Redazioni giornali: spazi, attrezzature e modalità di lavoro nelle carceri. Lettera al Dap Ristretti Orizzonti, 24 marzo 2017 Alla cortese attenzione del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Dott. Santi Consolo Alla cortese attenzione del Direttore della Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Dott. Roberto Piscitello Oggetto: Redazioni dei giornali e delle altre realtà dell’informazione su giustizia, pene e carceri: spazi, attrezzature e modalità di lavoro nelle carceri Sottoponiamo al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria alcune proposte, inerenti le modalità organizzative e operative delle redazioni nelle carceri (modalità già autorizzate in diverse redazioni), e chiediamo un incontro al Dipartimento con una rappresentanza dei responsabili delle nostre redazioni per confrontarci su queste questioni. Come può essere regolata l’attività delle persone detenute in redazione - Non è ritenuta indispensabile la presenza di operatori esterni per consentire lo svolgimento del lavoro redazionale (i detenuti possono lavorare anche da soli). - La redazione dovrebbe poter lavorare tutti i giorni, tranne la domenica. Dovrebbero essere previste per i detenuti che fanno volontariato in redazione almeno due ore d’aria al giorno in orario diverso da quello di apertura della redazione stessa. - Non ci deve essere una lettura preventiva degli articoli da parte del personale del carcere. Della correttezza del loro contenuto risponde il Direttore responsabile. - La direzione dovrebbe fornire un’aula adeguata al lavoro redazionale, che possa essere attrezzata con computer, stampanti, scanner. - Ai detenuti-redattori dovrebbe essere concessa l’autorizzazione a usare computer portatili in cella, corredati di mouse, e supporti informatici (dvd, cd rom, chiavetta usb). - Dovrebbe essere garantita la continuità del lavoro redazionale, evitando per quanto possibile i trasferimenti di detenuti della redazione. Come può essere regolata la presenza in redazione di volontari e ospiti - Concessione rapida dell’art. 17 per i volontari che intendono collaborare con la redazione - Concessione rapida di autorizzazioni per gli ospiti esterni in occasione di incontri ed interviste, possibilità di organizzare incontri con le scuole interessate a un confronto - Disponibilità degli operatori e della direzione a partecipare a periodici incontri ed interviste con la redazione - Possibilità di promuovere almeno una giornata annuale di studi, aperta alla cittadinanza, su temi che hanno a che fare con carcere, Giustizia, disagio sociale. - Possibilità di organizzare corsi mirati alle esigenze della redazione (scrittura giornalistica, creativa, autobiografica, aggiornamento informatico). Attrezzature 1. Gli operatori esterni dovrebbero essere autorizzati a portare quotidianamente all’interno della redazione materiale informatico inerente al lavoro redazionale, utilizzando supporti informatici come chiavette usb. 2. È importante l’uso del registratore durante gli incontri in redazione. 3. Quando ci sono ospiti esterni, si chiede di usare la macchina fotografica. 4. In redazione si devono poter usare con una certa libertà computer, scanner, stampanti, fotocopiatrici. I responsabili esterni della redazione dovrebbero essere autorizzati a utilizzare una chiavetta Internet per ricerche da fare con i detenuti della redazione. È condizione importante che la direzione dei giornali, realizzati in carcere, sia affidata a giornalisti. Proposte votate al primo Festival della comunicazione sulle pene e sul carcere - Bologna 23.3.2017. Per informazioni: Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia info@volontariatogiustizia.it; progetti.ristretti@gmail.com. "La redazione è un bene comune", soprattutto in carcere di Michela Trigari Corriere della Sera, 24 marzo 2017 A Bologna il primo festival della comunicazione "dietro le sbarre". "La libertà di scegliere io l’ho avuta e non l’ho saputa sfruttare come si deve. Ho deciso di prendere la strada del crimine e mi ritrovo una vita bruciata e piena di sofferenza e con quest’altro arresto ho completato il lavoro. Se avessi ascoltato mio padre […] le cose non sarebbero andate come sono andate". Sono le parole di un detenuto pubblicate sul numero di gennaio di L’Oblò, il mensile del carcere San Vittore di Milano. Tra giornali, blog, laboratori di scrittura, centri di documentazione, collane di libri come "L’evasione possibile" della onlus Liberarsi di Firenze, trasmissioni radio o tv - come Jailhouse Rock (in onda sul circuito di Radio Popolare Network, curata dall’associazione Antigone insieme ai detenuti del carcere romano di Rebibbia e di quello milanese di Bollate) e il TG2 Palazzi dalla casa di reclusione di Padova - sono oltre una quarantina le realtà che in Italia fanno informazione dai penitenziari, quasi tutte al nord. Per uscire dalla logica dell’orticello si sono date appuntamento ieri 23 marzo in Sala Borsa a Bologna per il primo Festival della comunicazione sul carcere e sulle pene. Organizzato dalla Conferenza nazionale volontariato giustizia, l’evento nasce dall’esigenza di "sensibilizzare la società non solo sui problemi, ma anche sulla non estraneità, dei detenuti", spiega Ornella Favero, direttrice della rivista Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza. "Una redazione non è un’attività ricreativa: è un bene comune utile soprattutto al territorio, che così può conoscere qualcosa che gli appartiene. E un carcere dove i reclusi fanno informazione ha molte più probabilità di essere trasparente - continuano dalla Conferenza nazionale volontariato giustizia. Occorre poi chiedere al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria regole chiare che permettano a questi periodici di lavorare con serietà". All’incontro hanno partecipato detenuti, garanti, familiari, volontari, docenti universitari, giornalisti e magistrati e si è parlato anche del libro bianco sui rapporti tra mezzi di comunicazione e processo penale, "L’informazione giudiziaria in Italia", curato dall’Unione delle Camere penali. Il ministro Orlando e le carceri sovraffollate di Riccardo Arena ilpost.it, 24 marzo 2017 "Nelle carceri è cessata l’emergenza del sovraffollamento". Parola del Ministro Orlando. Bene! Allora è tutto a posto? E invece no. Infatti, se si vanno a vedere le statistiche pubblicate proprio sul sito del Ministero della Giustizia, la realtà è assai diversa e ci si accorge che il sovraffollamento continua a crescere sempre di più. Ad esempio un anno fa, ovvero nel febbraio del 2016, i detenuti erano 52.800, mentre oggi sono 55.900. Ovvero oltre 3.000 persone in più. Un crescente sovraffollamento, trascurato dal Ministro, che però non è sfuggito al Capo dell’Amministrazione Penitenziaria, Santi Consolo. Santi Consolo che già nell’aprile del 2016 aveva emanato una circolare in cui registrava questo preoccupante fenomeno. Circolare che è stata per lo più ignorata. Ma il serafico Orlando resta tranquillo, tanto che incalza: "Nelle carceri si è registrato un incremento di 4.000 posti detentivi e si è passati da 44 mila posti letto agli attuali 50 mila". Davvero? Allora in carcere c’è posto? No spiacenti, i posti sono esauriti. O meglio, quei posti nuovi indicati dal Ministro, sono solo virtuali, non sono reali e questo perché si tratta di posti che non vengono effettivamente utilizzati. Tradotto: sono celle vuote! Infatti, secondo il Capo del Dap Santi Consolo, i posti inutilizzati nelle carceri sono superiori ai 4.000, mentre per il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, sarebbero oltre 5.000. Confusi? Pure io. Ma tiriamo le somme reali. Oggi nelle carceri ci sono oltre 10.000 persone in più rispetto alla capienza effettiva, mentre il sovraffollamento aumenta mese dopo mese. Il che non è poco. Anzi! Sono dati di realtà che imporrebbero alla politica (degna di questo nome) di intervenire immediatamente: rendere utilizzabili quei posti nelle carceri e, soprattutto, intervenire sul crescente sovraffollamento prima che sia troppo tardi. Ecco. Sarà un bel giorno per il Paese quello in cui la politica saprà fare i conti con la realtà (e non solo del carcere), senza bisogno di "altro". La prevenzione contro l’epatite C entra in carcere di Letizia Gabaglio La Repubblica, 24 marzo 2017 Parte dalla Casa Circondariale di Viterbo un progetto pilota, promosso da EpaC Onlus e SIMSPe Onlus, per spiegare cosa sia e come si può combattere l’infezione da Hcv. Per la prima volta un progetto che punta sulla prevenzione dell’epatite C entra in un istituto detentivo. Là dove i numeri dell’infezione impongono di affrontare una vera emergenza: la prevalenza di Hcv è infatti stimata tra il 7,4% e il 38%, ben oltre il 2-5% calcolato per l’Italia nel suo complesso. Questa prima volta si chiama Enehide (EducazioNE e prevenzione sull’Hcv negli istituti detentivi), ed è un progetto pilota che partirà il 24 marzo prossimo nella Casa Circondariale di Viterbo. "Vogliamo realizzare un percorso di informazione e prevenzione sull’epatite C, sulle modalità di contagio, abitudini, usi e precauzioni da adottare per ridurre il rischio di trasmissione", spiega Massimiliano Conforti, vice-presidente dell’Associazione EpaC Onlus, che insieme a SIMSPe Onlus ha promosso l’iniziativa con il patrocinio del Ministero della Giustizia, dal Consiglio regionale del Lazio e dall’Asl di Viterbo. Si prevedono 20 incontri di formazione e informazione rivolti alle persone detenute, al personale sanitario (circa 50 tra medici e personale infermieristico), oltre che ai circa 400 agenti di polizia penitenziaria che operano nell’istituto. "Inoltre, verranno diffusi strumenti di prevenzione: opuscoli informativi tradotti in sei lingue, e kit per l’igiene personale - oltre 2.000 spazzolini e 2.000 tubetti di dentifricio - sostituiti con regolarità". Un problema sociale. "L’infezione da Hcv è uno dei problemi più importanti nel contesto degli istituti detentivi. Peraltro, i pazienti detenuti hanno un profilo completamente diverso da quello della popolazione non carcerata", sottolinea Giulio Starnini, direttore dell’U.O. di Medicina Protetta Malattie Infettive presso l’Ospedale di Belcolle di Viterbo e coordinatore del progetto per SIMSPe. "Non sono anziani, ma giovani adulti con problemi di tossicodipendenza, che arrivano alla diagnosi tardi perché tardi si preoccupano della loro salute. Il carcere diventa quindi un’occasione per offrire un’opportunità per conoscersi e curarsi". La prevenzione. È vero quindi che gli istituti sono dei serbatoi di infezione, ma possono e devono essere trasformati in luogo di informazione, educazione e formazione sulla salute, in particolare sul pericolo di infezione da epatite C. E rompere così la catena del contagio. "Anche perché, nella maggioranza dei casi queste persone torneranno a vivere nella società ed è importante che siano consapevoli dei rischi connessi a determinati comportamenti e della possibilità di prevenire il diffondersi dell’infezione", va avanti Starnini. "È una questione di salute collettiva non solo del singolo o della comunità carceraria". Si parte da Viterbo. "Abbiamo aderito con entusiasmo a Enehide perché è strutturato in maniera solida e rigorosa per ottenere risultati in termini di prevenzione e di informazione", ha spiegato Teresa Mascolo, direttore della Casa Circondariale di Viterbo. "Uno dei punti di forza, per esempio, sarà la presenza di mediatori linguistico-culturali anche in lingue diverse dalla nostra, che ci consentirà di stabilire una relazione immediata e speriamo fruttuosa con le persone detenute straniere, circa il 60%". Per avere una comunicazione efficace con chi proviene da paesi stranieri è infatti importante poter abbattere le barriere linguistiche e le incomprensioni di tipo culturale. L’impegno della Regione Lazio. Il Lazio, con i suoi 14 istituti detentivi, è terza fra le Regioni in quanto a numero di detenuti ospitati: a gennaio 2017, la popolazione carceraria laziale era di 6.211 persone (su un massimo di detenuti previsti di 5.235), di cui il 43,6% stranieri. "È anche per questo motivo che si spiega l’attenzione della Regione Lazio verso progetti come questo", ha aggiunto Teresa Petrangolini, Consigliere regionale del Lazio, membro della Commissione Politiche sociali e salute del Consiglio regionale. "Riteniamo necessario raggiungere risultati concreti anche nel campo dell’assistenza e della prevenzione: a questo scopo, la Regione ha avviato un tavolo di lavoro con le associazioni dei pazienti di epatite C dal quale è nato un Osservatorio permanente che ha tra gli obiettivi quello di aggiornare il registro delle persone con HCV, monitorare la prevalenza dell’infezione, promuovere una prevenzione mirata ed effettuare campagne di sensibilizzazione e screening in popolazioni come quelle detenute. Ecco perché, siamo felici che il progetto Enehide parta proprio da qui". Un progetto che può essere replicato. Il progetto pilota durerà sei mesi e vuole dimostrare per prima cosa che un’azione di questo genere è realizzabile. "Abbiamo stabilito degli indicatori di efficacia che ci aiuteranno a capire cosa funziona e cosa no", ha concluso Conforti. "Con Enehide vogliamo dimostrare che l’informazione giusta data nella maniera corretta produce risultati in termini di maggiore prevenzione e controllo della malattia. Partiamo da Viterbo, ma il nostro obiettivo è diffondere questo modello a tutte le realtà detentive italiane". Penale, perché la riforma così non ci piace di Luca Bisori (Presidente della Camera Penale di Firenze) Corriere Fiorentino, 24 marzo 2017 In questi giorni gli avvocati penalisti protestano, con l’astensione dalle udienze, contro la fiducia posta dal Governo sul Disegno di legge Orlando. Si tratta di una riforma del processo penale che ha preso le mosse dai lavori di una Commissione ministeriale cui hanno partecipato anche le Camere Penali: su quel nucleo si sono poi innestate tuttavia altre misure, più controverse, alcune oggetto di aspre critiche. Tra queste la norma sul "processo a distanza", che espelle fisicamente dall’aula d’udienza l’imputato detenuto, negandogli il diritto di partecipare personalmente al processo in cui si decide della sua responsabilità, spesso della sua vita. È sufficiente - si dice - che se ne stia in carcere, collegato via video. Chi ha esperienza del processo penale sa bene quale sia l’abissale differenza tra la partecipazione diretta e la presenza "virtuale" all’udienza: chi mai vorrebbe essere giudicato in un processo cui può assistere solo da uno schermo, senza potere interagire "dal vivo" con l’avvocato che lo difende? Una eccezione odiosa, che vale solo per l’imputato-detenuto, un cittadino di serie B mortificato nella sua dignità, un "quasi-reo" degradato ad ologramma in pixel, per il quale basta solo un simulacro di processo. "Ma così si risparmia": non è vero, perché attrezzare adeguatamente le aule dei tribunali in cui si celebrano i processi con detenuti è molto costoso, e le carceri non dispongono di un numero adeguato di stanze attrezzate per ospitare singoli detenuti, ciascuno in collegamento con il singolo tribunale presso cui i diversi processi si celebrano. E se anche si risparmiasse, se anche fosse giusto impiegare così tanti soldi in questa straordinaria opera di informatizzazione anziché in interventi minimi di manutenzione delle carceri (per evitare che piova in testa ai detenuti, come accade a Sollicciano; o per garantire una doccia almeno tiepida, un lusso nel panorama carcerario italiano), resterebbe l’interrogativo: è giusto risparmiare sui diritti fondamentali? Sul Disegno di legge Orlando è poi piovuta anche la questione prescrizione: ed è stata risolta nel peggiore dei modi, cioè semplicemente allungandola. In barba alla ragionevole durata del processo, ciò significherà solo processi più lunghi, interminabili, a danno sia degli imputati che dell’intera collettività, perché un processo che impiega vent’anni per accertare le responsabilità non è un processo giusto, ma solo un peso inutile per la società. Certo, il tema è delicato, richiede il bilanciamento di più esigenze, e non a caso non esiste in occidente un modello unico di prescrizione: ma proprio per questo la discussione parlamentare è indispensabile. Il confronto in Parlamento è il migliore strumento di cui gli Stati democratici dispongono per legiferare in materie tanto nevralgiche. Il Governo, invece, ha scelto di soffocare ogni confronto col voto di fiducia: non si era mai verificato rispetto a riforme così complesse, che incidono in profondità sul processo penale. Le ragioni della scelta non hanno molto a che fare con il merito della riforma: si è solo consumato un regolamento di equilibri interni alla maggioranza, senza alcun rispetto per il metodo democratico. Per questo i penalisti "scioperano", e si asterranno nuovamente dalle udienze dal 10 al 14 aprile, quando il Disegno di legge Orlando tornerà alla Camera: con l’augurio che si arresti questa deriva antidemocratica, e si torni ad un confronto autentico su temi che riguardano i diritti di