manuel Coser, giovane film-maker trentino, attorno al mondo delle carceri. Partendo da questa premessa, venerdì 31 alle 17.30 al Museo diocesano tridentino, Coser racconterà Lo sguardo cinematografico per superare il giudizio nell’esperienza carceraria, incontro di approfondimento collegato alla mostra Fratelli e sorelle. Racconti dal carcere, visitabile al Diocesano fino al 2 maggio. "L’appuntamento - spiega Coser - sarà occasione per narrare l’origine della fascinazione che mi ha portato a ideare questo lavoro. Si tratta di una mediazione letteraria passata, appunto, attraverso un episodio narrato da Bunker. L’intenzione è di usare un metodo fortemente narrativo come il cinema-documentario, che negli ultimi anni ha preso molto piede anche in Italia". Quello di Coser, però, non sarà un documentario di osservazione, la telecamera avrà il ruolo di "strumento di relazione per me con il mio protagonista e il pubblico, e al protagonista servirà per rapportarsi con la realtà". Per il progetto originale (scrittura, trattamento e intenzione di regia) del documentario, Coser è già risultato vincitore del Premio Solinas - documentario per il cinema, riconoscimento, che in passato è stato attribuito a nomi quali Antonio Tabucchi, Francesca Archibugi e Paolo Sorrentino. Il protagonista de L’incorreggibile, questo il titolo del lavoro, è un detenuto comune eppure a suo modo speciale, che dopo 46 anni vissuti in carcere inizia a riassaporare la libertà grazie ad alcuni permessi. "Incorreggibile perché - riprende Coser - si tratta di una persona che non ha risolto il compromesso cui tutti siamo chiamati, quello di accettare le regole sociali, le indicazioni che arrivano dall’"autorità". Il protagonista non ha accettato tutto ciò, e ha compiuto delle azioni conseguenti, diventando un rapinatore seriale e portando a termine una serie di reati contro il patrimonio, mai a danno dei privati, ma contro istituti di credito. Ritorniamo così al discorso dell’ascolto: nessuna prospettiva valutativa in tutto questo, perché ciò avrebbe come conseguenza una chiusura di ruoli che non svilupperebbe alcuna occasione di nuova conoscenza per le due parti". Il soggetto non è d’invenzione: Coser ha davvero incontrato l’"incorreggibile" durante un laboratorio teatrale dentro un penitenziario piemontese. "Grazie alla presenza delle telecamere - riprende Coser - il protagonista, che non usciva da 12 anni, è riuscito a godere di alcuni permessi. Abbiamo iniziato con le riprese, ma il lavoro da compiere è ancora lungo, ci vorranno un paio d’anni prima che il documentario sia concluso. La camera sarà lo strumento per scoprire la realtà sia interna sia esterna al personaggio. Al Diocesano mostrerò alcuni spezzoni e materiali girati di recente e in passato, soprattutto per mettere in luce quanto sia mutato l’approccio tra il prima e l’adesso. Nei primi materiali non c’è potenza filmica, ma la potenza della realtà: si rimane sconvolti, ma ciò finisce solo per rafforzare errate posizioni pregresse". Banca dati del Dna. Italia ultima arrivata ma è all’avanguardia di Selene Pascarella Il Dubbio, 25 marzo 2017 I campi di applicazione sono molti, ma l’idea di un censimento genetico della popolazione suscita dubbi e paure nell’opinione pubblica. Ma la polizia rassicura sulla privacy. Mentre si sperimenta sul campo il valore aggiunto del database nell’investigazione sui reati seriali, Renato Biondo, direttore della Quarta divisione Banca dati del dna spiega perché siamo arrivati per ultimi ma siamo all’avanguardia per affidabilità scientifica e tutela della privacy. La banca dati del dna ha avuto due riscontri positivi. In termine tecnico si chiamano "match". Vuol dire che per la prima volta in Italia l’investigazione su un crimine partirà da una corrispondenza tra le tracce biologiche sulla scena del crimine e i