Percorsi di reinserimento o percorsi a ostacoli? di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 23 marzo 2017 Da tempo ci si chiede, tra "addetti ai lavori", quali sono gli ostacoli che si frappongono nei percorsi di reinserimento delle persone detenute, e che cosa si potrebbe fare per rendere quei percorsi meno accidentati. Ora, tralasciamo gli ostacoli che sono dentro la società, come la difficoltà a trovare un lavoro, il clima di paura che domina, e affrontiamo invece l’altro lato del problema, quello che riguarda gli ostacoli che a volte pongono le Istituzioni e che vanno presi di petto, per lo meno dicendosi fuori dai denti come stanno le cose. Allora, partiamo dall’ABC del reinserimento: - di che cosa ha bisogno un detenuto per accedere ai permessi, che poi gli dovrebbero aprire la strada per le misure alternative? Di fare un percorso serio, e di avere una relazione di sintesi che lo attesti. Ebbene, ci sono carceri in cui per la sintesi si può aspettare anche due-tre anni (per legge, nove mesi di attesa), ci sono carceri in cui si dice che il detenuto deve essere ancora "osservato" ben sapendo che se in passato poco è stato osservato, probabilmente lo stesso rischia di succedere in futuro. Insomma, le Istituzioni garantiscono percorsi incerti e casuali, perché questo succede spesso nelle carceri, e poi chiedono ai detenuti comportamenti perfetti, maturi ed equilibrati; - ma ammettiamo pure che il detenuto abbia una sintesi, però "vecchia", allora si porrà il problema dell’aggiornamento della sintesi, senza il quale il percorso non va avanti e la libertà non si avvicina, e quindi inizia una sfiancante attesa di essere osservati, chiamati, sentiti dall’educatore e che poi ti venga fissata la data di questo agognato aggiornamento; - superato, dopo mesi, o più spesso anni l’ostacolo dell’aggiornamento, arriva la prima istanza di permesso, che richiede però un parere, quello del Direttore. Difficile immaginare che il Direttore conosca davvero a fondo tutti i detenuti, quindi il più delle volte il parere è un terno al lotto, poi c’è sempre qualcuno che dice che non conta niente, e invece non è vero, conta quando torna utile farlo contare. Proposta: semplicemente togliere il parere del Direttore, che il suo ruolo l’ha già avuto nell’equipe che ha stilato la sintesi; - con magari il parere negativo del Direttore, o di un vice delegato dal Direttore, dovrebbe poi partire per la Sorveglianza l’istanza di permesso, ma non è affatto detto che parta, e tanto meno rapidamente. Partirà, ma magari dopo dieci-quindici giorni, perché c’è sempre un posto in cui la burocrazia può fermare qualsiasi istanza, e c’è sempre bisogno di un santo in paradiso che vada a vedere dove il meccanismo si è inceppato; - quando poi l’istanza arriva in Sorveglianza, a ostacoli si aggiungono altri ostacoli. Esempio: come mai, si chiede il magistrato, prima il detenuto aveva parere positivo del Direttore e ora no? (semplice: magari il parere l’ha messo quel Vicedirettore che non crede nella validità dei percorsi di reinserimento, e quindi dice quasi sempre NO). Se poi, nel frattempo, c’è stato un richiamo o un rapporto disciplinare, questo nel 99 per cento dei casi significa un brusco stop nel percorso del detenuto. Ci siamo sentiti dire tante volte da operatori e magistrati che non è vero che un rapporto o un richiamo necessariamente significhino il rigetto dell’istanza di permesso premio. Certo, intendiamoci sulle parole, non NECESSARIAMENTE, ma in un gran numero di casi quel rapporto diventerà motivo per non concedere il permesso, nonostante tutte le pratiche rieducative dicano che un percorso di cambiamento è fatto anche di errori e cadute; - se comunque il detenuto è riuscito a superare tutti gli ostacoli e si trova in dirittura d’arrivo, con un permesso finalmente concesso, c’è sempre il parere della Procura, che probabilmente nemmeno conosce il detenuto in questione, ma quel parere diventa determinante, cioè il detenuto finisce per essere sottoposto a un "processo" anche in fase di esecuzione della pena e il suo percorso può subire una brusca interruzione, perché in Procura il permesso lo possono impugnare. E ricominciano così le attese, la famiglia non capisce e si convince che il suo caro abbia "combinato" qualcosa e magari anche si arrabbia, e il detenuto che stava facendo un percorso si ritrova ributtato senza colpe dentro alla galera; - poi c’è l’articolo 21, che non è ancora una misura alternativa ma dovrebbe costituire una prima tappa fondamentale nel passaggio dal dentro al fuori, e però in giro per l’Italia, ad eccezione di Bollate con i suoi 272 ammessi al lavoro all’esterno (anno 2016), di persone che lavorano con l’art. 21 ce n’è davvero poche. Segno di scarso coraggio da parte dei direttori? Probabilmente sì, l’articolo 21 è nato per "osare", per dare la possibilità di uscire anche a persone che non sono ancora nei termini di legge per avere una misura alternativa, ma sono "pronte" per iniziare un importante percorso di reinserimento, e però invece sempre meno se ne capisce l’importanza, e i numeri in Italia sono ridicolmente bassi. Eppure il DAP fa le circolari che parlano di circa 25.000 detenuti potenziali fruitori di misure alternative e della necessità che le direzioni procedano "anche d’ufficio, alle proposte di misure alternative". E se cominciassero, le direzioni, concedendo finalmente più articoli 21? I parenti poveri delle Istituzioni Ma in questi percorsi di reinserimento, quando e quanto servono il Volontariato e il Terzo Settore? Servono quando c’è da costruire qualche percorso "virtuoso" tra il dentro e il fuori, servono quando c’è da accompagnare la persona detenuta in permesso, servono quando c’è da aiutare la famiglia, servono quando ci sono da riempire le giornate carcerarie vuote dei detenuti con attività culturali e lavorative, servono quando si vuole dare l’idea che le Istituzioni sono molto attive sul fronte della rieducazione, servono quando ci sono delle misure svuotate come la detenzione domiciliare, e si chiede al Volontariato di riempirle di senso, servono quando l’Europa ci mette sotto accusa per la pessima gestione delle carceri e l’Italia risponde dicendo quante cose belle e importanti si fanno nelle galere, servono quando quando quando… tutti i "quando" della carcerazione sarebbero tempi morti se non ci fosse il Volontariato. Eppure, il Volontariato e il Terzo Settore contano meno di zero. Perché a discutere di sintesi, percorsi rieducativi, ostacoli al trattamento, regolamenti di Istituto sono spesso chiamate tutte le diverse componenti del carcere e del mondo delle pene fuorché Volontariato e Cooperative, i parenti poveri delle Istituzioni. Eppure, una Istituzione, che non sa capire i suoi limiti e non sa cogliere l’importanza dell’apporto della società ai percorsi di reinserimento delle persone detenute, è una Istituzione miope che, invece di avanzare, rischia di farsi travolgere in un arretramento generale delle condizioni di vita nelle galere. Per questo proponiamo un confronto franco e aperto tra Istituzioni, Volontariato e Terzo Settore sul tema della rieducazione, del reinserimento, dei percorsi NECESSARI perché le persone rientrino nella società non per incrementare rapidamente i tassi di recidiva, ma per ricostruirsi davvero una vita di relazioni sane e appaganti. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Il Garante Nazionale e la schizofrenia della politica giudiziaria di Orlando di Barbara Alessandrini L’Opinione , 23 marzo 2017 È ricca di cifre eloquenti, oltre che un buon segnale per l’impegno alla tutela dei diritti, la relazione del primo anno di attività del Garante nazionale per i diritti delle persone detenute o private della libertà, guidato da Mauro Palma e di cui sono componenti Emilia Rossi e Daniela de Robert. La relazione del primo anno di attività e monitoraggio e vigilanza sulle condizioni dell’esecuzione penale e in generale di tutte le misure di privazione o restrizione della libertà personale, presentata martedì scorso alla Camera dei deputati, segna un ulteriore passo avanti nell’attribuzione di un ruolo centrale alla prevenzione sul piano della tutela di diritti e garanzie di chiunque si trovi privato della libertà o subisca restrizioni e limitazioni nelle possibilità di movimento. Un ampio spettro di condizioni su cui il Garante ha illustrato il suo campo di azione di vigilanza, osservazione e successiva proposta alle istituzioni competenti. Dalle carceri alle camere di sicurezza in cui le forze di polizia eseguono il fermo e l’arresto, dalle Rems (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza, le strutture nate dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e a rischio di diventare luoghi di ricovero per indistinto cumulo di soggetti al contrario bisognosi di prese in carico differenziate e articolate) alle criticità del disagio psichiatrico in carcere che ricade su chi lavora negli istituti ma non ha formazione adeguata, alle situazioni di Trattamenti sanitari obbligatori o strutture di ricovero di anziani e disabili, dai Centri di identificazione ed espulsione (Cie) agli hotspot, alle zone aeroportuali di non ammissione al territorio del Paese, ai charter per i rimpatri coordinati con Frontex o nazionali. Sono quattro le aree del controllo che definiscono l’azione del Garante nazionale: l’area penale, della sicurezza, del controllo delle migrazioni e l’area sanitaria. Con una particolare attenzione, come spiegato da Daniela de Robert, al monitoraggio tra tutela della dignità umana e disagio psichico, condizioni della detenzione femminile e dei transessuali, e violazione della territorialità della pena. È evidente che la spinta data al nuovo Organismo collegiale di garanzia si inserisca nell’ambito delle politiche disposte da questo Governo a completamento dell’azione intrapresa nel dopo sentenza Torreggiani, la sentenza di condanna che la Corte di Strasburgo nel 2013 assestò al nostro Paese per violazione degli articoli della Cedu che vietano la tortura e i trattamenti inumani e degradanti delle persone ristrette. Osservazione, vigilanza e proposta, ma soprattutto prevenzione, rappresentano dunque le linee su cui si muove il Garante nazionale, introdotto ed istituito nel nostro ordinamento, come è stato spiegato durante la presentazione della relazione del 2017, con legge italiana e decreto del ministero della Giustizia, ma regolato anche dall’Opcat (Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti) e da una direttiva europea del 2008 per ciò che concerne le norme e le procedure sul rimpatrio dei cittadini non europei irregolari. E con all’attivo cifre importanti in termini di visite compiute in un anno di vita: 80 effettuate in 30 istituti di pena per adulti, un carcere militare, 3 istituti di pena minorili, 2 centri di accoglienza di minori, 14 strutture di forze di polizia, 4 Cie, 4 hotspot, 2 hub di accoglienza migranti, 2 comunità, 2 case famiglia per madri detenute con figli, 6 voli di rimpatrio forzato. Ma anche significativi traguardi messi a segno durante i mesi passati. Spiega Emilia Rossi, componente dell’ Organismo al suo primo anno di attività, ad esempio, dopo aver presentato un esposto presentato a maggio 2016 per violenze e maltrattamenti ai danni dei detenuti della casa circondariale di Trento e del cui procedimento penale si era discussa l’archiviazione davanti al Gip, il Garante nazionale ha ottenuto che il giudice disponesse la prosecuzione delle indagini. O ancora, oltre ad aver trattato oltre 108 reclami ex articolo 35 dell’ordinamento penitenziario, ha redatto un rapporto su rilevati maltrattamenti e presenza di celle usate a scopi punitivi e tenute in condizioni al di sotto degli standard accettabili nel carcere di Ivrea, che ha spinto il Dap a disporne la chiusura e la ristrutturazione delle celle. Il dato confermato in tutta la sua gravità nella relazione è quello del sovraffollamento delle carceri, con una distanza nuovamente allarmante tra posti disponibili e numero di presenze (300 per cento rispetto alla capienza), che è alla base della violazione del divieto di tortura e di trattamenti degradanti e inumani oltre che dell’articolo 27 della nostra Carta costituzionale che vieta pene contrarie al senso di umanità e che prescrive la funzione rieducativa della pena. Sono dati gravi che però svelano con sempre maggior evidenza la schizofrenia di un Governo che da una parte ha tenuto la barra del timone dritta sull’emergenza carceraria e sulla volontà di ricondurre il mondo dell’esecuzione della pena in una condizione di legalità e di rispetto del dettato costituzionale che ne prevede la funzione rieducativa e di reinserimento delle persone ristrette sottraendolo almeno nelle intenzioni all’impietoso e inefficace ruolo meramente retributivo, afflittivo e infantilizzante che ancora detiene e prevedendo un maggior ricorso a misure alternative al carcere. E l’ultimo decreto del ministero della Giustizia del 2015, per definire la struttura del Garante e consentirgli quindi la piena operatività, si muove in questa precisa direzione. Dall’altro ha appena chiesto la fiducia a un ddl sulla riforma del processo penale che prevedendo l’aumento delle pene per furti e rapine e l’innalzamento da sei a dodici anni per reato di scambio elettorale politico mafioso, andrà ad aggravare il già disastroso sovraffollamento carcerario, inconciliabile proprio con quel rispetto della dignità umana di ogni detenuto che, anche solo a voler parlare di ripercussioni sulle casse dello Stato, ci eviterebbe altre salate sanzioni europee. Come se non bastasse, l’aver istituito la dannosa fattispecie dell’omicidio stradale il cui bilancio è un allarmante incremento dei casi di mancato soccorso in caso di incidente (il rischio della prigione è un ottimo incentivo alla fuga!) a fronte di una media degli incidenti pressoché invariata. La sensazione è francamente che l’Esecutivo ci voglia sottoporre al trattamento del bastone dell’ingiusto processo e del dannoso aumento delle pene in attesa di farci assaggiare la carotina del carcere riformato anche grazie alla preziosa attività del Garante. Lo strabismo, però, non è tutto del Guardasigilli Andrea Orlando, che con la richiesta della fiducia alla sua riforma del processo penale e nella foga di assicurarsi il suo personale bottino elettorale, si presenterà sì alle primarie (da cui difficilmente uscirà vincitore) con una medaglia politico-giudiziaria destinata in futuro a essere ricordata come una un’orribile riforma-non riforma e a contribuire a comprometterne il cammino politico. Il paradosso è che questo strabismo schizofrenico (o più semplicemente opportunistico e prono alle ingerenze di settori influenti delle toghe) del ministro della Giustizia si "incrocia" a quello dei 5 Stelle che, in evidente assenza di connessioni sinaptiche e dal pulpito del loro notorio approccio razionale, alieno da qualsiasi macchia di populismo politico e penale, hanno commentato la relazione del Garante evidenziando "il trend che vede un aumento costante del sovraffollamento nelle carceri". "Addirittura - aggiungono con sussultoria impennata di consapevolezza - il Garante Palma riferisce di come in alcune carceri italiani si raggiunga il 300 per cento di sovraffollamento, una percentuale che non ha bisogno certamente di essere spiegata. Purtroppo si deve aggiungere il terribile dato di dodici suicidi e ben 205 tentativi di suicidio". Siamo d’accordo. Infatti, no, non avrebbe davvero bisogno di essere spiegato il perché crescono sia gli ingressi in carcere sia le presenze registrate quotidianamente se la cialtroneria, l’irrazionalità e l’ottusità populista di un movimento che salda la propria all’ignoranza ormai conclamata degli italiani, non rappresentasse il ciclopico ostacolo all’individuazione di correlazioni evidenti anche a un ragazzino di prima media. E a quella che Mauro Palma ha definito nella sua relazione introduttiva sulla funzione del Garante, "un tentativo di esercizio di comprensione del presente". A Pasqua marcia per la giustizia e il diritto di Valter Vecellio L’Indro, 23 marzo 2017 "Pene che rispettino la dignità del detenuto". Come non essere, dunque, d’accordo con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella? Il presidente ci ricorda che la Costituzione prescrive che la pena va commisurata "nel rispetto della dignità e dei diritti fondamentali dell’uomo"; che "deve favorire il reinserimento sociale di chi ha sbagliato"; e che "lo Stato ha il compito di offrire una occasione di recupero attraverso l’impegnativo percorso di rieducazione". Se è così (e così è), è innegabile che lo Stato italiano sia sostanzialmente fuorilegge: non rispetta, e viola la sua stessa legge, quella fondamentale. Perché nella maggior parte delle carceri italiane la dignità delle persone (detenuti, ma anche il personale della polizia penitenziaria) è quotidianamente, platealmente, mortificata; rarissimamente viene favorito il reinserimento sociale di chi ha sbagliato; rarissime sono le occasioni di recupero offerte. Questo è quanto ha tenuto a ricordare il presidente Mattarella nel messaggio inviato in occasione della presentazione del rapporto delle attività del Garante dei Detenuti a Montecitorio. Monito severo di cui bisognerebbe tenere conto. Non è il solo, perché anche la presidente della Camera Laura Boldrini è severa: "In una situazione di drammatico sovraffollamento non solo si condannano i detenuti a una pena aggiuntiva di particolare disagio che nessun tribunale ha mai deciso e che non consente alcun riscatto, ma è impossibile programmare e svolgere con efficacia tutte quelle attività finalizzate al recupero e al reinserimento sociale del condannato che è, secondo la Costituzione, ciò a cui la pena deve tendere. E occuparsi di chi vive nelle carceri non è buonismo". Dunque, nei "palazzi" del potere si sa molto bene quale sia la situazione. E allora: se si sa cosa accade, perché non si interviene e non si opera di conseguenza? Diritto e speranza: i 200 anni della Polizia penitenziaria di Valentina Stella Il Dubbio, 23 marzo 2017 Oggi le celebrazioni per il bicentenario del "Corpo". Cerimonia alla Scuola di formazione del Dap con il ministro della giustizia orlando. Emessi una moneta e un francobollo celebrativi. Nel 1990 la smilitarizzazione. Oggi, presso la Scuola di formazione dell’Amministrazione Penitenziaria "Giovanni Falcone", si celebra il bicentenario del Corpo di Polizia penitenziaria, alla presenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando, del capo del Dap Santi Consolo, e dell’ad del Poligrafico dello Stato Paolo Aielli. In occasione dell’evento è infatti stato emesso un francobollo celebrativo, che avrà un valore di 95 centesimi e una tiratura di 600 mila esemplari, ed è stata coniata una moneta in argento da 5 euro, su cui è inciso lo stemma della Polizia penitenziaria con la scritta "Despondere spem munus nostrum" ("Garantire la speranza è il nostro compito"). È il Regno di Sardegna a dare ufficialmente i natali al Corpo di Polizia penitenziaria attraverso le "Regie patenti" promulgate il 18 marzo 1817 che approvarono il Regolamento relativo alle Famiglie di Giustizia. Vittorio Emanuele I avviava così la riforma delle carceri, specializzando i Soldati di Giustizia per le funzioni di sorveglianza e di sicurezza. Nel corso dei decenni sono stati diversi gli interventi sulla organizzazione e sui regolamenti del Corpo. Le tappe più importanti: il 1873, quando alla Polizia penitenziaria fu attribuito lo status militare, per cui gli appartenenti potevano essere sottoposti al codice militare in caso di infrazioni quali diserzione e insubordinazione; il 1923, quando la direzione generale delle Carceri e dei riformatori viene trasferita dal ministero dell’Interno a quello della Giustizia; il 1945 quando, con il primo provvedimento legislativo emanato nel dopoguerra in materia penitenziaria, fu decisa l’appartenenza degli agenti di custodia alle Forze armate dello Stato e l’assimilazione ai corpi di Pubblica sicurezza. Ma è il 15 dicembre 1990 che si assiste a una importante riforma: la legge 395 di quell’anno istituiva il Corpo di Polizia penitenziaria e il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria così come li conosciamo adesso. La ratio della riforma è stata quella di accogliere - come ricostruisce il Dap nelle note storiche - "le esigenze di cambiamento attraverso la riqualificazione, smilitarizzazione e sindacalizzazione, affidando alla Polizia penitenziaria, oltre ai tradizionali compiti di assicurare la sicurezza all’interno degli istituti penitenziari, anche la partecipazione al trattamento rieducativo". Con la riforma varata ventisette anni fa anche le donne entrano a far parte del Corpo con pari dignità e status professionale. Intervista a Rita Bernardini: "la lotta di Pannella per restituire dignità anche ai detenenti" di Valentina Stella Il Dubbio, 23 marzo 2017 Nel dicembre 2015 Marco Pannella, al termine di una visita al carcere fiorentino di Sollicciano, rilasciò la consueta dichiarazione ai microfoni di Radio Radicale e disse "Guardie vittime come detenuti. Siamo stati accolti da coloro che più di noi sono individualmente vittime e parlo della polizia penitenziaria: siccome parliamo sempre dei detenuti, io parlo ora dei detenenti. Se infatti uno è detenuto c’è anche un detenente. La Polizia penitenziaria si vede negare diritti essenziali, ed è costretta a seguire riflessi di regime e di conseguenza si trova ad essere formalmente responsabile". Con lui, come sempre, c’era Rita Bernardini, attualmente presidente onorario di Nessuno Tocchi Caino che non ha mai smesso di lottare per i diritti dei detenuti come per quelli degli agenti penitenziari. Bernardini, probabilmente nell’immaginario comune il ruolo degli agenti è sottovalutato: invece sono molti importanti per l’intera comunità penitenziaria. È del 10 gennaio 1977, a prima firma Pannella, una mozione parlamentare che chiedeva la smilitarizzazione del corpo degli agenti di custodia, l’aumento del loro organico attraverso 5000 assunzioni, l’adeguamento delle retribuzioni, e il rientro in servizio negli istituti penitenziari delle centinaia di agenti distaccati presso altri uffici del ministero della Giustizia e non solo. Una dispersione di risorse che si verifica purtroppo anche oggi. Quell’azione parlamentare fu accompagnata da un lungo sciopero della fame di Adelaide Aglietta. Ricordo quella prima fase di una lotta che arrivò, dopo 13 anni, alla smilitarizzazione voluta fortemente non solo dai radicali ma dalla stessa base degli agenti, che si espresse anche attraverso un referendum interno. La riforma del 1990 prevedeva altresì l’equiparazione degli agenti di polizia penitenziaria, il nuovo nome del Corpo, alle altre forze di polizia: battaglia radicale che dura tutt’oggi, tanto che pochi mesi fa abbiamo manifestato con comandanti e vice per il loro riallineamento ai massimi dirigenti delle altre polizie. Quali sono le maggiori difficoltà che rileva e come si superano? Credo che il Corpo andrebbe riconcepito, considerato che gli strumenti che ci offre oggi la tecnologia, se messi a disposizione della sicurezza, possono consentire al singolo agente, di base come di vertice, di essere parte attiva nelle attività trattamentali di studio, di lavoro, sportive e culturali dei detenuti. In prospettiva non dovrebbero più esserci agenti che aprono e chiudono le celle, ma professionalità che collaborano con gli esperti dell’area educativa nella missione del recupero e del reinserimento sociale delle persone detenute. Sul loro stemma c’è scritto "garantire la speranza è il nostro compito". Marco Pannella chiedeva a tutti di "essere speranza". Non dimentichiamo che gli agenti sono coloro che stanno più a contatto con i detenuti e che spesso svolgono funzioni che dovrebbero riguardare altre figure professionali il più delle volte assenti, per le carenze di organico, dalla quotidianità del carcere. Non voglio nascondere qui che c’è anche un’estrema minoranza di agenti che usa le maniere forti, spesso brutali, violando le regole minime del rispetto della dignità umana. Si tratta di pochissimi elementi, potrei dire una percentuale mini- ma fisiologica, che non dovrebbero però avere le coperture che riescono ad ottenere anche da parte di una magistratura compiacente. Con il Partito radicale avete sempre cercato di far emergere i troppi suicidi in carcere che riguardavano gli agenti. Essere a contatto quotidiano con le tribolazioni umane costituisce un elevato stress che è certamente sottovalutato, anche perché spesso le soluzioni ai problemi della popolazione detenuta devono trovarle proprio gli agenti che con i detenuti ci vivono. Non credo servano telefoni amici con linee dedicate. Occorre piuttosto il riconoscimento dei diritti degli agenti, che sono negati da decenni. Nel loro bicentenario quale augurio vuole rivolgere? Quello di essere promotori attivi di quei principi costituzionali che assegnano alla pena, detentiva o meno, oltre al valore riparatorio anche quello del riscatto e del recupero della persona privata della libertà. Intervista a Santi Consolo (Capo Dap): "è ora di premiare i tanti meriti dei nostri agenti" di Valentina Stella Il Dubbio, 23 marzo 2017 "È in vista un riordino che dovrà assicurare il giusto riconoscimento professionale a questo Corpo, sempre capace di adeguarsi ai cambiamenti di questi anni". Capacità di rinnovarsi, sacrificio, nuove funzioni. Sono i meriti del Corpo a cui Santi Consolo, capo del Dap, ritiene si debba ora dare un riconoscimento. Quali sono stati i progressi in questi anni per il Corpo, in seguito alla riforma del 1990? La riforma ha segnato l’approdo di un lungo percorso avviato decenni prima e ha risposto alla domanda di cambiamento e di modernizzazione dello storico Corpo allora denominato degli Agenti di custodia, oggi correttamente Corpo di Polizia penitenzia. Una struttura che oggi meglio risponde alla complessità delle nuove funzioni: è a ordinamento civile e bene si è adeguata al sistema disegnato con l’Ordinamento penitenziario del 1975. Cambiamenti salienti sono stati la partecipazione alle attività risocializzanti, la libera sindacalizzazione, l’ingresso delle donne, con pari dignità e opportunità di progressione in carriera. I nuovi compiti via via assunti hanno accresciuto la professionalità e rafforzato i contributi di sicurezza e legalità, dentro e fuori gli istituti penitenziari. Il solo servizio traduzioni gestisce tutti i trasferimenti di detenuti sull’intero territorio nazionale, impegnando 4.000 unità di personale. Nel 2016 sono state effettuate 157.073 traduzioni che hanno interessato 289.800 detenuti. Sono da ricordare l’istituzione del servizio cinofili per il contrasto all’introduzione di sostanze stupefacenti all’interno degli istituti, il Gruppo Operativo Mobile, reparto ad alta specializzazione che gestisce i detenuti in regime di 41bis. E la recente istituzione dei ruoli tecnici con l’avvio del Laboratorio del Dna. Non più solo sorveglianza alle celle, dunque... Sono compiti nuovi e molto impegnativi. La Polizia penitenziaria è oggi chiamata a conoscere, monitorare e prevenire il fenomeno della radicalizzazione, con immediato e continuativo raccordo con l’autorità giudiziaria, con tutte le altre forze di polizia e con le Agenzie. Quale augurio vuole rivolgere al Corpo? L’augurio che rivolgo alle donne e agli uomini della Polizia penitenziaria è di continuare a operare con l’entusiasmo di sempre per il bene del Paese, tutelando sempre le garanzie e i diritti umani delle persone loro affidate. I meriti della Polizia penitenziaria vanno riconosciuti e apprezzati per l’alto valore sociale svolto. La gratitudine dell’Amministrazione Penitenziaria è costante per il quotidiano sacrificio nell’attendere a compiti difficili e rischiosi. Si rende oggi necessario, con il prossimo riordino, il giusto riconoscimento professionale. In un discorso dello scorso settembre lei ha invitato la stampa ad abbandonare i pregiudizi nei confronti del Corpo: come superare le preclusioni e in generale l’indifferenza nei confronti dell’intera comunità penitenziaria? Ritengo che la stampa abbia un ruolo fondamentale per abbattere i pregiudizi e la cattiva informazione sul mondo dell’esecuzione penale. Di esecuzione penale oggi si parla poco e quasi esclusivamente in termini critici. Invece, quanta umanità, comprensione e senso di vicinanza ci sono all’interno delle strutture penitenziarie. Oggi, grazie anche ai nuovi indirizzi degli Stati generali dell’Esecuzione penale, si sperimentano buone prassi, si attuano progetti lavorativi e culturali, si incentiva l’associazionismo, il volontariato, la partecipazione degli enti, delle università. La Polizia Penitenziaria ha un ruolo fondamentale nell’agevolare lo studio, far imparare un mestiere e avviare percorsi virtuosi di lavoro per nuovi e migliori modelli di vita. Mauro Palma nella relazione annuale del Garante nazionale dei detenuti al Parlamento ha tracciato un quadro in cui grazie a Strasburgo sono stati fatti passi avanti, ma servono ancora interventi su sovraffollamento e qualità della pena detentiva. È d’accordo? È innegabile che dopo la condanna di Strasburgo abbiamo messo in campo le migliori energie e il massimo impegno per migliorare le condizioni detentive, a cominciare dalle misure per contenere il sovraffollamento. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, come viene riconosciuto da tutti, ha assicurato e assicura la massima attenzione verso il sistema penitenziario. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha fin da subito operato per gli interventi migliorativi delle strutture facendo ricorso massicciamente alle risorse della Cassa ammende e raggiungendo il duplice obiettivo di finanziare gli interventi strutturali e impiegare la mano d’opera dei detenuti. Il carcere ha bisogno del contributo di tutte le componenti sociali, a partire dal mondo dell’imprenditoria, per ridurre il rischio di recidiva che è un obiettivo che può essere raggiunto solo attraverso l’offerta formativa e il lavoro. E su questo voglio citare solo un ultimo esempio: giorni fa abbiamo siglato un accordo con ‘ Marinellà, eccellenza mondiale nella produzione delle cravatte e accessori di sartoria per la creazione di un laboratorio di sartoria artigianale all’interno della casa circondariale femminile di Pozzuoli, ma di iniziative simili ve ne sono molte altre e spero se ne parli sempre di più. La denuncia dei Sindacati: "sventiamo suicidi, ma troppi dei nostri si tolgono la vita" di Valentina Stella Il Dubbio, 23 marzo 2017 Il bicentenario della fondazione del Corpo di Polizia penitenziaria rappresenta sicuramente un momento di orgoglio per le donne e gli uomini che ogni giorno vestono la divisa di tutori della sicurezza ma diviene anche l’occasione per porre in evidenza i problemi che riguardano il loro lavoro. Secondo Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo Polizia penitenziaria) "negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini del Corpo hanno sventato più di 21mila tentati suicidi nelle carceri del Paese, e impedito che quasi 168mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze. Queste cose non devono essere omesse ma anzi vanno valorizzate". Tuttavia per Capece questi episodi "vengono incomprensibilmente sottovalutati dall’Amministrazione Penitenziaria". Massimiliano Prestini, coordinatore nazionale per la Cgil della Polizia penitenziaria, chiama in causa un’altra nota dolente: "Di strada ne abbiamo fatta molta in questi anni ma c’è un problema di risorse, dal punto di vista umano e finanziario: le carceri avrebbero bisogno di circa 40 milioni per essere ristrutturate, invece ne arrivano solo 4. Inoltre registriamo una crescita delle aggressioni nei confronti del personale a cui si aggiunge il triste fenomeno dei suicidi dei nostri agenti, a causa dello stress da lavoro". Angelo Urso, segretario generale Uil Polizia penitenziaria, evidenzia "il paradosso per cui aumentano i detenuti e i posti detentivi ma diminuiscono gli agenti. La carenza di organico è devastante: il piano del 2001 prevedeva 45.000 unità, oggi lavorano meno di 38.000 agenti e le aggressioni nei loro confronti aumentano. Il datore di lavoro deve preoccuparsi di salvaguardare l’incolumità fisica dei lavoratori". Intanto è arrivata ieri la sottoscrizione dell’accordo tra il sottosegretario alla Giustizia Federica Chiavaroli e i rappresentanti di alcune organizzazioni sindacali per l’utilizzo del Fondo per l’efficienza dei servizi istituzionali (Fesi), che si applica per l’anno 2017 al personale della Polizia penitenziaria. La ripartizione delle risorse, circa 31 milioni per il Dap e 1 milione per la Giustizia minorile, si basa sui parametri del merito, della produttività istituzionale, della responsabilità, dei servizi e dei rischi. Un italiano su due non si fida dei pm, ma Davigo ci scherza di Errico Novi Il Dubbio, 23 marzo 2017 Le statistiche diffuse ieri dal "Corriere"? "Temevo stessimo a zero", dice il leader del "Sindacato" dei giudici. Ma il successo della sua corrente nasce anche dall’inquietudine di molti colleghi per il clima di sfiducia. Piercamillo Davigo non si allarma: "Il consenso nei nostri confronti è cresciuto, dopo anni di campagna martellante contro la magistratura dovrebbe essere a zero". Eppure il sondaggio di Swg pubblicato ieri dal Corriere della Sera fa impressione: il 51 per cento degli italiani ha poca o nessuna fiducia nei giudici. Un quadro pesante, lontano anni luce dall’entusiasmo ai limiti dell’idolatria dell’epoca di Mani pulite. Piercamillo Davigo non si allarma: "Il consenso nei nostri confronti è cresciuto, dopo anni di campagna martellante contro la magistratura dovrebbe essere a zero". Eppure il sondaggio di Swg pubblicato ieri dal Corriere della Sera fa impressione: il 51 per cento degli italiani ha poca o nessuna fiducia nei giudici. Un quadro pesante, lontano anni luce dall’entusiasmo ai limiti dell’idolatria dell’epoca di Mani pulite. Ma forse non c’è solo una difesa d’ufficio, nell’aplomb con cui il presidente Anm reagisce alla notizia. Di una certa crisi nel rapporto tra toghe e opinione pubblica Davigo dev’essere consapevole da un po’. E forse il successo della sua corrente si spiega anche con la percezione diffusa tra gli stessi magistrati che un certo clima non tornerà più. Sono gli effetti del processo mediatico e, sul piano generale, della crisi di fiducia nelle istituzioni, nessuna esclusa. Gli italiani non scommettono più sulla politica, anzi la considerano una partita persa, ma neppure sugli altri pilastri dell’architettura dello Stato. Ogni figura che eserciti un potere è messa in discussione, e, rispetto alla magistratura, vuol dire non credere alle sentenze, all’efficacia dei provvedimenti, alla severità delle punizioni. Basta un’ordinanza prudente nei confronti di un indagato e un gip rischia il linciaggio. Ci si è arrivati vicino, per esempio, con la vicenda di Gessica Notaro, la 29enne di Rimini sfigurata con l’acido da un ex fidanzato per il quale la Procura aveva chiesto l’arresto e che il giudice si era limitato a inibire dall’avvicinarsi alla donna. In diversi titoli di giornale quel magistrato è passato quasi per correo. Se l’ossessiva ricerca del colpevole raggiunge i parossismi indotti della giustizia spettacolo, anche il giudice finisce per essere sempre al di sotto delle aspettative. La dinamica, a molti magistrati, non sfugge. È anche per questo che tanti di loro alle ultime elezioni dell’Anm hanno votato proprio per Davigo. Vedono in lui un paladino dello status e delle prerogative dell’ordine giudiziario, capace di sfidare la politica con toni ta il sarcastico e lo sprezzante. È un forma di antipolitica che esorcizza l’inquietudine per la sfiducia nelle toghe. Alla prima apparizione il gruppo dell’ex pm di Mani pulite, Autonomia & Indipendenza, ha raccolto 1.200 preferenze su 7.000 giudici e lettori. Il clima spiega dunque la risposta di Davigo al sondaggio di Swg, commissionato da "Fino a prova contraria", l’associazione di Annalisa Chirico: il presidente Anm conosce benissimo la situazione, non aveva bisogno degli ultimi dati. "Siamo passati dal 36 al 44% negli ultimi due anni". Sa che si tratta di numeri raggelanti. Ma lui stesso spiega: appunto, che "dovremmo avere un consenso pari a zero". E se la prende con la "campagna martellante" anti- giudici di certa politica. Un’analisi di parte, ma Davigo non nega la realtà: sa che il suo successo ne è diretta conseguenza. "Chi vince una causa pensa che aveva ragione, chi l’ha persa ritiene il giudice malvagio: perciò sono sorpreso del fatto che abbiamo questo consenso". Ma nel 1992 certe alterazioni soggettive non esistevano. "È vero, se ci si