tutti i cittadini. Le lettere firmate con nome, cognome e città vanno inviate a "Lungarno", Corriere Fiorentino lungarno delle Grazie 22 50122, Firenze Fax 0552482510 Toghe in politica. Ora la legge. Il Csm: "Sia chiara e rigorosa" di Matteo Marcelli Avvenire, 24 marzo 2017 Parlamento, pressing trasversale sul no alle porte girevoli. Lupi (Ap): normare il ritorno alle funzioni inquirenti di magistrati che hanno fatto politica. Marcucci (Ap): "Serve un intervento serio". Una legge chiara, da approvare il più presto possibile. Questo il mantra comune a Parlamento e magistratura sulla questione delle toghe in politica, tornata "di moda" grazie al caso Minzolini e il ritorno della discussione alla Camera del relativo ddl dopo tre anni di stop. Con le dovute distinzioni, e in accordo con l’editoriale apparso ieri su Avvenire, diversi esponenti da entrambe le galassie sembrano orientati sulla necessità di un provvedimento che non lasci adito a possibili recriminazioni o a scontri tra poteri dello Stato. Il tutto senza rinunciare alla legge Severino, ma togliendo dall’imbarazzo gli stessi politici che, pur avendola votata, potrebbero trovarsi a contraddirne lo spirito negando la decadenza di un parlamentare condannato, come accaduto per la vicenda dell’ex direttore del Tg1. Ieri è sceso in campo anche il Csm ribadendo la propria posizione, già espressa nel 2015: "Mi auguro che il Parlamento consideri attentamente le proposte dell’organo di governo autonomo della magistratura nel corso dell’esame del disegno di legge - ha chiarito nel plenum di ieri il vicepresidente, Giovanni Legnini - al fine di arrivare al più presto a un quadro di regole caratterizzato da completezza, chiarezza e rigore su una delle materie più dibattute e controverse nell’ambito del complesso rapporto tra politica e magistratura". Il riferimento è alla delibera a firma del consigliere Piergiorgio Morosini, anche lui intervenuto sull’argomento: "Abbiamo visto in questi giorni come il tema del rientro nella giurisdizione dei magistrati che hanno ricoperto incarichi politici sia tornato alla ribalta e quanto sia delicato - ha ricordato il consigliere. Fin dal 2015 questo Csm ha auspicato un intervento legislativo formulando anche alcune proposte di riforma che si muovono nella direzione dell’irreversibilità di determinate scelte. Pur garantendo certe prerogative dei singoli". Sulla questione si è espresso anche il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, nel corso di una lectio magistralis tenuta all’Università di Cagliari. L’ex pm del pool di "Mani pulite" è tornato a ribadire, come ha sempre sostenuto, che "un magistrato non dovrebbe mai occuparsi di politica", precisando però che "bisogna essere in due a fare queste cose: il magistrato fa politica perché qualcuno lo candida". A sollecitare le spinte di Camera e Senato, anche il sondaggio Swg pubblicato ieri, che certifica la diffidenza dei cittadini nei confronti delle porte girevoli (la possibilità per un magistrato di entrare e uscire dalla politica tornando in ruolo). Maurizio Lupi (Ap) è il primo a cogliere la palla al balzo: "La politica ha la possibilità, di fronte a questi dati, di non lanciarsi nell’ennesimo scontro frontale con alcuni magistrati, ma di normare finalmente con equilibrio, restringendo le incertezze interpretative, la questione del ritorno in funzioni inquirenti e giudicanti di magistrati che hanno fatto politica". Una posizione trasversale che trova d’accordo anche diversi esponenti dem come Stefano Lepri: "Credo si necessario risolvere il prima possibile questo conflitto di interessi che ha creato e continua a creare tanti problemi". O Andrea Marcucci: "Serve una legge seria, basta porte girevoli tra politica e giustizia". C’è anche Stefano Collina, convinto che serva "un provvedimento serio". Enrico Zanetti rileva "la particolarità della professione del magistrato", ma anche la necessità di una regolamentazione che, oltre a normare la possibilità di assumere un ruolo politico, vieti anche "quella di entrare a far parte di gabinetti e segreterie in diretta collaborazione con ministri e sottosegretari. Altrimenti - continua - si affronterebbe il tema ancora una volta senza dare un taglio alle distorsioni". Più categorico Stefano Parisi di Energie per l’Italia secondo cui chi entra in politica "deve lasciare la magistratura definitivamente", mentre per Maurizio Gasparri (Fi), "non si può entrare e uscire a piacimento". La sua compagna di partito, Elvira Savino chiede "norme chiare e vincolanti", così come Lorenzo Dellai di Demos che ravvisa nella "delicatezza del ruolo del magistrato la necessità di maggiore chiarezza". Pino Pisicchio (Gruppo misto), parla di "due vocazioni che non andrebbero mai confuse", e Nuccio Altieri ammonisce: "Le porte girevoli tra giudici e politica sono purtroppo un problema serio, non vorremmo diventassero un male endemico del nostro Paese". In serata arriva anche la voce del ministro per le Politiche familiari e avvocato, Enrico Costa, che chiede "equilibrio e misura" di fronte a "molte proposte irragionevoli che creerebbero un dannoso sbilanciamento" e che quindi "sono da respingere", a patto però che questo non significhi "evitare di affrontare i temi e rinunciare a una risposta tempestiva". La lista dei diritti inviolabili nel processo penale Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2017 La direttiva 2012/29/UE, del 25 ottobre 2012, istituisce norme minime su diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, allo scopo di garantire che le stesse ricevano informazione, assistenza e protezione adeguate e possano partecipare ai processi che le riguardano, senza discriminazioni. È anche la direttiva che sancisce l’esigenza di tutelare l’interesse dei minori nei procedimenti penali. Individuando in modo puntuale i diritti delle vittime, restringe il margine di discrezionalità degli Stati. Recepita in Italia nel 2015 Sentenza dopo sentenza, nel corso di 60 anni, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha tracciato la strada per rafforzare i diritti degli individui e ha messo le fondamenta per la costruzione di un’Europa con al centro cittadini e imprese. Nel segno dell’integrazione sempre più marcata, con precisi paletti al legislatore nazionale e agli operatori giuridici interni. A vantaggio dei cittadini dell’Unione. Punto di svolta, già a inizio anni Sessanta, la sentenza Van Gend & Loos (C-26/62 del 1963) con la quale gli euro-giudici hanno stabilito il principio dell’effetto diretto del diritto dell’Unione, e segnatamente dell’auto-applicazione delle direttive. Questo ha significato la possibilità per i singoli cittadini Ue, da quel momento, di invocare direttamente l’applicazione del diritto dell’Unione europea dinanzi alle autorità nazionali e ai giudici. La controversia nazionale, poi sbarcata a Lussemburgo, riguardava la contestazione di un’impresa di trasporti obbligata a pagare un tasso considerato contrario al diritto Ue che vieta i dazi doganali. Lussemburgo ha riconosciuto l’attribuzione diretta e immediata ai singoli di diritti derivanti dall’ordinamento Ue azionabili sul piano interno anche senza interventi legislativi degli Stati. Questa pronuncia ha poi portato, con altre sentenze della Corte di giustizia, ad affermare il primato del diritto dell’Unione su quello nazionale e l’obbligo degli Stati di risarcire agli individui, ad alcune condizioni, i danni derivanti dalle violazioni del diritto europeo (sentenza Francovich). Fino all’affermazione che è contraria al diritto dell’Unione l’esclusione della responsabilità dello Stato per i danni arrecati ai singoli dalla non corretta interpretazione o valutazione di fatti e prove dei giudici nazionali. Con l’obbligo per gli Stati di non chiedere ai singoli, che hanno diritto al risarcimento, di dimostrare l’esistenza di un dolo o di una colpa grave nell’operato degli organi giurisdizionali nazionali. Centrale, poi, nell’attività della Corte, la tutela dei lavoratori. Pietra miliare la sentenza Bosman del 1995 (C-415/93), con la quale la Corte non solo ha smantellato i limiti al tesseramento e all’impiego nelle competizioni sportive dei calciatori professionisti comunitari e sancito l’applicabilità della libera circolazione agli sportivi, ma ha anche fornito importanti chiarimenti sulla qualificazione dei lavoratori subordinati, allargando il perimetro di applicazione del diritto alla libera circolazione dei lavoratori. La Corte, infatti, ha chiarito che per applicare il diritto in esame "non è necessario che il datore di lavoro abbia la qualità di imprenditore, giacché il solo elemento richiesto è l’esistenza di un rapporto di lavoro o ha permesso di ridisegnare il difficile equilibrio tra privacy e web, mettendo in primo piano la tutela dei cittadini. Nel segno della tutela della privacy, la Corte ha poi posto limiti alla trasmissione di dati personali tra pubbliche amministrazioni di uno Stato membro se la persona interessata non è informata in via preventiva dello scambio di dati (C-201/14). In primo piano, poi, la tutela delle parti deboli e, in particolare, dei consumatori. Tra questi anche i turisti, con sentenze che passo dopo passo hanno rafforzato la protezione dei passeggeri. Con la sentenza van der Lans (C-257/14), ad esempio, gli euro-giudici hanno garantito alle vittime di ritardi aerei un diritto all’indennizzo anche se un aeromobile ha problemi tecnici. Per la Corte Ue, infatti, se il problema tecnico è legato al normale esercizio dell’attività di trasporto, in base il regolamento n. 261/2004 che istituisce regole comuni in materia di compensazione e assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato, non può essere classificato tra gli eventi inaspettati Di qui la conclusione che non si tratta di una circostanza eccezionale che esonera un vettore aereo dal versare l’indennizzo al passeggero - vittima. Antiriciclaggio, rischio maxi-sanzioni di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2017 L’analisi degli aspetti sanzionatori dello schema di decreto legislativo di recepimento della IV direttiva antiriciclaggio Ue sottoposta al parere delle commissioni parlamentari (che da lunedì prossimo partono con le audizioni) desta molteplici preoccupazioni per gli operatori del settore, non solo per gli intermediari ma anche per i professionisti da considerare comunque soggetti obbligati. Il quadro sanzionatorio - Infatti mentre giustamente le fattispecie penali sono state limitate alle ipotesi di frode e di pericolosità sociale con un consistente aumento delle pene, così come previsto anche dal legislatore comunitario, le sanzioni amministrative sono decisamente aumentate e potranno essere contestate anche per mere violazioni formali anche non dolose. In assenza dell’elemento psicologico del dolo, infatti, prima della recente depenalizzazione tali piccole violazioni venivano archiviate. Attualmente il problema è da rinvenire proprio nel nuovo assetto sanzionatorio amministrativo (articolo 67, ultimo comma, dello schema di decreto correttivo) che prevede espressamente tra i criteri che debbono presiedere all’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, anche quelli in materia di concorso formale, di continuazione e di reiterazione delle violazioni (articoli 8 e 8-bis della legge 689/1981). Il "cumulo" - Per le sanzioni amministrative previste dalla nuova normativa antiriciclaggio pertanto l’applicazione del regime del cumulo giuridico, regime più favorevole ai soggetti obbligati (applicazione della pena più grave aumentata del triplo), non sarà generalmente più applicabile. La regola generale sarà infatti quella del cumulo materiale delle sanzioni, ossia dell’effettiva sommatoria delle sanzioni previste per le singole violazioni. L’applicazione di tale regime determinerà chiaramente un consistente aggravio del carico sanzionatorio anche a fronte di condotte prive di una effettiva portata lesiva. Vi sono nello schema di decreto alcune ipotesi che temperano parzialmente il rigore di tale previsione. L’articolo 58, comma 3, infatti, prevede che "ai soggetti obbligati che, con una o più azioni od omissioni, commettono, anche in tempi diversi, una o più violazioni della stessa o di diverse norme previste dal presente decreto in materia di adeguata verifica della clientela e di conservazione da cui derivi, come conseguenza immediata e diretta, l’inosservanza dell’obbligo di segnalazione di operazione sospetta, si applica la sanzione prevista per la violazione più grave". Dall’interpretazione letterale della norma però sembrerebbe doversi dedurre che nei casi di plurime violazioni degli obblighi di identificazione del cliente o di conservazione dei dati che non si traducono in un’inosservanza dell’obbligo di segnalazione di operazione sospetta (perché comunque il cliente o l’operazione non destano alcun allarme sotto il profilo del rischio di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo), si dovrebbe far luogo al cumulo materiale con conseguente irragionevole moltiplicarsi degli importi delle sanzioni. Rispetto, invece, a condotte paradossalmente più gravi come quelle capaci di sfociare nella violazione dell’obbligo di segnalazione dell’operazione sospetta, si dovrebbe applicare il regime più favorevole del cumulo giuridico speciale previsto dalla nuova bozza, ossia solo la sanzione prevista per la violazione più grave. Il principio di proporzionalità - Sarebbe, pertanto, auspicabile un intervento correttivo in sede di esame da parte delle competenti Commissioni parlamentari finalizzato a escludere un’applicazione generalizzata nella materia sanzionatoria antiriciclaggio del cumulo materiale, al fine di scongiurare il rischio di pervenire a esiti sanzionatori non conformi a quanto previsto dalla legge di delegazione europea e ai principi contenuti nella IV direttiva in particolare in ordine alla violazione di obblighi meramente formali privi di una effettiva portata lesiva. Infatti si assisterebbe a una palese violazione del principio comunitario di proporzionalità (peraltro contenuto espressamente anche nella legge di delegazione europea) con una moltiplicazione delle contestazioni amministrative che non andrebbero a colpire solo le grandi banche e le assicurazioni, ma anche tutta la filiera degli intermediari fino ai singoli professionisti, senza nessuna esclusione. "Punito" il cambio di legale per dilatare i tempi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2017 Corte di cassazione, sentenza 23 marzo 2017, n. 14223. Nessun termine al difensore d’ufficio per studiare la causa, se l’avvicendamento degli avvocati è una scelta strategica per allungare i tempi del processo. La Corte di cassazione (sentenza 14223) bolla come abuso del processo il comportamento dei ricorrenti. Gli imputati avevano chiesto l’annullamento della condanna per bancarotta fraudolenta contestando la violazione del diritto di difesa perché all’udienza conclusiva del processo di primo grado, era stato nominato un avvocato d’ufficio - perché privi di difensore di fiducia - al quale non era stato concesso alcun termine a difesa. Per la Cassazione però la scelta del giudice è stata corretta. Gli imputati avevano dato fondo a tutte le tecniche dilatorie: dalla ricusazione del giudice, alla revoca dell’incarico a un difensore, fino alla nomina di un altro avvocato che, a loro dire aveva "abbandonato" l’incarico, senza però produrre l’atto di rinuncia. Infine, l’ennesimo legale scelto, aveva disertato l’udienza, portando alla nomina del difensore d’ufficio al quale il giudice non aveva concesso "tempo". La Corte d’appello aveva respinto l’eccezione di nullità della sentenza di condanna. La violazione del diritto di difesa è esclusa a causa del concreto pregiudizio arrecato all’interesse obiettivo dell’ordinamento e delle parti, alla celebrazione di un giudizio equo in tempi ragionevoli. Lo svolgimento e la definizione del processo di primo grado era stato, infatti, ostacolato da un numero esagerato di iniziative difensive "attraverso il reiterato avvicendamento di difensori in chiusura del dibattimento, eccezioni di nullità manifestamente infondate e istanze di ricusazione inammissibili". Un "tattica" finalizzata solo a una "reiterazione tendenzialmente infinita delle attività processuali". La Suprema corte chiarisce che l’abuso del processo scatta quando si svia la funzione del processo e si realizza quando un diritto o una facoltà processuale è esercitata per scopi diversi da quelli riconosciuti all’imputato. I ricorrenti non possono dunque invocare la lesione di interessi che non hanno in realtà davvero perseguito. Se questo non bastasse i giudici precisano che l’assenza del difensore di fiducia non era dovuta a legittimo impedimento, mai dedotto dal ricorrente, il difensore di fiducia non aveva dunque diritto a un tempo concesso in caso di rinuncia del precedente legale, di revoca, incompatibilità o abbandono del mandato. Mai quando si tratta di una scelta difensiva. Class action: l’inammissibilità sulla tutela del singolo non è appellabile di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2017 