Carceri, Cie e hotspot distanti dalla legalità di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 marzo 2017 Prima relazione al Parlamento del Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma: "Bene il ddl sull’identificazione dei poliziotti". Diecimila detenuti in più rispetto ai posti realmente disponibili nelle carceri italiane, con punte in taluni istituti del 300% rispetto alla capienza; 12 suicidi e 205 tentati suicidi dall’inizio dell’anno, soprattutto connessi al disagio mentale; un sistema di detenzione "pensata al maschile" nel quale le donne "rischiano di diventare invisibili e insignificanti"; violazioni dei diritti dei transessuali; misure alternative ancora insufficienti, mancanza di un reato specifico di tortura. E ancora: 8.577 persone ancora recluse in regime di "alta sicurezza", 729 in sezioni speciali ex articolo 41 bis e tra di loro alcuni ristretti in "aree riservate che costituiscono una realtà speciale all’interno del regime speciale" e che "espongono l’Italia a possibili censure da parte degli organi internazionali di controllo"; 571 persone in trattamento psichiatrico detenute nelle 30 Rems istituite alla chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari ma che da essi non si sono mai realmente distinte, almeno "come logica sottostante", essendo tuttora "luoghi di ricovero di persone con caratteristiche molto dissimili" e che avrebbero bisogno invece di differenti supporti e prese in carico. Ma non c’è solo il carcere, nella prima Relazione al Parlamento presentata ieri alla Camera dal Garante nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà. In questo anno di vita o poco più, l’azione dell’organismo, istituito dopo la sentenza Torreggiani con la quale nel 2013 la Cedu di Strasburgo ha condannato l’Italia per il sovraffollamento penitenziario, è definita in quattro grandi aree del controllo diffuso: penale, sicurezza, migrazioni e sanitaria. Per ciascuna di esse Mauro Palma, presidente del collegio dei Garanti (Daniela de Robert e Emilia Rossi, le componenti), ha messo in evidenza luci ed ombre e formulato precise raccomandazioni, con un discorso che si è meritato la standing ovation della Sala della Regina (il pdf della relazione qui). Davanti a gran parte delle istituzioni e delle associazioni che si occupano del sistema di controllo italiano è intervenuta anche Laura Boldrini: "La percezione di sicurezza - afferma la presidente della Camera - aumenta non con l’espulsione ma con l’inclusione, la solidarietà, la protezione sociale, la pulizia delle strade, le luci, il decoro, le iniziative culturali". Mentre, dopo i messaggi del Presidente Mattarella e del Guardasigilli Orlando, il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore ribadisce e giura la "ferma volontà del nostro governo di introdurre il reato di tortura" (affossato in realtà dalla maggioranza al Senato perfino nella versione peggiorata rispetto a quella licenziata dalla Camera nell’aprile 2015, nda). Nel frattempo, in questo ultimo anno, il Garante nazionale ha visitato "tutti i Cie attualmente operanti", "tutti gli hotspot fissi", le strutture miste, e ha monitorato sei dei voli charter partiti da Fiumicino con i quali sono stati rimpatriate forzatamente 177 persone. E "in questi giorni - avverte Mauro Palma - guardo con attenzione a quale potrà essere la fisionomia dei nuovi Centri per il rimpatrio previsti dal decreto in corso di conversione: certamente quelli esistenti, con la loro somiglianza al carcere, e a un carcere particolarmente chiuso e opaco agli sguardi esterni, non corrispondono al modello che ci attendiamo sarà adottato per le nuove strutture". Nei Cie attuali "la capienza effettiva al gennaio di quest’anno era di 359 posti; nei primi nove mesi del 2016 vi sono transitate 1968 persone e solo il 44% di queste è stato rimpatriato". Nello stesso periodo, "delle 3737 persone che sono state rimpatriate, solo uno su quattro proveniva da un Cie. Molti rimpatri sono stati eseguiti, infatti, direttamente dagli hotspot sotto forma di respingimenti differiti". E nel decreto legge citato, sottolinea il Garante, "la natura giuridica degli hotspot rimane poco chiara". Inoltre, nello Standard Operating Procedures redatto dal Ministero dell’Interno con il contributo della Commissione Europea, "il tempo di permanenza massimo rimane indeterminato e rimesso allo svolgersi della procedura di foto-segnalamento e di rilevamento delle impronte". Negli hotspot peraltro si trovano spesso minori non accompagnati (che nel 2016 erano il 14% degli arrivi, il doppio del 2015) che non trovano posto nei Centri di accoglienza: "Una situazione comprensibile, ma non accettabile" per Palma. Al netto di alcune positività, come per esempio la scelta di non imporre il foto-segnalamento, o la notifica preventiva dei voli di rimpatrio in modo da consentirne al Garante nazionale il monitoraggio (modalità che Mauro Palma estenderebbe volentieri ai Trattamenti sanitari obbligatori), resta il mancato controllo su ciò che avviene dopo la consegna delle persone rimpatriate: "Vanno rafforzate le garanzie negli accordi con Paesi terzi" e introdotti meccanismi di ricorso contro le modalità di trattenimento. Per questo, ha spiegato Palma, il Garante intende rafforzare la rete di comunicazione e cooperazione con gli omologhi organismi - laddove esistano - dei Paesi che ricevono i cittadini espulsi dall’Italia. Ma si può essere privati della libertà anche solo per poche ore, per un fermo, per un controllo da parte delle forze di polizia. E siccome, evidenzia il Garante, c’è un’"assolta carenza di camere di sicurezza", essendo agibili appena poco più della metà di quelle ufficialmente censite (fino all’estremo di regioni come "la Basilicata senza alcuna camera di sicurezza della Polizia e la Calabria con solo 5 camere agibili"), si assiste al "ritorno del fenomeno cosiddetto delle porte girevoli, cioè di persone tradotte in carcere per una notte". Se è necessario perciò ripristinarle secondo gli standard internazionali, accessibili e trasparenti, è pur necessario "rendere effettiva ogni indagine su presunti maltrattamenti", a tutela dei fermati e degli operatori che agiscono nella legalità. Per questo, Palma conclude annunciando di aver appreso "con soddisfazione" che i codici identificativi di reparto da apporre sulle divise degli agenti saranno "a breve" introdotti attraverso un ddl ad hoc. Almeno secondo le promesse del ministro dell’Interno Minniti. Il "Garante nazionale per i diritti delle persone detenute o private della libertà personale" istituito all’inizio del 2014 è diventato operativo solo tra febbraio e marzo 2016 con la nomina alla nuova autorità di Mauro Palma (presidente) e di Emilia Rossi e Daniela de Robert da parte del Quirinale. I componenti restano in carica per 5 anni e sono inamovibili e indipendenti. Nonostante un solo anno di vita, l’istituzione ha svolto un lavoro importante: 80 le visite effettuate: 30 istituti di pena per adulti, 1 carcere militare, 3 istituti penali per minorenni, 2 Cpa, 14 strutture di diverse forze di polizia, 4 Cie, 4 hotspot, 2 centri di accoglienza per migranti, 2 comunità, 2 case