riferisce al 1992 le nostre quotazioni sono scese", ammette con i cronisti che lo interpellano a Cagliari, dov’è chiamato a tenere una lectio magistralis. Che poi, nel suo anelito giustizialista, l’opinione pubblica sia confusa lo dicono altri dati dell’Swg: il fatto per esempio che un italiano su due sia contrario alla pubblicazione delle intercettazioni, nonostante il seguito enorme dei programmi tv che le fanno addirittura interpretare a degli attori. D’altra parte la distanza nei confronti del potere, compreso quello giudiziario, è chiarissima se è vero che due terzi degli italiani "non credono nella giustizia" e se il 69% ritiene che "settori della magistratura perseguano fini politici". Fino a quel 72% che giudica "inopportuno che un magistrato si candidi". È vero che molti giudici, come Davigo, hanno fiutato il vento, ma anche a loro certi numeri faranno impressione. Intervista a Gianrico Carofiglio: "l’emergenza sicurezza è un’invenzione" di Giulia Merlo Il Dubbio, 23 marzo 2017 "Viviamo nell’epoca più sicura della storia". "Beccaria diceva che il sistema delle pene è efficace non se propone punizioni altissime, che quasi mai vengono applicate, ma se prospetta al reo un’alta probabilità di ricevere una sanzione giusta". "Non c’è alcun allarme sicurezza, lo dicono i dati". Gianrico Carofiglio, ex magistrato e senatore ed oggi acclamato scrittore di gialli, analizza come, a fronte di statistiche rassicuranti sulla riduzione del numero di reati, la società italiana viva in uno stato di continua fibrillazione da cronaca nera. Il nostro è un paese sicuro, dal punto di vista del pericolo sociale? È pacifico che in Italia, più ancora che nel resto d’Europa, stiamo vivendo nell’epoca in assoluto più sicura della nostra storia. Questa non è un’opinione ma la conseguenza di una banale lettura del dato statistico. Si tratta di dati, tra l’altro, che riguardano in modo vistosissimo i reati violenti e in particolare gli omicidi: tra il 1991 e il 1992 gli omicidi erano circa 2.000 l’anno, ora siamo sotto i 500. Eppure la percezione dell’opinione pubblica sembra opposta. Come spiega questo paradosso? Gli psicologi sociali lo chiamano "effetto di disponibilità". È meccanismo per il quale, se si parla molto di un argomento - per esempio, appunto, l’insicurezza collettiva - i connotati e il peso di quell’argomento s’ingigantiscono ai nostri occhi, anche in contrasto con la verità dei fatti. È il fenomeno per cui, ad esempio, se si verifica un incidente aereo, magari in luoghi non lontani da quelli in cui abitiamo, e i mezzi di informazione ne parlano molto e in modo inquietante, molti hanno paura a viaggiare in aereo nelle settimane successive. Anche se l’aereo è il mezzo più sicuro di tutti, molto più dell’auto, tanto per dire. Paure irrazionali, dunque? Oggi un italiano, inteso come entità statistica, rischia molto di più di morire in un incidente stradale o in un infortunio sul lavoro, che non di subire un’aggressione armata o, men che meno, un omicidio volontario. Eppure nessuno vive l’insicurezza della sua vita quotidiana legata al pericolo di venire coinvolto in un incidente d’auto o in un infortunio sul lavoro. Questi temi non vengono trattati con la drammatizzazione con la quale si parla, invece, di certa criminalità predatoria. Sono gli impulsi irrazionali, quindi, a spingere i cittadini, ad esempio, a organizzare ronde nelle città? Attenzione, non sto sminuendo o disprezzando il bisogno di sicurezza dei cittadini. La questione della percezione è importante. Molto di ciò che noi facciamo, nella politica come nella vita sociale, è governato dalle emozioni, e non si può pensare di superare questa dimensione semplicemente con gli argomenti razionali. Quindi, se la gente è preoccupata, di questa preoccupazione una politica intelligente deve tenere conto. Però il compito della politica è proprio questo: percepire i bisogni, depurarli della dimensione puramente irrazionale che magari è anche il risultato di propaganda della peggior specie, e provare a soddisfare quelli meritevoli. Torniamo, con questa premessa, al dato sugli omicidi. Quei 500 di oggi, nonostante siano diminuiti rispetto al passato, dicono comunque qualche cosa? Assolutamente sì. Se pensiamo che di questi 500 omicidi una percentuale molto alta è fatta di donne uccise dai loro compagni, si capisce che, a fronte di una sicurezza collettiva decisamente migliorata, esiste un problema molto specifico di sicurezza individuale. In particolare, è sottoposto a un rischio maggiore il segmento della popolazione più debole, cioè quello delle donne, esposte a relazioni tossiche con uomini inadeguati che a volte diventano assassini. Esiste, quindi, anche la necessità di mettere in campo sistemi di contrasto più efficaci? L’aggressione alle persone e ai loro beni va colpita con determinazione ed efficacia, certo. In particolare reati odiosi come le rapine e i furti in appartamento vanno puniti in modo deciso. Le strategie di contrasto a questi reati devono essere perfezionate, ma è bene chiarire che anche le rapine e i furti di appartamento sono oggettivamente in calo. Proviamo allora a ipotizzare in che modo è possibile intervenire. È davvero utile incidere, a livello legislativo, aumentando le pene? Io sono favorevole alle modifiche legislative che hanno aumentato i minimi di pena per questi reati. Vede, esiste un grande equivoco in materia di politica criminale: si pensa che serva a qualcosa introdurre pene molto alte per l’uno o per l’altro reato. Il punto, tuttavia, non sono le pene massime, perché il massimo della pena non viene quasi mai somministrato. Il problema è stabilire, invece, un vincolo alle pene minime, perché la punizione di taluni gravi reati non possa scendere al di sotto di una certa soglia. E questo aumenterebbe la deterrenza a commettere questi reati? Guardi, io credo che il sistema debba fondarsi non sulla spropositata severità, ma sull’efficacia. Cesare Beccaria - un autore di grande attualità, a distanza di oltre due secoli - diceva che il sistema delle pene è efficace non se propone punizioni altissime che però poi quasi mai vengono applicate, ma se prospetta al reo un’alta probabilità di ricevere una sanzione giusta. Attenzione, una "sanzione giusta", non una sanzione esemplare. Condivide, quindi, i contenuti del decreto Minniti sulla sicurezza urbana? Non lo conosco nei dettagli, ma ho colto con favore l’aumento delle pene minime di alcuni reati. In linea di principio, poi, credo nella logica di aumentare i poteri di chi opera direttamente sul territorio, per rendere più flessibili le risposte ai fenomeni criminali. Lei crede sia anche necessario introdurre nuove fattispecie di reato? Per risponderle, le riporto una conversazione avuta con un amico poliziotto. Ci sono bande altamente specializzate di ladri d’appartamento, i più abili sono gruppi che provengono dalla Georgia, che per disattivare gli allarmi usano i jammer, apparecchi che servono specificamente a disturbare le frequenze degli antifurto. La polizia va a fare perquisizioni e spesso trova questi strumenti raffinatissimi e altri oggetti destinati esclusivamente alla commissione di furti, ma la cui detenzione non è punita da nessuna norma penale o, come nel caso dei grimaldelli, è punita con pene insignificanti. Ecco, si potrebbero introdurre una serie di ipotesi di reato cosiddette "di posizione": detenere certi strumenti sofisticati, la cui unica destinazione è l’attacco al patrimonio, diventa un reato grave. Non sto dicendo che il problema si risolva solo così, ma che è necessario adattare il sistema del diritto penale alle mutate condizioni, anche della tecnologia criminale. Lei è stato magistrato per molti anni. Questo aggiornamento vale anche per le strategie di indagine? Le strategie di contrasto al crimine devono essere sempre aggiornate, anche con una certa creatività in base ai reati da perseguire e al territorio. Le posso raccontare un aneddoto? Dica pure. Nei primi anni Novanta, Bari era insieme a Napoli la città con il primato poco desiderabile degli scippi in rapporto al numero degli abitanti. Era una piaga sociale e le forze di polizia sembravano impotenti, perché il metodo di contrasto era quello tradizionale: più agenti per strada per prendere gli scippatori in flagrante. La cosa accadeva, certo, ma in modo comunque insufficiente, la risposta delle istituzioni a questi reati frequenti e odiosi era frammentaria e inefficace. A un certo punto a qualcuno, in procura, venne in mente di cambiare del tutto la strategia: non rincorrere il singolo reato, ma i criminali noti perché lo commettevano professionalmente. All’epoca, a Bari gli scippatori professionisti erano una trentina: per ognuno si creò una scheda personale, recuperando i numerosi fascicoli che, a carico di ciascuno di loro, erano distribuiti tra tanti magistrati e uffici, in una assurda polverizzazione. Per nessuno di questi singoli reati i ladri avrebbero ricevuto una condanna elevata e nemmeno una misura cautelare, ma riunendoli si definiva un quadro completamente diverso, di attività criminosa professionalizzata, da sanzionare con severità. Ne furono arrestati tanti in un colpo solo, furono condannati a pene serie, rimasero in carcere e, insomma, a Bari finì la piaga degli scippi per come l’avevamo conosciuta fino a quel momento. Ecco, ci vuole anche un po’ di creatività nell’elaborare strategie di contrasto: i ladri vennero condannati con pene serie ma, soprattutto, percepirono una diverso, più serio atteggiamento delle istituzioni. Tornando al presente, le fa effetto sentir dire al sindaco di Verona, Flavio Tosi, che bisogna dormire con la pistola sul comodino? Qualunque cittadino, che non abbia condizioni penali ostative, può legalmente detenere un’arma in casa: chiede il nulla osta al questore, va a comprarla, la denuncia e la può tenere. Io però lo sconsiglio vivissimamente: le armi sono strumenti da professionisti perché richiedono un tirocinio psicologico, oltre che materiale, su quando usarle e soprattutto su quando non usarle. Per saper sparare basta un minimo di addestramento, ma chi ha un’arma deve soprattutto saper gestire psicologicamente le situazioni. Si corre il rischio di entrare nell’ambito scivoloso dell’abuso di legittima difesa? Quando io sento dire che un tale ha sparato durante una rapina e in quel momento non ha capito più niente per via dello stress, capisco benissimo. Si tratta di situazioni di enorme agitazione, in cui avere a disposizione un’arma non fa che aumentare l’ansia, generando una condizione psicologica di sicurezza illusoria. Io stesso ho portato per anni la pistola per ragioni di sicurezza personale piuttosto serie e molte volte mi sono chiesto se fosse opportuno averla con me, perché portare un’arma implica di accettare la possibilità di poterla usare, e non per sparare in aria. L’argomento usato dai leghisti è che avere una pistola sul comodino sia un deterrente per i ladri… Pensare che il problema della sicurezza si risolva con una pistola è come immaginare che uno possa essere al sicuro da malattie improvvise tenendo a casa un set di bisturi. Il punto non è saper premere il grilletto contro un bersaglio al poligono, perché queste sono chiacchiere populiste, per di più pericolosissime. Oggi la cronaca riporta al centro il tema della legittima difesa. Immaginiamo di avere la famosa pistola sul comodino. Quando è davvero legittima difesa? Nel caso in cui un ladro entri in casa e aggredisca le persone minacciando la loro incolumità, sparare è certamente legittima difesa. Altri casi sono molto più complessi. Proviamo a immaginarlo. Quando, invece, sparare non è proporzionato al fatto? Per capire quando l’uso di un’arma sia sproporzionato è necessario essere capaci di separare l’entità del fatto, a volte modesta, dalla drammaticità del momento. Le faccio un esempio: immaginiamo che entri in casa un ladro e rubi un computer. Ci dicono chi è stato e, due giorni dopo il fatto, lo raggiungiamo e gli spariamo, uccidendolo. Ecco, in questo caso nessuno si sognerebbe di negare che si tratti di un omicidio e che parlare di legittima difesa è assurdo.. Bene, dal punto di vista del diritto penale, sparare alle spalle di un ladro che sta scappando corrisponde esattamente ad andare a cercarlo due giorni dopo, perché in entrambi i casi l’attualità dell’offesa - condizione indispensabile perché si possa parlare di legittima difesa - è cessata. Ecco, se chi ha la pistola non è adeguatamente addestrato dal punto di vista psicologico, in un momento così concitato può non sapersi controllare e quindi anche sparare quando non sarebbe consentito. Ritorniamo così alle premesse: è la paura percepita a far sentire il bisogno di una pistola sul comodino, anche se non siamo in grado di utilizzarla. Da che cosa è indotta questa paura? Basta guardare le statistiche europee. Le reti ammiraglie italiane sono quelle che in assoluto danno più spazio ai fatti violenti di cronaca nera, in un momento storico che non lo giustifica: siamo attorno al 12% del tempo delle notizie di prima apertura. Negli altri paesi si va dal 7% al 2% della Germania, che ha percentuali di delittuosità uguali se non superiori alle nostre. E questo come mai? La morte fa audience? In Italia esiste una certa pornografia del delitto, che poi entra in un circuito vizioso alimentato da certe trasmissioni, in cui vengono riprodotte indagini e processi. Pensi al caso Scazzi: per un mese e mezzo trenta giornalisti si sono praticamente trasferiti ad Avetrana. Questo produce fra l’altro l’effetto di disponibilità di cui dicevo: tutti i giorni in televisione si parla di delitti orribili e la percezione di chi guarda la tv e legge i giornali è che questi delitti orribili siano molto più frequenti e diffusi di come non sia in realtà. Non è solo la televisione, però. Anche certa politica si rincorre brandendo i temi della sicurezza. Non credo sia un male che la politica si occupi di rendere più efficaci gli strumenti della repressione civile e democratica di questi fenomeni. Il problema, però, è un altro: che la politica, dall’inizio degli anni Novanta, ha iniziato ad utilizzare lo strumento della comunicazione ossessiva sul crimine diffuso. E con quale finalità? Parlare del crimine e dell’insicurezza è un sottile ed efficacissimo strumento di distrazione di massa. Legittima difesa e tesi poco legittime di Mauro Mellini L’Opinione, 23 marzo 2017 In questi giorni la recrudescenza di crimini commessi in danno di cittadini nelle loro stesse abitazioni e nei luoghi e dove esercitano le loro attività commerciali e, al contempo, di reazioni di taluni di questi ultimi messe in atto con la conseguenza della morte di qualcuno dei rapinatori e ladri, ha fatto tornare alla ribalta la questione dell’autodifesa, dei limiti della sua legittimità e della necessità e opportunità che se ne riconosca lecito il ricorso in limiti più ampi di quanto oggi avvenga. Dico subito che se c’è un pericolo che una così delicata questione venga risolta nel peggiore dei modi, esso è rappresentato dal venir in essere di due "partiti": quello del "se mi vieni a derubare io ti sparo e ti ammazzo", ovverosia "meglio un brutto processo che un bel funerale", e quello che vuole il rispetto assoluto della vita umana e dell’incolumità fisica delle persone, anche quando si tratta di rapinatori e ladri nell’esercizio delle loro attività criminali. Non è questione sulla quale dividersi in "partiti", con la conseguente adozione di pregiudizi e con la pretesa di "tagliar corto", quando si tratta di problemi tanto complessi in cui vengono in essere una quantità di problemi la cui soluzione è stata sempre d’estrema difficoltà. Un dato di fatto è certo: nel sistema penale vigente in Italia la "legittima difesa" è consentita e considerata tale in limiti che sono tra i più restrittivi e rigorosi tra quelli di altri Paesi del nostro stesso livello di civiltà. Ed è pure indiscutibile che di questi limiti si discute da secoli, e da secoli essi sono soggetti ad assai diverse regolamentazioni. Apparirà strano, ad esempio, che nel Diritto romano la legittima difesa fosse esclusa quando l’aggredito avesse possibilità di un "commodus discessus" (di una facile fuga), mentre tale esclusione non era ritenuta necessaria dal Diritto della Chiesa, che non ne faceva dipendere la legittimità della difesa. A suggerire soluzioni più o meno rigorose e restrittive, a parte le "passioni di partito", sono state e sono circostanze obiettive. Se infatti da noi si è più rigorosi, a parte la tendenza tutta italiana per la quale di ogni sciagura ci deve essere sempre un responsabile (vivo) cui addebitarla, è certo che ciò è dovuto anche al fatto che, all’epoca cui risalgono i nostri codici, l’Italia era un Paese con uno dei più bassi tassi di omicidi e rapine. Quando erano imperversati in varie nostre province banditismo e assassinii, non c’era stato bisogno di riforme legislative per consentire e suggerire una certa facilità all’uso di buone doppiette e revolver a chi avesse di guardarsi la pelle e la borsa. Certo, a sostegno dell’una o dell’altra tesi sono state e sono addotte argomentazioni spesso assurde e allarmanti. Così, pretendere che una persona, che si veda la sagoma di un ladro in camera da letto, compia un così rapido accertamento delle intenzioni omicide oltre che dell’effettiva pericolosità per il possesso di armi dell’intruso prima di sparargli e che possa indirizzare il colpo a parti non vitali, è una patente assurdità. E così è assurda la tendenza a definire sempre "un assassinio" il fatto di sparare ad un rapinatore senza prima "convincerlo" ad andarsene, tesi ben cara a una certa subcultura di sinistra, che è poi la stessa che vorrebbe che fosse considerato reato (e che, magari, ci riesce) il fatto del bottegaio che "paga il pizzo" alla mafia, soggiace cioè senza reagire, a una estorsione. Non è certo auspicabile che alle rapine, ai furti e alle aggressioni si sostituisca il crepitare delle pistolettate e delle fucilate alla cui efficacia debbano rimettersi le vittime di tali delitti. Se la difesa dei singoli è compito della collettività, ciò che "dovrebbe essere" non deve e non può opporsi a chi deve fare i conti sulla impossibilità, al momento, della difesa pubblica di tutelare la sua vita e i suoi averi per impedirgli di salvarsi da sé, se ci riesce. Occorre, quindi, modificare le norme attualmente vigenti in tema di