Corte di cassazione - Sesta sezione civile - Ordinanza 23 marzo 2017 n. 7504. Va considera illegittima la class action portata avanti per tutelare gli interessi non di tutti gli appartenenti ma solo quelli del singolo. Lo chiarisce la Cassazione con l’ordinanza n. 7504/2017. La vicenda - La Corte si è trovata alle prese con un ricorso proposto dalla Codacons in persona del legale rappresentante pro tempore in nome e per conto nonché in favore di un privato, in proprio e nella qualità di genitrice esercente la responsabilità sul figlio minore. L’appello presentato dalla categoria nonché dal singolo in proprio aveva a oggetto per l’appunto la class action da loro proposta ex articolo 140-bis del Dlgs 206/05 per avere la convenuta esposto un numero indeterminato di gestanti al rischio di contagio dei neonati, poiché un’infermiera del reparto nido era stata scoperta affetta da tubercolosi polmonare. La Corte d’appello aveva ritenuto inammissibile l’appello di Codacons e privato. Il precedente delle Sezioni unite - La Cassazione, dunque, ha richiamato la precedente decisione delle Sezioni unite n. 2610/2017 secondo cui ove l’azione di classe di cui all’articolo 140-bis del Dlgs 206/2005 (il "Codice del Consumo") sia finalizzata a ottenere la tutela risarcitoria di un pregiudizio subito dai singoli appartenenti alla classe e non anche di un interesse collettivo, l’ordinanza di inammissibilità adottata dalla Corte di Appello, in sede di reclamo, non è impugnabile con il ricorso ex articolo 111, comma 7, della Costituzione, essendo il medesimo diritto tutelabile attraverso l’azione individuale volta a ottenere il risarcimento del danno, e che tale dichiarazione di inammissibilità preclude la riproposizione dell’azione da parte dei medesimi soggetti, ma non anche da parte di chi non abbia aderito all’azione oggetto di tale declaratoria. Compensazione delle spese - Si legge nella sentenza che in funzione della relativa novità della questione processuale che ha definito la controversia davanti alla Corte, resa manifesta dalla sua rimessione alle Sezioni unite e dalla sia compiuta definizione solo in corso di causa, si integrava una grave ed eccezionale ragione di compensazione delle spese del grado di legittimità dovendosi applicare alla fattispecie l’articolo 92 cpv del cpc nel testo introdotto dalla legge n. 69/2009. Tavola rotonda sul carcere di Nola di Cesare Burdese (Architetto) Ristretti Orizzonti, 24 marzo 2017 Nella giornata di ieri l’altro, 22 marzo 2017, si è tenuta presso la sede dell’Università degli Studi di Roma Tre a Roma la Tavola Rotonda su Spazio della Pena e Architettura Carceraria - Il caso Nola dopo gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. In qualità di relatore voglio formulare a riguardo alcune brevi considerazioni in merito agli esisti della stessa, perché resti aperta la discussione e non si perda la dimensione reale dell’evento. Una molto amara è quella che dobbiamo prendere atto che al momento nel nostro paese non vi sono le condizioni per progettare (architettonicamente parlando) il carcere della Costituzione e che l’Europa chiede, almeno per tre motivi principali: 1) I decisori politici non hanno interesse a scardinare un sistema consolidato, creato per dare risposta a bisogni di natura esclusivamente economica, per puro tornaconto elettorale; 2) Le Amministrazioni pubbliche che hanno in carico la programmazione e la progettazione degli istituti penitenziari sono totalmente sprovviste delle dovute sensibilità e competenze alla base di una produzione architettonica di qualità (intesa come l’espressione complessa e articolata di professionalità e valori); 3) Gli organi di rappresentanza delle categorie professionali della progettazione architettonica ignorano il tema e se ne astengono. Una seconda, altrettanto amara, è che dobbiamo rassegnarci al fatto che non esiste oggi la possibilità come architetti di interagire con i "poteri decisionali" sulle questioni della progettazione penitenziaria perché tutto è già deciso, sia in termine di ruoli che di soluzioni. Infatti i responsabili politici hanno monopolizzato il campo di azione, dipingendosi come risolutori virtuosi di errori provocati da altri in una logica di "riduzione del danno" attraverso soluzioni localizzative e progettuali che non si possono discutere (vedi appunto la vicenda di Nola), e dando credito all’improvvisazione ed all’inesperienza di nominati in deroga a qualsiasi norma deontologica e giuridica e pronunciamenti della magistratura. Una terza e ultima, forse la più amara, è quella che tutti noi presenti ieri abbiamo assistito davanti ad una platea di giovani studenti, che voglio immaginare carichi di tensioni ideali e ambizioni culturali, nella sede di una prestigiosa universitaria, alla più vivida rappresentazione dell’arroganza e della pochezza dei governanti e dei tecnici di uno Stato che sembra aver perso morale e cultura. Con profonda nostalgia e rimpianto di un mondo che sembra svanito, voglio ritornare con Voi sulle parole di Giovanni Michelucci per riflettere e poter continuare a sperare. "Ho un debito profondo di riconoscenza nei confronti della vita. Ho creduto da sempre che i problemi dell’architettura fossero importanti. Ma questo è vero se al fondo c’è una diffusa e profonda giustizia. La città è fatta di torri e palazzi che ne rappresentano il potere, la gestione; ma io sento che la sua architettura più armonica e più vera nasce dalla dedizione alla giustizia. Carceri, scuole, ospedali da focolai di devianza, di isolamento, di emarginazione possono allora diventare i gangli vitali di questa città. La mia istanza di fondo non è il controllo; è la guarigione. Oggi il carcerato ha paura della città e la città ha paura di lui. Spezzare questo circolo vizioso, anticipare la devianza, saper prevedere, capire; ridare alla forma la sua funzione reale rispetto al contenuto: ecco, è questo che sta al cuore della mia ricerca, il senso profondo del mio essere architetto." (Giovanni Michelucci 1983) Testo dell’analisi che l’Architetto Ruggero Lenci, Professore Associato in Composizione Architettonica e Urbana (Icar 14) presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Roma "La Sapienza", ha fatto del progetto dell’Amministrazione Penitenziaria per il Nuovo Istituto di Nola La città di Nola, che ha dato i natali a Giordano Bruno, non si merita la costruzione di un penitenziario basato su uno schema chiuso e introverso. Perché costruire una città della detenzione basandosi su un solo progetto, che peraltro non è stato il frutto del lavoro unanimemente condiviso del tavolo n. 1 degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale? Il danno d’immagine che la realizzazione di uno schema progettuale non condiviso potrebbe arrecare alla città di Nola, alla Regione Campania e all’Italia sarebbe enorme. Lo schema di Nola è introverso perché crea corti chiuse. È inoltre labirintico, nel senso che fa perdere l’orientamento al punto che detenuti e guardie non sapranno più dove si trovano. Dopodiché le sezioni sono costituite da gruppi di otto celle con salottino comune, oppure da 6 celle nelle torrette. Ma siamo certi che il numero otto/sei sia corretto e non limitativo? Una classe è composta da 24/30 ragazzi, una squadra di calcio da una ventina considerando le riserve. In sei o otto persone non vi è sufficiente scambio per passare dalla sfera individuale a quella di un interscambio sociale sufficientemente ampio. Per quanto riguarda il consumo di suolo, costruire un solo livello di celle - oltre alle torrette - vuol dire realizzare una copertura immensa che copre solo due livelli, le celle appunto e i servizi sottostanti. Più efficienti sarebbero tre livelli, due di celle e uno di servizi. Queste otto celle sono poi servite da un corridoio separato tramite un muro dalle altre otto celle che si affacciano sull’esposizione opposta, rendendo tutto il sistema mono-esposizionale: celle forno d’estate e fredde d’inverno, senza riscontro d’aria. Con due corridoi di circa 1,40 m. di larghezza, quindi stretti. Togliamo dunque quel muro, rendiamo la sezione a 16 celle con un corridoio comune di 3 metri di ampiezza, in modo che l’intero sistema tipologico sia bi-esposizionale, con transito d’aria tra i due fronti. Recuperiamo nei fatti e non a parole l’impianto urbano, la metafora della città che deve essere inscritta nel carcere, che gli deve appartenere. Restituiamo al corridoio il valore di strada e non di budello distributivo, unica funzione ahimè assegnatagli dal presente progetto. La stradina del quartiere e del paese è il corridoio nel carcere, con usci su ambo i lati. Se si toglie tale funzione, come qui accade, viene estirpato dalla mente dei detenuti un pezzo di metafora urbana, avvilendoli, rendendo loro la vita difficile da reclusi e difficoltoso il reinserimento una volta liberi. Lo spazio di mediazione del corridoio/strada deve rimanere come tale, ampio, e non essere diviso a metà. Dopodiché bisogna evitare i corridoi ciechi, inserendo scale di sicurezza agli estremi. Il bando per il carcere di Nola è infine un insulto alla professione di architetto, dato che lo schema ad esso allegato è vincolativo e non può essere variato. I servizi professionali (definitivo, esecutivo, sicurezza) sono aggiudicati in base a un impegno minimo del progettista, che in questa aggiudicazione non dovrà minimamente progettare, dovendo fornire solo un’offerta di ribasso e una relazione. Caso Minzolini, il senato ha deciso di non applicare una legge di Luigi Saraceni Il Manifesto, 24 marzo 2017 Il recente voto del Senato sul caso Minzolini offre l’occasione per qualche riflessione sulla spinosa questione del rapporto politica/giustizia. Anzitutto, la c.d. legge Severino andrebbe drasticamente ridimensionata, essendo inaccettabile la decadenza da una carica elettiva anche per condanne di vecchia data e per reati "bagattellari". Ma, finché esiste, la legge va applicata, non essendo consentito a nessuno, tanto meno ad un ramo del Parlamento, disapplicarla in ragione del suo ottuso rigore. Il voto del Senato viola la legge Severino perché, una volta accertata l’esistenza del giudicato di condanna, la dichiarazione di decadenza era un atto obbligato. I senatori del Pd che hanno votato contro la decadenza, adducono a spiegazione del loro voto argomenti giuridicamente inconsistenti. Dicono anzitutto che, se la legge Severino ha previsto un voto del Senato, ciò significa che ai senatori è attribuita "una funzione di controllo di ultima istanza" (Ichino su Repubblica del 19 marzo) e quindi il potere di decidere se dichiarare o no la decadenza. Ora, a parte la singolare configurazione del Senato come una sorta di quarto grado di giudizio, l’argomento è inconsistente, perché la legge Severino non poteva fare a meno di prevedere un voto del Senato, dovendo attenersi all’art. 66 della Costituzione, secondo il quale il compito di giudicare "i titoli di ammissione" e le "cause sopraggiunte di ineleggibilità" spetta alla Camera di appartenenza del parlamentare. D’altra parte gli effetti del giudicato penale non si producono per magia. Qualcuno deve pur prendere atto della esistenza del giudicato di condanna ed applicarne le conseguenze. E questo qualcuno non può essere che la Camera di appartenenza del condannato. Ma, obietta il prof. Ichino (Repubblica del 21 marzo), il citato articolo della Costituzione dice che il Senato deve "giudicare", che è cosa ben diversa dal "prendere atto". In effetti, quando giudica sui titoli di ammissione o sulle cause di ineleggibilità, la Camera di appartenenza non agisce come organo politico, ma svolge un’attività di natura giurisdizionale, agisce cioè con gli stessi criteri e gli stessi poteri di un giudice. Ma, secondo elementari nozioni di diritto, dall’attività giurisdizionale esula qualsiasi discrezionalità politica, essendo l’attività di giudizio assistita da una mera "discrezionalità tecnica". Il giudice, cioè, accertata l’esistenza dei presupposti del suo giudizio, deve trarne le conseguenze previste dalla legge e non può decidere di non applicarle. Anche il Parlamento, dunque, quando "giudica" sulla esistenza delle cause di ineleggibilità, agisce con i criteri propri dell’attività giurisdizionale e perciò deve limitare la funzione di controllo affidatagli dalla Costituzione alla mera "delibazione" della sentenza, come si dice in gergo; deve cioè procedere alla ricognizione dei dati formali, al solo fine di stabilire se esiste un giudicato di condanna per un reato che comporta la decadenza prevista dalla legge. Accertato questo presupposto, non può fare a meno di trarne le obbligate conseguenze. Ma il voto dei senatori è ancor più criticabile per le giustificazioni di merito addotte a suo sostegno. Dicono che il giudicato di condanna è contraddetto dall’esito di un giudizio amministrativo davanti alla Corte dei Conti e di un giudizio civile davanti al Tribunale del Lavoro. È facile obbiettare, anzitutto, che i presupposti dei giudizi amministrativi e civili sono spesso assai diversi da quelli del giudizio penale, sicché l’apparente contrasto potrebbe non esistere. In ogni caso, non si capisce perché, in un voto che ha come presupposto la condanna in sede penale, i senatori scelgano, nel preteso contrasto con esiti di altri procedimenti, di privilegiare questi ultimi. Ancor più grave è quanto dicono a proposito della presenza nel Collegio giudicante del giudice Giannicola Sinisi, che in passato era stato parlamentare in uno schieramento opposto a quello di Augusto Minzolini. Orbene, trattandosi di organo collegiale, non sappiamo se Sinisi, che non era né Presidente né relatore, in Camera di consiglio abbia votato per la condanna di Minzolini. Ma è in ogni caso è assai grave che un senatore della Repubblica (ancora Ichino) insinui, senza addurre prova alcuna, che la presenza di un giudice dal passato politico nel Collegio giudicante "forse spiega la inusuale severità della pena", appositamente inflitta in misura da escludere la sospensione condizionale. Monza: due detenuti suicidi nell’arco di poche ore di Federico Berni Corriere della Sera, 24 marzo 2017 Il primo si è impiccato nei locali dell’infermeria, verso le cinque del mattino. Il secondo, un 29enne in carcere per questioni di droga, è stato trovato alle undici dalle guardie agonizzante dopo avere inalato il gas dal fornelletto in dotazione ai detenuti per cucinare. Due suicidi a distanza di poche ore, entrambi avvenuti all’interno del carcere di Monza, scatenano le polemiche dei sindacati della polizia penitenziaria, che lamentano problemi di "sovraffollamento", e di "cronica mancanza di personale" all’interno della struttura di via Sanquirico. Alle prime ore di ieri la prima tragica scoperta da parte del personale della casa circondariale. Vittorio Vincenzi, 56 anni, proprietario di una farmacia in Brianza e titolare di una gelateria in Corso Garibaldi, nel cuore della movida di Brera, probabilmente solo pochi minuti prima che trovassero il suo corpo, aveva annodato un paio di lenzuola e si era impiccato. Era in carcere dallo scorso novembre, quando i carabinieri lo avevano arrestato con l’accusa di omicidio per aver strangolato la ex compagna, una 29enne peruviana, uccisa nella casa di Seveso dove era rimasta a vivere con i due figli piccoli avuti proprio da Vincenzi. Poche ore dopo, viene soccorso il 29enne, un pregiudicato con problemi di tossicodipendenza. Inizialmente, gli operatori intervenuti riescono a rianimarlo, ma le sue condizioni si aggravano successivamente, sino al decesso avvenuto all’ospedale San Gerardo. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, aggiornati al 20 febbraio scorso, la casa circondariale brianzola ospita 625 detenuti, a fronte di una capienza complessiva di 403 persone. Al suo interno lavorano 353 agenti di polizia penitenziaria, quando l’organico effettivo ne prevede sulla carta 419, oltre a 4 educatori (ne mancherebbero 5) e 9 impiegati amministrativi. "Da molto tempo abbiamo sollevato la cronica mancanza di personale del carcere di Monza come del resto è per gli altri istituti lombardi e del Paese - aggiunge Michele Giandinoto, segretario di Funzione pubblica Cgil Monza e Brianza. Molti agenti sono assorbiti a svolgere le attività amministrative. Siamo dispiaciuti per questi drammi, ma i lavoratori sono sempre più stressati e in difficoltà". Domenico Benemia, della Uil Penitenziaria, ha annunciato che presto verrà inoltrata un’interrogazione parlamentare sulla situazione di via Sanquirico. Milano: Papa Francesco a San Vittore, perché è importante di Orazio La Rocca Panorama, 24 marzo 2017 Sarà il Primo Pontefice a varcare la soglia del carcere. Prima di lui solo l’arcivescovo Montini (poi Paolo VI) e il vescovo Carlo Maria Martini. Papa Francesco nel carcere di San Vittore di Milano. Evento storico, una delle tappe più attese che Jorge Mario Bergoglio farà sabato 25 marzo nel corso della sua visita nel capoluogo lombardo, quando sarà il primo Pontefice a varcare come tale la soglia di S. Vittore. Per Papa Francesco sarà il terzo carcere in cui entra da pontefice: la prima volta appena eletto, nel 2013 andò a Casal del Marmo per la celebrazione dell’Ultima Cena (In Coena Domini) del Giovedì Santo e nel 2015 a Rebibbia. Va anche ricordato che spesso e volentieri Bergoglio ha telefonato a reclusi di Buenos Aires, forse sulla scia dei ricordi di quanto aveva fatto quando era arcivescovo della Capitale argentina. Ma, non meno significativa è stata la storica la giornata dei detenuti celebrata lo scorso anno nella basilica di S. Pietro alla fine del Giubileo della Misericordia da papa Francesco, il quale ogni volta che incontra reclusi o parla del mondo delle carceri non dimentica mai di ricordare che "è bene chiederci sempre perché quelli sono caduti e non noi?". Interrogativo-monito che, probabilmente, non mancherà di essere rilanciato anche a S. Vittore. Prima di lui tra i detenuti dello storico carcere milanese c’era stato solo l’allora arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini, eletto al Soglio di Pietro il 21 giugno 1963, Paolo VI. Una visita alle stesse carceri milanesi, in seguito, sarà fatta anche, nel primo giorno del suo arrivo a Milano da Carlo Maria Martini. Il primo pontefice ad andare in mezzo ai reclusi, tuttavia, fu Giovanni XXIII con la visita al carcere romano di Regina Coeli il 26 dicembre 1958, in una delle prime uscite ufficiali dopo l’elezione papale avvenuta due mesi prima, il 28 ottobre. Il predecessore, Pio XII non fece altrettanto in tutto il suo lungo pontificato, ma nel Natale del 1951 inviò un messaggio augurale a tutti i detenuti del mondo. Senza andare troppo indietro nella storia della Chiesa, da ricordare nel 1650 e nel 1704 le visite rispettivamente di Innocenzo X e di Clemente XI ai cantieri delle carceri Nuove di via Giulia e di S. Michele a Porto. Anche Pio IX visitò un carcere, il 26 ottobre 1868, a Civitavecchia nel penitenziario dei detenuti politici. Nella storia più recente, dopo Giovanni XXIII, a Regina Coeli il 9 aprile 1964 si reca Paolo VI; il 27 dicembre 1983 Giovanni Paolo II va a Rebibbia per incontrare il suo attentatore Alì Agca e poi a Regina Coeli per il Giubileo del 2000. Due le visite carcerarie di Benedetto XVI, il 18 marzo 2007 ai ragazzi di Casal del Marmo e il 18 febbraio 2011 a Rebibbia. Il carcere di San Vittore è indissolubilmente legato a un suo storico cappellano, don Cesare Curioni, scomparso il 12 gennaio 1996 all’età di 73 anni. Monsignor Curioni (ma i detenuti lo hanno sempre chiamato semplicemente don Cesare), ha lasciato una traccia indelebile non solo a S. Vittore, ma in tutta la popolazione carceraria che ha avuto la fortuna di conoscerlo da vicino. Il suo tratto umano e paterno - con l’immancabile sigaro - ha fatto sempre breccia in quanti erano costretti a vivere dietro le sbarre. E da ultimo fu anche il tramite di Paolo VI nel tentativo di trovare uno spiraglio per la liberazione di Aldo Moro rapito dalle Br il 16 marzo 1978 e ucciso il successivo 9 maggio. "Don Cesare, grande figura, prete esemplare e cappellano che ha speso tutta la sua vita per stare vicino ai carcerati. È giusto ricordarlo proprio in occasione della visita di papa Francesco a S. Vittore, il carcere che lui ha servito come un padre appassionato e sincero, ricevendo sempre affetto e filiale rispetto", ricorda uno dei suoi più grandi amici, Gianni Gennari, teologo, ex docente alla Pontificia Università Lateranense, da anni editorialista e firma del quotidiano cattolico Avvenire, dove cura la seguitissima rubrica "Lupus in pagina", in cui analizza l’informazione religiosa veicolata sulla stampa nazionale ed internazionale. Ma tra Gennari e Curioni, oltre ad una profonda amicizia durata tutta la vita, c’è stato anche un fitto rapporto fatto di complicità pastorale. E su questo aspetto c’è un aneddoto che il teologo ha tenuto sempre per sé, non privo di una simpatica curiosità: il finto arresto e la finta incarcerazione a San Vittore per Gianni Gennari deciso da don Cesare con l’autorizzazione della direzione del carcere. "Fu un escamotage - racconta il teologo - messo a punto per farmi trascorrere un po’ di giorni a stretto contatto con i carcerati". Ecco come oggi il teologo ne parla per la prima volta. "Era verso la metà degli anni settanta ed ero stato invitato da don Cesare a tenere una serie di incontri nella sezione femminile di S. Vittore; ma sulle prime, pur lusingato dall’invito, ebbi qualche perplessità dovute al fatto", ricorda Gennari, "che non mi sentivo di parlare a persone ferite dalla vita e costrette a vivere dentro celle anguste e private della libertà. Come avrei potuto parlare loro senza conoscere almeno un po’ della loro quotidianità di recluse?". Il dubbio fu prontamente risolto da don Curioni che si attivò - con il placet della direzione del carcere - per far "arrestare" il teologo, sotto falso nome, in una cella insieme ad altri detenuti, dopo essere stato sottoposto alla classica trafila prevista per l’entrata in carcere di persone arrestate con la consegna di tutti gli effetti personali, i vestiti, documenti, soldi. "Fu per me una esperienza molto importante - racconta - appena arrivai i "colleghi" detenuti mi chiesero perché ero lì. Io raccontai di essere stato incastrato dall’emissione di alcuni assegni scoperti, ma che me la sarei cavata in pochi giorni". Ed infatti Gennari lasciò la cella dopo tre giorni, per recarsi nella sezione femminile di S. Vittore dove tenne alcuni incontri seguitissimi dalle detenute. "Grazie anche all’esperienza fatta in quei tre giorni di prigionia durante i quali ebbi modo di condividere quanto sia dura e triste la vita dietro le sbarre, ma dove è possibile cogliere anche il senso di tanta umanità che alberga anche nei reclusi apparentemente più provati". Milano: a San Vittore detenuti in "fermento" per l’arrivo del Papa di Lucia Capuzzi Avvenire, 24 marzo 2017 "Batteremo i piatti al suo arrivo: segno di una rivolta di speranza". "Anche San Vittore darà il suo speciale benvenuto in terra ambrosiana a papa Francesco. Non abbiamo una campana. Ma l’inventiva non ci manca. Faremo suonare i piatti. Di solito, in prigione, tale gesto accompagna le rivolte. Stavolta farà da sottofondo a un altro genere di rivoluzione. Quella della speranza". A quell’ora Dalia Violeta Nieves González, ecuadoriana 35enne, sarà ai fornelli - insieme agli altri carcerati della Libera scuola di cucina, coordinati dallo chef Stefano Isella - a terminare di preparare il pranzo che il Pontefice consumerà insieme ai reclusi. "Macché levataccia. Tanto non chiuderò occhio" racconta la ragazza. Non è l’unica. Un "caos calmo" regna nel penitenziario. "L’intero carcere si sta illuminando per accogliere Francesco - dice Mario, milanese, da quattro anni nella struttura. I muri sono stati riverniciati, le porte lucidate, i vetri strofinati a fondo. Non parlo, però, solo del riassetto esterno. L’atmosfera è diversa, più gioiosa, più distesa". La routine di avvocati, udienze, colloqui, corsi per ammazzare un tempo che dietro le sbarre si fa infinito, prosegue, in apparenza, monotona. In apparenza, appunto. Chi è abituato al linguaggio muto del popolo di San Vittore percepisce con forza il fermento. Visi e gesti di tutti, perfino degli agenti più compassati, rivelano l’emozione alla vigilia "dell’insolita visita di un amico inatteso". Così comincia la poesia composta dai detenuti per Francesco: il primo Papa che, domani, varcherà l’enorme portone di legno di piazza Filangeri al numero 2. "Insolita", in effetti, è l’aggettivo più adatto per descrivere la sortita bergogliana: non solo perché si tratta di un unicum nei 138 anni di vita del carcere. Il Pontefice ha "sorpreso" i reclusi - e mobilitato l’organizzazione - chiedendo di poterne avvicinare il maggior numero possibile. E dedicando loro la sosta più lunga - tre ore - della sua giornata ambrosiana. Francesco non si limiterà a sostare nella Rotonda, il cuore di San Vittore, nonché la sede degli eventi straordinari. Il Papa percorrerà i diversi "raggi", come da queste parti chiamano i sei corridoi che si dipanano dall’anello centrale. La Rotonda appunto. Là, dove sono situate le celle - aperte dal 2015, dopo la condanna per mancanza di spazio della Corte europea dei diritti dell’uomo - si svolge la quotidianità dei prigionieri. E là Francesco passerà - intrecciando i "suoi passi ai nostri", prosegue la poesia, si fermerà e pranzerà. Non solo. Dopo il pasto, Francesco farà perfino qualche minuto di "siesta" all’interno di San Vittore, nell’ufficio del cappellano. Una scelta assolutamente inedita. Per trovare dei precedenti, si deve risalire ai primi secoli della cristianità, quando i Papi venivano incarcerati durante le persecuzioni. Al piano terra del terzo raggio - dove si trovano circa 200 persone con problemi di tossicodipendenza, nei giorni precedenti, si sono fatte le prove di capienza per allestire un enorme tavolo rettangolare. A cui, insieme al Pontefice, siederà una delegazione di cento detenuti, scelti in modo da rappresentare la pluralità di fedi e nazionalità racchiuse a San Vittore, dove il 67% della popolazione è straniera. "Il menù, però, sarà tipicamente ambrosiano: risotto alla milanese, cotoletta con contorno di patate e per dolce la panna cotta. E sarà uguale per tutti gli 860 detenuti", prosegue Dalia. Quest’ultima avrà il posto speciale accanto a Francesco, insieme ad altre due "latine": l’argentina Monica e la cilena Gemma. Allieve della Libera scuola di cucina, le tre avranno il compito di chiacchierare con il Papa nella sua lingua madre e di servire a tavola. "Da quando me l’hanno detto ho voglia di gridare, ballare, cantare, piangere", dice Dalia. Le fa eco un altro dei commensali, Mario. "Non posso credere che anche io sarò seduto a quella mensa. Io che in genere vengo considerato solo un "criminale", potrò mangiare con Francesco". La frase gli si tronca in gola, mentre gli scendono le lacrime. "Sono islamico. Eppure non ci ho pensato un secondo a rinunciare al permesso di uscita per domani. La presenza del Papa è un dono troppo grande per perderlo. Il suo è un gesto straordinario: viene a mangiare proprio con noi, gli ultimi fra gli ultimi", aggiunge Mohammed, egiziano. "È il buon pastore - aggiunge Mario - che cerca le pecorelle smarrite. Lo so che ho sbagliato. Ma Francesco mi sta insegnando che non è troppo tardi per ricominciare". La rivoluzione della speranza è già cominciata. Milano: il Papa a San Vittore, intervista alla direttrice Gloria Manzelli di Angelo D’Addesio perfil.com, 24 marzo 2017 Proseguiamo nella serie di colloqui dedicati alla visita del Papa, con Gloria Manzelli, direttrice dell’Istituto Penitenziario di San Vittore a Milano dove Papa Francesco si recherà nella tarda mattinata. D. Che cosa significa per San Vittore e per le istituzioni ed i detenuti la prima visita di un Papa ed in quale modo e con quali iniziative vi state preparando? Questo è un evento molto importante a cui ci stiamo preparando affinché avvenga nel miglior modo possibile e con il contributo di tutti. Ciascuno di noi sta facendo la sua parte ed i detenuti stanno preparando dei piccoli doni e delle lettere per il Papa. Siamo tutti emozionati e felici di questa visita. Il Santo Padre incontrerà la popolazione detenuta a San Vittore dopo di che, come da programma, consumerà il pranzo nell’istituto con una rappresentanza di detenuti dei vecchi settori. D. Quali scenari futuri apre questa visita e quali sono le aspettative dei detenuti per il messaggio ed il segno di Papa Francesco che ha scelto San Vittore come tappa della visita? Penso che la visita del Papa sia prima di tutto un incontro con le persone e quindi con la moltitudine di detenuti provenienti da molti paesi del mondo al di là della condizione di appartenenza. Indubbiamente questa visita vuole sottolineare la necessità di occuparsi sempre e comunque del carcere perché lavorare con le persone detenute significa creare condizioni di sicurezza speciale, prevenire le recidiva e sostanzialmente creare le condizioni affinché quelle persone non abbiano più l’occasione di compiere nuovamente reati. D. Per molti anni San Vittore è stato un simbolo, molte volte mediaticamente abusato ma mai del tutto conosciuto: ci può descrivere il vero mondo di San Vittore visto da chi la dirige da quasi 13 anni? La realtà di San Vittore è caratterizzata in questo momento dalla multietnicità e la nostra popolazione detenuta è prevalentemente straniera, il 67-68% dei detenuti proviene da paesi diversi dall’Italia, sono molto giovani e molti di loro non hanno permessi di soggiorno e sono irregolari e quello che contraddistingue la nostra popolazione carceraria è una sostanziale condizione di instabilità. San Vittore è una casa circondariale ed in quanto tale riceve tutte le persone arrestate nel territorio di Milano e noi dobbiamo gestire la fase delicatissima dell’accoglienza e quindi della prevenzione di eventuali comportamenti auto lesivi, curiamo l’aspetto sanitario e ci occupiamo di tutti quei problemi che agli occhi del comune cittadino potrebbero apparire ordinari. Quindi accompagniamo nel percorso processuale il detenuto fino a quando, se condannato, verrà trasferito presso altri istituti e potrà intraprendere un percorso di progressiva di reinserimento in società in base al territorio ed al tessuto sociale di provenienza e continuare la propria esistenza in modo lecito. San Vittore rappresenta la storia di Milano a partire dall’occupazione tedesca e nel corso di questi anni ha rappresentato il termometro delle criticità sociali che nel paese coinvolgono anche altri parametri. In questo momento il problema del sovraffollamento è contenuto e per ogni detenuto sono rispettati gli standard previsti dal Trattato di Maastricht. Certamente sussiste una situazione per cui rappresentiamo il "primo servizio pubblico" che si occupa di quella particolare categoria di persone. D. Lei in passato definì San Vittore, la "Mecca dell’emarginazione sociale". Cosa è cambiato e cosa ancora deve cambiare perché non sia più così e che segnale si attende dalle istituzioni? Non ho mai usato il termine che ha riferito, piuttosto ho sempre parlato di "detenzione sociale", ossia ho sempre rilevato come negli ultimi anni questa istituzione abbia avuto una virata sull’aspetto sociale più che su altri funzioni tipiche di un carcere. Ma questo è il risultato di quello che già dicevo prima ed è lo specchio di una situazione difficile in cui i detenuti potrebbero scontare la propria pena con mezzi diversi dal carcere ma in questo momento l’unica soluzione che può essere adottata è solo il carcere perché fuori manca una casa, un’occupazione. Per cui a fronte di un ordinamento che nel suo complesso presenta numerose figure alternative e diverse dalla carcerazione, le medesime non sono però applicabili di fatto per cui i detenuti non hanno nel territorio nazionale una rete familiare, sociale e lavorativa necessaria per potersi sostenere e restano in carcere pur avendo compiuto reati di una limitata pericolosità sociale e per i quali si potrebbe ragionare su una misura alternativa alla carcerazione. D. Lei pensa potrà esserci un prima ed un dopo come sempre accade per eventi e visite di tale eccezionalità? Quali conseguenze si aspetta da questa visita sul piano personale e professionale? Un evento del genere non può non avere un seguito. Mi aspetto un aumento dell’attenzione e della sensibilità del territorio sui problemi del penitenziario anche se devo dire che la città di Milano ed il territorio di Milano sono molto attenti a questo carcere per cui i progetti e le iniziative che portiamo avanti grazie alla collaborazione del territorio e dei finanziamenti del Comune e della Regione sono presenti da anni. Mi aspetto che questa visita possa non solo proseguire al consolidamento di questa attenzione ma anche incrementarla. D. Cosa pensa personalmente di Papa Francesco? Tutti amiamo questo Papa. Non si può non amare questo grande uomo e grande Papa. Milano: il carcerato al Papa "ci aiuti ad abbattere la prigione del male" di Luca Fazzo Il Giornale, 24 marzo 2017 "Io fuori credevo. Poi mi hanno arrestato. E quando entri qua dentro attraversi diverse fasi. Io avevo perso la voglia di pregare, era come se accusassi Dio di essersi allontanato da me. Poi ho capito che ero io ad essermi allontanato da Lui". Parlatorio del carcere di San Vittore, le undici di qualche giorno fa. Franco Uggetti è uno dei detenuti che domani incontreranno il Papa, nella prima visita di un Pontefice nel vecchio carcere di piazza Filangieri. Uggetti sarà al primo piano, nel grande corridoio del primo raggio che Bergoglio attraverserà tra due ali di prigionieri: e spera di essere anche tra i novanta detenuti che subito dopo pranzeranno con Francesco al terzo raggio. "Ho chiesto di partecipare, ma lo hanno chiesto anche tanti altri. Qui ormai gli italiani sono il trenta per cento, e credevo che saremmo stati solo noi a fare domanda. Invece anche quelli di altri paesi e religioni vogliono stare col Papa. Molti sono musulmani, per il cattolicesimo in genere non