profili depositati nel database che raccoglie il dna di tutte le persone accusate di reati contro la persona e contro il patrimonio. A rivelarlo è Renato Biondo, dirigente della Polizia di Stato a capo della divisione che ha iniziato a censire i profili nell’autunno del 2016 ed è diventata operativa il 19 gennaio di quest’anno. Nessun cold case sotto la lente d’ingrandimento dei media, i positivi riguardano reati predatori: in un caso i carabinieri sono riusciti a mettere in relazione due furti, nell’altro la polizia ha associato due rapine. "In una seconda fase - spiega Biondo - si vedrà se dalla traccia in comune si arriverà ad avere nomi e cognomi. Il vantaggio è che quando i profili genetici verranno associati a un soggetto quest’ultimo non risponderà solo di un reato ma di una serie. Molto spesso si pensa che la banca dati nasca per risolvere l’omicidio, in realtà la sua utilità si vede soprattutto nei reati seriali: furti, rapine, violenze, stupri. Reati di forte impatto sull’opinione pubblica, che aumentano il senso di insicurezza e, messi in relazione fra di loro, portano a pene più severe". I campi di applicazione della banca dati sono molti, ma l’idea di un censimento genetico della popolazione suscita dubbi e paure nell’opinione pubblica. La mente va a casi giudiziari come l’omicidio Gambirasio, anche se i profili raccolti durante quell’inchiesta non entreranno mai nel nostro database, a eccezione di quello di Bossetti. "Il prelievo del dna" spiega il dirigente della banca dati, "è previsto solo per coloro che sono stati sottoposti a un provvedimento dell’autorità giudiziaria". Fino a oggi sono stati fatti 46mila prelievi, condotti da 1400 uffici di polizia, in cui lavorano 6.700 operatori formati ad hoc. Ma quando un soggetto viene scagionato c’è la certezza di essere eliminati dal sistema? In Inghilterra, la prima in Europa a dotarsi del database nel 1995, due condannati sulla base di prelievi associati a vecchie accuse cadute e mai espunti si sono appellati alla Corte di Strasburgo. Una situazione che per Renato Biondo non è replicabile nel nostro sistema: "Da noi c’è subito un provvedimento dell’autorità giudiziaria che dispone il prelievo mentre in altri paesi, come l’Inghilterra, l’iniziativa è della polizia e i prelievi sono previsti per una categoria di reati molto più ampia della nostra". Restare nel database da innocenti non può accadere, dunque, ma come si può essere sicuri che i prelievi e le analisi avvengano nel rispetto della privacy? La risposta è nello standard del nostro database. "Per la prima volta in una banca dati della polizia è tutto anonimizzato. Si parte dall’associare il dna prelevato dalla saliva a un’identità accertata tramite impronte digitali. Il sistema assegna un codice univoco al dna e da quel momento in poi nessuno sa quale sia il nome del soggetto a cui è stato preso. Quando il dna identificato con il codice viene confrontato con quello preso sulla scena del crimine e c’è un match, solo chi ha fatto l’analisi della scena riceve il risultato e deve decodificarlo attraverso una procedura di autenticazione forte". Un procedimento che garantisce l’anonimato impedendo la proliferazione di duplicati. Nei paesi dove non è prevista identificazione tramite impronte digitali nel sistema possono esistere dna associati a numerose identità false. Resta la questione dell’errore umano, ma anche su questo i responsabili della banca dati offrono rassicurazioni: "I profili vengono creati con il sistema del "doppio cieco", l’operatore inserisce i valori, il computer li cancella e lui deve inserirli di nuovo e solo se il computer trova, punto per punto, una concordanza con il primo inserimento considera il dato corretto". Per quanto riguarda l’ipotesi dello scambio di provette, i soggetti vengono portati nella stanza dei prelievi uno alla