legittima difesa (articolo 52 c.p.) in modo che renda meno problematica la condizione di tale scriminante. E qui viene fuori il solito problema. Con il livello culturale dei nostri legislatori e con il sistema invalso di trattare questioni di pubblico interesse con la stessa obiettività con la quale si sciorinano le discussioni dei tifosi sulle partite della loro squadra, non c’è molto da sperare in una ben bilanciata soluzione. C’è il precedente della modifica tentata con la legge del 15 febbraio 2006 n. 59, con la quale si affastellarono una quantità di parole l’una capace di vanificare la portata e le conseguenze dell’altra, che si risolse in una sostanziale conferma del testo, benché abbondantemente "prolungato". C’è poi la questione del potere dei giudici che, come si è appropriato della funzione di istituire nuovi reati, si diletta talvolta a ignorare le modifiche apportate dal legislatore. Ma questo è un altro (cioè il solito) discorso. Aumenta il numero di testimoni e collaboratori di giustizia, ma diminuiscono i soldi di Jacopo Corsini La Notizia, 23 marzo 2017 Sempre più persone, tra collaboratori e testimoni di giustizia, assistite e protette dallo Stato, ma sempre meno soldi a disposizione per il programma di protezione. Questo è quello che emerge dalla relazione presentata in Parlamento dal ministro dell’Interno Marco Minniti "sui programmi di protezione, sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione per coloro che collaborano con la giustizia", relativi al secondo semestre 2015 e al primo semestre 2016. Occorre precisare subito per i non addetti ai lavori che c’è una differenza sostanziale tra testimoni e collaboratori: mentre i primi sono normali cittadini estranei ai fatti di mafia che hanno denunciato crimini alle autorità, i secondi sono invece i cosiddetti pentiti che hanno fatto parte di associazioni criminali e successivamente hanno deciso di collaborare. Curiosamente, però, la relazione è approdata in Parlamento proprio quando la Camera stava discutendo la riforma della normativa sui testimoni di giustizia, un testo uscito dalla commissione parlamentare antimafia e approvato all’unanimità il 9 marzo scorso da Montecitorio, che senza alcun dubbio costituisce una pietra miliare nel percorso di miglioramento delle politiche di contrasto alla criminalità organizzata. Nella relazione sono riportate le parole del Gruppo di Lavoro costituitosi presso il Viminale per lo studio della riforma del sistema, il quale ha espresso "un giudizio complessivamente positivo sulla normativa vigente, che non si ritiene bisognevole di cambiamenti sostanziale nel suo impianto generale"; ma poco dopo si lancia in una serie di proposte modificative che riguardano soprattutto le forme di assistenza economica e sociale ai testimoni di giustizia, come ad esempio il sostegno psicologico per il quale si è speso nel 2015 più di un milioni di euro - un importo quasi decuplicato rispetto al 2014 - e il riconoscimento dello status di testimone di giustizia. Soggetti border line - Rispetto a quest’ultimo punto la relazione evidenza che "il testimone di giustizia solo raramente si identifica nella figura tratteggiata dal dettato normativo" e "il rischio di qualificare come testimoni di giustizia soggetti border line con significative evidenze di intraneità al contesto criminale oggetto delle dichiarazioni rese, non può che comportare paradossali conseguenze sulla tenuta e sulla stessa credibilità del sistema di protezione". In altre parole il Viminale ammette che questo sistema non funziona e che vi è il rischio, e probabilmente si sono verificati anche casi, di ammissione al programma di protezione di supposti testimoni che invece facevano parte di organizzazioni criminali. I dati - Le statistiche sono molto chiare. Innanzitutto si conferma il trend crescente di persone che accedono al programma di protezione: se dal 2000 al 2006 c’è stata una graduale diminuzione, dagli iniziali circa 4000 tra collaboratori, testimoni e loro famigliari sino a quasi 2900, dal 2007 al 2016 sono aumentati gradualmente fino a quasi 5.200 individui. Ma curiosamente ad aumentare è solamente il numero dei pentiti (e loro famigliari) mentre rimane pressoché basso e invariato il numero dei testimoni, segno che la legislazione su questi individui effettivamente aveva bisogno di qualche ritocco per essere realmente efficace. Non solo, analizzando i dati dell’ultimo anno si scopre che la maggior parte delle richieste di accesso alla protezione si concentra a Napoli e in Puglia e stranamente solo in minima parte dalle altre due Regioni a forte incidenza mafiosa, la Calabria e la Sicilia: un chiaro segnale dell’impermeabilità di Cosa Nostra e ‘ndrangheta. Salta all’occhio anche la presenza di richieste dal centro e dal nord Italia: Roma, Brescia, Torino, Ancona, Bologna, sintomo anche nel Centro-Nord, dove la mafia da anni ha consolidato la propria presenza, si stanno facendo avanti pentiti e testimoni. I costi - Ma quanto ci costa questo sistema? Si tratta di quasi 32 milioni di euro nel primo semestre 2016, in controtendenza rispetto alla costante crescita degli ultimi anni: 76 milioni nel 2013, quasi 78 milioni nel 2014 e oltre 85,5 milioni nel 2015. La quasi totalità di queste spese viene assorbita dagli affitti per le abitazioni di testimoni e collaboratori e per i loro contributi mensili. Una spesa sicuramente consistente ma al tempo stesso necessaria per tenere in piedi un sistema dall’insostituibile valore investigativo, avendo consentito in questi anni di aggredire e smantellare importantissime organizzazioni criminali che, altrimenti, sarebbero state difficilmente individuabili. Il sistema sicuramente non è perfetto, e lo dice la relazione stessa: "l’emersione alla ribalta mediatica di taluni casi limite di protetti che rappresentano […] malcontento e disagio, se da un canto conferma […] la validità generale dell’operato […] invita dall’altro a riflettere sull’opportunità di una rimodulazione delle tante risorse" e "la qualità percepita dei servizi offerti è spesso bassa: ci si confronta frequentemente con situazioni di disagio che coinvolgono l’intero nucleo familiare e in misura crescente i minori". Non è difficile ritrovare casi di malcontento di collaboratori e testimoni tra le cronache giornalistiche, e addirittura situazioni in cui questi individui e le proprie famiglie non sarebbero stati adeguatamente protetti, tanto da ricevere minacce e intimidazioni dalle stesse persone che accusavano. Non mancano neppure frecciate alla stessa popolazione protetta, la quale, secondo la relazione si dovrebbe rendere "responsabile di un diverso e nuovo impegno e si senta titolare di diritti più che destinatario di favori, protagonista di un percorso di affrancamento dal giogo della criminalità". Ergastolo, la libertà vigilata entra nel computo per la liberazione anticipata di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2017 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 22 marzo 2017 n. 13934. "La liberazione anticipata deve essere concessa anche ai condannati alla pena dell’ergastolo con riferimento ai periodi trascorsi in liberazione condizionale con sottoposizione alla libertà vigilata, al fine di conseguire l’anticipazione della cessazione della misura di sicurezza e dell’estinzione della pena". Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 22 marzo 2017 n. 13934, respingendo il ricorso del Procuratore generale della Corte di appello di Potenza. Il Tribunale di sorveglianza aveva già rigettato il reclamo proposto dalla Procura contro l’ordinanza dell’aprile 2015 con la quale il Magistrato aveva accolto la domanda della condannata, ammessa alla liberazione condizionale dal novembre 2013, accordandole la liberazione anticipata nella misura di trecento quindici giorni in relazione al periodo di detenzione che va dal 13 febbraio 2011 al 13 agosto 2014. Per il Tribunale infatti "il rapporto esecutivo è comunque perdurante". Per il Procuratore invece l’istituto della liberazione anticipata è esteso ai condannati all’ergastolo "soltanto agli effetti del computo della misura di pena che si deve avere già espiato per poter accedere ai benefici penitenziari", mentre l’esclusione non risulta discriminatoria "in quanto il rapporto esecutivo è strutturato in modo diverso a ragione della sottoposizione a libertà vigilata per il periodo di cinque anni". La Suprema corte ricorda che l’articolo 54 dell’ordinamento penitenziario riconosce la "detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata" al condannato "a pena detentiva" che abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione. Sin dall’introduzione, prosegue la sentenza, è però insorto il dubbio se, stante l’ampia formulazione testuale, essa si riferisca "a tutti coloro che stanno espiando pena detentiva, a prescindere dal luogo e dalle modalità in atto, oppure soltanto a coloro che a tale titolo si trovino ristretti in un istituto penitenziario". Ad una prima interpretazione restrittiva ne è poi seguita un’altra aperturista, prima con riguardo ai casi di sospensione della pena per motivi di salute e poi ai casi di affidamento in prova o ai domiciliari, che ha trovato un riconoscimento normativo (legge 227/2002). L’interpretazione è stata poi estesa anche alla custodia cautelare con riguardo agli effetti della pena definitiva, successivamente comminata, anch’essa tradottasi in una legge (n. 78/2013). La giurisprudenza ha dunque riconosciuto che il soggetto cui sia applicata la liberazione condizionale "possa giovarsi, tanto dei periodi di carcerazione antecedenti all’applicazione del beneficio, sofferti in regime di custodia cautelare, oppure in esecuzione di sanzione detentiva definitiva, per abbreviare la durata della pena ancora da espiare, quanto dei periodi successivi al provvedimento di sottoposizione a liberazione condizionale ed alla connessa misura di sicurezza perché l’esecuzione è tuttora in corso, anche se si svolga nelle forme alternative consentite dall’ordinamento penitenziario". Venendo al caso specifico dell’ergastolo, la Suprema corte ha affermato che il procuratore sbaglia quando prende in considerazione l’ergastolo nella sua dimensione originaria, "quale pena di durata illimitata senza tener conto delle successive vicende esecutive e degli effetti giuridici e pratici che conseguono all’applicazione della liberazione condizionale ed alla contestuale sottoposizione a libertà vigilata", che costituisce una un’esperienza esecutiva comunque limitata nel tempo (cinque anni per il condannato all’ergastolo). In definitiva conclude la Cassazione "nella soggezione a libertà vigilata sono parificati tutti i condannati a pena detentiva condizionalmente liberati", sicché "una volta trasformata la pena perpetua in una forma di esecuzione penale a tempo limitato e realizzati i presupposti di ammissibilità della liberazione anticipata, non vi è ragione per negarla a chi sia stato condannato all’ergastolo". Colpa grave per il Pm che dimentica di scarcerare l’indagato di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2017 Corte di cassazione - Sentenza 7307/2017. La privazione in violazione di legge della libertà della libertà personale non può essere ritenuta un fatto di "scarsa rilevanza". L’ovvietà dell’affermazione non dovrebbe sorprendere, se non per la circostanza che l’inciso delle Sezioni Unite della Cassazione appare in calce al ricorso disciplinare di un magistrato. Si tratta di un ex sostituto procuratore in servizio a Torino ala fine della decade scorsa, sanzionato dal Consiglio superiore della magistratura per aver dimenticato di revocare la misura degli arresti domiciliari di un suo indagato. Il fatto era avvenuto a cavallo del trasferimento della toga ad altro incarico, con la conseguenza che la "vittima" della leggerezza aveva scontato 78 giorni di arresti in casa oltre il termine massimo di legge, e peraltro venne liberato solo dall’intervento del nuovo assegnatario del fascicolo. Da qui il procedimento disciplinare contro la ex pm, sanzionata per un aver arrecato un danno ingiusto all’indagato violando un dovere di diligenza e soprattutto una disposizione legislativa (il codice di procedura) "inescusabilmente". L’incolpata aveva nonostante tutto presentato ricorso in Cassazione, contestando l’aggravante della "non scusabilità" del suo errore per le "indubbie criticità" vissute in quel periodo in ambito lavorativo. Inoltre, l’ex Pm chiedeva di riconoscere la "scarsa rilevanza" del fatto considerato che l’imputato era rimasto "solo" ai domiciliari e non in carcere. Le Sezioni Unite però hanno disatteso su tutta la linea questa interpretazione, sottolineando che la privazione della libertà dell’indagato per 78 giorni oltre il termine massimo di legge - privazione che resta tale anche al domicilio, per l’impossibilità di movimento che comporta - è un illecito grave, e che aver lasciato decorrere il termine nonostante pochi giorni prima la stessa Pm avesse chiuso l’indagine preliminare sui fatti di causa, è un comportamento "inescusabile". Omicidio stradale, la procedibilità d’ufficio perde pezzi di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2017 La legge sull’omicidio stradale fa una parziale retromarcia dopo appena un anno dalla sua entrata in vigore: uno dei suoi punti più qualificanti, cioè la procedibilità d’ufficio per il reato di lesioni personali stradali gravi e gravissime, sarà smantellato, salvo che nei casi più gravi. Lo prevede la riforma del processo penale votata dal Senato. Probabilmente l’intento del legislatore è di decongestionare le Procure. Ma il risultato finale delle modifiche sarà un doppio regime non semplice da gestire. La procedibilità d’ufficio, infatti, resta solo nei casi di: 1) uso di alcol o droghe; 2) velocità pari o superiore al doppio di quella consentita e comunque non inferiore a 70 km/h in centri urbani e superiore di almeno 50/km orari su strade extraurbane; 3) circolazione contromano; 4) attraversamento con semaforo rosso; 5) inversione di senso di marcia in prossimità o corrispondenza di intersezioni, curve o dossi; vi) sorpasso in corrispondenza di un attraversamento pedonale o di linea continua. È un cambio di rotta rispetto a uno dei passaggi più contestati della legge 46/16. Con l’entrata in vigore dell’articolo 590 bis del Codice penale la procedibilità di ufficio è diventata la regola per tutte le ipotesi di lesioni stradali gravi o gravissime. Ciò in netta discontinuità rispetto al passato, in cui le lesioni commesse violando le norme sulla circolazione stradale erano sempre procedibili a querela. La riforma, sulla quale il governo ha posto la fiducia - se rimarrà così anche dopo il voto alla Camera - investe sul ricorso a istituti deflattivi quali: a) l’ampliamento dei reati procedibili a querela; b) la valenza scriminante delle condotte riparatorie del danno. L’articolo 16 prevede che il Governo, entro un anno dall’entrata in vigore, introduca la "la procedibilità a querela di parte per i reati contro la persona puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a 4 anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria". Unica eccezione per la violenza privata (articolo 610 Codice penale). Il cambio del regime di procedibilità è retroattivo: il pm o il giudice devono informare la persona offesa, se già pende un procedimento, della facoltà di esercitare il diritto di querela entro tre mesi. Nel contempo, l’articolo 1 prevede l’estinzione dei reati procedibili a querela, purché soggetta a remissione, nei casi di risarcimento "anche in seguito ad offerta reale (...) non accettata dalla persona offesa ove il giudice riconosca la congruità della somma". L’articolo 590 bis comma I del Codice penale prevede il carcere da 3 mesi a 1 anno per le lesioni gravi, e da 1 a 3 anni per le lesioni gravissime commesse con violazioni "generiche" del Codice della strada: è uno dei reati per cui la riforma in itinere fa scattare la querela e la non punibilità dell’imputato a seguito del risarcimento, anche se non accettato. La modifica - come detto - vuole arginare l’aumento delle cause per lesioni stradali destinate a celebrarsi anche in caso di risarcimento dei danni. Ma la possibilità di ottenere il proscioglimento a seguito della remissione di querela aumenterà il numero di processi che si dovranno fare - nonostante la persona offesa sia già stata risarcita - solo per dimostrare l’insussistenza delle aggravanti che fanno scattare la procedibilità d’ufficio, o per discutere della differenza di qualche giorno di prognosi. C’è la possibilità di epiloghi irrazionali: per le ipotesi aggravate scatta infatti il blocco delle attenuanti diverse dalla minore età del reo e dalla minima importanza della sua colpa. In tali casi l’imputato potrà beneficiare del regime ordinario di bilanciamento delle attenuanti, ma non della procedibilità a querela e dell’estinzione del reato a seguito del risarcimento del danno. Si rischia di mortificare i migliori propositi risarcitori, che invece il testo approvato dal Senato incentiva sensibilmente: senza diminuire tempi e numeri di processi che nessuno ha più interesse a celebrare. Proprio quello che il Governo vuole evitare. Se il populismo penale condiziona il legislatore di Enrico Buemi* Il Dubbio, 23 marzo 2017 Quando si parla di populismo penale, non si dovrebbe dimenticare l’impatto di certe campagne mediatiche sul legislatore. Chi non ricorda i "calendari" che alcune testate giornalistiche e televisive aggiornavano ogni mattina sulla mancata approvazione della legge Grasso? Ebbene, questo era già avvenuto nel 2010 con la legge Severino: la riprova di quanto questa tattica sia perniciosa, per l’approfondimento che dovrebbe sempre caratterizzare le modifiche ai codici, è offerta proprio dalla vicenda della norma sul traffico di influenze. Correva l’anno 2010 e sul Fatto quotidiano Marco Travaglio così spiegava la legge anticorruzione che si sarebbe dovuta approvare: "il reato di millantato credito (attualmente punito dall’articolo 346 del Codice penale) sparisce e viene sostituito dal nuovo reato previsto dalla Convenzione europea anticorruzione: il "Traffico di influenze illecite". Quello che i giudici di Firenze, indagando sullo scandalo della Protezione civile, hanno ribattezzato sistema gelatinoso". Nel corso dell’esame in sede referente alla Camera, nel 2012, fu segnalata l’eccessiva