hanno molta simpatia. Ma questo Papa è diverso, e non credo che sia soltanto un fattore di carisma umano: penso che c’entri anche il modo in cui sta rimodernando la Chiesa, andando contro certe istituzioni e mettendosi dalla parte di coloro che soffrono. Lui è davvero il Papa degli ultimi. E qui dentro, qualunque sia la religione che professiamo, siamo gli ultimi degli ultimi". Novecento detenuti, ognuno con la sua storia alle spalle ("Io ho commesso molti errori, e uno di questi è stato difendermi male", dice Uggetti) e con un presente fatto di routine assoluta, spazi stretti e poche speranze: questo è il mondo che il Papa si troverà davanti domattina, quando gli si apriranno una dopo l’altra le cinque porte che separano il cuore del carcere dalla libertà, dal mondo dei "normali". "L’altro giorno è successa una cosa strana: un vecchio detenuto, uno duro, per la prima volta l’ho visto dialogare con gli assistenti volontari. Parlavano della visita del Papa. Gli ho chiesto: come mai? E lui: eh, sai, questo Papa è diverso". Cosa gli chiederete, cosa vi aspettate da lui? "Per noi è importante che Francesco mandi all’esterno un messaggio che possa abbattere i muri del pregiudizio nei nostri confronti, il marchio che ci accompagna nella società anche quando abbiamo finito di pagare il nostro conto. Ma è importante che ci aiuti anche ad abbattere i nostri muri interiori, che ci tengono prigionieri quanto le mura e le sbarre: i muri dell’odio e del rancore. L’unica strada per distruggere questi muri è la speranza, e di speranza qui ne circola poca, perché sappiamo cosa ci attende fuori. Io ho la fortuna di sapere che a novembre, quando uscirò, troverò ad aspettarmi una famiglia che mi ha perdonato. Ma chi non ha una fortuna simile sa che fuori c’è il nulla. Per questo l’ottantacinque per cento ritorna dentro". Per Uggetti domani sarà il secondo incontro ravvicinato con il Papa argentino. "Mi hanno strappato l’anima, la volontà, la fede - mi hanno rubato Dio", dice una poesia che aveva scritto nei tempi cupi seguiti all’arresto. Poi, passo dopo passo, insieme al cappellano don Marco, si è riavvicinato alla Chiesa. E il 6 novembre dell’anno scorso era a San Pietro, al Giubileo dei Carcerati: è uscito in permesso premio, insieme al cappellano e ad altri due detenuti, è arrivato alla Messa in Vaticano ed è riuscito a consegnare al Papa la pergamena firmata dagli ospiti del centro clinico di San Vittore; ne ottenne in cambio un sorriso che non ha dimenticato. "Certo, adesso il mio sogno è poter arrivare a scambiare con lui almeno una parola. Ma l’importante sarà esserci". Trento: Garante dei detenuti, dopo 8 anni di dibattito si apre uno spiraglio trentotoday.it, 24 marzo 2017 Approvato in Prima commissione il ddl sul garante dei detenuti e dei minori: lo strumento potrà favorire il recupero dei detenuti, secondo il dettato costituzionale, e il raccordo con il livello nazionale. Approvato in Prima commissione, con 5 sì - compreso quello di Simoni di PT, e i no di Borga e di Fugatti della Lega che ha annunciato che per la discussione in aula chiederà i tempi non contingentati - il ddl sull’istituzione dei garante dei detenuti e dei minori. Mattia Civico, promotore del ddl, introducendo il dibattito, ha affermato che il garante dei detenuti è coerente con la scelta, ormai storica per il Trentino, di migliorare le strutture di detenzione e di tutelare diritti di chi è privato della libertà personale. Diritti, ha ricordato, come l’accesso alla salute, la formazione professionale, di mantenere rapporti con le persone più vicine. Il Parlamento, ha detto ancora, ha individuato il garante nazionale che, tra l’altro, è stato ascoltato in audizione in Prima commissione e, a livello nazionale, i garanti regionali sono 11; 10 quelli provinciali, 47 i garanti comunali; 3 soli coincidono col difensore civico. Uno strumento, questo del garante provinciale, che potrà favorire il recupero dei detenuti, secondo il dettato costituzionale, e il raccordo con il livello nazionale. Il tema dei garanti, ha ricordato il consigliere Pd e presidente della Prima commissione, è sul tavolo da 8 anni. Il garante nazionale per i detenuti, ha affermato, ha fatto una visita al Spini dove sono emerse questioni di cui si occuperà la magistratura, ma sul piano politico è importante darsi uno strumento locale, istituzionale, più vicino ai detenuti. Altrimenti la logica dell’ispezione rischia di mettere in luce solo le criticità oscurando invece i dati positivi. Torino: pm dimentica di revocare i domiciliari, l’indagato sconta 78 giorni oltre i termini di Ottavia Giustetti La Repubblica, 24 marzo 2017 Sanzione del Csm al magistrato, la Cassazione la conferma. La difesa: "Errore di scarsa rilevanza, l’interessato era comunque a casa". Il magistrato "dimentica" un indagato agli arresti domiciliari per 78 giorni oltre il termine. Ora la Cassazione ha confermato il provvedimento di censura del Csm motivando: "La privazione in violazione di legge della libertà della libertà personale non può essere ritenuta un fatto di scarsa rilevanza". Il caso coinvolge un ex sostituto procuratore di Torino che, in fase di trasferimento a un altro incarico, dimenticò di revocare la misura degli arresti domiciliari a un suo indagato: con la conseguenza che l’uomo ha scontato due mesi e mezzo in più del dovuto ed è stato liberato solamente quando il fascicolo è stato ereditato da un nuovo pm. Da qui il procedimento disciplinare nei confronti del magistrato e la decisione del Csm di sanzionarlo con un provvedimento di censura. Ciononostante l’ex pubblico ministero aveva impugnato la sentenza in Cassazione sostenendo che l’indagato non era in custodia cautelare in carcere ma a casa, quindi tutto sommato si era trattato di un errore di "scarsa rilevanza". Ma i giudici hanno rigettato il ricorso ribadendo che il suo comportamento è stato "inescusabile". Vicenza: da 8 mesi c’è il nuovo padiglione, ma è chiuso: non ci sono agenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 marzo 2017 All’istituto San Pio X un padiglione su tre è sovraffollato. Era stato inaugurato otto mesi fa, ma il nuovo padiglione del carcere San Pio X di Vicenza deve ancora entrare in funzione a pieno regime in un contesto al limite del sovraffollamento. Solo due piani su cinque sono stati messi a disposizione dei detenuti e il motivo è legato alla carenza del personale penitenziario. Secondo i dati messi a disposizione dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, attualmente l’istituto penitenziario ospita 227 detenuti su una capienza massima di 286 posti ancora non del tutto utilizzati. Non potendo usufruire dei tre piani del nuovo padiglione, la distribuzione dei detenuti presenti è disposta in maniera tale da far raggiungere il limite massimo fissato dalla sentenza Torreggiani. Attualmente i reclusi sono divisi tra vecchio e nuovo padiglione e la cosiddetta "casa reclusione". I primi due rispettano lo spazio vitale per ogni detenuto previsto dalla normativa mentre il terzo, destinato a chi deve scontare condanne definitive e ai collaboratori di giustizia, è "fuorilegge": la capienza massima è di 25 carcerati, ma ne sta ospitando 44, quasi il doppio. Una situazione che diventa sempre di più insostenibile. In realtà, all’indomani dell’inaugurazione del nuovo padiglione con tanto di taglio del nastro da parte del ministro della Giustizia Andrea Orlando, i sindacati penitenziari avevano già denunciato che l’iniziativa doveva essere accompagnata da un rafforzamento del personale. "Una situazione preoccupante non solo sul piano della sicurezza, ma anche su quello dei diritti umani", sbottò il segretario della Funzione pubblica Cgil Agostino Di Maria. I numeri parlano chiaro: sui quasi 200 agenti previsti, in servizio ce ne sono 143. Gli amministrativi dovrebbero essere 24, ma gli operativi sono appena 16. L’ampliamento, di fatto, non ha migliorato le condizioni. Da un progetto regionale sui suicidi coordinato dall’Ulss 6 di Vicenza, emerse che nelle carceri oltre dei 50% dei detenuti è a rischio. "Fattori significativi sono le esperienze di abbandono, le violenze nell’età dell’infanzia e dell’adolescenza, i disturbi antisociali e cognitivi, i comportamenti border line e le patologie psichiatriche come la depressione - spiega Stefano Tolio, dell’Unità operativa sanità penitenziaria dell’Ulss 6 - Altri problemi sono la solitudine e la dipendenza dalla droga". Il nuovo padiglione è costato nove milioni e mezzo e dall’ultima visita effettuata dalla delegazione del Partito Radicale composta da Maria Grazia Lucchiari (presidente del Circolo Nessuno tocchi Caino di Padova) e Rita Bernardini (presidente d’onore dell’Associazione Radicale Nessuno tocchi Caino), è emerso anche il problema sanitario. L’infermeria è centralizzata nel vecchio padiglione e se un detenuto si dovesse sentire male, il personale infermieristico impiegherebbe almeno mezz’ora di tempo per raggiungerlo. Il problema del mancato utilizzo delle celle va ad inserirsi in un discorso generale del sistema penitenziario legato al sovraffollamento. I dati della capienza massima messi a disposizione del dap non tengono conto dell’alto numero di camere o sezioni fuori uso. Il garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private delle libertà personali lo ha spiegato nella sua relazione annuale: le celle inutilizzate per inagibilità o per lavori in corso sono pari al 9,5% del totale. Più o meno corrispondono a circa 5.000 camere inutilizzate. Un dato che lo stesso capo del Dap Santi Consolo ha confermato durante un suo intervento ai microfoni di Radio Carcere, la trasmissione di Radio Radicale condotta da Riccardo Arena. Il Garante nazionale Mauro Palma ha illustrato dei casi che rendono bene l’idea della situazione generale. In Sicilia non è agibile un posto su 5, ma ci sono anche casi limite come quello della Casa circondariale di Pistoia dove su 57 posti totali ben 47 non sono disponibili o quello di Arezzo, che oltretutto si trascina da diversi anni, dove su 101 posti solo 17 sono disponibili. Parma: Pagliari (Pd): "per il carcere sovraffollato serve direttore a tempo pieno" parmaquotidiano.info, 24 marzo 2017 Sovraffollamento, con 590 detenuti per una capienza di 468 persone, e dal 2011 l’assenza di un direttore in servizio con assegnazione fissa. Sono queste le criticità del carcere di Parma messe in luce dal Senatore Pd Giorgio Pagliari, che sul tema ha deciso di interrogare il Ministro della Giustizia. "Il Garante per i detenuti di Parma ha sottolineato che l’assunzione da parte del direttore del carcere della città dell’incarico di direttore pro tempore del carcere di Firenze è incompatibile con l’alto carico di impegno che tale ruolo richiede - ricorda Pagliari. Ciò metterebbe il Direttore nella condizione di doversi occupare di più di 1.300 detenuti a 250 chilometri di distanza fra i due istituti, mettendo a rischio non solo la qualità del lavoro del Direttore stesso ma soprattutto la vivibilità dei detenuti". Pagliari ricorda come il carcere di Parma sia composto da sei sezioni di Alta sicurezza, una per detenuti AS1, appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso, e cinque per detenuti in AS3, condannati per reati associativi, ospita detenuti in 41 bis, membri della criminalità mafiosa, e altri in media sicurezza oltre ad 80 ergastolani e un ospedale con 20 posti, aperto a carcerati in grave stato di salute provenienti da altre strutture. Un carico di lavoro incompatibile con la direzione del carcere di Sollicciano dove, ricorda ancora Pagliari, "sono presenti 744 detenuti (494 i posti regolamentari) e 485 agenti di polizia penitenziaria (696 quelli previsti)". Pagliari chiede dunque di sapere se il Ministro "non intenda intervenire per dare all’Istituto di Parma un direttore in via definitiva in grado di poter così affrontare i gravi problemi di affollamento e migliorare così la vita dei detenuti". A margine del deposito dell’interrogazione, Pagliari ha anche replicato alle accusa lanciate in Consiglio Comunale dal Sindaco di Parma Federico Pizzarotti, che aveva parlato di silenzio da parte dei parlamentari del territorio. "Quanto alle improvvide e ingenerose dichiarazioni del Sindaco, come sempre pronto a scaricare le sue inefficienze sugli altri, non ho ricevuto da lui alcuna sollecitazione - afferma Pagliari - Peraltro questi 4 anni dimostrano come sia sempre stato a disposizione al di là delle posizioni politiche". Busto Arsizio: "il carcere scoppia", li avvocati penalisti lanciano l’allarme La Prealpina, 24 marzo 2017 "Il nostro non è uno sciopero per tutelare la categoria bensì per difendere i diritti dei cittadini": al terzo giorno di astensione dalle aule, la camera penale spiega all’opinione pubblica il senso di questo sciopero. Per rendere meglio l’idea di ciò che sta accadendo nell’universo giustizia - che non è confinato dai corridoi di un tribunale - il presidente Roberto Aventi, il segretario Samuele Genoni, i consiglieri Lorenzo Parachini, Francesca Giamporcaro e il tesoriere Chiara Cozzi, all’assemblea di ieri mattina, 23 marzo, ha invitato il garante dei diritti dei detenuti Luca Cirigliano che ha illustrato ciò che accade in via per Cassano, perché il sovraffollamento delle carceri è uno dei punti su cui gli avvocati penalisti stanno battendo. La capienza del penitenziario di Busto è di 238 persone, ma ormai il numero sta ascendendo ai livelli di emergenza di qualche anno addietro. "Il dato aggiornato a mercoledì è di 401 detenuti", spiega Cirigliano. La cassazione, lo scorso 17 marzo, si è pronunciata in modo molto chiaro sulle condizioni dei reclusi: lo spazio vitale all’interno delle celle deve essere calcolato al netto degli arredi e del bagno. E a Busto, dove ormai ci sono anche tre detenuti per cella, "le condizioni sono disumane", avverte Cirigliano chiedendo la collaborazione dei penalisti per alleggerire la pressione della casa circondariale. "Vorrei aprire uno sportello legale dentro al carcere perché i detenuti chiedono a me consigli e pareri ma io non conosco la materia e devo sempre appoggiarmi a un esperto". Questo è uno degli obiettivi che vorrebbe raggiungere il garante in carica fino al 2020, ma alla camera penale ha sottoposto un’altra carenza non trascurabile: la mancanza di educatori. Assurdo pensando che la pena - così come indicato dal codice - dovrebbe avere una funzione riabilitativa e educativa. "Su sei educatori previsti ne abbiamo uno e mezzo, ossia uno fisso e uno in missione da Varese". A breve quindi Cirigliano farà da Caronte per i penalisti tra le sezioni di via per Cassano così da percepire l’aria che si respira dietro le sbarre. Al centro della protesta degli avvocati - che si ripeterà dal 13 al 19 aprile - c’è il decreto legge Orlando, passato con la fiducia. Prevede due riforme allarmanti a parere dei penalisti. La prima è la sospensione della prescrizione tra un grado di giudizio e l’altro. "Il problema della prescrizione lo risolverebbero le procure evitando di tenere i fascicoli e le notizie di reato nel cassetto per cinque anni. I pm selezionano i casi e mandano avanti quelli che preferiscono". In altre parole il rischio è quello di rimanere imputati a vita. L’altra rivoluzione riguarda i processi a distanza, che di fatto toglie il diritto all’imputato stesso di partecipare ai processi. Nel ddl del ministro Andrea Orlano si parla anche della soppressione dei tribunali dei minori e dell’accorpamento ai tribunali ordinari. Una questione è particolarmente delicata che chiama in causa anche la figura così ingerenti dei servizi sociali e che quindi merita una trattazione a parte. La settimana di sciopero delle toghe "che a Busto ha avuto una percentuale di adesioni altissima" e che terminerà oggi, 24 marzo, è l’occasione per lanciare un altro tema caro ai penalisti, quello della separazione delle carriere dei magistrati, da una parte gli inquirenti e requirenti - che svolgono le indagini e chiedono le condanne in aula - dall’altra i giudicanti. Foggia: un progetto della Caritas per il reinserimento sociale dei detenuti teleradioerre.it, 24 marzo 2017 La Giunta comunale di Foggia, su proposta dell’assessore comunale all’Ambiente, Francesco Morese, ha recepito il progetto presentato dalla Caritas Diocesana Foggia-Bovino denominato "La strada giusta dopo il carcere". Il progetto si propone l’obiettivo di mettere in campo ogni azione utile a realizzare un reinserimento sociale dei detenuti e degli ex detenuti ammessi all’esecuzione penale esterna. "Un percorso decisivo, la cui attuazione è maturata anche in ragione delle numerose richieste avanzate al Centro d’Ascolto della Caritas da molti ex detenuti - spiega il direttore della Caritas di Foggia, Don Francesco Catalano. Siamo grati all’Amministrazione comunale per la sensibilità dimostrata nell’accogliere questo progetto, definendo il perimetro della sua applicazione ed aiutandoci a centrare l’obiettivo della ricostruzione di un ruolo sociale e civile per questi nostri concittadini. Un traguardo che è insieme un atto di solidarietà ed un modo per trasformare