volta e il sistema è pensato per impedire di trattare due casi contemporaneamente. "Bisogna terminare il processo in corso e chiuderlo con la stampa dell’etichetta per il campione. Questo preclude la possibilità di confondere un campione con un altro. Il prelievo fatto viene chiuso in buste di sicurezza anti estrazione. Se la busta viene aperta e il sigillo violato, il campione non è più valido. Il processo è accreditato Iso 17025 cioè valutato e certificato da un ente terzo riconosciuto a livello internazionale". A questo si aggiunge che, arrivando per ultima, l’Italia ha sposato lo standard scientifico più all’avanguardia (24 punti di dna a fronte di 9) ragion per cui, assicura Renato Biondo, "in un futuro dibattimento l’identificazione attraverso il dna è tecnicamente inattaccabile". In tempi di duelli peritali all’ultimo sangue sulla validità delle analisi genetiche è questo un elemento di rassicurazione non da poco. Ricordando che un match positivo è solo l’inizio di un percorso investigativo, non l’emissione di una condanna. Ventimiglia, denunciato per aver dato da mangiare ai migranti di Pietro Barabino La Repubblica, 25 marzo 2017 Il primo verbale di polizia dopo l’ordinanza del Sindaco Pd che vieta di distribuire alimenti. Sul verbale della Polizia di Stato, commissariato di Ventimiglia, si legge: "Indagato per aver somministrato senza autorizzazione cibo ai migranti". È datato 20 marzo ed è il primo provvedimento di cui si ha notizia, in seguito all’ordinanza dell’11 agosto 2016, con la quale il sindaco della città di confine con la Francia, Enrico Ioculano (Pd), vieta la distribuzione di alimenti ai migranti. I denunciati in realtà sarebbero stati tre, tutti di cittadinanza francese. "Siamo di fronte al capovolgimento di ogni logica. Utilizzare il diritto per colpire e punire episodi di solidarietà non può avere e trovare alcuna giustificazione", dice il presidente di Antigone Patrizio Gonnella. Uno dei fermati si è rifiutato di firmare la denuncia perché nessuno era in grado di tradurre il documento e i contenuti in francese. Dura condanna anche da parte di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International in Italia: "Questa sanzione non è che l’ennesimo segnale dell’avvio, anche in Italia, di un allarmante processo di criminalizzazione della solidarietà. Iniziano a moltiplicarsi i provvedimenti amministrativi e giudiziari, in varie parti d’Italia, ma soprattutto in Liguria, che rischiano di avere un effetto raggelante nei confronti di chi intende manifestare solidarietà nel modo più pratico e semplice possibile, con l’effetto paradossale di andare a colpire persone e associazioni che si assumono la responsabilità di colmare le gravi lacune lasciate dalle istituzioni". L’ordinanza del primo cittadino di Ventimiglia, Enrico Ioculano, era nata adducendo motivi di ordine igienico-sanitario. Lo stesso sindaco, in seguito, aveva spiegato che in molti volevano "farsi pubblicità" offrendo solidarietà di questo tipo ai migranti e quindi lo scopo del suo provvedimento era fermarne il "protagonismo", dal momento che associazioni autorizzate svolgevano già il servizio di distribuzione di alimenti. Ma "l’ordinanza è inattuale - commenta l’avvocato Alessandra Ballerini, che a Ventimiglia collabora con Caritas e Terres des Hommes - perché fa riferimento a ragioni igienico-sanitarie correlate alle ‘temperature medie della stagione estivà e si basa inoltre su una situazione diversa, ovvero quella di agosto, quando a Ventimiglia il centro predisposto dalla Prefettura e gestito dalla Croce Rossa Italiana era aperto a tutti, mentre oggi l’accesso è vincolato alla disponibilità, da parte dei migranti, di lasciarsi identificare e avviare la richiesta di asilo. L’articolo 2 della Costituzione italiana - aggiunge l’avvocato - impone il dovere della solidarietà, non