genericità della definizione del nuovo reato, che lascia troppo spazio alla libera interpretazione del giudice: in assenza, nel nostro ordinamento, di una disciplina che fissi il confine tra attività lecita ed "influenza illecita", finisce con l’avere troppi margini di indeterminatezza e rischia di compromettere seriamente l’attività quotidianamente svolta, in maniera efficace, da tanti professionisti. In realtà, già il rapporto esplicativo dell’articolo 12 della convenzione penale del 1999, redatto dallo stesso Consiglio d’Europa che avanzava la proposta di trattato, premetteva che "acknowledged forms of lobbying do not fall under this notion". Ma, nell’approvare la legge Severino, si preferì rinviare la risoluzione del problema per cui, in Italia, il lobbying cade sotto un cono d’ombra: la proposta di regolamentazione, avanzata dai socialisti nella legislatura in essere, è ancora arenata in prima commissione e l’ipotesi di un testo del governo, affacciata addirittura da Enrico Letta, s’è arenata nelle secche dei presunti ostacoli che porrebbe l’autodichia parlamentare ad una disciplina legislativa della materia. Le recenti decisioni della Camera sulla "regolamentazione delle lobbies" sono un mero palliativo, perché riducono a questione di accessi ai palazzi la disciplina di un’attività che è praticamente ignorata dall’ordinamento giuridico generale. Privata di un pilastro come la fuoriuscita delle lobbies dall’opacità, il testo dell’articolo 346- bis - firmato dalla ministra Severino - soddisfaceva almeno l’altro requisito dettato da Travaglio? Neppure, visto che il millantato credito restava. Il nostro migliore penalista vivente, Tullio Padovani, ha anche dimostrato come il traffico di influenze illecite è un reato con "consistenza criminosa inafferrabile", perché - per non sfociare nel reato di corruzione - il denaro fornito al mediatore per corrompere il funzionario pubblico non deve essere effettivamente consegnato o promesso a quest’ultimo. L’unico vantaggio, che il professore vedeva nella assoluta indeterminatezza della fattispecie, era la sua modesta entità (prevede una pena da 1 a 3 anni). Ebbene, quando il calendario di Travaglio ha ripreso a correre, per il disegno di legge n. 19 proposto in questa legislatura a firma Grasso, il testo non solo non abrogava il millantato credito, ma voleva elevare il massimo edittale a cinque anni. In Commissione giustizia del Senato ci opponemmo in tanti a questa proposta: il senatore Susta contropropose addirittura che fosse dichiarata non illecita "l’attività di mediazione e rappresentanza esercitata in forma professionale, nell’ambito di un rapporto di lavoro autonomo o dipendente, presso istituzioni politiche e amministrazioni pubbliche e finalizzata a perseguire obiettivi leciti per conto di portatori di interessi particolari, che si avvalgono di detta attività esclusivamente al fine di partecipare, attraverso la produzione di documenti di analisi e proposta, al processo di elaborazione delle decisioni pubbliche". Alla fine, il 12 marzo 2015, a stragrande maggioranza la proposta di elevare la pena fu respinta. La possibilità di precisare l’area del corrispettivo, erogato a chi si interpone ("in cambio della erogazione di danaro o di altra utilità" ), risolverebbe il problema del lobbying? C’è chi lo crede e, in questo senso, si è voluto leggere anche il reato di traffico di influenze illecite. Eppure, in occasione della presentazione del libro di Giampiero Buonomo "Lo scudo di cartone", l’ 8 giugno 2015, l’attuale avvocato generale della Corte di cassazione Nello Rossi ha ammonito che "le fattispecie incriminatrici della corruzione non contemplano solamente l’elargizione di danaro ma prevedono anche che si possa essere corrotti con la promessa o con la dazione di "altre utilità". Ci rendiamo conto di che cosa questo significa del mondo della politica? Il mondo dalla politica è (...) il luogo naturale delle ‘ altre utilità’", a partire dalle variegate forme di sostegno elettorale nel momento del voto. In effetti, il citato rapporto esplicativo della convenzione penale del 1999, all’articolo 4, precisava che "obviously, the financial support granted to political parties in accordance with national law falls outside the scope of this provision". Qui il problema è di dignità della politica, di trasparenza delle sue fonti di finanziamento e di genuinità del sostegno elettorale: un problema anzitutto di comportamenti sociali, ai quali porre rimedio con una disciplina della vita interna dei partiti politici ai sensi dell’articolo 49 della Costituzione. Se questo non avviene, la moralità costituzionale degli attori politici non si costruisce né con le previsioni incriminatrici indeterminate, né con le campagne mediatiche che ignorano il merito o smentiscono sé stesse. *Capogruppo "Per le autonomie-Psi-Maie" nella Commissione giustizia del Senato e componente della Commissione Antimafia. Riforma penale: crimine in Parlamento di Bruno Leoni L’Opinione, 23 marzo 2017 Ancora una volta, la politica ha fatto fuori in un sol colpo le forme della democrazia e la sostanza dello Stato di diritto. Lo ha fatto con il voto di fiducia posto al maxiemendamento sostitutivo del disegno di legge di riforma del codice penale. Come ormai è la norma in Italia, del crimine in questione forse non si è accorto neppure chi l’ha messo in atto. Dal punto di vista delle regole del gioco democratico, approvare una riforma del processo penale attraverso un voto bloccato vuol dire aver forse garantito la vittoria di una partita politica (magari interna allo stesso partito di maggioranza), ma al prezzo di quello che dovrebbe essere il metodo di operare connaturale al Parlamento: la discussione e deliberazione per parti separate, tanto più rilevante ed essenziale nella materia penale, che riguarda la nostra libertà personale. Le recenti critiche nel 2014 della Corte costituzionale, a proposito di un maxiemendamento sostitutivo di un disegno di legge di conversione di un decreto che modificava le pene per spaccio di stupefacenti, non sono tornate alla mente ai legislatori. Quel che è ancora più grave, nel merito, col voto in blocco i senatori hanno fatto passare, tra le altre cose, la riforma dei tempi di prescrizione, che vengono estesi fino a un totale di tre anni tra primo grado e appello. L’allungamento dei tempi, si dice, risponde a una necessità: ci sono tante inchieste e sono pochi i processi che fanno in tempo ad arrivare a conclusione. Il che è come dire che per combattere il crimine bisogna depenalizzare i reati. L’idea che la prescrizione oltraggi la funzione della pena e che se i processi non arrivano in tempo a conclusione la soluzione sta nell’allungarli è una deformazione giustizialista del diritto penale, tanto più inconcepibile quanto più il sistema processuale è improntato a istituti che consentono agli amministratori della giustizia di essere, di fatto, esonerati da ogni responsabilità circa il proprio operato. Paradossalmente, più emergono "scandali" risoltisi in nulla di penalmente rilevante, più l’arma dell’indagine e del processo viene brandita. In un clima così feroce, l’allungamento dei tempi di prescrizione non è la cura, ma un veleno che ancor di più intossica il già malato sistema penale italiano. Abruzzo: Uil-Pa; nelle carceri situazione critica, pesa l’assenza del Garante dei detenuti abruzzolive.it, 23 marzo 2017 "Dalla stampa nazionale di questi giorni si è appreso con favore che molte questioni afferenti il mondo penitenziario e denunciate dalla Uil-Pa polizia penitenziaria Abruzzo sono state parimenti trattate, al cospetto del Parlamento, dal Garante Nazionale dei Detenuti dr. Mauro Palma. Il riferimento non può che essere ricondotto alla gestione delle detenute, degli psicotici e del nuovo aumento di detenuti all’interno delle carceri abruzzesi". Lo dice il vice segretario regionale dela Uil-Pa polizia penitenziaria, Mauro Nardella. "Ci fa piacere che ci sia qualcuno che condivida le questioni da noi trattate negli ultimi tempi ma che al momento ha avuto solo il merito di far nascondere dietro un dito un’Amministrazione Penitenziaria non attenta, così come vorremmo, alla gestione amministrativa della "cosa " penitenziaria. Le detenute recluse nel carcere di Teramo e di Chieti - si legge in una nota del sindacalista - potrebbero ad esempio essere meglio gestite se il personale di polizia penitenziaria femminile venisse utilizzato in dette sedi nel numero prefissato e non come sta accadendo da qualche tempo a questa parte in istituti non proprio femminili. In luogo di un numero di donne notevolmente superiore in istituti dove non avrebbero motivo di stare, infatti, ce ne sono pochissime nelle due realtà che in Abruzzo gestiscono questo tipo di circuito. Intanto le quote rosa detenute aumentano in numero e con una continuità che comincia a far preoccupare. In due anni si è passati a Chieti dalle 23 del 2014 alle attuali 30 mentre Teramo delle 33 del 2014 ne conta oggi ben 41. Come non evidenziare la denuncia fatta sulla sezione psichiatrica di Pescara e che, riprendendo proprio un’affermazione fatta nella giornata di ieri dal Garante, scarica su personale non medico, la gestione che richiede competenza e responsabilità medica relegando la medesima sezione a un surrogato mal riuscito di ospedale psichiatrico giudiziario? Una trentina di soggetti psicotici più o meno gravi "abitano" un luogo come il carcere di Pescara che per la loro peculiarità e strutturazione offrono meno garanzie trattamentali e riabilitative rispetto ai tanto contestati Opg". "Nel carcere di Pescara - rileva Nardella - si vive una situazione da questo punto di vista davvero paradossale. Qui infatti sono reclusi soggetti da Opg ma senza l’avvallo di quel personale specializzato nel campo tra i quali infermieri, operatori socio sanitari e specialisti nella riabilitazione. Il tema del sovraffollamento - denuncia poi il vice segretario regionale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria - sta ritornando alla ribalta anche se l’Abruzzo non ancora raggiunge numeri che altre regioni stanno vedendo crescere con preoccupazione. Crediamo comunque che vestire la maglia nera anche da questo punto di vista sarà solo questione di tempo se non si ricorrerà a normative preventive o a costruzioni di nuovi padiglioni. A tal proposito non si capisce perché, come nel caso di Sulmona, da questo punto di vista si viaggia a passo di bradipo. Un lavoro che sarebbe dovuto essere completato entro il 2016 e che avrebbe dovuto ospitare 200 nuovi detenuti in spazi più ampi e umanamente accettabili ma che ad oggi ha visto il quasi completamento delle sole aree cortili passeggio e sale colloqui. Ciò significherà, qualora dovessero essere attivati oggi i lavori per l’implementazione del nuovo corpo detentivo, vedere il termine dei lavori non prima della fine del 2019". Per Nardella, poi, "in Abruzzo si paga dazio anche perché manca una "sentinella" del diritto dei detenuti. Il garante regionale dei detenuti con il suo apporto, infatti, non solo riuscirebbe a destare le attenzioni che son dovute sulle condizioni di vita dei detenuti da parte dei preposti a farlo ma, con l’eventuale soluzione dei loro problemi comportante inevitabile riduzione dello stress, causerebbe un miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita di tutti gli operatori penitenziari. A tal proposito - commenta infine Nardella - ci si chiede perché a 2017 inoltrato non ancora si riesce a eleggere una figura tanto importante quanto determinante per le sorti di un sistema penitenziario qual è quello abruzzese". Milano: a San Vittore Bergoglio aprirà a tutti le porte del sogno di Riccardo Cristiano reset.it, 23 marzo 2017 Non molto tempo fa, parlando di detenuti e carceri, papa Francesco ha detto che ogni volta che entra in un carcere e vede i detenuti si chiede "perché loro e non io". È la classica domanda che solo il vicario di Cristo può farsi. Non noi, né Cristo, che detenuto lo è stato. Noi invece, che detenuti non lo siamo stati, evitiamo di chiedercelo, lasciando crescere intorno a noi e dentro di noi l’idea che il carcere sia un non luogo, dove non persone vengono rimosse dal "nostro" reale. E scompaiono… In queste ore si è appreso che anche a Milano, durante la sua visita, papa Francesco visiterà il penitenziario, e che pranzerà con i detenuti. Poi però non andrà via, ma si fermerà a riposare lì, a San Vittore, nella stanza del cappellano. Non è difficile immaginare che volendo Jorge Mario Bergoglio avrebbe potuto riposarsi in tanti altri posti, più sontuosi, o almeno più confortevoli. Luoghi che noi non rimuoviamo dalla nostra realtà, ma dove il desiderio di mettere piede almeno una volta è diffuso. Ma cosa vuole dirci papa Francesco fissando questa sua inusuale "sosta"? Cosa vuole comunicarci con questo luogo prescelto per il riposo? Non lo so, non posso saperlo. Posso dire che a me questo messaggio "parla" di un sogno. Come quello di una figura cristiana a lui evidentemente molto cara, visto che l’ha citata spesso: Martin Luther King. Il sogno di Martin Luther King fu un "sogno detto", un sogno di fratellanza, di amicizia al di là di barriere immaginarie ma profonde, come quelle tra chi ha la pelle di un colore e chi di un altro, tra chi si sente migliore e ritiene gli altri peggiori, tra chi non sapendo vivere insieme agli altri finirà con il morire con gli altri come uno stolto. Il sogno di Bergoglio che visita i carcerati è quello di diventare finalmente "uno di loro", un loro fratello, capace di condividere, sognando, i loro sogni, i loro desideri, le loro speranze, i loro ricordi, i loro dolori. Riposando con loro, condividendo con loro i momenti più intimi dell’abbandono, il sogno di Jorge Mario Bergoglio sarà quello di aprire le porte del carcere a tutti noi che le chiudiamo per farci vedere che anche lì dentro si vive, si ama, si spera. Non credo che papa Francesco potesse fare a noi tutti un regalo più grande. In un mondo dove si sogna sempre di più di rimuovere il peccatore, lui aprirà a noi e a loro le porte di un nuovo incontro. Nel nome del vivere insieme, e della capacità di sanare ferite profonde come quelle determinate dalla vera eugenetica, quella che mira a fare delle carceri pattumiere da non svuotare mai. Viene in mente un prelato americano che ha pregato per i migranti irregolari, ma non ha offerto loro rifugio in chiesa, come altri prelati, perché "la legge è la legge". Ecco, quando i codici saranno fatti per l’uomo e non l’uomo per i codici anche quel prelato potrà domandarsi "perché loro, e non io". Paola (Cs): i Radicali "detenuto tenta il suicidio dopo la nostra visita nel carcere" lameziaterme.it, 23 marzo 2017 Il detenuto che ha tentato di impiccarsi con un pigiama all’interno della sua camera è stato salvato dal pronto intervento della Polizia Penitenziaria. Un detenuto straniero, in espiazione di pena, ristretto presso la Casa Circondariale di Paola, nel tardo pomeriggio di martedì scorso, ha tentato di suicidarsi ma, per fortuna, è stato salvato dal personale del Reparto di Polizia Penitenziaria. Lo rivela Emilio Enzo Quintieri, esponente dei Radicali Italiani che, proprio martedì scorso, insieme a Valentina Moretti e Roberto Blasi Nevone, ha effettuato una visita ispettiva presso la Casa Circondariale di Paola autorizzata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. "L’evento critico, - continua l’esponente dei Radicali Italiani - per quanto ci è stato riferito, è stato messo in atto poco dopo la conclusione della nostra visita. Il detenuto ha tentato di impiccarsi con un pigiama all’interno della sua camera detentiva ma grazie al pronto intervento del personale di Polizia Penitenziaria non è riuscito a concretizzare il gesto auto-soppressivo". La Delegazione dei Radicali Italiani si era recata nell’Istituto nel primo pomeriggio rimanendovi fino alle 18:30 circa ed era stata accolta ed accompagnata durante la visita dal Commissario Maria Molinaro, Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria e dall’Ispettore Capo Attilio Lo Bianco, Coordinatore della Sorveglianza Generale. "Nell’Istituto Penitenziario di Paola - riferisce Quintieri - al momento sono presenti 217 detenuti, 93 dei quali stranieri, con un esubero di 35 detenuti poiché la capienza regolamentare è di 182 posti. La maggior parte sono tutti condannati (164) anche perché vi sono delle Sezioni Reclusione ed i restanti 53 sono giudicabili (19 in attesa di primo giudizio, 16 appellanti e 18 ricorrenti). Tra la popolazione detenuta vi sono 33 tossicodipendenti e numerosi sono i casi psichiatrici. 1 detenuto era in permesso premio concesso dal Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Paola Lucente. 