famiglia. E ancora, 6 voli di rimpatrio (in Tunisia e Nigeria) e 2 sbarchi di migranti. I reclami esaminati sono stati 108 e 126 le segnalazioni ricevute. Libertà e salute, il problema dei Tso - La privazione della libertà può riguardare anche le strutture sanitarie, specie per quanto riguarda i "trattamenti sanitari obbligatori" o i ricoveri per anziani. "È un tema centrale che svilupperemo nel corso del 2018", ha avvertito Palma nella sua relazione. In effetti, sull’argomento non esistono nemmeno numeri precisi. Gli ultimi dati risalgono al 2015 e dicono di 10.882 pazienti dimessi da Tso. Un numero di persone significativo anche se parziale, perché riferito alle sole dimissioni. Perciò - vista la rilevanza e la delicatezza della materia - il garante chiede al parlamento "una modifica normativa" con cui in parallelo alla notifica al giudice tutelare, i Tso vengano comunicati in automatico anche al garante, in modo da poter effettuare controlli a campione. "Più attenzione ai minori stranieri" - "Secondo i dati dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, nel 2016 sono arrivati sul territorio italiano 25.846 minori stranieri non accompagnati, oltre 70 al giorno, quasi il 14% degli arrivi complessivi - ha riportato Mauro Palma - Un numero rilevante, visto che nel 2015 ne erano giunti 12.360, cioè il 7% dei complessivi arrivi. In gran parte i minori provengono dall’Eritrea (3.714), dal Gambia (3119) e dalla Nigeria (2932). Ma è tra gli egiziani che la loro percentuale la più alta: il 58% degli arrivi. Nel novembre 2016, 17.245 minori non accompagnati erano presenti nei Centri: il doppio dell’anno precedente. Da ciò, la saturazione delle strutture e il prolungamento della loro presenza negli hotspot, in attesa di individuare un posto in un Centro. Comprensibile, ma inaccettabile" I poteri e i compiti dell’Autorità - Il garante Npl è un’istituzione pubblica, non governativa e indipendente. Il suo compito è controllare e monitorare tutti i (tanti) luoghi di privazione della libertà verificando il rispetto dei diritti umani fondamentali e della dignità della persona. La sua connotazione è prevenire eventuali problemi e agire secondo un metodo collaborativo secondo il principio della "raccomandazione", cioè i rilievi mossi caso per caso alle istituzioni coinvolte. Collabora con i garanti regionali o locali ove nominati. Può visitare liberamente tutti i luoghi di detenzione o privazione della libertà (carceri, Cie, camere di sicurezza, voli di rimpatrio, etc.) senza necessità di autorizzazione o annuncio. Può avere colloqui riservati con i ristretti. Può visionare i fascicoli e/o i documenti dei ristretti. Mancano diecimila posti, il carcere resta un’emergenza di Luca Liverani Avvenire, 22 marzo 2017 Dal testo presentato in Parlamento, riemerge il fenomeno del sovraffollamento nei penitenziari. Tra i nodi irrisolti, anche il disagio mentale. Mattarella: la pena deve favorire il reinserimento. Se la "quantità" della popolazione carceraria è tornata sotto controllo, non altrettanto può dirsi della "qualità" della detenzione. Detenuti deresponsabilizzati, prevenzione inadeguata del disagio mentale, suicidi in aumento, scarsa attenzione alla condizione femminile. E il sovraffollamento comunque non è del tutto sconfitto, se mancano 10mila posti ed esistono ancora picchi di presenze - pur circoscritti - del 300%. Spesso proprio nelle poche e insufficienti sezioni femminili. È un panorama in chiaroscuro quello della prima Relazione al Parlamento del Garante nazionale delle persone detenute - in carceri, camere di sicurezza, centri per migranti irregolari, strutture di lungodegenza per disabili e anziani privati della capacità legale - che tra le criticità sottolinea il "limbo giuridico degli hotspot" per richiedenti asilo voluti dall’Ue. La nuova autorità indipendente è stata istituita proprio sulla scia della sentenza del 2013 della Corte di Strasburgo che bocciò l’Italia. A illustrare il dettagliato dossier di 297 pagine il Garante Paolo Palma, alla Sala della Regina di Montecitorio con la presidente della Camera Laura Boldrini. Messaggi dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dal premer Paolo Gentiloni. Un anno di lavoro intenso, quello del Garante, che in un anno ha effettuato 80 visite in 30 istituti di pena, ma anche in un carcere militare, in istituti per minori, camere di sicurezza di Polizia e Carabinieri, centri di identificazione ed espulsione, hotspot, case famiglia per madri detenute con figli. E anche 6 voli di rimpatrio forzato in Tunisia e Nigeria e 2 sbarchi di migranti. Sovraffollamento entro i limiti di guardia, dunque, dopo "l’avvertimento" di Strasburgo. Nonostante gli interventi normativi che hanno ridotto il ricorso alla carcerazione, in favore di pene alternative, mancano ancora circa 10mila posti letto: "A fronte di 55.827 detenuti a gennaio 2017 (62.536 nel 2013) i posti disponibili sono 45.509". Da notare che "nel 2016 questo trend si è modificato con un leggero aumento delle presenze, che al 31 dicembre 2016 erano 54.632 e al 14 febbraio 2017 sono 55.713, con un incremento di oltre 1.000 unità. Un più 6% "da non sottovalutare". Solo 2.338 invece le detenute, il 4,2%: paradossalmente è "un elemento penalizzante perché la detenzione "è sempre pensata al maschile e le donne "rischiano di diventare invisibili", con sezioni femminili che di solito hanno meno spazi, meno strutture e meno opportunità formative rispetto agli uomini. L’umanizzazione del carcere dunque non è "buonismo", sottolinea Boldrini. Chi sconta la pena con le misure alternative ha tassi di recidiva inversamente proporzionali a chi resta in cella: quindi "garantire diritti alle persone detenute non è altra cosa rispetto all’obiettivo di garantire la sicurezza, di rendere le nostre città le nostra società più sicure", sottolinea la presidente della Camera. Sulla stessa lunghezza d’onda il presidente Sergio Mattarella che in un messaggio sottolinea come il reinserimento dei detenuti è un dovere civile: è la Costituzione "a sancire che la pena, nel rispetto della dignità e dei diritti fondamentali, deve favorire il reinserimento sociale" e "lo Stato ha il compito di offrire una occasione di recupero: al Garante spetta di vigilare". Ma la strada è ancora lunga, se le buone pratiche e le eccellenze nel Paese si alternano a situazioni degradanti. Il garante Palma fa notare come il sistema spesso vittimizza e non promuove la "responsabilizzazione". Basta pensare al "linguaggio per i ‘mai adultì" usato in carcere: "spesino", "scopino", "rattoppino", e poi ancora "mercede", "lavorante" o "sopravvitto". Il linguaggio penitenziario, lingua estranea al mondo esterno, "contribuisce a rendere più difficile il percorso di reinserimento delle persone". Non un gergo dei detenuti, ma parole normalmente utilizzate dagli operatori penitenziari (direttori, funzionari, psicologi, polizia penitenziaria) e dalla magistratura di sorveglianza. "Il linguaggio - sottolinea - è solo una delle manifestazione della tendenza ad attivare processi di infantilizzazione nelle persone detenute", e "tale sistema spinge a vivere ogni rifiuto come un