capisco come si possa legittimamente vietare di dare cibo e acqua a chi si trova in condizioni di bisogno". Per questo, ogni giorno a Ventimiglia, nel tardo pomeriggio, dai paesi francesi della Val Roja, arriva un’automobile piena di panini, acqua e tè che vengono distribuiti a decine di migranti che vagano in attesa di provare a fare il grande salto verso la Francia: non facile, perché la frontiera di fatto è chiusa. Se gli arrivi sono costanti, il numero dei migranti che dormono in strada è aumentato nelle ultime settimane da quando, al Centro gestito dalla Croce Rossa al Parco Roja, è presente posto di polizia che identifica i migranti attraverso le impronte digitali e quindi li avvia al ricollocamento in altri centri in Italia. Per questo, dal momento che chi è arrivato fino a Ventimiglia con l’intenzione di passare la frontiera con la Francia non ha alcuna intenzione di essere trasferito in altre parti d’Italia, da settimane molti migranti si tengono lontani dal campo governativo. Per mangiare, chi dorme in strada può ora rivolgersi solamente presso la Caritas e il campo totalmente autofinanziato "Ventimiglia Con-Fine Solidale" presso la Chiesa di Sant’Antonio. Ma non essendo possibile sfamare tutti, sono gli stessi volontari "autorizzati" a dichiarare che il servizio svolto ogni sera dai cittadini francesi, che distribuiscono un centinaio di pasti in strada, si rivela essenziale. Nel verbale di identificazione, consegnato al cittadino francese, si legge che "verrà segnalato in stato di libertà alle competenze dell’autorità giudiziaria in quanto indagato per aver somministrato senza autorizzazione cibo ai migranti, art. 650 c.p. contravvenendo ad un’ordinanza del Sindaco di Ventimiglia". Torna attuale il commento del Vescovo di Ventimiglia Antonio Suetta, che all’entrata in vigore dell’ordinanza che avrebbe impedito la distribuzione diretta da parte di volontari e attivisti di cibo a acqua ai migranti, aveva dichiarato: "L’accanimento su chi aiuta è una forma moderna di martirio, ma non bisogna aver paura e bisogna andare avanti: la storia dell’umanità è fatta di persone che, pagando sulla propria pelle, hanno sfidato delle leggi ingiuste, e se quelle persone non avessero fatto questi passi coraggiosi noi oggi non potremmo godere di certe libertà che hanno reso migliore la nostra società". Contattato l’avvocato d’ufficio del foro di Imperia indicato nel verbale, riferisce di non aver ancora ricevuto la notifica dall’autorità giudiziaria. "Sono tappe decisive del nostro paese verso la barbarie" commenta in serata il deputato di Sinistra Italiana Giovanni Paglia, che annuncia l’intenzione di depositare un’interrogazione al Ministro dell’Interno Minniti sull’ordinanza di Ventimiglia. "Multare chi dà da mangiare ai migranti è incredibile. Dalla guerra alla povertà alla guerra ai poveri." aggiunge, sempre per Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni. Il Diritto nei Paesi dell’Unione europea di Floriana Bulfon L’Espresso, 25 marzo 2017 Accesso alla cittadinanza, durata dei processi e sovraffollamento delle carceri: tra leggi e carenze, ecco come siamo messi in Europa. Sono 532 i giorni di durata media nel primo grado di giudizio per un processo civile, 984 per quello amministrativo, 386 per il penale e una percezione dell’indipendenza dei giudici valutata come molto scarsa dal 25 per cento del campione e come ragionevolmente scarsa da un altro 36 per cento. È l’Italia dei processi, tra tempi irragionevoli e prescrizioni, in cui ad avvantaggiarsi sono spesso i colpevoli. A farci compagnia, in base ai dati del 2014 elaborati dal Council of Europe Commission for the Evaluation of the Efficiency of Justice (Cepej), Cipro dove il processo penale ha una durata media nel primo grado di giudizio di 246 giorni, quello amministrativo di 1.775 e Malta con 536 