75 sono le persone ristrette che lavorano nell’Istituto alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria. Sino ad ora, in questi mesi, eccetto una aggressione ai danni di un Agente Penitenziario avvenuta qualche giorno fa, non vi erano stati eventi critici a Paola e speriamo che non ve ne siano altri." "Le condizioni generali della Casa Circondariale di Paola, complessivamente, sono buone. - conclude l’esponente radicale Emilio Enzo Quintieri. Nei prossimi giorni presenteremo alla Direzione delle proposte progettuali per l’apertura di uno sportello di assistenza fiscale e di patronato per i detenuti ed il personale penitenziario e per lo svolgimento di corsi di formazione sportiva riconosciuti dal Comitato Olimpico Nazionale Italiano all’interno dell’Istituto. Venerdì pomeriggio proseguiremo con le visite facendo tappa alla Casa Circondariale Sergio Cosmai di Cosenza". Trento: birra allo zafferano fatta in carcere. Il direttore: aiutateci a far lavorare i detenuti di Erica Ferro Corriere dell’Alto Adige, 23 marzo 2017 Stile belga Triple, colore ambrato e aroma intenso, non pastorizzata né filtrata: è "Zafferana", la birra artigianale aromatizzata con lo zafferano biologico coltivato nel carcere di Spini di Gardolo da sei detenuti. Ovvero, quando inclusione sociale fra rima con networking e radicamento sul territorio: "Perché lavoro significa dimostrare che ogni persona è utile e ha diritto di essere promossa nelle sue attitudini e nel suo saper fare" sostiene il vicepresidente della Provincia Alessandro Olivi. E il direttore del carcere Valerio Pappalardo lancia un appello al mondo imprenditoriale: "Dateci la possibilità di far lavorare i detenuti all’esterno". All’interno, intanto, operano cinque cooperative che occupano una settantina di detenuti nell’imbottigliamento di detersivi, nella lavanderia industriale, nella digitalizzazione dell’archivio della previdenza pubblica. "La Sfera" ne ha assunti sei (con contratti a tempo determinato di quasi un anno) per coltivare, affiancati da esperti agronomi, cavoli, erbe aromatiche e 40.000 cormi di zafferano biologici nei circa 9.000 metri quadrati di verde presenti all’interno della struttura penitenziaria. "Un’opportunità per acquisire competenze, scoprire capacità o attitudini per provare, poi, a rimettersi in gioco in un contesto lavorativo" sottolinea la presidente Bruna Penasa. L’esperienza, avviata nel 2015 e proseguita nel 2016, ha portato la cooperativa a creare il marchio "Galeorto" e a intercettare aziende produttive interessate alle materie prime prodotte in carcere: a oggi si è fatto avanti l’agri-birrificio Argenteum di Cortesano, "che da due anni - come spiega la titolare Laura Pontalti - produce birre con erbe aromatiche e spontanee di cui ormai si è persa conoscenza". Le circa duemila bottiglie di "Zafferana" prodotte finora (10 grammi di zafferano per mille litri) si trovano all’Abbazia della birra e all’Agraria di Riva del Garda, oltre che a "La Sfera". "Lavoro, colloqui e richieste di liberazione anticipata sono, patologie a parte, i motivi principali di possibile sofferenza all’interno del carcere - rivela Pappalardo - quella di lavorare, in particolare, è una richiesta fortissima e chiedo vicinanza al mondo imprenditoriale da quando sono a Trento per avere la possibilità di far lavorare le persone ristrette all’esterno, le imprese possono ottenere agevolazioni fiscali". Uno "stimolo da raccogliere" secondo Olivi "al netto della risoluzione di qualche ostruzione legislativa". "Si potrebbe ragionare anche su opportunità di lavoro offerte dalla pubblica amministrazione". Attualmente anche l’amministrazione penitenziaria dà lavoro, a rotazione, a 95 maschi e 10 femmine: "Questo carcere non è un lager, né è animato da Schutzstaffel - conclude il direttore - ma da tanti operatori che con impegno e massima dedizione cercano di tessere delle intelaiature di rete e non è semplice, vista anche la carenza cronica di organico del personale di polizia penitenziaria". Sulmona (Aq): lavori in ritardo per nuovo padiglione al carcere, sarà pronto per il 2019 di Andrea D’Aurelio ondatv.tv, 23 marzo 2017 Sarà pronto non prima della fine del 2019 il nuovo padiglione nel carcere sulmonese di via Lamaccio. Denuncia ritardi nella costruzione dell’opera, che porterà a un incremento della popolazione carceraria, il Vice Segretario Regionale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria Mauro Nardella. "Il tema del sovraffollamento sta ritornando alla ribalta in Abruzzo e crediamo che vestire la maglia nera anche da questo punto di vista sarà solo questione di tempo se non si ricorrerà a normative preventive o a costruzioni di nuovi padiglioni. A tal proposito non si capisce perché, come nel caso di Sulmona, da questo punto di vista si viaggia a passo di bradipo"- osserva Nardella- in un report presentato sullo stato di salute delle carceri abruzzesi. "Un lavoro che sarebbe dovuto essere completato entro il 2016 e che avrebbe dovuto ospitare 200 nuovi detenuti in spazi più ampi e umanamente accettabili ma che ad oggi ha visto il quasi completamento delle sole aree cortili passeggio e sale colloqui. Ciò significherà, qualora dovessero essere attivati oggi i lavori per l’implementazione del nuovo corpo detentivo, vedere il termine dei lavori non prima della fine del 2019"- rincara il sindacalista. Al momento sono 438 i detenuti reclusi a via Lamaccio, di cui 7 stranieri. Con il nuovo padiglione il numero salirebbe di 200 unità, vale a dire 638. Brescia: domani in Gazzetta Ufficiale il bando per ampliare il carcere di Verziano quibrescia.it, 23 marzo 2017 Sarà pubblicato entro venerdì 24 sulla Gazzetta. Poi la scelta del progettista, il piano esecutivo e il via ai lavori nel 2018. Canton Mombello chiude. Parte ufficialmente l’operazione "nuovo" Verziano. Tra mercoledì 22 e venerdì 24 marzo, infatti, sulla Gazzetta Ufficiale italiana e quella europea sarà pubblicato il bando con cui cercare professionisti interessati a progettare l’ampliamento del carcere. Nel momento in cui sarà completato l’allargamento, infatti, l’istituto di pena di Canton Mombello chiuderà i battenti. Per quanto riguarda Verziano, i tecnici avranno tempo fino al 26 aprile per presentare la propria offerta di collaborazione che sarà poi valutata da palazzo Loggia. Decretato il vincitore, il professionista avrà quattro mesi di tempo per realizzare il progetto esecutivo dei lavori da presentare al ministero della Giustizia e a fronte di un compenso di 720 mila euro. In seguito sarà lanciato il bando di gara per trovare l’azienda incaricata dei cantieri e quindi il via alla ristrutturazione che dovrebbe partire nel 2018. I lavori, per un paio di anni, prevedono un investimento di circa 15 milioni di euro e che porteranno Verziano a poter ospitare fino a 400 detenuti. Tutto all’interno dell’attuale perimetro e quindi senza alcun consumo di suolo. Ma questa sarà solo la prima parte dell’ampliamento. Infatti, sono ancora in corso le trattative con i proprietari dei terreni a nord del carcere in cui spostare le attività sportive, ludiche e di riabilitazione che al momento sono chiuse nelle mura dell’istituto di pena. L’assessore all’Urbanistica di Brescia Michela Tiboni sottolinea che si sta lavorando affinché tutti i tasselli vadano al loro posto. In pratica, la Loggia potrebbe cedere ai privati il palazzo Bonoris per poi rilevare dal ministero della Giustizia Canton Mombello, la caserma Goito o Randaccio. Al posto di uno di questi edifici, potrebbe arrivare un ostello, una "città scolastica" o un incubatore di startup. Frosinone: evasione dal carcere, preso l’agente-complice di Angela Nicoletti Il Mattino, 23 marzo 2017 L’accusa: "Ripagato con versamenti su Postepay". Presi altre tre poliziotti e indagati otto detenuti. Incassavano fino a cinquecento per far entrare in carcere telefoni cellulari e droga. A finire nei guai sono stati quattro agenti della polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Frosinone. Ieri mattina i carabinieri hanno notificato un’ordinanza restrittiva a 11 persone: quattro in carcere, tutti agenti di polizia penitenziaria, una ai domiciliari e sei con obbligo di dimora. Le accuse contestate a vario titolo vanno dalla corruzione, al concorso in corruzione di pubblico ufficiale fino allo sfruttamento della prostituzione. L’anello di congiunzione tra i detenuti e l’esterno era, secondo il gip Francesco Mancini, Rinaldo Neccia, un assistente capo della polizia penitenziaria originario di Piglio, paese del nord frusinate. Il sottufficiale avrebbe intascato somme tra i 150 e i 500 euro, per far entrare in cella cellulari che poi i detenuti utilizzavano per vari scopi: dai semplici rapporti affettivi con parenti, amici e donne alla gestione della prostituzione. Oltre al 47enne ciociaro, l’ordinanza ha colpito anche L. G. albanese, 35 anni; S. D. M. rumeno 26 anni; C.D. napoletano, 26 anni; A. A. albanese, 37 anni; C.M. cagliaritana, 41 anni; due persone originarie di Cardito in provincia di Napoli, C.E. di 45 anni e M.E. 40 anni; A.P. di Sabaudia, 52 anni; A.P. originaria di Latina, 38 anni; R. P. di Sabaudia, 45 anni. L’inchiesta partita nel luglio del 2016 ha avuto un’accelerazione negli ultimi giorni e dopo la clamorosa evasione del ras Alessandro Menditti dei Belforte. Uno degli indagati, infatti, è ritenuto colui che avrebbe consegnato i telefoni cellulari all’evaso ed al suo compagno di cella che successivamente ha dovuto desistere dalla fuga dopo la caduta dal muro di cinta. Un collegamento che prende il via dopo che nel mese di settembre i carabinieri trovarono nel penitenziario una decina di smart-phone. È oramai chiaro che nella casa circondariale fosse presente una reiterata attività di corruzione tra alcuni detenuti e uno degli agenti in servizio. Nel corso delle indagini sono state accertate tre cessioni di telefonini di ultima generazione, muniti di sim card e caricabatteria, l’introduzione di 50 grammi di hashish e il pagamento di di circa 2.000 euro che era stata fatta recapitare all’assistente della polizia penitenziaria in parte attraverso dazione diretta per il tramite di familiari e una parte attraverso l’accreditamento su una Postepay intestata alla stessa guardia. Un’organizzazione quasi perfetta che però ha mostrato una sbavatura con l’evasione di Menditti. Nel tentativo di fuggire il complice albanese del boss di Recale ha perso i cellulari oltre che l’uso delle gambe. Troppe cose non sono andate per il verso giusto e la procura è intenzionata a stanare il 44enne casertano meglio noto come "il macellaio". Le ricerche sono proseguite per l’intera giornata di ieri sia nella provincia di Caserta e nella confinante area frusinate. Ascoli Piceno: detenuto scrive al Papa, ma gli censurano la lettera di Giorgio Santamaria Corriere del Mezzogiorno, 23 marzo 2017 In una lettera spedita al Santo Padre si lamenta di una serie di limitazioni imposte dal regime carcerario del 41bis dimenticando, però, che tra queste, c’è anche il divieto di spedire missive all’estero: nella fattispecie, il Vaticano. E così gli bloccano la corrispondenza diretta a Papa Bergoglio. È accaduto nel carcere di Ascoli Piceno ad Antonio Caiazzo, capo dell’omonimo clan napoletano detenuto nel penitenziario marchigiano per scontare 24 anni di reclusione per associazione camorristica ed altri reati associativi il quale, però - tramite un legale del foro di Santa Maria Capua Vetere - si è rivolto sia al Magistrato di Sorveglianza di Macerata (perché venisse tolta la censura alla lettera da inviare al Papa), sia al consolato italiano presso la Santa Sede. Nel suo ricorso, l’avvocato Antonio Cassino suo difensore, ha infatti segnalato il mancato rispetto della libera circolazione tra Stati ma anche evidenziato che anche il Papa viene ritenuto dallo Stato italiano un potenziale "veicolatore" all’esterno dei messaggi di Caiazzo. Caiazzo, invece, aveva invitato il Pontefice al carcere per verificare di persona le condizioni dei reclusi al 41bis. Contrariamente a quanto affermato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, secondo cui - ha scritto il boss - "in Italia i detenuti sono trattati con umanità, nel rispetto della dignità e dei diritti fondamentali". Larino (Cb): in carcere un "Orto sinergico", coltivazioni e agricoltura sostenibile primonumero.it, 23 marzo 2017 Nella Casa circondariale del paese è nato l’Orto sinergico, un progetto creato grazie anche all’istituto tecnico per l’agricoltura "San Pardo" che ha una sua sede nell’istituto di contrada Monte Arcano. Nel corso dell’incontro dal titolo "Primavera sostenibile" di martedì 21 marzo, sono stati presentati i risultati del progetto finanziato dall’Unione Europea, unico a rappresentare l’Italia in Europa, che prevede attività legate all’educazione e allo sviluppo sostenibile. La filosofia legata all’agricoltura sinergica esclude tutti gli impatti negativi sull’ambiente, produce alimenti in completa armonia con la natura e si basa sul principio che è la terra a far crescere le piante che determinano la fertilità del suolo attraverso le sostanze emesse dalle proprie radici; saranno anche inseriti nel circuito sinergico piccoli animali - girini, rane - che alimenteranno il microcosmo che si costituirà. In uno degli spazi verdi del carcere sono stati realizzati diversi bancali adibiti ad orto, un laghetto e la spirale delle erbe aromatiche. Nel carcere di Larino il progetto, realizzato anche grazie alla volontà della direttrice Rosa La Ginestra (in foto), si inserisce in percorsi legati al recupero dei soggetti privati della libertà attraverso il contatto con la terra e la possibilità di acquisire competenze da cui trarre opportunità di lavoro. Alla presentazione hanno partecipato il dirigente scolastico Lucia Vitiello, il dottor Mario Ialenti in qualità di delegato regionale del progetto "Dear", i docenti dell’istituto agrario Elisabetta D’Ercole e Monica Di Iorio; progettisti dell’orto sinergico sono la dottoressa Giovanna Vizzarri, i tecnici Giuseppe Barone e Camillo Fagnani. Dopo il seminario, sono stati offerti in un buffet i prodotti dell’orto realizzati dalla Cooperativa "L’Araba Fenice" presente con il suo laboratorio all’interno dell’istituto. Sondrio: "Filatelia nelle carceri", oggi incontro pubblico a conclusione del progetto vaccarinews.it, 23 marzo 2017 Oggi pomeriggio l’incontro pubblico presso la sala conferenze del Credito valtellinese. In mostra gli elaborati realizzati dai partecipanti. Un incontro nell’estate 2016 tra la direttrice della Casa circondariale di Sondrio, Stefania Mussio, ed i rappresentanti di Poste italiane getta le basi per "sviluppare un percorso didattico attraverso la scoperta e conoscenza del francobollo. L’iniziativa viene accolta con entusiasmo e si fissa un punto di partenza al quale prenderanno parte i detenuti con l’educatrice Mariantonietta Tevere Maellaro". Così viene introdotto il percorso che domani registrerà un momento conclusivo; si svolgerà a Sondrio, tappa locale del progetto "Filatelia nelle carceri". Seguito, per l’operatore, dalle referenti per la filatelia Lia Barillani ed Antonella Foschetti. L’appuntamento è alle ore 17.30 presso la sala "Enrico Vitali" del Credito valtellinese, in via delle Pergole 10. L’iniziativa ha permesso a diverse persone "di lasciare spazio alla loro creatività, di divertirsi imparando e di conoscere aspetti nuovi del territorio e della storia" che spesso si celano dietro la realizzazione di una carta valore. Si aggiungono i disegni: dalla loro selezione sono emersi quelli impiegati per l’annullo e le due cartoline. Realizzata da Angelo, Akimi, Davide, Ruggero, Walter, una racchiude tutte le eccellenze della Valtellina: le montagne, i suoi castelli, il Bitto, l’Adda, la mela. In mostra, gli elaborati. Presente pure Pastificio 1908, allo scopo di esporre le attività del penitenziario (non a caso, si trova all’interno della struttura), dando spazio e visibilità ai partecipanti ed al loro lavoro. L’obiettivo è trasformare il pomeriggio in un evento da condividere con la cittadinanza ed i rappresentanti istituzionali, focalizzato sulla valorizzazione dell’area penetrando nel tessuto sociale in cui i reclusi vivono. Benevento: da 24 anni con i carcerati, il racconto del pastore evangelico Cesare Turco ottopagine.it, 23 marzo 2017 Il 23 marzo del 1993 il Pastore Evangelico delle Adi Cesare Turco entra per la prima volta nel carcere di Poggioreale Napoli. Da quel giorno sono trascorsi 24 anni di pastorale carceraria, impegno prezioso quanto difficile al servizio dei detenuti. "Il carcere - spiega Turco - compare a tanti come una drammatica discarica dove giungono problemi che nessun altro vuole o può risolvere: dalle tragedie della tossicodipendenza o delle rovine familiari, dai problemi del disordine amministrativo, a quelli dell’immigrazione, della disoccupazione. Cosa si nasconde dietro quelle sbarre?". Di qui il racconto del Pastore Turco... "Nel 1992 mentre svolgevo il mio ministero in un comune della provincia di Caserta, per caso leggo un articolo su un giornale locale: "un giovane di vent’anni condannato carcere a vita". Questa annuncio sveglio in me una grande impressione: considerai a quel ragazzo della mia età e ad una condanna giudiziale che lo vincolava a rimanere per sempre in carcere. Mi fece pensare, perché dicevo a me stesso: "Io sono al principio di un percorso e la mia vita è aperta a qualsiasi prospettiva. Ma per questo giovane il destino è già contrassegnato; non potrà desiderare più nulla nella sua vita". Così gli ho scrissi subito una lettera chiedendogli se potevo andarlo a trovare. Il 23 marzo del 1993 entrai per la prima volta in un carcere per visitare un detenuto. Varcare la soglia di quel mondo non è stato facile. In quell’occasione ho incontrato tanta gente: persone desiderose di essere accolte, ascoltate, accompagnate. In quegli anni non cerano molti pastori che visitavano i carcerati e quelle persone erano privi di qualunque supporto. Ho visto detenuti disposti al dialogo, nonostante il peso della loro condanna. Aperti alla speranza di una futura libertà e aperti alla ricerca di Dio che si faceva sentire nella loro coscienza. Quando dicevo loro che era Dio a cercare loro, i loro occhi si riempivano di lacrime. A quel tempo non avevo alcun punto di riferimento: come muovermi, cosa dire e cosa fare. Le richieste crescevano, le esigenze aumentavano sempre più. La prima cosa che ho imparato da loro è stato l’ascolto. Poi, in seguito, loro stessi mi chiedevano: "Come puoi tu, da solo, svolgere questa attività? Perché non ti circondi di altre persone?". Eravamo nel 1993. Così ho cominciato a chiedere aiuto ad alcuni pastori. Insieme abbiamo pensato ad una vera e propria associazione. L’abbiamo chiamata "Gmc onlus Gruppo Missionario Carcerario", perché volevamo creare un clima di famiglia e di unità, nel limite del possibile, all’interno del carcere. Da quell’anno l’impegno è cresciuto e oggi operiamo in circa 35 Istituti di pena del nostro Paese. In quello che sto facendo non c’è nulla di nuovo. Prima di me ci sono stati altri pastori che con molta detenzione hanno svolto questo servizio con fedeltà e passione. I cercarti oggi hanno sono considerati un po’ che i lebbrosi ai tempi di Cristo e le carceri sono come i loro lebbrosari di ieri. Basta vedere dove vengono costruiti: fuori dalle città, come fossero strutture da emarginare, da collocare a distanza. Il carcerato vive oggi una condizione simile a quella che il malato di lebbra viveva nel Medioevo: escluso, rifiutato, isolato. In questi 24 anni di servizio mi sono incontrato tante volte con detenuti che per lunghi periodi non avevano mai potuto dialogare con qualcuno, al di là degli operatori dell’istituzione carceraria. Questo mi spinge a continuare. Adesso sto visitando quelle carceri dove non entra mai nessuno. Noi in Italia abbiamo ben 70 Istituti in cui non entra nessun volontario. Il mio servizio è semplice: oltre ad essere pastore di due chiese evangeliche adì è anche andare in questi luoghi di pena, incontrarmi con la Direzione, e