sopruso, alimentando un atteggiamento di vittimizzazione e un senso di ingiustizia subito: l’esatto contrario del processo di assunzione di responsabilità". Problematico il capitolo del disagio mentale. Nelle sue visite il Garante ha riscontrato "l’isolamento di persone di difficile gestione" e "celle lisce", cioè prive di suppellettili in modo da minimizzare i rischi di atti di autolesionismo. Una prassi che in "molti, troppi, istituti, scarica su personale non medico, la gestione di situazioni che richiedono competenza e responsabilità medica". Gli episodi di autolesionismo sono stati 8.540 nel 2016 e 1.262 solo da inizio 2017 al 25 febbraio. Ancora più allarmante il dato sui suicidi. Nel 2016 sono stati 40 e già nei primi due mesi del 2017 ben 12. Carceri inumane. Lo dice anche il Garante di Dimitri Buffa Il Tempo, 22 marzo 2017 La relazione alla Camera del responsabile nazionale dei detenuti Mauro Palma. Celle di nuovo sovraffollate malgrado gli indultini e niente piani di reinserimento. Sovraffollate e invivibili. Le carceri italiane non funzionano. Lo dice pure Mauro Palma, il garante nazionale dei detenuti, nella sua prima relazione presentata ieri alla Camera. Non rieducano, sono contrarie ai principi minimi dei diritti umani così come stabiliti dalla Corte europea relativa, e, oltretutto, producono insicurezza proprio attraverso quella faccia feroce che tanti partiti e movimenti politici contrabbandano come soluzione securitaria. Un’analisi quasi "radicale", condivisa in pieno da Rita Bernardini, che dei penitenziari italiani è una specie dì Florence Nightingale. E che però rileva anche come Palma non abbia mai amato parlare di amnistia e di indulto come precondizione per tornare alla legalità. Battaglia per la quale il partito radicale transnazionale ha da tempo avviato invece i preparativi per la marcia di Pasqua il 16 aprile da Regina Coeli al Vaticano. Proprio oggi la Bernardini e i principali esponenti del Prntt si incontreranno di nuovo con il Guardasigilli per una sorta di consuntivo sugli stati generali delle carceri. Secondo Palma, coadiuvato in questa opera di ricognizione (la prima da quando è stata istituita, non senza grosse difficoltà burocratiche, la figura di garante nazionale) dall’avvocato Emilia Rossi e da Daniela De Robert, le cosiddette "criticità del sistema" sarebbero queste: "leggera" tendenza all’aumento delle presenze nonostante gli indultini (la Bernardini dice che non è affatto leggera, ndr) dovuta per lo più al massiccio uso della custodia cautelare in barba a tutte le normative esistenti e "distribuzione della popolazione non omogenea a causa anche della presenza di diversi circuiti detentivi con situazioni talvolta di estremo sovraffollamento". Infatti dopo la "grande attenzione ai numeri, seguita alla condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo", di fatto non c’è stata "altrettanta attenzione alla qualità della vita detentiva". Anche perché "gli Istituti di pena sono ancora troppo chiusi, con poche attività e scarsi progetti di reinserimento". Un discorso a parte Palma lo ha fatto peri Cie, che sono centri di identificazione ma soprattutto di forzato stazionamento per i migranti. Sono tenuti peggio delle carceri. E dentro ad essi si sta ingigantendo il problema dei problemi: i minori non accompagnati. Arrivano al ritmo di 70 al giorno, specie dall’Africa, e ormai sono quasi ventimila in tutta Italia solo quelli trattenuti nei centri. Altro gravissimo disagio è quello del trattamento differenziato e non della malattia mentale. E questo dovendo anche fare la tara al fatto che nelle carceri italiane chi da pazzo non è entrato probabilmente ci diventerà per via delle condizioni in cui è tenuto. Secondo la relazione di Palma "la presa in carico delle persone detenute con problemi psichici va a rilento". E ciò perché "sono poche le articolazioni per la tutela della salute mentale funzionanti a pieno titolo con grave disagio per i pazienti che spesso vengono semplicemente trasferiti da un Istituto all’altro". E l’autolesionismo e il suicidio sono le conseguenze di ciò: "Particolare allarme desta a questo proposito il numero dei suicidi e quello dei tentati suicidi di questo inizio d’anno, spesso connessi proprio al disagio mentale". Nei primi due mesi del 2017 già 11 i casi. Inoltre la riforma governativa degli ex Opg non funziona: in pratica è stato solo cambiato il nome. Si legge infatti che c’è "il rischio che le Rems diventino luoghi di ricovero di persone con caratteristiche molto dissimili". Cosa che "potrebbe renderle sin troppo simili alla passata esperienza degli Opg". Non manca una censura all’istituto del 41 bis e delle aree speciali che potrebbero fare condannare di nuovo e reiteratamente l’Italia dalla Cedu e poi si parla delle cosiddette "celle lisce", cioè quelle dove vengono provvisoriamente ricoverati coloro che minacciano di sfasciare tutto o di fare del male a sé stessi e agli altri in maniera continuativa. Carcere tra sovraffollamento e degrado, miglioramento dopo la Torreggiani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 marzo 2017 Il Garante dei detenuti ha illustrato ieri alla Camera la sua prima relazione sulle carceri. Constatazione della piena maturità raggiunta da numerosi garanti locali e volontà di investire in termini di prevenzione affinché la detenzione non sfoci in trattamenti inumani e degradanti fino a svilupparsi in situazioni che un ordinamento civile non può tollerare. Utilizzo linguistico appropriato, ovvero nominare bene le cose: ad esempio chiamare tortura i comportamenti che si ascrivono a tale crimine. Attenzione all’identità del migrante e creare standard da rispettare, diretto a culture avanzate, tese a un diritto inclusivo capace di prevenire i conflitti. Queste sono state le premesse illustrate da Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, durante la presentazione della sua relazione annuale a Montecitorio. Mattarella, Boldrini e Orlando - Molto sentito l’indirizzo di saluto della presidente della Camera Laura Boldrini: "Le carceri sono lo specchio del livello di civiltà di un Paese e occuparsi di chi vive nelle carceri non vuol dire essere indulgenti, o come qualcuno direbbe usando una parola odiosa, "buonisti". È interesse della collettività occuparsi dei detenuti perché possano uscire dal carcere persone migliori". Un concetto ribadito anche dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo messaggio al Garante: "L’odierna giornata rappresenta un’utile occasione per la verifica del lavoro svolto, particolarmente impegnativa nella prospettiva di individuare gli strumenti e le modalità attraverso cui assicurare la piena realizzazione dei principi sulla pena affermati dall’articolo 27 della Costituzione. È la carta fondamentale a sancire che la pena, nel rispetto della dignità e dei diritti fondamentali dell’uomo, deve favorire il reinserimento sociale di chi ha sbagliato e lo Stato ha il compito di offrire una occasione di recupero attraverso l’impegnativo percorso di rieducazione". Mattarella conclude: "Al Garante nazionale spetta di vigilare affinché sia pieno il rispetto dei diritti fondamentali del