il reinserimento sociale di detenuti ed ex detenuti in uno strumento da mettere al servizio della comunità". La progettualità proposta dalla Caritas e recepita dall’Amministrazione comunale non comporta oneri per il Comune di Foggia. Essa prevede per gli ex detenuti ed i detenuti ammessi all’esecuzione penale esterna lo svolgimento di attività di pubblica utilità quali il ripristino di parti di arredo urbano in stato di degrado; la cura e la pulizia di aree verdi pubbliche; l’imbiancatura di muri e di edifici e strutture pubbliche; la realizzazione di interventi di pubblica manutenzione. Il progetto avrà una durata di 12 mesi e coinvolgerà un massimo di 15 soggetti. "Abbiamo accolto con grande favore la proposta formulata dalla Caritas Diocesana, che ringrazio per l’instancabile lavoro svolto quotidianamente accanto agli ultimi ed a chi è in difficoltà. La sua proposta, peraltro, si pone esattamente nel solco di altre iniziative attivate dal Comune di Foggia su questo delicato ed importante terreno, come quella che vede l’Amministrazione comunale collaborare con l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Foggia - commenta il sindaco di Foggia, Franco Landella. La riabilitazione agli occhi della comunità di coloro i quali hanno avuto problemi con la giustizia, significa un principio virtuoso e di giustizia, capace di generare effetti positivi". "Il ‘riscatto socialè è fattore fondamentale per sconfiggere i pregiudizi e sottrarre queste persone al rischio di un ritorno in quel cono d’ombra che li ha portati in carcere - aggiunge l’assessore comunale all’Ambiente, Francesco Morese -. È particolarmente importante, inoltre, che questo obiettivo sia raggiunto mettendo al servizio della città attività finalizzate alla tutela ed al recupero del nostro patrimonio pubblico". Avellino: "nel Carcere di Ariano Irpino ho appreso il vero valore della scuola" di Giulia D’Argenio orticalab.it, 24 marzo 2017 Carolina Maestro ha insegnato nell’istituto penitenziario della Città del Tricolle nel 2012, nella primissima classe di scuola superiore attivata in collaborazione con il locale liceo artistico. Quell’esperienza è divenuta un libro che dà voce alla docente e ai suoi ex-allievi, abbattendo tanti pregiudizi su quella che è la realtà dei detenuti. "In quelle esistenze sciupate è sempre possibile rintracciare un momento in cui inizia il lento scivolamento in una condizione di marginalità. Vite che, forse, l’istruzione "fuori" avrebbe potuto salvare". "Professoressa, la prossima volta porti una bic, una bic nera, non questa penna". Quella bic nera che l’Agente di Polizia Penitenziaria chiese a Carolina quando mise per la prima volta piede nel carcere di Ariano Irpino ha lasciato un segno indelebile che non è solo quello della scrittura. "Altri tipi di penne non sono ammesse perché potrebbero nascondere pizzini o dosi di droga. In carcere si imparano tante cose e soprattutto si comprende quanto ingegnosi possano diventare i detenuti". E questa fu la prima delle lezioni imparate da prof. Carolina, entrata per insegnare al Carcere di Ariano Irpino. "Quell’anno avevo possibilità di scegliere tra diverse sedi d’insegnamento, com’è di prassi per i precari. Ebbene, dopo diverse esperienze in istituti superiori, tecnici e non, mi decisi per la sede carceraria del liceo artistico "Ruggiero II" di Ariano Irpino che, per il primo anno in assoluto, attivava una classe all’interno del locale istituto penitenziario, su iniziativa del preside Caloia. L’idea di poter conoscere una realtà diversa mi stimolava particolarmente, anche perché ero alla ricerca di nuove motivazioni, dacché le mie erano state sufficientemente minate dal comportamento degli allievi incontrati fino a quel momento, tutt’altro che rispettosi della professionalità del docente". Carolina Maestro è un vulcano, un fiume in piena: mentre parla sembra di varcare con lei, nel settembre del 2012 il portale d’ingresso della casa circondariale della Città del Tricolle per far conoscenza della classe di allievi che, nella loro spontanea umiltà, le hanno in un certo senso svelato il vero volto e i limiti della scuola "normale". "Erano circa 17: bisogna tener conto che le classi all’interno di un carcere non restano uguali durante l’anno perché ci sono gli abbandoni, non sempre volontari. C’è chi lascia perché preferisce lavorare ma ci sono anche i trasferimenti o le scarcerazioni". Ed è proprio il momento del ritorno in libertà di un detenuto, Pasquale, uno dei ricordi più nitidi che prof. Carolina porta impresso nella mente e nel cuore dei mesi esaltanti e stimolanti vissuti dietro le sbarre di Ariano. "Sai, loro non sanno mai per certo quando verranno liberati: dipende molto dall’avanzamento dei procedimenti giudiziari. Quel giorno Pasquale venne chiamato e poi ritornò in aula a salutarci: aveva le lacrime agli occhi. Io pensavo che lo stessero trasferendo e invece no: Pasquale stava tornando libero. La sua reazione mi colpì moltissimo e mi richiamò alla mente una frase che diceva sempre mia madre al momento della partenza di uno di noi figli per un viaggio: "come sono brutti gli addii. Anche quando uno esce dal carcere secondo me piange". E io non capivo cosa volesse dire una frase del genere. Lo capii allora". Uscire dal carcere non vuol dire semplicemente tornare alla libertà: uscire dal carcere vuol dire tornare alla vita ed al mondo reale. "E il problema è esattamente lì. Una realtà come quella arianese, grazie alla propositività del suo direttore Marcello, è un esempio assolutamente virtuoso di impegno da parte dell’amministrazione penitenziaria a sostenere la riabilitazione del detenuto. Il punto è il reinserimento fuori. In quanti mi raccontavano della loro recidività che, in realtà, in molti casi rappresentava un epilogo obbligato, forzato dalla impossibilità a costruirsi una dimensione socio-lavorativa sana. Durante gli anni di pena, un detenuto può anche impegnarsi al massimo a lavorare o studiare, come anche i miei stessi studenti, tutti vogliosi di rammagliare un rapporto interrotto con la scuola e di dimostrare ciò di cui potevano essere capaci. Ma una persona che ha scontato dieci o quindici anni di carcere per furto o spaccio o perché era stato assoldato dalla camorra, con una simile presentazione, quante realistiche possibilità di reinserimento ha? Molto vicine allo zero e una persona costretta in una condizione di estremo bisogno che può fare se non rimettersi a delinquere?" Il problema, dunque, non è tanto o solo il carcere ma il muro di pregiudizi che c’è dentro da quel che c’è fuori. Un circuito vizioso che dovrebbe essere evitato all’origine, prima ancora del suo innesco e in questo un ruolo fondamentale (e spesso fallimentare) lo gioca la scuola. "Nelle loro storie, nei loro racconti ho capito che c’è sempre stato un punto in cui quelle vite hanno finito per essere sciupate, lasciate andare. E l’abbandono scolastico ha corrisposto molto spesso a quel momento: il momento in cui è iniziato, lentamente, uno scivolamento verso la marginalità. Ecco perché in certi contesti la bocciatura diventa un danno irreparabile. Nelle scuole che sorgono in contesti sociali complicati, bocciare un ragazzo può voler dire perderlo definitamente e spingerlo in un limbo da dove il passo nella spirale della delinquenza è brevissimo. In quei casi, portare avanti il ragazzo, farlo arrivare alla qualifica o al diploma non vuol dire mortificare la scuola ma, magari, salvare una vita". Quelle storie che le hanno insegnato a guardare oltre il muro del carcere, rovesciando completamente il suo punto di vista sulla scuola, sono diventate un libro nel quale ha raccolto il suo diario social e gli scritti dei suoi allievi. "All’epoca, quando tornavo a casa, trasferivo la sintesi della giornata e di quello che era accaduto in post sulla mia pagina Facebook. Non pensavo che avrebbero avuto il seguito che, invece, hanno poi raccolto. Quei post, su spinta di amici e conoscenti sono diventati un libro, "La bic nera", che dopo la prima parte autobiografica di racconto della mia esperienza come insegnante, dà in seconda battuta voce ai miei stessi allievi. Usando i temi da loro scritti o semplici appunti lasciati in giro su fogli di carta perché mi sono alla fine convinta che quelle storie, tanto quanto il mio percorso con loro, dovevano trovare eco, voce. Dovevano essere conosciute". Farle conoscere per preparare il mondo esterno alla ricchezza e alla complessità umana, troppo spesso sottovalutata o addirittura negata, che so cela dietro le mura di cinta di un istituto penitenziario. Un canale di comunicazione che sarebbe altresì necessario agli stessi insegnanti che approdano su lidi così particolari. "Quando sei di fronte a uomini di 40 o 60 anni o a ragazzi di 20 che però sono cresciuti troppo in fretta, non puoi certo ridurti alla lezioncina di letteratura da prima liceo. Devi trovare il modo giusto instaurare un dialogo, una comunicazione. Devi essere efficace e ne senti tanto più la responsabilità se pensi che di fronte a te trovi persone che per formarsi con e grazie a te rinunciano alla loro ora d’aria. Ma la verità è che l’insegnante di una sede carceraria arriva completamente impreparato. È stato per questo che ho scelto come oggetto del mio dottorato di ricerca in "Cultura, educazione e comunicazione", vinto lo scorso settembre all’Università di Foggia, il tema dell’educazione carceraria. Serve anche lì una necessaria ed adeguata preparazione pedagogica dell’insegnante che si trova di fronte alla responsabilità di rispondere, almeno per quel tempo definito, alle aspirazioni di liberazione e riscatto di persone cui già tante opportunità sono state negate". Nuoro: la moda in carcere contro i disturbi alimentari cronachenuoresi.it, 24 marzo 2017 Una sfilata di moda per dire no ai disturbi alimentari come l’anoressia e la bulimia. L’evento è stato organizzato dall’associazione nuorese "Si vive una sola volta" all’interno della struttura carceraria di Badu e Carros un contesto scelto appositamente per la solitudine e la sofferenza che la psiche umana subisce a causa della prigionia. Gli abiti che sono stati indossati per l’occasione sono stati realizzati dalle carcerate "Nero Luce" di Rebibbia. La sfilata è stata preceduta da un dibattito sul tema dove è stato evidenziato che solo l’anoressia, ogni anno in Italia, colpisce tre milioni di persone, di cui due milioni adolescenti, uccidendone ben 7mila. Sulla passerella hanno preso parte donne, dai 20 ai 50 anni, con taglie dalla 40 alla 50, tutte felici e orgogliose di portare in passerella le proprie forme e poter essere testimonial di una campagna di sensibilizzazione "salvavita". Ragazze, mamme, studentesse, lavoratrici e anche nonne, modelle di corrette abitudini alimentari, per un giorno. L’associazione nuorese la cui presidente è Sara Gungui, si occupa da cinque anni di supportare le persone che hanno questo genere di problematiche. "Ringrazio prima di tutto alle ragazze dell’associazione e coloro che, senza farne parte, hanno partecipato sfilando; a Kety Soro e Alessia, estetiste, per il contributo nel rendere ancora più belle le nostre modelle; Sara Zucca, parrucchiera, per le meravigliose acconciature. Silvio Comida per aver intrattenuto musicalmente l’evento e Renato Pischedda per averlo brillantemente presentato. Una menzione particolare e importante, alle attività commerciali e artigianali che, grazie alla propria generosità, hanno permesso di "vestire" i nostri modelli e modelle" conclude la presidentessa. Palermo: sport e legalità per i giovani detenuti del Malaspina Adnkronos, 24 marzo 2017 Imparare uno sport e farne un lavoro. È questo l’obiettivo del progetto ‘Giovani, sport e legalità’ inaugurato questa mattina all’Istituto penale per i minorenni Malaspina di Palermo. A fare da testimonial il presidente del Palermo Calcio Paul Baccaglini. "Prendere una strada giusta anziché una sbagliata dipende in gran parte dalla vostra forza di volontà - ha detto ai giovani detenuti - La vita fuori da queste mura potrebbe anche riproporvi le stesse difficoltà che avete conosciuto finora, ma aggrappandovi a una motivazione forte potrete vincere questa sfida. La differenza la fate voi con le vostre scelte". Il progetto condotto dall’associazione Euro in partenariato con Uisp (ente capofila), Save the Children e Università degli Studi, coinvolgerà anche i ragazzi dell’Ipm Bicocca di Catania e altri giovani in carico all’ufficio Servizi sociali per i minorenni di Palermo. Le attività, finanziate dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri (Dipartimento della gioventù e del servizio civile nazionale), dureranno 24 mesi e prevedono momenti dedicati all’educazione alla legalità, con cineforum e incontri a tema, la pratica di vari sport (nuoto, pallavolo, tennistavolo e fitness) e alcune azioni formative tra cui i corsi per arbitro di calcio, per istruttore di body building e per assistente bagnanti utili per creare competenze e favorire il reinserimento socio-lavorativo. "Sono cresciuto a New York - ha detto Baccaglini raccontando ai giovani detenuti del Malaspina la sua storia - ho attraversato vicende familiari difficili e, prima di arrivare in Italia, ho dovuto in un certo senso fronteggiare gli stimoli negativi delle strade di New York. Ma mi sono fatto aiutare e ho scelto di vivere le difficoltà come una sfida, come uno stimolo a fare di più. Oggi ho una bella famiglia, il mio lavoro e a trentatré anni sono il più giovane presidente della serie A. Tutti possono farcela - ha aggiunto - anche voi, perché sono certo che ognuno di voi sa dentro di sé cosa è giusto. Dovete crederci e andare avanti senza farvi condizionare dalle etichette che il mondo vi appiccica addosso. Se ci riuscirete, avrete contribuito a cambiare il mondo in meglio". Alessandria: entra in carcere il tamburello "rieducativo" di Valentina Frezzato La Stampa, 24 marzo 2017 Lo sport più antico entra in carcere e, per la prima volta, sono coinvolti quasi cento detenuti. Accade in Piemonte, precisamente ad Alessandria, alla casa di reclusione Don Soria, dove dal 1° aprile arriveranno tamburelli e palline, ma soprattutto ci sarà Gianni Agosto a varcare quella porta, emozionato come adesso mentre racconta lo spirito del suo progetto, portato avanti come presidente del comitato provinciale Palla Tamburello di Alessandria: "Abbiamo organizzato un corso per detenuti, a cui insegneremo questo sport che nella nostra regione ha una lunga tradizione", annuncia orgoglioso. Gesti antichi che, in questo caso, hanno anche funzione educativa: il corso durerà quattro mesi, si inizia il primo aprile e verranno coinvolti 95 detenuti. Altro che una squadra. Si punta a giocare pure seriamente, un po’ come è successo a Verona, dove la casa circondariale ha 15 persone che sfidano gli avversari in serie C: "L’obiettivo è ovviamente questo - continua Agosto -: allenare chi giocherà con noi per poi pensare a formare una squadra da iscrivere al campionato". La tradizione - Ma si parla del prossimo anno, invece ora si è concentrati sul presente: "In un periodo storico in cui si parla di muri da costruire, noi i muri li usiamo per giocare: in carcere infatti porteremo il tamburello indoor e a muro, cioè quello in cui si utilizza la parete come appoggio, sponda. La scelta dipende dall’ampiezza del campo: giocheremo nel cortile che si usa normalmente per l’ora d’aria" e poi questo tipo di tamburello è più empatico, il pubblico si diverte di più. Il tamburello non è uno sport olimpico, ma nelle valli piemontesi negli Anni 50, 60, 70 c’erano tante persone a seguirlo quante oggi negli stadi di calcio provinciali: "In provincia, attualmente, abbiamo 12 società regolarmente tesserate e 9 squadre iscritte al campionato nel muro. L’unica in Serie A è il Cremolino, ce ne sono 6 in Serie C". Gianni Agosto spiega che questo è uno di quegli sport da salvaguardare: "È tradizionale, insieme alla pallapugno. Parliamo di una disciplina tipicamente piemontese e la variante del muro è proprio prerogativa del Monferrato, sia alessandrino che astigiano". Ora, verrà conosciuto anche in carcere e dagli stranieri che potranno partecipare. Il progetto è possibile grazie all’interessamento del garante comunale dei detenuti, Davide Petrini, che è professore universitario e attento conoscitore di quel mondo. Le lezioni saranno una volta alla settimana, coinvolti venti detenuti alla volta per un totale che arriva quasi a cento. Un modo diverso, per loro, per usare i muri con cui hanno a che fare tutti i giorni e che delimitano il perimetro delle loro vite. Ma questa è un’altra storia. Augusta (Sr): conclusa la raccolta libri per i detenuti promossa da "Cambiaugusta" lagazzettaaugustana.it, 24 marzo 2017 Ieri mattina con la consegna alla biblioteca della Casa di reclusione di Augusta si è conclusa l’iniziativa promossa dall’associazione politico-culturale "Cambiaugusta" dal titolo "Dona un libro, libera una mente", che prendeva il via un mese fa. Dopo che il detenuto C.V., bibliotecario dell’istituto di pena, eccezionalmente autorizzato dal direttore