organizzare un primo volontariato. Per noi Pastori Evangelici è un dovere avvicinarsi a queste persone che certo vivono una terribile forma di povertà". "Un altro me". Metti lo stupratore allo specchio di Giulia Mengolini letteradonna.it, 23 marzo 2017 Il film "Un altro me" racconta il primo esperimento italiano di trattamento intensificato per autori di reati sessuali. Perché il detenuto non sia solo "ibernato". Intervista al criminologo Giulini. "Nel corso della sua vita quanti partner ha avuto a livello sessuale, tra prostitute e non?" "Un centinaio di persone, dottore". "Lo reputo un numero elevato per una persona della sua età". "Lo reputo un numero che mi serviva". "Quando era fuori cosa le piaceva fare?" "Passavo la maggior parte del tempo a cercarmi delle donne. Mi basta vederne una al bar, una camminare…". "Qualcuno le ha mai detto che lei è ossessionato dal sesso?" "È l’unica valvola di sfogo che ho, dottore". Carcere di Bollate, Milano. Il dialogo è quello tra un uomo condannato per reati sessuali e un esperto dell’equipe che si occupa di intraprendere un percorso lungo e insidioso, raccontato con un’intensità sorprendente nel documentario Un altro me di Claudio Casazza, girato con la partecipazione dell’Equipe dell’Unità di Trattamento di reati sessuali del Cipm, Centro Italiano per la promozione della Mediazione e i detenuti della casa di reclusione di Bollate. Loro nel gergo del carcere si chiamano "infami", in quello tecnico "sex offenders": sono dentro perché hanno abusato di una donna o di un minore, e, una volta usciti dopo mesi o anni di isolamento, rischiano di commettere nuovamente lo stesso crimine. Per cercare di impedirlo, un’equipe di psicologi, criminologi e terapeuti porta avanti il primo esperimento italiano di trattamento intensificato per autori di reati sessuali: un anno insieme a loro per capire chi sono, cosa pensano, quali dinamiche li hanno spinti a compiere violenze spinti da un’inquietante mentalità misogina. "Questo trattamento è un’opportunità per lavorare su voi stessi. Il nostro scopo è aiutarvi a gestirvi e controllarvi. Il problema in voi c’è, non facciamo finta di niente. Voi potete giustificarvi o sottrarvi, però significa coprirsi gli occhi, a meno che voi non siate affezionati al vostro modo di vivere", dice loro Paolo Giulini, criminologo di fama internazionale e presidente del Cipm in una delle prime scene. "Mi fa piacere che lei abbia tutte queste certezze, dottore. Grazie lo stesso per l’opportunità", risponde con sarcasmo uno degli ‘orchì, declinando l’invito. Sì, perché scegliere di partecipare è come iniziare a guardarsi costantemente allo specchio sapendo che si vedrà qualcosa di molto torbido, sporco, inconfessabile. Come raccontare di aver inserito per gioco un trapano nella vagina di una donna ("ma io sono un porco, dottore, mi piacciono queste cose"), o aver minacciato un’altra con una pistola mentre la si obbligava a un rapporto orale. E comprendere che non sono comportamenti leciti. Il film, vincitore del Premio del Pubblico alla 57esima edizione del Festival dei Popoli e prodotto da Graffiti Doc, nonostante parli di violenza non giudica, non ricama: mostra. Lasciando tutto lo spazio ai protagonisti del trattamento. D.: Come sono stati scelti i soggetti che hanno partecipato al progetto? R.: Sono stati selezionati nell’ambito delle carceri lombarde. Nella prima fase firmano un contratto di valutazione nel quale cominciano i percorsi trattamentali con i gruppi. Nello stesso tempo però sanno che il percorso ha la finalità di capire quanto potrebbe essere utile per loro questo programma. D: E poi? R: Dopo tre mesi questa fase finisce, l’equipe indica chi sono le persone idonee a continuare il percorso. Ma se una persona non vuole intraprenderlo, ovviamente non possiamo obbligarlo. D: Vengono presi in considerazione criteri precisi? R: Ci accertiamo che i sex offenders in questione non presentino una problematica forte di tossicodipendenza o alcolismo, né soffrano di patologie mentali come psicosi. Inoltre deve esserci una buona comprensione della lingua italiana: molti stranieri partecipano al programma. D: Dottore, chi sono i sex offenders? R: Persone che hanno una condanna almeno di primo grado che hanno commesso reati sessuali su donne o minori. Parliamo quindi di una popolazione mista di aggressori. D: Qual è il primo passo di questo percorso? R: Entrare in contatto con la gravità di quello che hanno commesso e con la loro problematicità. D: Qual è esattamente? R: Quella che per soddisfare dei bisogni legittimi che abbiamo tutti - di piacere, contatto, padronanza - utilizzano una modalità disfunzionale, errata, perché colpiscono un’altra persona per mezzo di un’aggressione. Hanno condotte devianti, aggressive e violente. D: Credo sia difficile generalizzare, ma tendenzialmente sono consapevoli della loro problematicità? R: In molti casi no, infatti presentano spesso meccanismi di difesa molto massicci caratteristici di questa popolazione: di minimizzazione della loro responsabilità (e se minimizzo, va a finire che do colpa alla donna o al minore) e distorsioni cognitive, un aspetto molto presente, che fa fare loro appunto pensieri distorti rispetto alla realtà. Lavoriamo molto su questo. D: Un esempio di "distorsione cognitiva"? R: Quando il sex offender ci dice: "La ragazzina di 12 anni mostrava interesse per me". Oppure: "Mentre la abusavo, quella donna sospirava perché provava piacere". D: Voi specialisti come agite? R: Il trattamento è pensato come una batteria in serie di attività di gruppo con dei temi specifici. È un programma intensificato, ogni settimana ci sono ben sette gruppi (ognuno co-condotto da una coppia di terapeuti) e ognuno ha una sua tematica specifica. Quindi, per esempio, se una persona nel gruppo di "prevenzione della recidiva" minimizza la propria problematica di reato, in quel gruppo si deve parlare di quello. Perché c’è un rischio reale. D: Nel film mi ha colpito il passaggio in cui un uomo racconta di aver obbligato una donna a un rapporto orale mentre le puntava una pistola alla tempia. E parlava di piacere associato all’"amministrazione" di questa. R: Certo, negli abusi, quindi nei rapporti non consenzienti, c’è l’idea di trarre una soddisfazione dal rapporto violento in termini di conquista trionfante, quindi di annullamento dell’altro. E lo riconoscono. Ecco, questo diventa un aspetto eccitatorio per questi uomini. Molti di loro mostrano una dimensione sadica in questo tipo di condotta. D: Quindi si va oltre l’ossessione per il sesso in quanto tale: il problema è volerlo fare con persone non consenzienti per poterle controllare. R: Sì, non è semplicemente spiegabile con la fantasia sessuale perversa violenta, ma con aspetti di distorsioni relazionali. È un po’, appunto, come trarre piacere non dall’atto sessuale in sé, quanto dalla modalità di imporsi. D: Perché accade? R: Queste persone vivono dei conflitti interpersonali, e invece di gestirli li sessualizzano. Stanno bene grazie a questa sensazione di trionfo sull’altro che viene annichilito dall’atto sessuale. D: "Lei mi ha provocato, quindi è colpevole quanto me, ma io sono in carcere mentre lei è libera", si sente dire nel documentario. R: Anche questa giustificazione è una classica distorsione cognitiva. Sta a noi operatori intervenire con un trattamento che non rappresenta una risposta immediata, ma è mirato a dare a loro una dimensione di fiducia che gli permetta piano piano, con il tempo, di accorgersi che questa è una modalità distorta di vedere la realtà. D: Una vittima di questo tipo di reati dovrebbe vedere il film? Dipende dal grado di elaborazione del trauma? R: Sì, direi che la complessità e la drammaticità di questi fatti richiede un’attenzione sui singoli casi. La risposta a questa domanda è relativa al percorso della vittima e al suo bisogno di incontrarsi con un aggressore: c’è chi ha voglia di chiarire a se stesso quello che è accaduto e non gli basta ripercorrere il trauma attraverso dei percorsi psicologici di recupero e sostegno. In certi casi alcune vittime chiedono di andare a fare delle domande in strutture come le nostre. D: Cosa accade in questi casi? R: Spesso vengono accompagnate dai loro terapeuti e la sensazione che abbiamo ogni volta che si realizzano questi incontri è che le vittime ne traggano un beneficio. Significa che la cura della loro esperienza traumatica procede in maniera più rapida: è come se ci fosse un acceleratore di ricucitura. D: A proposito di questo, il film mostra il rifiuto di alcuni uomini quando gli viene detto: "Vi facciamo ascoltare la testimonianza di una vittima". R: Sì: reazioni che vanno dal fastidio al rifiuto, al fatto di non credere possibile che una vittima possa confrontarsi con i loro atti mostruosi. Anche questa è una sfida. D: Lo scopo del vostro lavoro è soprattutto la prevenzione: fare in modo che una volta fuori non ripetano quello che hanno commesso. R: Assolutamente, il progetto ha come finalità quello di evitare nuovo vittime che in questo tipo di reati purtroppo sono danni drammatici. Va bene intercettarli, punirli, ma è importante che questo sistema delle pene sia efficace e li restituisca alla società non congelati con quei meccanismi psicopatologici che sono alla base dei loro atti, ma con un minimo di elaborazione che li permetta di non ripeterli. D: Alcuni uomini vi confessavano: "Quando esco di qui non vedo l’ora di andare a letto con la prima che incontro". Senza questo tipo di percorsi a cosa serve il carcere? R: Noi lo chiamiamo "ibernazione penitenziaria". D: Quanto è difficile per i sex offenders parlare dei propri reati? R: Molto. Fanno fatica, ma d’altronde chi glielo fa fare a quello che per la società è un orco, un mostro, di parlare con il criminologo appena entrato in carcere e dire "sì dottore, è vero: ho abusato di un bambino", "mi eccito vedendo i minori" se non viene sollecitato ad aprirsi in un clima fiduciario? Preferisce stare chiuso nella sua cella, costruire una sorta di isolamento che sta alla base della propria condizione psico-patologica. D: In questo caso il rischio serio è che il carcere sia inutile. R: Succede così che la punizione del carcere costruisce una figura di "ibernato" con i suoi meccanismi di difesa e minimizzazione, quindi una volta che la pena è stata eseguita si esce con il rischio che l’ibernato venga soltanto scongelato. Anzi, magari sono ancora lì con aspetti rivendicativi. D: Per esempio? R: Come: "Adesso che sono fuori te la faccio pagare io di nuovo". Noi cerchiamo di evitare questo, e farli entrare anche in empatia con il dolore che hanno generato nella vittima. Questo, per fortuna, in Italia è possibile oggi. D: Chi lo permette? R: Noi con la legge 172 del 2012 abbiamo ratificato la convenzione di Lanzarote del 2007 e inserito un articolo molto pesante, il 13 bis dell’ordinamento penitenziario che parla della necessità di dotare il sistema di possibilità di intervento psicologico su autori di reati sessuali su minori qualora questi lo richiedessero. Non siamo arrivati all’obbligo come alcuni Paesi europei, come la Francia, ma abbiamo risorse. Consideri che questo articolo è una sorta di lettera morta, fatta eccezione per progetti come il nostro. D: Numericamente, quali sono i risultati del progetto? R: Questo è l’undicesimo anno: abbiamo trattato 248 persone in carcere e 188 fuori. Di questi, in carcere abbiamo avuto sette recidive e fuori tre. Un dato eloquente rispetto all’efficacia del nostro intervento. Con gli occhi chiusi davanti ai terroristi di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 23 marzo 2017 Negli ultimi due anni si sono moltiplicati gli atti di guerra di matrice riconducibile all’islamismo fondamentalista che noi abbiamo cercato di non vedere. Stavolta il bersaglio è un simbolo troppo importante nella nostra storia per minimizzare, mettere tra parentesi la minaccia del terrorismo jihadista. Westminster, il Parlamento britannico, la culla della democrazia rappresentativa europea, la Camera dei Comuni chiusa, Theresa May costretta ad allontanarsi su una macchina blindata. Procurarsi un Suv e un coltello è facilissimo, ma l’impatto di armi così facili e maneggevoli, che non richiedono addestramenti sofisticati e modelli organizzativi molto elaborati, è fortissimo. Il cuore di Londra è ferito. Ma negli ultimi due anni si sono moltiplicati gli atti di guerra di matrice riconducibile all’islamismo fondamentalista che noi abbiamo cercato di non vedere. Abbiamo sperato non nella fine della guerra, ma nella trasformazione del grande terrorismo in una guerra a bassa intensità. Una normalizzazione psicologica del terrore. Cercando di non pensarci, di scacciare l’inquietudine, di non diventare prigionieri della paura. Ma l’attentato di Londra ci ricorda che le nostre speranze sono vane. Che gli attacchi continuano, che la scia di sangue non accenna a disseccarsi. Rischiamo di abituarci al terrore, di considerarlo come parte integrante e ineliminabile della nostra vita. Sabato scorso un uomo ha tentato di uccidere una soldatessa all’aeroporto di Orly con una pistola e gridando di voler "morire per Allah", ma abbiamo prontamente archiviato quell’immagine inquietante. All’inizio di febbraio un altro uomo ha aggredito con il machete un militare di guardia al Louvre. Nei giorni scorsi ancora non abbiamo capito cosa sia esattamente accaduto a Düsseldorf in Germania, dove un uomo di "origine kosovara" (così è stato detto) ha attaccato con un’ascia la stazione ferroviaria provocando numerosi feriti. Ma ormai non si contano gli attentati che vedono protagonisti quelli che vogliano eufemisticamente definire "lupi solitari" o depressi o "radicalizzati" e di cui invece si scopre quasi sempre il collegamento con cellule terroristiche legate all’Isis. Ricordiamo purtroppo molto bene gli attentati dal forte impatto spettacolare, come quelli che hanno colpito all’inizio del 2015 la redazione di Charlie Hebdo e il supermercato ebraico di Parigi, oppure sempre a Parigi la carneficina del Bataclan del novembre del 2015, la strage dell’aeroporto di Bruxelles del marzo del 2016, la pazza e sanguinaria corsa di un "radicalizzato" islamista a Nizza nel luglio del 2016 con oltre 80 vittime, il massacro del mercatino di Natale a Berlino nel dicembre del 2016, con un Tir lanciato a grande velocità contro la gente, l’irruzione nella chiesa di Rouen quando un comando ha sgozzato al grido di "Allah Akbar" Padre Jacques Hamal mentre stava celebrando una Messa mattutina con un gruppo di suore. Accogliamo invece con un certo torpore, con una reattività rallentata, e addirittura con una forma di assuefazione rassegnata, la miriade di episodi che coinvolgono, dicono, attentatori isolati. Come se l’apparente isolamento di chi uccide e compie ripetutamente stragi in un arco temporale relativamente ristretto ci volesse convincere che non si tratta di una guerra globale scatenata contro il mondo "infedele", ma la somma di singoli casi non collegati tra di loro. Abbiamo faticato a riconoscere la matrice islamista della strage della discoteca di Orlando in Florida. Abbiamo cercato di ridurre il massacro in un bar di Dacca, con la morte di undici nostri giovani connazionali, a una cruenta e criminale bravata di ricchi rampolli del Bangladesh. Non vogliamo sapere con esattezza cosa sia successo a Londra quando un "norvegese di origine somala" ha ucciso con un coltello una donna americana ferendo altre cinque persone. A Monaco, in un centro commerciale, nel luglio scorso un ragazzo ha ucciso nove persone sparando all’impazzata: sembrava un isolato, poi si è scoperto che non lo era. A Charleroy in Belgio due poliziotte sono state sfigurate a colpi di machete da un uomo che colpiva con ferocia gridando la sua appartenenza religiosa. Sempre nel luglio del 2016, in Germania, un ragazzo proveniente dall’Afghanistan ha ferito a colpi d’ascia cinque passeggeri di un treno regionale. Anche a Reutlingen un ragazzo siriano ha ucciso con un’accetta una donna incinta e ha ferito due passanti e ad Ansbach un uomo si è fatto esplodere ferendo numerosi partecipanti a un concerto rock. Ora a Londra, colpita nel suo Parlamento, è più difficile far finta di niente e non rendersi conto che la guerra unilaterale scatenata dal fanatismo religioso non si è mai fermata. Una guerra a bassa intensità, che non cessa di seminare lutti e terrore. Migranti: il procuratore Zuccaro "rischio radicalizzazione in carcere ma anche nei campi" La Repubblica, 23 marzo 2017 Il procuratore di Catania nella seduta del Comitato di controllo sull’attuazione dell’accordo di Schengen. Sospetto terrorismo in organizzazioni che gestiscono il caporalato nelle campagne del Ragusano. "Strano proliferare Ong, indaghiamo su fondi". La procura ha aperto un fascicolo. "Fenomeni di radicalizzazione al terrorismo sono stati registrati in un momento successivo all’ingresso in Italia da parte dei migranti e lo registriamo nell’ambito della popolazione carceraria". Lo ha detto il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, intervenuto stamane sul fenomeno migratorio nella seduta del Comitato di controllo sull’attuazione dell’accordo di Schengen. "Ci giungono segnalazioni molto concrete di fenomeni di reclutamento, di radicalizzazione che vedono come promotori alcuni dei migranti che sono stati arrestati per avere commesso degli illeciti e che a loro volta tentato di fare proselitismo nelle carceri". Zuccaro ha poi sottolineato: "Altro fenomeno di radicalizzazione lo registriamo in altri centri in cui viene utilizzata la manodopera dei migranti nelle attività agricole delle serre, e mi riferisco soprattutto al territorio del Ragusano dove avviene il cosiddetto caporalato. In quei luoghi vi sono diverse serre in cui vengono utilizzati i migranti e alcuni di loro ci risulta abbiano avuto contatti con soggetti che poi sono risultati più o meno collegati con organizzazioni terroristiche. Quello che noi riteniamo, ma sul punto non abbiamo indicazioni documentali certe è che una parte dei proventi del traffico dei migranti clandestini finisca nelle mani di soggetti che operano e che hanno organizzazioni militari o paramilitari. Quindi non si possono escludere anche organizzazioni che siano collegate con il mondo del terrorismo". "A partire dal settembre-ottobre 2016 abbiamo registrato un improvviso proliferare di unità navali delle Ong che fanno