detenuto e di promuovere le attività utili al suo reinserimento nella società. Si tratta di una funzione delicata e complessa cui lo Stato deve dedicare attenzione reale ed impegno concreta". Interessante anche il messaggio del ministro della Giustizia Andrea Orlando che pone l’attenzione alla affettività e alla vicinanza del recluso ai suoi affetti. Il ministro auspica "la necessità di un’attività di lavoro qualificante che consenta al detenuto di restituire alla società quello che ha tolto col crimine" e ribadisce "l’immutata volontà di consegnare al paese un sistema penale finalmente diverso e più giusto". Trend in leggero aumento - Mauro Palma spiega che grazie alla sentenza Torreggiani della Corte Europa, diverse misure sono state prese per fronteggiare il problema del sovraffollamento e della condizione degradante degli istituti penitenziari. Sicuramente c’è stato un maggiore accesso alle misure alternative, però permane la distanza tra posti realmente disponibili e il numero dei detenuti. Se nel 2013, alla data della sentenza Torreggiani, le persone detenute superavano le 62mila unità (62.536), negli anni successivi si è andati verso un progressivo decongestionamento degli Istituti: 53.623 nel 2014 e 52.164 nel 2015. Nel 2016 tuttavia - spiega il Garante nazionale - questo trend si è modificato con un leggero aumento delle presenze, che al 31 dicembre erano pari a 54.653 e alla data del 14 febbraio 2017 sono 55.713, dunque con un incremento di oltre 1000 unità. Se si confrontano le presenze a fine gennaio 2016 e a fine gennaio 2017 si registra un aumento del 6,2%. Il tasso di detenzione (numero di detenuti presenti a data fissa rispetto alla popolazione nazionale che Eurostat quantifica nel 2016 in 60.665.551) al 14 febbraio 2017 è 92 (per centomila abitanti), inferiore a quanto raggiunto in anni passati - per esempio nel 2010 quando era 112 - ma pur sempre in lieve aumento, anche se entro quel valore 100 che rappresenta la media dei Paesi dell’Europa occidentale. In tema di sovraffollamento i dati sono ancora distanti dall’essere soddisfacenti e, spesso, le sezioni più affollate sono quelle femminili. "Donne invisibili" - Le donne rappresentano una piccola percentuale della popolazione detenuta: al 31 gennaio erano 2.338 su un totale di 55.381 detenuti, cioè solo il 4,2%. "In questo caso, ha sottolineato Palma, i piccoli numeri rappresentano un elemento penalizzante". La detenzione è da sempre "pensata al maschile e applicata alle donne che rischiano di diventare invisibili e insignificanti per il sistema penale". Gli istituti penitenziari femminili sono, infatti, solo quattro: Trani, Pozzuoli, Rebibbia e Venezia- Giudecca, con una capienza di 537 posti e una presenza di 589 donne. Le altre 1.794 sono distribuire nei 46 reparti femminili all’interno degli istituti maschili, dove "rischiano di avere meno spazio vitale, meno locali comuni, meno strutture" e meno opportunità formative rispetto agli uomini. Pochi istituti femminili, osserva il Garante, significa inoltre "violazione di fatto del principio di territorialità della pena". Luogo di sofferenza aggiuntiva - Il carcere, spiega ancora il Garante, oltre la privazione della libertà, diventa troppo spesso un luogo di sofferenza aggiuntiva. C’è l’infantilizzazione della persona ristretta, l’impatto dei minori con i congiunti reclusi e percezione di una realtà espropriativa degli affetti. A proposito dell’infantilizzazione, Mauro Palma si concentra sul linguaggio: l’istanza per l’ottenimento di un permesso premio o di una misura alternativa viene comunemente chiamato "domandina", termine che esprime uno scarso rispetto per l’uomo o per la donna che inoltrano l’istanza, e un senso di svalutazione della richiesta stessa (dalla quale talvolta dipende la libertà della persona) definita con un diminutivo quasi si tratti di un capriccio. Il Garante fa notare che alla "domandina" non corrisponde una "rispostina" perché nessuno oserebbe definire in tal modo la decisione del direttore, né tantomeno del magistrato o del Tribunale di sorveglianza. E ancora spesino, scopino, rattoppino, e poi ancora mercede, lavorante o sopravvitto: sono termini del linguaggio penitenziario, una lingua estranea al mondo esterno che contribuisce a rendere più difficile il percorso di reinserimento delle persone. Non si tratta di un gergo delle persone detenute, ma di parole normalmente utilizzate dagli operatori penitenziari (direttori, funzionari, psicologi, polizia penitenziaria) e dalla magistratura di sorveglianza. Ma il linguaggio è solo una delle manifestazioni della tendenza ad attivare processi di infantilizzazione nelle persone detenute. Il modello di una pena responsabilizzante - spiega il Garante - sembra essere prerogativa esclusiva di alcuni Istituti. Negli altri vige al contrario un sistema teso a privare le persone della capacità e del diritto a decidere, a gestire la quotidianità, a circolare nell’Istituto senza essere accompagnati anche per spostamenti minimi, a partecipare all’organizzazione della vita comunitaria, a essere coinvolti in maniera attiva alla vita dell’Istituto. I due mondi dell’alta e media sicurezza - Il Garante poi punta il dito contro la particolare distanza nei regimi dell’esecuzione della pena che si riscontra tra le sezioni di "alta sicurezza" e quelle di "media sicurezza" in termini di tutela del diritto a ricevere il trattamento rieducativo in pari misura, da assicurare comunque a ogni detenuto perché, come ricorda la Corte costituzionale sussiste un "obbligo tassativo per il legislatore di tenere non solo le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle". Il Garante Nazionale durante le visite effettuate nelle sezioni di "alta sicurezza" ha avuto modo di verificare che in alcune situazioni si sta offrendo alle persone detenute così classificate attività trattamentali significative, rompendo la barriera che le divide dai detenuti comuni. Al contrario in altre situazioni la differenza tra la quotidianità detentiva in tali sezioni e quella realizzata in sezioni di "media sicurezza" determina quasi due "mondi" diversi e rispondenti a logiche distanti, che difficilmente possono apparire a un osservatore esterno come rispondenti allo stesso principio costituzionale. Nuove norme per il Tso - Mauro Palma ha espresso alcune raccomandazioni. Auspica che siano rese effettive le indagini sui presunti maltrattamenti a tutela anche di coloro che lavorano con onestà e abnegazione. Raccomanda la necessità di un codice identificativo degli agenti. E una modifica normativa per il trattamento sanitario obbligatorio e che ognuno di esso venga notificato anche al garante. Frontiera labile tra restrizione e privazione include anche le strutture dove le persone disabili o anziane entrano volontariamente che possono trasformarsi in luoghi di permanenza involontaria, ai Tso che in sé racchiudono la natura di detenzione coatta. Per questo il Garante auspica un approccio pluridisciplinare. Il Garante dei detenuti e il coraggio di chiamare le cose con il loro nome di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 22 marzo 2017 Era tempo che nelle aule parlamentari