giorni per risolvere una controversia in primo grado in civile, 306 in penale e ben 1.408 per una causa amministrativa. Nulla a che vedere con la Germania dove sono sufficienti 192 giorni per una causa civile e 111 per una penale. Il 54 per cento dei tedeschi, in base alla ricerca di Eurobarometro, valuta del resto la percezione dell’indipendenza dei giudici come ragionevolmente buona e un 15 per cento come molto buona. Le carceri di 7 Paesi su 28 hanno più detenuti di quanti ne possono contenere - Giustizia significa anche esecuzione della pena, ma salvaguardando la dignità della persona. Sovraffollamento, mancanza di letti e di diritti, detenuti che si suicidano. La fotografia delle carceri d’Europa immortala contesti molto diversi. Nei Paesi Bassi il numero dei reclusi è talmente inferiore rispetto alla capienza massima che il governo ha deciso di chiudere alcune delle 77 carceri che si contano nello Stato, in Svezia nella maggior parte degli istituti vige la regola delle porte aperte e la presenza dei detenuti è in costante diminuzione. Nulla a che vedere con l’Ungheria dove 18.208 detenuti sono distribuiti in soli 33 istituti che hanno una capienza di 13.771 posti. Quello del sovraffollamento è un problema che affligge da sempre il nostro sistema penitenziario, ma la situazione è migliorata. Peggio di noi la Francia con dati quasi raddoppiati negli ultimi dieci anni, il Regno Unito dove uno dei problemi più sentiti è quello dei suicidi e poi Belgio, Cipro, Portogallo. La Francia è la capofila sul fronte dello Ius Soli: Parigi ha una legge che lo prevede dal 1551 - La dignità della persona è un valore per la giustizia ed essere cittadini europei significa essere titolari di diritti e doveri finalizzati al vivere insieme. Si acquisisce lo status di cittadini per diritto di sangue o per nascita. Nel Vecchio Continente non vi è però una legislazione univoca e ognuno fa da sé, temperando un principio con l’altro. In Italia per diventare cittadini bisogna risiederci ininterrottamente dalla nascita fino al 18esimo compleanno: una norma che esclude la maggioranza degli stranieri. La procedura di naturalizzazione è discrezionale e dipende anche dal reddito del nucleo familiare. Per rimuovere molte discriminazioni, che riguardano un milione di persone, alla Camera è stata approvata una legge sulla cittadinanza, ma ora s’è arenata al Senato. È ferma lì da quasi 500 giorni. In Europa si passa dalla legislazione restrittiva di paesi come Cipro in cui non ci sono possibilità di diventare cittadini attraverso lo ius soli o la Lituania dove le restrizioni valgono anche per i bambini nati orfani sul territorio, alla Germania in cui lo ius soli è riconosciuto per le seconde e terze generazioni in base ad alcuni requisiti dei genitori, fino all’inclusione totale per le seconde generazioni della Francia. Iraq. A Mosul è sempre più difficile e rischioso portare aiuti alla popolazione di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 25 marzo 2017 Le operazioni umanitarie nella parte ovest della città dove ancora si combatte si stanno rivelando complicate e pericolose: se a est molte famiglie decidevano di rimanere, sulla riva ovest del Tigri i combattimenti continui spingono la gente a fuggire appena possibile. Si parla di 700 mila persone "in stato di necessità". Gli sfollati vengono portati in 17 campi di raccolta. I bambini di Mosul si arrampicano sul camion, si voltano e fanno il segno della vittoria con le dita. Accanto a loro, i genitori si tirano su dal fango con fatica, cercando di non imbrattare le coperte ripiegate in quattro e le immense borse di plastica con le misere ricchezze salvate dalla casa: padelle, una teiera, qualche vestito. L’appuntamento è sulla collina che sovrasta il capoluogo di Ninive: il tempo per un’ultima occhiata alla città e poi le angherie