Antonio Gelardi, si è recato presso la sede dell’associazione per visionare i libri donati, il presidente Marco Stella, accompagnato da una rappresentanza di "Cambiaugusta", ha provveduto a consegnare gli oltre duecento libri raccolti durante queste settimane grazie alla generosità di quanti hanno voluto aderire all’iniziativa. Stella ha riferito: "Manifestiamo grande soddisfazione per l’entusiasmo con cui è stata accolta la nostra idea, per la straordinaria partecipazione che ha registrato e per l’esito che è andato ben oltre le nostre aspettative. Questa è l’ennesima conferma dell’attenzione e della disponibilità di chi ci segue e la dimostrazione che attraverso la cultura, in ogni sua manifestazione, passi la rigenerazione di ogni società". Il presidente di "Cambiaugusta" ha concluso: "Un ringraziamento di cuore va al direttore Gelardi e al dott. Mirabella e a quanti, con il loro sostegno e a vario titolo, hanno contribuito al buon esito dell’iniziativa. Ci auguriamo che questo evento sia solo l’inizio di una collaborazione sempre più frequente tra noi e la Casa di reclusione di Augusta". Roma: l’arte in carcere giova ai detenuti arte.rai.it, 24 marzo 2017 Alla Casa Circondariale "Regina Coeli" alcuni detenuti hanno avuto la possibilità di lasciare un segno della loro creatività sulle pareti all’interno del carcere, grazie a un progetto straordinario che ha coinvolto tre donne artiste; Paola Paloscia, meglio conosciuta come Pax, Laura Federici e Camelia Mirescu. L’occasione è nata grazie alla I edizione (2016/2017) del progetto artistico "Outside/Inside/Out - Arte a Regina Coeli", promosso e condiviso da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali - Macro e dalla Direzione Casa Circondariale "Regina Coeli". Claudio Crescentini,, curatore del Museo Macro a Roma ha curato il progetto con l’organizzazione di Vo.Re.Co. VOlontari REgina COeli e Shakespeare and Company2. Le tre artiste, con un linguaggio e formazione completamente differenti hanno collaborato con i detenuti di Regina Coeli per la realizzazione di interventi artistici permanenti, realizzati direttamente sulle pareti interne del carcere, in spazi comuni fra pubblico e privato, nel continuo gioco dialettico fra interno ed esterno della concettualità espressiva messa in atto. Il progetto artistico si è posto fin da subito come momento creativo dello sviluppo della multi-funzionalità dell’arte contemporanea e della sua "applicabilità" e apertura concettuale in spazi generalmente intesi come "chiusi" ma che tendono all’apertura di mondi interiori infiniti dei loro "abitanti". Opere a più mani quindi, effettuate con linguaggi e tecniche diverse, dall’iconismo grafico e street di Pax Paloscia, alla pittura espressiva di Laura Federici e al collage materico e multi-visuale di Camelia Mirescu. Opere permanenti per la struttura carceraria di Regina Coeli, di grandi misure e di grande impatto visivo, ma anche prodotto multimediale da "esportare" al di fuori delle mura stesse del carcere. Infatti, le tre artiste hanno anche realizzato un video, dal titolo Muri socchiusi, già inserito nell’ambito della XV edizione del Festival della Fotografia. Rai Arte ha intervistato l’artista Paola PAX Paloscia e alcuni detenuti per trarre le somme di quest’esperienza. Napoli: attori e musicisti dai detenuti del carcere di Secondigliano di Melina Chiapparino Il Mattino, 24 marzo 2017 "Sosteniamo le attività che favoriscono il clima sereno e la rieducazione in carcere". Le parole di Liberato Guerriero, direttore della casa circondariale di Secondigliano, arrivano a conclusione di una mattinata molto particolare. In scena attori, cantanti e musicisti e per pubblico i detenuti del reparto Tirreno che hanno applaudito a "Unamena Live". Lo spettacolo, organizzato dai volontari dell’Associazione Onlus I figli di Barabba si è svolto all’interno della palestra della struttura carceraria e ha intrattenuto per 3 ore i detenuti che hanno assistito al concerto di Andrea Sannino e Stefania De Francesco, alle performance dei musicisti Mauro Spenillo e Giuseppe Seno e agli sketch degli attori di un Posto al Sole e Made in Sud. "La nostra struttura - aggiunge Guerriero - è impegnata in progetti di vario tipo affinché la detenzione possa riabilitare il carcerato. La prospettiva è impegnarsi sempre più per l’inserimento post carcere nel mondo del lavoro". Tanti sono stati gli artisti che hanno aderito in maniera volontaria e gratuita alla manifestazione destinata a uno dei tre reparti di alta sicurezza del carcere dove si svolgono con continuità attività di laboratorio coordinate dal reparto educativo della casa circondariale, rappresentato oggi da Danila Pellecchia, e dalle reti di volontari, organizzati stamane da Giuseppe Cioffi, Antonio Barreca e Alfonso Santoro con la collaborazione di Sergio Morra. "Credevamo di dare qualcosa ai detenuti e invece siamo stati noi a tornare a casa carichi di emozioni", hanno detto Germano Bellavia, Pasquale Palma e Marzio Onorato, gli attori che si sono esibiti sul palchetto nel carcere e che hanno promesso di tornare al più presto per nuovi spettacoli destinati anche agli altri reparti. "Abbiamo in programma altre manifestazioni - hanno spiegato Antonio Parisi con le figlie Francesca e Chiara dell’associazione I figli di Barabba - e svolgiamo settimanalmente laboratori di scrittura creativa e disegno. Invitiamo tutti gli artisti napoletani a sostenerci perché il carcere è anche riabilitazione dell’animo". Napoli: dove c’era prigione ora c’è libertà di Emanuele Iaculo Il Manifesto, 24 marzo 2017 Occupazione e restituzione (al rione Mater Dei) di un ex manicomio criminale. Due anni dopo, la sana esperienza di "Je sò pazzo" ha trasformato uno strumento prediletto del fascismo in casa del popolo: un luogo di ascolto e di azione contro il disagio psichico e sociale. Si nota subito, anche se non chiedi informazioni. Una volta uscito dalla metropolitana, in fondo a via Imbriani, la vedi: un’imponente struttura che si erge nel centro di uno dei più antichi e popolari quartieri di Napoli, il rione Materdei. Le mura esterne ormai annerite dal tempo sono percorse da immensi e colorati murali che non riescono a cancellarne l’inquietante aspetto. Dall’esterno non c’è niente che possa richiamare alla memoria quello che era un antichissimo monastero. Le grate di ferro arrugginito alle finestre, le squallide lamiere incastrate fra loro a formare torrette di sorveglianza e i fili elettrici penzolanti restituiscono solo la fredda immagine di un luogo di reclusione. A differenza di altri edifici destinati alla detenzione, costruiti in zone periferiche delle città, l’ex ospedale psichiatrico giudiziario ("Opg") di Sant’Eframo è circondato da tanti palazzi, alcuni molto alti. Chi abitava agli ultimi piani poteva intravedere e sentire frammenti di quotidianità di una istituzione totale. Come l’anziana signora Maria, che racconta: "A vvot’ e sentev alluccà accussì fort’, non ti so dire se erano allucc’ e pazz’ o…capisc a me!". Più volte ha sentito urlare, senza poter distinguere se si trattasse di urla deliranti o di sofferenza, ma poi gesticolando con la mano allude alla violenza. E continua: "Ho visto pure quann e purtàvn che cammis e forz’, ma dopotutto tu devi guardare pur o fatt’ ca chist erano gente pericolosa, ‘e famiglie pure hanno passato un guaio o no?". Maria dice che "questo posto" le ha sempre fatto un po’ paura. Sai che esiste, sai cosa è, ma non sai cosa avviene tra le sue mura. Un’opacità mantenuta fino a quando nel 2008 l’Opg è stato dismesso e i suoi "abitanti" trasferiti in un’ala del carcere di Secondigliano a Napoli. Gli Opg, ospedali psichiatrici giudiziari, così nominati dal 1975 con la legge n.354 sulla riforma penitenziaria, sono meglio conosciuti in Italia come manicomi criminali. Fin dalla loro nascita, è l’ambiguità politico-giudiziaria a caratterizzare queste istituzioni. Espressione prima delle teorie di Lombroso sul trattamento dei pazzi criminali poi simbolo dell’ideologia repressiva fascista, queste strutture speciali sono state di norma destinate alla detenzione, piuttosto che luoghi di cura o reintegrazione sociale. Negli Opg venivano internati i "folli rei", malati di mente che hanno commesso un reato, prosciolti perché incapaci di intendere e di volere secondo l’art.46 del Codice penale Zanardelli (1889), ma ritenuti socialmente pericolosi secondo il Codice Rocco (1930) e condannati al cosiddetto "ergastolo bianco", una misura di sicurezza detentiva che prevede una pena indefinita e prorogabile nel tempo. Gli Opg sono stati chiusi ufficialmente il 31 marzo 2015. È una carcassa vuota e arrugginita quella che si ritrovano sotto gli occhi il 2 marzo 2015 gli studenti del collettivo autogestito universitario (Cau) di Napoli, accomunati dall’idea di fondo che la lotta contro i sistemi repressivi, le disuguaglianze sociali, la precarietà/assenza di lavoro, la marginalizzazione delle classi più povere è praticabile solo se parte dal basso, cioè dal popolo. Ed è al popolo che si rivolgono quando decidono di occupare la struttura. Quello che era un simbolo di chiusura e di esclusione, attraverso un processo di rigenerazione sociale e culturale, sarà trasformato in un luogo aperto restituito alla città, rinominato "ex Opg Je So Pazzo!". I primi giorni non sono così facili. A meno di ventiquattro ore dall’occupazione i ragazzi si ritrovano a fronteggiare l’irruzione degli agenti di polizia penitenziaria che minacciano lo sgombero immediato. Ma poi accadono fatti inaspettati: la gente del quartiere, il popolo di Materdei, appoggia il "progetto" di occupazione. Questo luogo diventerà in pochi mesi, come ci tiene a raccontare con tono entusiasta e di sorpresa V., una delle attiviste, "un punto di riferimento per il quartiere. Pensa che abbiamo fatto mettere un semaforo a via Salvator Rosa perché sono morte investite delle persone. Sono venuti a chiederlo a noi e al prete". Chi, come V., fa parte del collettivo chiede di non associare nomi e cognomi alle loro azioni o dichiarazioni perché "per noi è importante dare sempre un respiro collettivo a ciò che facciamo, senza personalizzare gli interventi". La loro idea è "costruire" un posto che abbia una funzione sociale attraverso iniziative politiche e attività gratuite. Non un centro sociale classico ma una "casa del popolo" che possa essere vissuta da persone diverse. Un luogo dove in alcuni giorni della settimana, a seconda della disponibilità dei medici e dei macchinari che vengono prestati, è possibile effettuare ecografie alla tiroide e mammarie, prenotando su internet. Qui è attivo uno sportello d’ascolto guidato da psicologi, assistenti sociali e componenti del collettivo. È per la popolazione di Materdei. N., una studentessa specializzanda in psichiatria, racconta come qui "garantiamo ascolto alle storie di sofferenza individuale, troppo spesso causa di un disagio psichico che resta inascoltato, che individualizza ed esclude le persone dal proprio tessuto sociale". C’è una camera del lavoro inaugurata volutamente il 1 maggio 2015; nell’assemblea che ne segue un attivista dichiara: "Vogliamo che questo luogo sia aperto alla comunità, il lavoro non è un tema di qualcuno ma di tutti. Noi speriamo che da oggi inizi un percorso che tra 20-30 anni ci racconteremo come un pezzo di storia rivoluzionaria di questa città". È stato risistemato un campetto che adesso ospita la scuola calcio "Popolare Materdei": i due allenatori ci tengono a dire che "un progetto simile ha lo scopo principale di tirare fuori i ragazzi dalla strada e dal rischio criminalità". Al centro del muro al lato del campetto sono raffigurati i volti di Maradona e di Che Guevara con la scritta "ama il calcio odia il razzismo". V. racconta che "un bambino del calcetto chiese chi era quello a destra di Maradona e un altro bambino gli rispose ‘quello è il tatuaggio di Maradonà". Spazi finalmente aperti, disponibili, riempiti ogni giorno da gente di tutte le età come Federica, 16 anni, che dice di venire qui insieme ai suoi compagni ogni mercoledì "per fare assemblea, parlare delle cose del quartiere e dei problemi della scuola". Attivisti e volontari fanno del loro meglio per cancellare le tracce dell’istituzione totale, ricoprendo le pareti dei chiostri o la zone delle "ore d’aria" con murali o frasi evocative. La struttura è molto grande, distribuita su più livelli. All’ingresso della sala d’accoglienza sotto i manifesti che riportano le iniziative del collettivo, attraverso il vetro della vecchia guardiola sono ancora visibili due monitor per la videosorveglianza. Attraversando il primo cortile, in fondo a un corridoio c’è ancora un murale fatto dagli internati, poi una porta con delle sbarre e le scale per il primo piano. Qui è tutto mura e ferro. Tutto diventa cupo e inquietante: qui sono le celle, questa è la macchina che fagocita menti devianti, usata dal 1923 dal fascismo italiano come strumento di controllo sociale. In questa storia si innesta l’impegno del collettivo Je So Pazzo! per costruire percorsi di memoria attraverso immagini, dibattiti e testimonianze scritte, su ciò che era questo posto e chi vi era recluso. Nel giorno dell’anniversario dell’occupazione dell’ex Opg un’attivista ricorda: "Quando siamo entrati qua dentro lo slogan che utilizzavamo era ‘dove c’era prigione faremo libertà’, oggi probabilmente possiamo anche concederci di usare diversamente questo verbo: dove c’era prigione noi abbiamo fatto libertà". Il terrore e la rimozione della guerra di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 24 marzo 2017 "Siria, 500 marine e milizie curde schierate verso Raqqa, raid aereo Usa fa strage di sfollati", così titolavamo una nostra pagina ieri. Ecco il punto. Se si rimuove e cancella la guerra in corso, gli strumenti di analisi per comprendere gli attentati jihadisti come quello sanguinoso di Londra, è un grave danno non solo alla verità ma anche all’intelligenza. La scia di sangue, che è tornata fin nella recinzione del parlamento britannico e a un anno esatto dagli attacchi a Bruxelles, dura infatti da troppo tempo. È una seminagione che parte dall’11 settembre 2001 a New York, arriva in Europa, prima in Spagna, poi a Londra e di seguito a Parigi, prima Charlie Hebdo poi, con una vera azione di guerra imparagonabile al ponte di Westminster, al Bataclan. Dietro, impossibile non vedere, la diaspora di Al Qaeda troppo presto data per liquidata dopo l’uccisione di Osama bin Laden e invece riattivata in tutto il Medio Oriente con nuovi gruppi affiliati; e altrettanto incredibile tacere la lunga stagione della guerra occidentale nella vasta aerea mediorientale, dall’Afghanistan, dove dura da 16 anni e che nel solo 2016 ha prodotto 11.400 vittime civili, all’Iraq che era "missione compiuta" nel 2003; alla Libia e alla Siria dove la coalizione ibrida di Paesi europei, Usa, Turchia e petro-monarchie del Golfo tentava lo stesso colpo riuscito a Tripoli con Gheddafi. Se si rimuove questa ombra feroce che pesa sulla democrazia occidentale, vale a dire l’adesione e la promozione di conflitti bellici almeno negli ultimi venti anni, ecco che il terrorismo jihadista diventa indecifrabile. E invece i suoi codici sono ben leggibili ai nostri occhi. Eppure ci si richiama alla necessità del modello israeliano, dimenticando che anche per l’Onu Israele occupa militarmente i territori palestinesi. Così si ricorre a topos narrativi, il lupo solitario, l’emulazione su web, la propaganda islamista, il terrorista della porta accanto. E si richiama la figura dei foreign fighters, che non sono poche decine ma migliaia e migliaia, da 15 a 20mila denunciò Obama stesso. Tutti partiti in tour da Europa e Stati uniti, mentre le rispettive intelligence guardavano da un’altra parte. E tutti bene accolti dall’atlantica Turchia che, in stretti legami economici e militari con i jihadisti, poi li ha smistati sui campi di battaglia. Ora ci ritornano pericolosamente in casa. Proprio mentre si annunciano le battaglie "decisive" delle due o tre guerre mondial-mediorientali ancora di là da finire. Si combatte in Siria anche per far fallire la tregua decisa dall’Onu e i negoziati di Astana. Sul campo si fronteggiano almeno sette eserciti, degli Usa - ora schierati piedi a terra, della Russia, della Turchia, di quel che resta della Siria di Assad, le milizie sciite hezbollah e iraniane e la miriade di jihadisti, qaedisti e dell’Isis. Ma la scia non finirà, nemmeno se cadesse Raqqa e neanche se cade Mosul, dove la frantumazione è pressappoco eguale anche perché ogni giorno in Iraq è strage di civili proprio per reazione alla perdita di posizioni del jihadismo sunnita. Tre sono gli Stati distrutti dai nostri conflitti, Iraq, Libia e Siria: il cuore del Medio Oriente non esiste più. Si dirà che ormai la scia di sangue del terrorismo di ritorno è diventata endemica. Ma questa endemia deriva dalle alleanze strategiche dell’Occidente legate mani e piedi alle petro-monarchie del Golfo e alla nuova Turchia del Sultano Erdogan, nonostante tutto. Deriva cioè dalle guerre che abbiamo promosso. Testimoni