non si sentiva un discorso di alto profilo sui diritti e sulle libertà. Un discorso che è partito con una citazione di Albert Camus ed è terminato con un testo di Johan Huizinga. L’occasione è stata la presentazione della prima Relazione al Parlamento del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà. Se lo storico olandese, che con il carcere fino alla morte ha pagato la sua lotta per la libertà di ricerca durante il nazismo, è citato in riferimento all’imprevedibilità della storia e alla auspicabile capacità umana di condizionarne gli esiti, invece lo scrittore e filosofo francese Albert Camus è stato evocato da Mauro Palma, garante nazionale giunto al primo giro di boa del suo mandato e firma ben nota a questo giornale, per la seguente frase: "quando si cominciano a nominare bene le cose diminuisce il disordine e la sofferenza che c’è nel mondo". Mauro Palma, simbolicamente, all’interno di un Parlamento che mai ha voluto approvare una legge che criminalizzasse la tortura, ha ricordato come sia necessaria un’operazione di igiene linguistica che riporti a chiamare le cose con il loro nome. Dobbiamo poter chiamare tortura ciò che ha i connotati della tortura. Oggi ciò non è possibile. I giudici non possono chiamare tortura ciò che è tortura poiché la tortura non è reato in Italia. Coraggiosa è dunque la relazione di questa nuova autorità di garanzia, per la cui istituzione dal lontano 1997 Antigone si è fortemente battuta. Il rapporto non si limita a raccontare quanto fatto in questo primo anno di lavoro; contiene anche raccomandazioni destinate alle istituzioni, persino su temi non facili. Ad esempio il garante chiede di abolire le cosiddette aree-riservate ovvero reparti interni ancora più chiusi rispetto alle sezioni ex 41-bis; o, su altro terreno, chiede di introdurre meccanismi effettivi di reclamo per i migranti sulle condizioni di trattenimento. Dunque abbiamo fatto bene a lottare 19 anni per la sua istituzione. La nascita del garante è una vittoria. Finalmente nell’asfittico panorama italiano opera una figura istituzionale di tutela e promozione dei diritti delle persone private della libertà. Il fatto che a presiedere l’autorità di garanzia sia Mauro Palma, coadiuvato da Daniela de Robert e Emilia Rossi, fa parte di questa vittoria. Nell’ambito dei diritti umani conta moltissimo l’autorevolezza delle persone a cui viene assegnato un ruolo rappresentativo pubblico. Queste persone dovranno confrontarsi con il moloch della burocrazia e delle istituzioni della sicurezza. Dunque la loro forza sarà anche data dalla loro personale competenza e autorevolezza. Il potere di visita dei luoghi di privazione della libertà di cui il Garante dispone è penetrante. Invito tutti a leggersi il suo rapporto sul carcere di Ivrea, esemplare per rigore e tragicità. Il mandato del Garante è ampio e riguarda tutta l’area, purtroppo sempre più estesa, della privazione della libertà: non solo galere dunque, ma anche hotspot e luoghi di detenzione per migranti, commissariati di polizia, caserme dei carabinieri e della guardia di finanza, residenze per le misure di sicurezze. Infine ha anche il monitoraggio dei voli di rimpatrio e del trattamento sanitario obbligatorio. Un’organizzazione come Antigone ora ha un alleato in più nella lotta per una detenzione più rispettosa della dignità umana, in una fase difficile come questa dove il populismo penale impera. Mattarella e Boldrini: lo Stato deve offrire occasioni di recupero per i detenuti Ansa, 22 marzo 2017 "È la Carta fondamentale a sancire che la pena, nel rispetto della dignità e dei diritti fondamentali dell’uomo, deve favorire il reinserimento sociale di chi ha sbagliato e lo Stato ha il compito di offrire una occasione di recupero attraverso l’impegnativo percorso di rieducazione. Al Garante nazionale spetta di vigilare affinché sia pieno il rispetto dei diritti fondamentali del detenuto e di promuovere le attività utili al suo reinserimento nella società. Si tratta di una funzione delicata e complessa cui lo Stato deve dedicare attenzione reale ed impegno concreto". Lo dice il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in un messaggio al Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma. La relazione annuale del Garante è stata presentata oggi a Montecitorio. "L’odierna giornata - sostiene Mattarella nel suo messaggio - rappresenta un’utile occasione per la verifica del lavoro svolto, particolarmente impegnativa nella prospettiva di individuare gli strumenti e le modalità attraverso cui assicurare la piena realizzazione dei principi sulla pena affermati dall’art. 27 della Costituzione". Boldrini: non è buonismo occuparsi delle carceri "Preoccuparci delle condizioni di chi vive e lavora nelle carceri non significa mostrarsi indulgenti verso chi ha commesso reati: qualcuno userebbe questa parola odiosa, ‘buonistì. Significa anche preoccuparci della sicurezza collettiva, perché restituire alla società una persona migliore rispetto a quella che ha fatto il suo ingresso in carcere, è nell’interesse di tutta la collettività". Lo ha detto a presidente della Camera, Laura Boldrini, intervenendo alla presentazione della relazione del Garante dei detenuti presso la Sala della Regina a Montecitorio. Boldrini ha ricordato i diversi provvedimenti approvati dalle Camere che "hanno consentito una significativa riduzione della popolazione detenuta. E questo è il presupposto - ha detto la presidente della Camera - per fare un buon lavoro, perché in una situazione di drammatico sovraffollamento non solo si condannano i detenuti ad una pena aggiuntiva di particolare disagio che nessun tribunale ha mai deciso e che non consente alcun riscatto, ma è impossibile programmare e svolgere con efficacia tutte quelle attività finalizzate al recupero e al reinserimento sociale del condannato che è, secondo la Costituzione, ciò a cui la pena deve tendere. Come si fa, quando in una cella ci sono 6-8 persone ammassate? Lì esce il peggio della persona, se possibile". "Adesso - ha proseguito Boldrini - che abbiamo ridotto il numero delle persone, diminuito il sovraffollamento, bisogna fare tutto il resto. E per farlo serve la collaborazione di tutti: delle istituzioni nazionali, degli enti locali e delle forze sociali, perché lo dobbiamo al nostro Paese. In questo contesto il ruolo del Garante Nazionale, così come di quelli regionali, diventa necessario e prezioso per la sua funzione di vigilanza e di garanzia del rispetto dei diritti non solo dei detenuti ma di tutte le persone private della libertà personale: quelle affidate alla custodia nei luoghi di polizia, nei Centri di identificazione e di espulsione; quelle che si trovano nei cosiddetti hotspot, un’altra dimensione sulla quale è forse il caso di andare a fondo, mi permetto di suggerire; quelle che sono nelle residenze in esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche, o sottoposte a trattamenti sanitari obbligatori. Un enorme lavoro da fare, per il Garante". Epatite C in carcere, progetto pilota di educazione e prevenzione Adnkronos, 22 marzo 2017 Educare, informare e prevenire l’epatite C nelle carceri, comunità ad alto