dell’Isis diventano passato, si apre il momento della speranza. Ma per i fuggiaschi non è facile. Le operazioni umanitarie che riguardano la popolazione della parte ovest si stanno rivelando più difficili: se a est molte famiglie decidevano di rimanere, sulla riva ovest del Tigri i combattimenti continui spingono la popolazione a fuggire appena possibile. L’allarme è delle Nazioni Unite: secondo Lize Grande, coordinatrice delle operazioni umanitarie per l’Iraq, "le agenzie umanitarie sono ormai al limite. E da Mosul ovest potrebbero partire altre 320 mila persone". Queste si aggiungerebbero ai 180 mila sfollati che hanno già lasciato la zona da metà febbraio a oggi, secondo le stime del governo di Bagdad. "Cibo e medicine non arrivano più, acqua e corrente elettrica sono state tagliate", denuncia la Grande, "centinaia di migliaia di civili intrappolati sono in terribile pericolo". Sono 700 mila le persone in stato di necessità. Fonti dell’Alto commissariato per i rifugiati parlano di 700 mila persone "in stato di necessità". Gli sfollati vengono portati in 17 campi di raccolta tutto intorno alla città, altri dieci campi sono in preparazione. Ma se dall’inizio delle operazioni, in ottobre, oltre settantamila persone sono già rientrate a casa, il numero complessivo dei fuggitivi arriva a 330 mila. In più, molti escono dalla zona di Mosul in condizioni di salute precarie, se non disperate: secondo Loris De Filippi, di Medici senza frontiere, nelle postazioni di primo soccorso di Msf sono arrivate in un mese 1800 persone in condizioni "da codice rosso", cioè in pericolo di vita. Di esse, 1500 avevano ferite di guerra, mentre 300 denunciavano problemi più "normali", cioè fattispecie che in mancanza di terapie diventano facilmente letali, come attacchi cardiaci o parti in arrivo. L’ostacolo dell’equilibrio etnico. A complicare ulteriormente le cose ci pensa la legislazione irachena voluta dagli americani dopo la caduta di Saddam: per evitare le deportazioni, la legge vuole che l’"equilibrio etnico" fra le regioni sia rispettato. In altre parole, anche chi ha parenti che lo possono ospitare in un’altra regione trova gravi difficoltà a trasferirsi. E questo è un problema ancora più grave se si pensa che alla sofferenza fisica, dopo due anni di vita sotto gli integralisti, si aggiunge spesso il disagio psicologico: "Per 25 mesi queste persone hanno subito un condizionamento ideologico estremo, applicato con il terrore. La normalità va ricostruita, soprattutto per le nuove generazioni", dice Mustafa Jabbar, coordinatore dell’italiana Focsiv. I contrasti in famiglia tra chi se ne va e chi resta. Insomma, il sogno di una vita normale, la voglia di farla finita con le guerre, a volte rischia persino di spaccare le famiglie, fra chi vuole andare via e chi vuol restare a tutti i costi. Succede per esempio nel campo di container Ainkawa 2, dentro Erbil, assistiti anche da Focsiv. Qui sono riuniti gli sfollati cristiani dei villaggi attorno a Qaraqosh, un migliaio di famiglie, e qui si sta consumando il piccolo dramma degli Hanoon. Dopo tanti anni di guerre e di minacce ai cristiani, la fuga dalla cittadina, l’occupazione e la devastazione delle case da parte dell’Isis, papà Zuhair ha deciso: vorrebbe portare tutti in Australia, dove la figlia Kathreen si è ben sistemata, è sposata e può studiare all’università. Ma i genitori di mezza età hanno raccolto l’entusiasmo, curiosamente sono i giovani a non volerne sentire. Dice la ventenne Ruha: "L’Iraq è il mio Paese. Voglio restare qui. Magari a Erbil, invece che a Qaraqosh". Proprio nella sua città gli operai del comune, che stanno cominciando a rimettere a posto fra le devastazioni, hanno scoperto due cadaveri. "Non erano della nostra zona, certo. Ma la sicurezza, davvero, per noi non c’è più", conclude papà Zuhair, scuotendo la testa.