il lavoro che prima gli organizzatori svolgevano: accompagnare fino al nostro territorio i barconi dei migranti. Abbiamo registrato la presenza, nei momenti di maggior picco, di tredici assetti navali". Aveva detto all’inizio dell’audizione Zuccaro, la sua procura ha aperto un fascicolo conoscitivo sul fenomeno. "Ci siamo voluti interrogare - ha spiegato - sulle evoluzioni del fenomeno e perché vi sia stato un proliferare così inteso di queste unità navali e come si potessero affrontare costi così elevati senza disporre di un ritorno in termine di profitto economico". Quello che è emerso da questa indagine conoscitiva è che il Paese europeo che ha dato vita alla maggior parte di queste Ong è la Germania cui fanno capo cinque di queste Ong con sei navi, tra cui le due di Sos Mediterranee. Costi mensili o giornalieri "elevati", sottolinea Zuccaro. Aquarius di Sos Mediterranee, a esempio, ha un costo di 11.000 euro al giorno. Il Moas di Christopher e Regina Catrambone, Ong con sede a Malta, "ha costi per 400.000 euro mensili" e ha due navi Phoenix, battente bandiera del Belize, e Topaz con bandiera delle Isole Marshall: "Crea sospetti - ha proseguito - anche questo dato dei Paesi che danno bandiera alle navi". A questo punto "ci si deve porre il problema di dove venga il denaro per sostenere costi così elevati, quali siano le fonti di finanziamento: sarà compito della successiva fase conoscitiva. Faremo verifiche ulteriori sulle Ong che portano migranti nel nostro distretto". "Le Ong lavorano spesso in prossimità del territorio e delle coste libiche. Abbiamo calcolato che negli ultimi quattro mesi del 2016 il 30% dei salvataggi con approdi a Catania è stato effettuato da quelle organizzazioni; nei primi mesi del 2017 quella percentuale è salita ad almeno il 50%. E accanto a questo dato emerge che il numero dei morti non è diminuito". Ha continuato il procuratore: "Registriamo un dato che ci desta preoccupazione: il numero di morti in mare nel 2016 ammonta a 5000; nel triennio 2013-2015 le vittime di cui si è occupata la Procura di Catania sono state 2000: il che mi fa ritenere che la presenza di queste organizzazioni, a prescindere dagli intenti per cui operano, non ha attenuato il numero delle tragedie in mare". Peraltro, i numeri ufficiali di questi morti "rispecchia solo in modo approssimativo le tragedie in alto mare: i barconi su cui questi migranti vengono fatti salire sono sempre più inadeguati e chi li guida sempre meno idonei". Quando l’hacker è uno Stato di Carola Frediani La Stampa, 23 marzo 2017 Virus e malware sono diventati parte fondamentale dell’arsenale militare dei governi di tutto il mondo. Il fenomeno dell’hacking statale o parastatale esisteva già da tempo, ovviamente, anche se più contenuto e sotto traccia. In un certo senso, l’anno zero - in cui si è strappato il cielo di carta - è stato il 2010, con la scoperta di Stuxnet. Questo malware ha alterato di nascosto la velocità delle centrifughe dell’impianto per l’arricchimento dell’uranio a Natanz, in Iran, portando alla sostituzione forzata di mille macchine. E questa è la prima novità: diversamente da altri virus o worm che puntavano a rubare informazioni o a violare e danneggiare sistemi informatici, Stuxnet realizzava, attraverso i computer, un’operazione di sabotaggio fisico. Il software malevolo era concepito in modo tale da modificare anche le informazioni che arrivavano ai tecnici, così che non si accorgessero della natura del malfunzionamento e la attribuissero ad altre cause. Secondo il già citato Ralph Langner, il 50 per cento dei costi di sviluppo di Stuxnet è probabilmente andato nel tentativo di nasconderlo. Il malware era estremamente sofisticato. Usava ben quattro "zero-day", ovvero vulnerabilità di un software che non sono ancora note a nessuno se non all’attaccante. Si chiamano così perché gli sviluppatori dei programmi vulnerabili, non avendo idea della loro esistenza, hanno avuto "zero" giorni a disposizione per metterle a posto. Inoltre Stuxnet ha dovuto anche aggirare il fatto che i computer di controllo del sistema da attaccare non fossero collegati a Internet. Per saltare questo "vuoto d’aria", il fatto cioè che i pc fossero separati dalla Rete, ha utilizzato come vettore d’attacco delle chiavette Usb. Gli attaccanti hanno prima infettato i computer di almeno quattro aziende esterne all’impianto di Natanz, che però erano connesse al programma nucleare iraniano o erano suoi fornitori, e da lì sono arrivati al loro target finale. Ci sono state varie versioni di Stuxnet, in un crescendo di aggressività del malware. Tecnicamente era un worm, un virus che si sparge - oltre che per mezzo di Usb drive - attraverso la Rete. Pur potendo replicarsi e diffondersi su molti computer, rimaneva dormiente provocando solo misteriosi malfunzionamenti se non incontrava particolari condizioni, se non si trovava cioè su una macchina di un sistema di controllo industriale con specifiche configurazioni. Di fatto, però, Stuxnet col tempo si è diffuso in un centinaio di Paesi: qualcuno ha contato 300mila infezioni. Altra novità di questo malware è che nasce apertamente da un progetto statale. Nel 2012 è arrivata la conferma di quello che molti sospettavano: e cioè che Stuxnet è il frutto di una collaborazione statunitense-israeliana. In particolare faceva parte del piano americano "Olympic Games" - avviato sotto la presidenza di George W. Bush - che voleva sabotare il programma nucleare iraniano con un attacco informatico. Stuxnet è stata dunque la prima arma digitale sviluppata da uno Stato ed effettivamente usata a scopi offensivi. Secondo alcuni osservatori, l’impiego di questo malware avrebbe avuto il merito di impedire un intervento militare vero e proprio. Una "bomba digitale" avrebbe ottenuto effetti simili a quelli di un’incursione fisica ma in modo discreto e sotterraneo, danneggiando le centrifughe silenziosamente per mesi senza dare nell’occhio. Uno dei suoi vantaggi fondamentali era la possibilità di intervenire di nascosto e, qualora il malware fosse stato scoperto, di negare in modo plausibile di esserne i mandanti. C’è un’espressione tecnica, usata sia nello spionaggio sia nella sicurezza informatica, per indicare questa mossa: plausible deniability, appunto negazione (letteralmente, negabilità) plausibile. Tuttavia, a medio e lungo termine, Stuxnet ha avuto anche alcune importanti ripercussioni negative. Proprio mentre gli Stati Uniti condannavano le incursioni di cyber-spionaggio cinese, aver rilasciato la prima arma digitale conosciuta li ha messi nella posizione di non poter più predicare astinenza agli altri, come ha notato Kim Zetter nel suo libro Countdown to Zero Day. "Il rilascio del malware ha lanciato una corsa alle armi digitali tra Paesi piccoli e grandi che altererà per sempre lo scenario dei cyber-attacchi", ha scritto la giornalista di "Wired". Peraltro - sostiene il documentario Zero Days 4 di Alex Gibney, uscito nel 2016 - Stuxnet sarebbe stato solo un tassello di una campagna di hacking molto più vasta e articolata, nome in codice "Nitro Zeus", che aveva penetrato surrettiziamente una serie di infrastrutture critiche iraniane, cioè di quei sistemi vitali per il funzionamento di uno Stato, dall’energia ai trasporti alla difesa. E che avrebbe potuto innescare ulteriori scenari di cyber-guerra. Ricordiamo che negli anni di maggior tensione sul programma nucleare di Teheran - tra il 2008 e il 2011 - si è svolta una guerra non detta fra le potenze in gioco, che non si è limitata all’hacking. Diversi scienziati e accademici iraniani collegati al programma sono stati assassinati in modo clamoroso. Il 29 novembre 2010, nello stesso periodo in cui Stuxnet veniva progressivamente svelato al mondo e il giorno esatto in cui Costin Raiu trovava il cubo con il suggerimento di prendersi un po’ di relax, Majid Shahriari, professore quarantenne di fisica nucleare con un ruolo rilevante nei progetti atomici di Teheran, veniva ucciso dentro la sua auto in mezzo al traffico e in pieno giorno. Yemen. Con una mano aiuti, con l’altra armi: l’ipocrisia della comunità internazionale di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 marzo 2017 Dal marzo 2015, quando sono iniziati gli attacchi aerei da parte della coalizione guidata dall’Arabia Saudita nello Yemen, sono stati uccisi almeno 4600 civili e ne sono stati feriti più di 8.000. Si stima che 18,8 milioni di yemeniti dipendano dall’assistenza umanitaria e abbiano disperato bisogno di cibo, acqua, riscaldamento e riparo per sopravvivere. L’Onu ha denunciato che la malnutrizione è così grave che il paese è sull’orlo della carestia. Tutte le parti coinvolte nel conflitto hanno fatto scempio di qualunque norma del diritto internazionale umanitario: attacchi indiscriminati dal cielo contro i centri abitati, scuole, ospedali, mercati e moschee e uso delle vietatissime bombe a grappolo da parte della coalizione a guida saudita; attacchi indiscriminati da terra, chiusure di ospedali e arruolamento di bambini soldato da parte delle forze huthi e dei loro alleati. Nelle sue missioni di ricerca nello Yemen, Amnesty International ha potuto documentare almeno 34 attacchi aerei della coalizione guidata dall’Arabia Saudita che paiono aver violato il diritto internazionale umanitario. In questi attacchi - avvenuti nelle sei province di Sanàa, Sàda, Hajjah, Hodeidah, Tàiz e Lahj - sono stati uccisi almeno 494 civili tra cui 148 bambini. In alcuni di questi attacchi sono state usate armi prodotte negli Usa e nel Regno Unito. Amnesty International ha anche documentato 30 attacchi indiscriminati da parte delle forze pro e anti-huthi attraverso colpi d’artiglieria, razzi e mortai nelle province di Aden e Tàiz, in cui sono stati uccisi 68 civili. Di fronte a tutto questo, l’atteggiamento di Usa e Regno Unito è semplicemente vergognoso. I dati forniti dal dipartimento per lo Sviluppo internazionale di Londra e da ForeignAssistance.gov, l’ufficio per le risorse all’assistenza internazionale all’interno del dipartimento di Stato Usa, i due governi hanno speso o messo in bilancio per gli aiuti umanitari alla popolazione civile yemenita circa 450 milioni di dollari. Ma, secondo l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma, dal 2015 gli Usa e il Regno Unito hanno venduto armi all’Arabia Saudita per un valore di oltre cinque miliardi di dollari. In altre parole, Washington e Londra hanno dato all’Arabia Saudita armi per un valore oltre 10 volte superiore a quello degli aiuti umanitari. Cercano, insomma, di alleviare la sofferenza di quasi 19 milioni di yemeniti e allo stesso tempo contribuiscono ad aggravarla. Per quanto riguarda l’Italia, secondo i dati reperibili dal registro del commercio estero dell’Istat e forniti ad Amnesty International dall’Osservatorio permanente sulle armi leggere di Brescia (Opal), nel 2016 l’Italia ha fornito all’Arabia Saudita bombe e munizionamento militare per un valore complessivo di oltre 40 milioni di euro, rispetto al valore di 37,6 milioni di euro del 2015. Le spedizioni sono state tutte effettuate dalla provincia di Cagliari e, secondo l’Opal, sono riconducibili alla RWM Italia, azienda del gruppo tedesco Rheinmetall, che ha la sua sede legale a Ghedi (Brescia) e la sua fabbrica a Domusnovas, non lontano da Cagliari. Negli anni scorsi l’Opal e la Rete italiana per il disarmo hanno documentato numerose spedizioni di bombe aeree della RWM Italia dalla Sardegna all’Arabia Saudita. Allo stesso tempo, in base a quanto stabilito con la delibera 1845 del ministero degli Affari esteri in data 22 febbraio 2016, il governo italiano ha stanziato un milione e mezzo di euro per l’Alto commissariato Onu per i rifugiati con l’intento specifico di sostenere i profughi yemeniti nei paesi limitrofi, diventati tali anche a causa dei bombardamenti sauditi. Ecco perché, all’inizio del terzo anno del conflitto, è più che mai fondamentale che le Nazioni Unite impongano immediatamente un embargo sulle armi e avviino un’indagine indipendente sulle gravi violazioni dei diritti umani commesse da tutte le parti coinvolte nel conflitto. Libia. Le torture dei soldati di Haftar, massacrato il corpo di un capo islamista di Vincenzo Nigro La Repubblica, 23 marzo 2017 Alcuni video e fotografie particolarmente brutali, pubblicati in questi giorni sui social media in Cirenaica, hanno creato un’ondata di proteste contro la "Libyan National Army", la milizia del generale Khalifa Haftar. L’organizzazione per la protezione dei diritti umani Human Rights Watch ha chiesto un’inchiesta su sospetti crimini di guerra dopo aver esaminato le foto e i video di alcune esecuzioni sommarie, di violenze e torture. Ma soprattutto c’è l’episodio della riesumazione del cadavere di un capo islamista che, 5 giorni dopo essere stato ucciso e sepolto a Bengasi, viene estratto dalla tomba, smembrato ed esibito in maniera macabra sul cofano di un’auto che attraversa le strade della periferia della città. Human Rights Watch ha parlato apertamente di crimini di guerra: "Le forze della LNA potrebbero aver commesso dei crimini di guerra, tra i quali torture contro civili, esecuzioni sommarie, profanazione delle tombe dei loro rivali". "La leadership della LNA deve urgentemente rispondere a queste accuse profondamente inquietanti indagando i sospetti responsabili, compresi i comandanti militari che potrebbero essere chiamati ad assumersi responsabilità individuali", ha dichiarato Joe Stork, vice direttore di Hrw per il Medio Oriente. I fatti risalgono al 18 marzo, quando la LNA riesce a chiudere l’assalto all’ultimo bastione delle milizie islamiste a Bengasi, liberando il quartiere di Ganfouda. Secondo HRW "video e foto riprese dal parenti delle vittime e da giornalisti mostrano che i cadaveri dei jihadisti sono stati profanati e mutilati durante o dopo la fase finale dell’assalto". Dopo alcuni giorni in cui l’autenticità dei video è stata smentita, i comandanti militari della milizia di Haftar hanno iniziato ad ammettere che qualcosa potrebbe essere accaduto; Wanis Boukhamada un responsabile delle forze speciali di Haftar a Bengasi, ha dichiarato che chiederà la punizione dei soldati che fossero responsabili di atti del genere. Il capo di stato maggiore egiziano Mahmoud Hijazi ha fatto dire da un suo portavoce di aver telefonato al generale Haftar chiedendogli di condannare con forza gli atti di violenza e di agire per bloccare torture e violenze contro i prigionieri. Il caso più drammatico è quello della riesumazione del corpo del capo islamista Jalal al Makhzoum. L’uomo era il capo del Consiglio della Shura di Bengasi, l’organizzazione politico militare che da mesi è in guerra contro la LNA di Haftar in Cirenaica. Dopo essere stato ucciso e sepolto, il suo corpo è stato disseppellito e portato in trionfo dai soldati di Haftar sul cofano di una Toyota. Il governo del premier Serraj già domenica scorsa aveva definito il gesto "un’azione criminale disumana, commessa da combattenti che si sono identificati come forze armate libiche di Bengasi. Chiediamo a tutte le tribù dell’est della Libia, ad attivisti, politici e organi di stampa di condannare tale azione". Stati Uniti. Detenuto morto sotto la doccia bollente, assolte le guardie blitzquotidiano.it, 23 marzo 2017 Darren Rainey, un detenuto che si trovava nel Dade Correctional Institution del sud della Florida, stava scontando una pena detentiva per possesso di cocaina. Nel giugno del 2012 le guardie lo hanno portato fuori dalla cella e lo hanno costretto a farsi la doccia in un box. I secondini hanno chiuso le porte impedendo a Rainey di uscire e l’acqua bollente lo ha ucciso. La triste vicenda la riporta il Washington Post che scrive di "acqua che ha raggiunto temperature insopportabili per un essere umano". Rainey, un 50enne che soffriva di schizofrenia, ha cominciato ad urlare "non ce la faccio più", ha raccontato un detenuto che si trovava non molto distante dalle docce. Le guardie non hanno voluto ascoltare i suoi lamenti e lo hanno lasciato sotto l’acqua per due ore. Quando si sono decise ad andare a vedere la situazione, Rainey giaceva morto sotto 7 centimetri di acqua bollente. La sua pelle era arrossata ed aveva cominciato a staccarsi. Parti di questa aveva cominciato a galleggiare accanto al suo corpo, racconta il Miami Herald citato dal Washington Post. La morte di Rainey ha fatto avviare all’interno del penitenziario una indagine serratissima con cui si è scoperto che le docce venivano usate come tortura per i detenuti che si comportavano male. Il Miami Herald racconta che le guardie usavano, oltre all’acqua, anche sostanze chimiche con cui drogavano i detenuti aizzando spesso lotte tra incarcerati tenuti senza cibo. La morte di Rainey ha scoperchiato una pratica consolidata di "tortura". Ciò non è però bastato a far imprigionare le quattro guardie coinvolte che, dopo due anni di processo, sono state assolte. Il pubblico ministero Katherine Fernandez Rundle ha infatti pubblicato un rapporto di 101 pagine sulla morte di Rainey giungendo alla conclusione che si è trattato di incidente. Secondo il rapporto, nulla prova che il sergente John Fan Fan e gli ufficiali Cornelius Thompson, Ronald Clarke e Edwina Williams abbiano agito per voler uccidere il detenuto. "Le prove non riescono a dimostrare che qualche ufficiale di correzione abbia agito in totale indifferenza della vita di Rainey", ha scritto il pm nel rapporto. Rainey sarebbe morto a causa di una serie di fattori tra cui le complicazioni della schizofrenia, una malattia cardiaca non diagnosticata e la pratica (legale) e diffusa nelle carceri chiamata "confinamento nella doccia". Gli investigatori hanno dichiarato che la desquamazione della pelle di Rainey non sarebbe stata causata dal calore della doccia, ma bensì dall’attrito e dalla pressione sul corpo che potrebbe essersi verificata quando i medici hanno cercato di ravvivare o spostare il suo corpo. Il rapporto conferma quanto scritto dal medico legale Emma Lew secondo la quale ha detto Rainey non aveva subito nessun ustioni. L’avvocato della famiglia di Rainey, Milton Grimes, ha dichiarato all’Associated Press che la famiglia del detenuto era "delusa e con il cuore spezzato" per i risultati del rapporto. "Questa non è giustizia né per Darren né per la sua famiglia, né per i malati di mente che sono stati oggetto di abusi e maltrattamenti simili", ha detto rassegnato Grimes.