rischio per questa infezione, trasformando la detenzione in un’occasione di cura e responsabilità, per la propria salute e per il controllo del contagio. È il progetto "Enehide", promosso da EpaC Onlus e Società italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simspe) Onlus, che partirà nella Casa circondariale di Viterbo e coinvolgerà il personale sanitario, la polizia penitenziaria e le persone detenute. Un’iniziativa che permetterà di mettere a punto un modello da utilizzare, successivamente, a livello nazionale. Basato sulla semplicità. Si avvale infatti di strumenti ‘sostenibilì: incontri informativi, attività di educazione e distribuzione di 2mila kit di igiene personale (uno spazzolino e un dentifricio) per spezzare la catena del contagio dell’epatite C. Enehide (Educazione e prevenzione sull’Hcv negli istituti detentivi) - illustrato questa mattina a Roma - partirà venerdì nella Casa circondariale di Viterbo, dove il progetto sarà presentato a tutti i detenuti che aderiranno. Seguiranno altri 20 incontri che coinvolgeranno, oltre ai detenuti, tutti gli operatori, tra i quali 400 agenti e 50 tra medici e infermieri. "Di grande aiuto - ha spiegato Teresa Mascolo, direttore dell’istituto penitenziario viterbese - saranno i mediatori culturali, fondamentali per una popolazione carceraria che è rappresentata per il 60% da stranieri". Negli istituti di detenzione italiani, infatti, vive una comunità di persone particolarmente esposta all’infezione da Hcv: la prevalenza di epatite C è stimata tra il 7,4% e il 38% su un totale di 56 mila detenuti. Percentuali che salgono ancora di più se consideriamo la popolazione femminile: le donne detenute, pur essendo di meno degli uomini, hanno più spesso problemi di tossicodipendenza, che aumentano il rischio di trasmissione del virus. "La conoscenza è alla base della possibilità di compiere delle scelte informate: è quindi fondamentale che tutti abbiano gli strumenti per prevenire e limitare l’infezione da Hcv", ha dichiarato Massimiliano Conforti, vice-presidente di EpaC Onlus e responsabile del progetto. "L’obiettivo di Enehide - ha precisato - è aiutare a migliorare le condizioni di salute delle persone detenute, per spezzare la catena del contagio e per combattere lo stigma che ancora avvolge le persone con Hcv". "L’epatite C è un problema di salute collettiva: si tratta di persone che, una volta tornate in libertà, rientreranno nella società ed è importante che siano consapevoli dei rischi legati a determinati comportamenti e della possibilità di prevenire il diffondersi dell’infezione", ha spiegato Giulio Starnini, direttore dell’Unità di medicina protetta malattie infettive presso l’ospedale di Belcolle, Viterbo, e coordinatore del progetto per Simspe. "Ma è anche un problema di tutela della salute di chi è detenuto, che ha il diritto di essere trattato come gli altri cittadini", ha aggiunto Luciano Lucania, presidente di Simpse Onlus. Diritto che passa per l’accesso alla diagnosi, anche perché oggi solo una minima parte dei detenuti è effettivamente sottoposta a screening per la presenza di Hcv. "In un momento in cui si parla molto di epatite C e di accesso ai farmaci - ha proseguito Lucania - pensiamo sia opportuno puntare i riflettori su una realtà spesso ignorata, ma di fronte alla quale non possiamo voltarci dall’altra parte. Alle persone detenute va garantito lo stesso standard di trattamento che avrebbero fuori dal carcere, perché la salute è un diritto primario". La Casa circondariale di Viterbo è uno dei 14 istituti detentivi del Lazio, terza fra le regioni in quanto a numero di detenuti ospitati: a gennaio 2017 la popolazione carceraria laziale era di 6.211 persone (su un massimo di detenuti previsti di 5.235), di cui il 43,6% stranieri. "È anche per questo motivo che si spiega l’attenzione della Regione Lazio verso progetti come questo", ha evidenziato Teresa Petrangolini, consigliere regionale del Lazio, membro della Commissione Politiche sociali e Salute del Consiglio regionale. "Riteniamo necessario raggiungere risultati concreti anche nel campo dell’assistenza e della prevenzione: a questo scopo - ha ricordato - la Regione ha avviato un tavolo di lavoro con le associazioni dei pazienti di epatite C, dal quale è nato un Osservatorio permanente che ha tra gli obiettivi quello di aggiornare il registro delle persone con Hcv, monitorare la prevalenza dell’infezione, promuovere una prevenzione mirata ed effettuare campagne di sensibilizzazione e screening in popolazioni come quelle detenute. Ecco perché, siamo felici che il progetto Enehide parta proprio da qui". Il progetto pilota durerà 6 mesi e vuole dimostrare per prima cosa che un’azione di questo genere è realizzabile. "Abbiamo stabilito degli indicatori di efficacia che ci aiuteranno a capire cosa funziona e cosa no", ha concluso Conforti. Giudici, un italiano su due non si fida. Dati ribaltati rispetto a Mani Pulite di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 22 marzo 2017 Nel ‘94, secondo l’Ispo, la fiducia nei confronti dei magistrati arriva a toccare il 70 per cento. Venticinque anni dopo la realtà è capovolta: secondo il sondaggio Swg, il 69 per cento degli italiani pensa che "settori della magistratura perseguano obiettivi politici". Forse la caduta comincia con un colpo di teatro: la mossa a effetto con cui Antonio Di Pietro, il 6 dicembre 1994, si sfila la toga dopo la requisitoria Enimont, iniziando un’inarrestabile marcia d’avvicinamento alla politica. Nei due anni precedenti il pm simbolo di Mani Pulite arriva, secondo la Doxa, a guadagnarsi la fiducia dell’83 per cento degli italiani. E ancora quell’anno, il ‘94, sette italiani su dieci, secondo l’Ispo, si fidano dei magistrati, convinti che non abbiano fini politici. La realtà che un quarto di secolo dopo fotografa l’ultimo sondaggio Swg (fra il 13 e il 15 marzo, su un campione di 1.500 cittadini) è assai diversa. Due italiani su tre non credono nel sistema giudiziario, uno su due ha poca o nessuna fiducia nei giudici. E, soprattutto, la stragrande maggioranza (il 69 per cento, percentuale quasi identica ma rovesciata rispetto al ‘94) pensa che "settori della magistratura perseguano obiettivi politici". Il 72 per cento trova "inopportuno" che un magistrato si candidi e il 62 per cento è contrario alle "porte girevoli", ovvero al rientro nei ranghi togati dopo un mandato elettorale. Mondi distanti. Il sondaggio, commissionato dall’associazione "Fino a prova contraria", è stato presentato ieri con l’introduzione dell’ex ministro Paola Severino e l’intervento di Giovanni Legnini. Il vicepresidente del Csm da sempre teorizza distanza tra i due mondi: per evitare "sia in fase di accesso che di reingresso che l’indipendenza della magistratura possa essere messa in discussione dalla militanza a qualunque titolo", spiegò nell’illustrare la stretta in materia del plenum del Csm più d’un anno fa. Naturalmente non c’è solo questo nel grande freddo che pare calato tra gli italiani e i loro giudici. Come è improprio imputarlo al cambio di casacca - da arbitro a giocatore - di un singolo, si chiami pure Di Pietro. Ma la percezione