soli e veridici i milioni di disperati in fuga dai conflitti, dal terrorismo e dalla miseria. Una umanità alternativa che, solo se si azzarda a venire da noi, la ricacciamo con i muri e le fosse comuni a mare, per rinchiuderla poi "democraticamente" in campi di concentramento. Diritti dei migranti, abolire l’appello accelera i tempi ma può far danni di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 24 marzo 2017 Si fanno 3 gradi di giudizio per il furto in negozio di un ovetto Kinder o per il reato di "getto di cose pericolose" contro un piccione, ma per decidere del diritto o meno di un migrante di ricevere protezione internazionale ci si farà bastare un solo esame giurisdizionale di merito: perché in nome dell’esigenza di velocizzare-rendere efficace-snellire, il decreto legge Orlando-Minniti (martedì al voto del Senato con la fiducia annunciata ieri dal governo su un maxiemendamento) opta per l’abolizione secca dell’Appello. E nel varare in ogni distretto una sezione specializzata di Tribunale per il riesame delle decisioni amministrative delle 28 Commissioni territoriali composte da funzionari del ministero dell’Interno e rappresentanti dell’Unhcr, disegna un nuovo iter anche del primo grado: dove l’udienza diventerà un’eventualità (qualora ritenuta necessaria dal giudice in specifici casi introdotti da un emendamento), mentre la normalità sarà la camera di consiglio, senza contradittorio orale ma solo scritto, e per giunta con l’audizione del migrante tendenzialmente sostituita dalla visione da parte del giudice del colloquio videoregistrato davanti alla Commissione territoriale amministrativa. Un simile cambio di rotta (di non scontata compatibilità con la giurisprudenza Cedu) viene motivato con la "realpolitik": 26.000 richieste di asilo nel 2013, 64.000 nel 2014, 83.000 nel 2015, 123.000 nel 2016; i migranti sul territorio ad aspettare anche 3 o 4 anni; e solo 4 su 10 ammessi dalle Commissioni territoriali amministrative al diritto d’asilo (5%), alla protezione sussidiaria (14%) o umanitaria (21%). Però nessuno parla di un altro numero, i dinieghi amministrativi poi ribaltati dai giudici: 67% stando alla "proiezione empirica" accennata in un’audizione dal prefetto Angelo Trovato, che al Viminale presiede la Commissione nazionale per il diritto di asilo. Un dato che, in una materia dove l’esame del fatto esposto dal migrante è tutto, consiglierebbe prudenza prima di sacrificare l’Appello alla maggiore celerità. Migranti. La Libia boccia l’accordo con l’Italia, in mare altri 240 morti di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 24 marzo 2017 La Corte di Tripoli ha bloccato il patto del 2 febbraio scorso con Gentiloni: la fazione di Haftar non lo ha riconosciuto. La nuova tragedia denunciata da una Ong spagnola. La Libia blocca l’accordo con l’Italia sul controllo dei migranti proprio nel giorno in cui, sempre nelle acque nordafricane si consuma l’ennesima tragedia dei barconi: secondo alcune fonti almeno 240 persone sarebbero affogate a poche miglia dalla costa libica nel tentativo di raggiungere l’altra sponda del Mediterraneo. L’accordo tra i governi di Tripoli e Roma è stato bloccato invece dalla corte d’appello libica. Ne dà notizia il sito del quotidiano Lybia Herald. L’intesa era stata firmata il 2 febbraio scorso tra il premier Paolo Gentiloni e dal suo omologo libico Fayez al Serraj. Non è chiaro a questo punto quale saranno le conseguenze sui flussi in partenza dall’Africa. Secondo il quotidiano la sentenza è solo l’ultima puntata in ordine di tempio della guerra a distanza tra Serraj, sostenuto dall’Onu, ed il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, appoggiato da Egitto, Russia e Francia, tra gli altri, e che non riconosce l’autorità del premier libico. Un patto da 215 milioni - L’accordo sottoscritto tra gentiloni e Serraj prevedeva il reimpatrio dei migranti soccorsi in mar, la costituzione di campi in Libia e un’offerta di mezzi navali e tecnologici da parte dell’Italia e un contributo dell’Onu pari a 215 milioni di euro. Il ricorso, presentano da esponenti politici locali non contesta solo il contenuto dell’intesa ma anche il fatto che il governo di Tripoli non è ufficialmente riconosciuto dal parlamento di Tobruk, guidato dal principale antagonista del premier libico, Haftar. Doppio naufragio a nord di Sabrata - Oltre a questo stop politico, ieri la ong spagnola Proacviva Open Arms, che opera nel soccorso dei migranti, ha dato notizia di una nuova tragedia del mare: "Si temono almeno 24o morti in un doppio naufragio" è stato reso noto dalla portavoce Laura Lanuza. Su due gommoni alla deriva sono stati recuperati 5 cadaveri ma poiché ogni imbarcazione di quel tipo di solito ospita almeno 120 passeggeri, si calcola che all’appello manchino oltre 200 persone: si presume siano affogate. Il doppio naufragio, secondo la Ong, sarebbe avvenuto ad appena 21 chilometri a nord di Sabrata. La "Rotta mediterranea centrale", quella che porta in Italia, è privilegiata dai trafficanti di migranti dopo la chiusura di quella balcanica. Un tratto di mare difficile, soprattutto nei mesi invernali, che comporta inevitabili naufragi e morti. Solo l’anno scorso hanno perso la vita quasi 4.600 e nel 2015 più di 2.850. Dal 2014 le vittime accertate di questa traversata sono state oltre diecimila, ma le cifre reali sono sicuramente più alte. Migranti. I sospetti delle Procure sui continui salvataggi vicino alle coste libiche di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 24 marzo 2017 Gli interventi privati aumentano mentre calano le richieste di aiuti alle Capitanerie. In almeno quattro occasioni, nel 2016, le navi affittate dalle organizzazioni non governative per l’assistenza ai rifugiati sono entrate nelle acque libiche per raccogliere i migranti appena salpati dalle coste africane e portarli in Italia. Il 5 novembre scorso 149 persone sono state fatte salire, dopo aver percorso appena 11 miglia, sulla Phoenix battente bandiera del Belize e presa a nolo da due privati cittadini residenti a Malta; ma non le hanno portate a Malta, bensì a Catania. In precedenza, il 25 giugno, un’altra nave panamense era arrivata fino a 7 miglia dalla Libia e aveva preso a bordo 390 profughi per portarli a Cagliari. Altri due recuperi simili sono stati effettuati tra giugno e luglio, ancora dalla Phoenix e dalla Topaz-Responder, 52 metri di imbarcazione registrata alle Isole Marshall, in Oceania: 241 migranti scaricati tra Reggio Calabria e Ragusa. Gli sconfinamenti - La Phoenix e la Topaz sono due navi citate dal procuratore di Catania nell’audizione in Parlamento sul fenomeno delle Ong che mandano i loro mezzi in prossimità della Libia, ma accertamenti sono in corso anche da parte della Procura di Palermo e di altre città; alla ricerca di eventuali connessioni tra gli equipaggi e i trafficanti di uomini che lavorano in Libia. Perché la conseguenza di questi avvicinamenti, oltre all’aumento generale degli sbarchi, è un flusso di partenze che non è rallentato durante i mesi invernali, come avveniva in passato. A parte gli sconfinamenti nelle acque libiche, la gran parte degli interventi "privati" di salvataggio avviene nella cosiddetta fascia contigua, tra 12 e 22 miglia di distanza dalla costa; questo consente alle organizzazioni criminali di far partire barche e gommoni carichi di uomini, donne e bambini anche con il mare alto, nella consapevolezza che dopo un tratto relativamente breve ci sono le navi delle Ong pronte ad accoglierli. Nel 2016 erano 14, mentre a fine 2015 erano solo tre, e da gennaio a novembre hanno effettuato 422 interventi portando in salvo 44.072 persone; una situazione nuova, che ha contribuito al forte incremento di arrivi dalla Libia: 26.557 a ottobre 2016 rispetto agli 7.914 di ottobre 2015, e 12.332 a novembre (l’anno precedente erano stati 2.870). Possibili complicità - Gli investigatori hanno già raccolto qualche indizio su possibili complicità tra chi fa partire i migranti e chi li raccoglie. L’aumento degli interventi delle navi non governative, che nella seconda metà del 2016 ha raggiunto punte del 40 sul totale dei salvataggi, è coinciso con la drastica diminuzione, nello stesso periodo, delle tradizionali segnalazioni con telefoni satellitari dai barconi al Comando generale delle capitanerie di porto. Più interventi privati, insomma, a fronte di meno richieste di aiuto all’autorità centrale di soccorso. Il sospetto è che gli Sos dei naufraghi possano arrivare direttamente alle navi noleggiate dalle Ong; oppure che gli stessi scafisti conoscano le rotte da seguire per incontrare le imbarcazioni private; o sistemi di controllo da parte delle navi che perlustrano il mare davanti alla Libia per intercettare i barconi. Immigrati reticenti - Anche le dichiarazioni dei passeggeri, che solitamente danno un contributo importante alle indagini e all’individuazione degli scafisti, in alcuni di questi sbarchi sono state più reticenti, con una minore disponibilità a fornire informazioni sul viaggio e le modalità di soccorso. E quanto riferito dagli equipaggi delle navi, personale straniero non collegato alle organizzazioni che affittano i mezzi, quasi mai risulta utile a ricostruire i fatti. Anzi, a volte c’è il dubbio di depistaggi, come quando hanno cercato di far passare come minorenni anche migranti "palesemente adulti". In alcuni casi si è accertato che mentre i profughi venivano trasferiti dalle barche partite dalla Libia alle navi delle Ong, gli scafisti avevano un atteggiamento molto più arrogante e sbrigativo di quando si trovano davanti ai mezzi della Guardia costiera o della Marina militare; a volte si sono preoccupati perfino di recuperare i motori fuoribordo e i salvagente, con l’evidente scopo di poterli riutilizzare in altre operazioni. Si tratta di elementi che lasciano immaginare ipotetiche collusione fra i trafficanti e i soccorritori privati. Le testimonianze - Agli atti delle indagini giudiziarie c’è pure la testimonianza di un siriano sbarcato a novembre, che ha raccontato il viaggio dal suo Paese all’Italia attraverso la Libia, con una traversata pagata più di 6 mila euro. Il mercante che l’ha fatto salire sulla piccola imbarcazione di legno scortata alla partenza da "uomini libici armati" gli aveva garantito che dopo poco lui e gli altri trenta passeggeri di varie nazionalità avrebbero trovato una nave che li avrebbe recuperati. Come poi è effettivamente avvenuto. Agli investigatori italiani che gli hanno mostrato le fotografie di alcuni presunti trafficanti, il profugo ha indicato il libico che lui aveva pagato, e attraverso il controllo di contatti sono emersi rapporti di quel personaggio con almeno una persona che in Italia risulta aver collaborato ad alcune operazioni di soccorso e con l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati. Turchia. Erdogan furia contro i diritti, arrestati ottanta avvocati di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 24 marzo 2017 Maxi retata a Istanbul: chi difende gli oppositori finisce in galera. È una guerra nella guerra quella combattuta dal sultano Erdogan contro l’avvocatura turca. Colpire le radici della democrazia, spezzare le reni ai custodi dei diritti civili, impedire, anche materialmente, l’esercizio della difesa è un passaggio fondamentale nella cupa transizione della Turchia verso un pieno regime autoritario. Il cerchio, secondo i calcoli di Erdogan dovrebbe chiudersi con il referendum del 16 aprile: se vincerà il sì alla riforma costituzionale sparirà del tutto la separazione dei poteri e il presidente controllerà tutti gli apparati dello Stato come un despota. L’ultimo bollettino di questa guerra sporca parla di ottanta avvocati arrestati ieri mattina a Istanbul con la generica accusa di cospirazione contro le istituzioni e con addosso l’etichetta passepartout di simpatizzanti del movimento di Gülen, il predicatore in esilio negli Usa accusato di aver ideato il presunto fallito golpe di luglio. È lo schema con cui negli ultimi nove mesi sono state arrestate e/ o licenziate centinaia di migliaia di persone tra cui oltre mille avvocati. Tra i fermati di ieri ci sono i difensori di noti dissidenti politici come il giornalista imprigionato Hidayet Karaca, l’editor-inchief della rete tv Samanyolu, l’uomo d’affari in esilio Akin Ipek e di diversi ufficiali di polizia accusati di tradimento. "Negli ultimi mesi hanno cacciato o messo in prigione oltre 6mila accademici, hanno rovinato 5mila avvocati, messo i lucchetti a 160 organi di informazione, chiuso centinaia di associazioni, messo in prigione giornalisti, funzionari, militari, amministratori pubblici, insegnanti, militanti dell’opposizione: è necessario ristabilire la vita democratica secondo le norme del diritto internazionale, e abbiamo disperato bisogno di aiuto dall’estero, la presenza di legali stranieri ai processi è fondamentale, come lo sarà quella di parlamentari europei al referendum del 16 aprile", tuona Pinar Akdemir, legale degli 11 deputati del Hdp (il partito di opposizione democratica) arrestati dal regime lo scorso novembre. Akdemir è ospite di un incontro organizzato del Consiglio Nazionale forense sui diritti civili in Turchia, con lei Mahmut Sakar storico avvocato di Abdullah Öcalan, il leader del Pkk curdo che da anni si trova in isolamento totale nella prigione dell’isola di Ismarili; il suo caso (dalle condizioni carcerarie al trattamento dei suoi avvocati) è stato una specie di "laboratorio" della repressione poi pienamente messa in atto dal regime. "Noi avvocati non siamo solo difensori dei diritti, ma anche testimoni delle violenze, per questo il regime ci intimidisce continuamente. Il processo contro Öcalan è stato emblematico di come i diritti della difesa non esistano in Turchia da molto tempo. Dopo il presunto fallito golpe di luglio con lo stato d’emergenza permanente hanno legalizzato l’illegalità", racconta. Anche Sakar si appella ai colleghi stranieri e alla comunità internazionale affinché provino ad arginare la deriva tirannica che sta subendo la Turchia. Per fare questo non basta però la buona volontà. In tal senso il Cnf realizzerà un vero e proprio manuale di formazione giuridica per gli osservatori internazionali che andranno a svolgere il loro lavoro nei paesi dove la democrazia è più a rischio. Un’iniziativa dell’avvocatura italiana che va oltre la doverosa solidarietà ai colleghi in pericolo, per offrire ai difensori dei diritti civili degli strumenti più efficaci. "La Somalia sta morendo". L’appello di Save the Children di Francesca Paci La Stampa, 24 marzo 2017 Le cifre spaventose: 3 milioni di persone con carenze alimentari, 370 mila di bambini malnutriti. Contro la carestia servono 800 milioni. La Somalia sta morendo. E non è una metafora. L’allarme lanciato da Save the Children, che lavora nello sfortunato Paese del Corno d’Africa da quasi mezzo secolo (savethechildren.it/emergenzafame) è accompagnato da cifre spaventose: 6 milioni di persone hanno urgente bisogno di aiuto, 3 milioni soffrono di gravi carenze alimentari, 370 mila bambini sono in condizione di "malnutrizione acuta e severa", l’intera popolazione sopravvive a fatica al duplice assedio di fame e colera. Se non bastasse l’istantanea di una Spoon River annunciata, bisognerebbe ricordare quanto a lungo fu ignorata la Siria (anche e soprattutto sul piano umanitario) prima che l’esodo dei profughi sulle coste grece costringesse il mondo a guardare, a intervenire (tardivamente) e ad affrontare panico, diffidenza, nuovi muri. "Tutti i dati indicano che una nuova carestia è alle porte della Somalia e che si annuncia assai peggiore di quella del 2011, quando morirono 250 mila persone" ci dice al telefono da Baidoa l’humanitarian director di Save the Children Daniele Timarco. Da tre anni piove pochissimo, il livello di siccità è in aumento, le previsioni stagionali sono negative, l’approvvigionamento di acqua potabile risulta sempre più difficile. Timarco ci restituisce la foto di un countdown spietato: "Le famiglie, che in buona parte vivono di pastorizia, stanno svendendo il bestiame già decimato e mangiano i semi dei prossimi raccolti, vale a dire che consumano le riserve del presente ma anche del futuro". In questa cornice è facile immaginare come le epidemie si diffondano in un baleno, il colera morde il freno (13 mila casi dall’inizio dell’anno) ma si muore anche banalmente di polmonite. E i bambini pagano il prezzo più alto: la Somalia è considerata oggi uno dei luoghi peggiori in assoluto per un minore. Le Nazioni Unite hanno chiesto 800 milioni di dollari per fronteggiare l’emergenza, finora ne sono stati raccolti meno della metà. Non bisogna tornare troppo indietro con la memoria per stimare il costo dell’indifferenza: la Siria, ignorata per 4 anni, ha presentato il conto nel 2015, l’Iraq si è associato, lo Yemen, ancora invisibile, sta arrivando. La Somalia è nel cono d’ombra, ma attenzione: rispetto ai flussi migratori di domani, dal Corno d’Africa senza pace e dai Paesi travolti dal cambiamento climatico, quelli odierni faranno sorridere (amaramente).