muta. E non pare possa attribuirsi a una svolta garantista dell’opinione pubblica se l’80 per cento continua, sia pur con diversi gradi di convinzione, a ritenere utile la carcerazione preventiva e il 74 per cento invoca mano libera per i magistrati nelle intercettazioni (uno su due è però contrario a pubblicarle sui giornali). Dubbi sul processo. La sfiducia sta, insomma, nell’istituzione, non più percepita come "altro" dalla politica. S’annida tra infelici esperienze quotidiane e distorsioni mediatiche. Quei sei italiani su dieci con poca o nessuna fiducia nel sistema si lagnano soprattutto dell’iter processuale: insomma di quel meccanismo farraginoso che, specie nel campo del civile, trasforma in una vera lotteria ogni causa. Ne deriva, fortissima, l’esigenza di una riforma del sistema, urgente per il 43, importante per il 41 per cento. Quasi sette su dieci invocano un "cambio radicale", a rammentarci pure quanto la riforma Vassalli del 1989 abbia lasciato, in fondo, a metà del guado il processo penale con rito accusatorio: un processo di parti, dunque, in cui il pm resta tuttavia ben al di sopra delle altre parti. Lo scoppio di Tangentopoli, tre anni dopo, non è forse del tutto estraneo a quest’impasse. È un Paese sconcertato. Dai troppi epigoni di Di Pietro, forse, e certo dalle tante invasioni di campo: come si coglie nei sondaggi degli ultimi vent’anni, con la fiducia nei magistrati che cala a picco tra gli elettori del centrodestra per effetto dei processi a Berlusconi, flette poi tra i supporter dell’Unione di Prodi quando i pm si concentrano sul fronte progressista, torna a salire nel centrosinistra tra il 2009 e il 2010, coi berlusconiani di nuovo al governo e nel mirino. Pm come goleador. Questo moto pendolare del consenso, da uno schieramento all’altro, disegna l’incrinarsi di un rapporto. Ora gli italiani non si fidano ma tifano, si sceglie un pm come un goleador della propria squadra. Il tempo del consenso bipartisan è passato, il patrimonio di credibilità che accompagnò i pm di Milano nella primavera del ‘92 è dissipato per sempre. E la campana suona anche per noi giornalisti. Quasi un italiano su due ci chiede "più cautela" nel rivelare notizie riguardo persone sulle quali le indagini non sono ancora concluse. Il 48 per cento vorrebbe che se ne "valutassero le conseguenze". Una massima pericolosa se si fa filtro di convenienza politica, ineccepibile se diventa garanzia di umanità. Le toghe fuori ruolo? Sono 200 come "ordina" la legge di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 22 marzo 2017 Gli incarichi ai magistrati previsti da un decreto del 2008: caso distinto da quello dei pm in politica. L’elenco di chi ha temporaneamente lasciato le funzioni giudiziarie per lavorare in ministeri o authority non è misterioso: si trova sul sito internet del Csm. La polemica sollevata in queste ore dal capogruppo di Forza Italia alla Camera Renato Brunetta a proposito dei magistrati "fuori ruolo", ripresa poi acriticamente da molti giornali, rischia di confondere ancor di più le acque nel dibattito sul rapporto politica-magistratura, tanto da far perdere di vista il punto centrale della questione: il passaggio dalla funzione giudiziaria a quella legislativa o esecutiva, in aperta deroga al principio di separazione dei poteri. I magistrati "fuori ruolo", cioè destinati a funzioni non giudiziarie, sono già disciplinati dalla legge 181 del 2008, con cui è stato convertito il decreto legge varato in quello stesso anno in materia di "Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario". Nella tabella allegata alla legge citata, con cui è stata peraltro determinata in 10.151 unità la consistenza organica delle toghe, è previsto che 200 di loro siano destinate, appunto, a "funzioni non giudiziarie". Quindi presso i ministeri, la presidenza del Consiglio, le authority, e così via. I magistrati vanno a ricoprire questi incarichi dopo un procedimento complesso che prevede il parere del Consiglio giudiziario della sede di appartenenza e una delibera del Csm, che valuta la professionalità del giudice e il positivo ritorno d’immagine per la magistratura rispetto all’attività che costui andrà a svolgere. Le norme attualmente stabiliscono anche la durata massima di questi incarichi. Va ricordato che Renato Brunetta, il quale ha anche chiesto al vicepresidente del Csm Giovanni Legnini quanti siano i magistrati fuori ruolo, specificando l’incarico svolto, quando venne approvata questa legge era ministro per la Pubblica amministrazione e per l’innovazione. Il vero problema dunque non è quello di "normare" i magistrati che temporaneamente svolgono altre funzioni. Ma quello, invece, di stabilire criteri più severi per i magistrati che vengono eletti nelle assemblee politiche nazionali o locali, o che vengono nominati direttamente per ricoprire incarichi politici, come quello di assessore o di ministro. Oggi non esiste alcun periodo di "decantazione" per il magistrato che, terminato il proprio mandato politico, torni a rivestire la toga. Si può quindi passare dallo scranno di deputato a quello di giudice senza soluzione di continuità, con grave nocumento per l’immagine di terzietà. Il vero "spartiacque", a tal proposito, sarà la decisione che la sezione disciplinare del Csm assumerà il prossimo 6 aprile su Michele Emiliano. Il candidato alla segreteria del Partito democratico è un magistrato che ha chiesto l’aspettativa per poter ricoprire l’incarico di presidente della Regione Puglia. Emiliano è iscritto da circa 10 anni al Pd, di cui è stato anche segretario, nonché presidente, regionale. Le norme sull’ordinamento giudiziario vietano espressamente alle toghe di iscriversi ai partiti politici. La singolarità del caso Emiliano è legata al fatto che l’iscrizione è avvenuta quando era già in aspettativa. Ma come la legge approdata a Montecitorio, anche il suo caso può creare confusione: c’è differenza tra chi come il governatore è in aspettativa e chi assume per esempio l’incarico fuori ruolo di componente dell’ufficio legislativo di un ministero: quest’ultimo non deve mettersi in aspettativa e, come detto, la sua collocazione extra-giurisdizionale è addirittura prevista dalla legge. Duecento magistrati il cui elenco invocato da Brunetta è tutt’altro che introvabile: è on line sul sito del Csm. Se il giudice non fa il giudice, guadagna di più di Renato Farina Libero, 22 marzo 2017 Per la prima volta c’è l’elenco dei magistrati collocati fuori ruolo. Sono coloro che assunti mediante concorso per lavorare nei tribunali come pm o come giudici, fanno altro. Sono 221. Sono la crème della casta giudiziaria, invidiatissimi dai restanti 9.600 colleghi per una serie di ragioni. La prima è il soldo. La seconda è la carriera. La terza è semplicemente il potere. Il denaro. In molti casi - non è ancora stato chiarito quali - essi sommano lo stipendio da magistrato a quello del nuovo incarico rivestito senza abbandonare la toga. In passato c’era da leccarsi i baffi, oggi la legge stabilisce il massimo in 240mila euro annui, che è sempre una paga non male. La carriera. Grazie a queste gite fuori porta, che si protraggono anche per molti anni, i fortunati accumulano meriti, poi fatti valere al rientro nel gruppone per incarichi direttivi e trasferimenti di prestigio. Il potere. Ed è qui il vero gigantesco nodo abbastanza scorsoio che impicca la nostra vita pubblica e privata ai voleri di questa corporazione. Si scorra il catalogo, si osservi dove sono stati posizionati i magistrati. Essi finiscono a capeggiare gli uffici legislativi, o i gabinetti decisionali della Presidenza del Consiglio dei ministri, e a discendere di quasi tutti i ministeri: giustizia, esteri, economia, ambiente, beni culturali, lavoro, sviluppo economico. Entrano come esperti nelle commissioni parlamentari antimafia, in quella sullo smaltimento dei rifiuti. Sono in Europa, all’Onu. Pervadono l’Olaf e l’Eulex che evitiamo accuratamente di sapere cosa siano, perché bisogna già sapere troppe cose. Ma di sicuro eccoli: i nostri magistrati. Sono anche in tutte le Authority indipendenti. Indipendenti da che? I deputati non possono entrarci, ovviamente e per fortuna. I magistrati le riempiono. Vanno e vengono. Soprattutto vanno, e ci restano: il tempo necessario per recuperare i tre malloppi di cui sopra; soldi, carriera, potere. Autorità anticorruzione, privacy, e via. Stra-potere dentro lo Stato, dentro la politica, dentro l’amministrazione. Comandando strutture burocratiche, provvedendo a dirigere la elaborazione e la stesura delle leggi, ciò che spiega benissimo perché oggi la magistratura sia in cima alla graduatoria di chi sia la più bella istituzione del reame: tiene in pugno la Repubblica, ben al di là dell’ordinamento giudiziario, con uno scavalcamento tranquillo e legale dei confini che dovrebbero tenere separati i campi. Balle. La magistratura domina ovviamente quello giudiziario, ma ha tra le mani le leve più delicate di quello legislativo ed esecutivo. Non stiamo parlando qui dei deputati e dei senatori che tengono la toga nel cassetto, in attesa di rimettersela in spalla. Quei casi sono conclamati. Ma è questo potente manipolo a determinare maggiormente lo squilibrio nefasto che ci affligge. Determinando oltretutto un conflitto di interessi pauroso. Certo poi ci sono gli incarichi apparentemente pittoreschi: il magistrato distaccato in Albania, quello che sotto il suo titolo ha scritto "Marocco". Sono certo cose faticosissime e sudatissime, ma i militari li chiamerebbero imboscati: nelle ambasciate, nei palazzi delle grandi istituzioni internazionali. Il merito di questa operazione trasparenza è del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura (Csm), che ha inviato l’elenco a Renato Brunetta. Il quale ha picchiato per giorni i pugni sul tavolo fino ad ottenere il catalogo delle toghe infrattate spesso in luoghi deliziosi, dove lavorano duramente senz’altro, ma non si capisce bene come siano state portate su da un ascensore che si è fermato proprio accanto a loro per portarli nell’empireo del potere reale, realissimo, quello fatto di virgole, di circolari interpretative, di commi e sotto commi. Che poi - rientrati nei ranghi - saranno essi stessi ad applicare. Brunetta ha reso pubblica la sua conquista. E si appresta a chiedere analoghi elenchi alle altre magistrature. Ad esempio quella amministrativa (il Consiglio di Stato, i Tar!), militare, contabile e l’avvocatura dello Stato. Alla fine saranno più di trecento, non molto giovani, ma assai forti. La polizia giudiziaria fuori controllo di Luigi Saraceni Il Manifesto, 22 marzo 2017 Attenendosi ad un diffuso malcostume - secondo cui a ferragosto si pubblicano i provvedimenti che si vogliono sottrarre all’attenzione dell’opinione pubblica - il governo Renzi ha pubblicato il 19 agosto scorso il decreto legislativo n. 177 sulla "razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello Stato". Nel provvedimento è stata introdotta alla chetichella una disposizione (art. 18, comma 5) che dice testualmente: "Il capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza e i vertici delle altre Forze di polizia adottano apposite istruzioni attraverso cui i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato, trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale". Detto in linguaggio comune, ciò significa che gli organi che svolgono funzioni di polizia giudiziaria non rispondono soltanto alla magistratura, come vuole l’articolo 109 della Costituzione, ma anche ai "superiori gerarchici", che non sono ufficiali di polizia giudiziaria, e tuttavia vanno informati delle indagini, in violazione del segreto investigativo previsto dal codice di procedura penale. Com’è noto, i vertici gerarchici degli organi di polizia sono molto sensibili ai voleri dell’esecutivo, come dimostrano le recenti indagini sulla Consip, in cui alti ufficiali dei Carabinieri sono accusati di avere illecitamente rivelato agli interessati livelli politici l’installazione di microspie, poi prontamente rimosse. La lesione del fondamentale articolo 109 della Costituzione, che ha lo scopo di sottrarre le indagini alle interferenze di poteri esterni a quello giudiziario, è dunque evidente. Ed è aggravata da una circolare del Capo della Polizia emanata l’8 ottobre scorso, secondo la quale l’obbligo di comunicazione alla scala gerarchica riguarda non solo l’informativa di reato, ma tutto lo sviluppo delle successive indagini. Si tratta di un salto all’indietro di alcuni decenni. C’erano volute battaglie di anni, dentro e fuori la magistratura, per tradurre in pratica il precetto costituzionale, finalmente poi accolto nel codice di procedura penale del 1989. Ora si torna al passato, nell’indifferenza generale, salvo l’iniziativa del Procuratore di Torino Armando Spataro, che in una direttiva ai colleghi sostituti prospetta la possibilità di sollevare un conflitto di attribuzioni davanti alla Consulta, per denunciare la contrarietà della disposizione renziana al dettato costituzionale. Per il resto assoluto silenzio, in particolare della politica ed anche da parte di esponenti della cultura garantista. Neanche nel corso della discussione sulla sfiducia al ministro Lotti, alla presenza del serafico guardasigilli Andrea Orlando, si è levata alcuna voce sulla questione, da parte del Movimento 5 Stelle o di altri senatori garantisti. È un segno dei tempi. Pensate che cosa sarebbe successo se una norma del genere fosse stata varata dai governi Berlusconi. Si sarebbe giustamente gridato alla lesione dello stato di diritto, a un attacco alla divisione dei poteri, a una indebita interferenza dell’esecutivo nell’esercizio indipendente della funzione giudiziaria. Ma, evidentemente, a Renzi è stato dunque consentito quello che non osava fare neanche Berlusconi. Su questo almeno i due sono diversi. Ora torna all’esame della Camera dei deputati la connessa legge delega sul processo penale, approvata a Palazzo Madama con il voto di fiducia che impedisce una vera discussione. Sarebbe perciò auspicabile una riflessione su una questione che è tutt’altro marginale. "Mio padre ha un buco in gola e lo vogliono far morire in cella" di Valentina Stella Il Dubbio, 22 marzo 2017 La denuncia della figlia di Vincenzo Stranieri, capo della Sacra Corona Unita. È in carcere dal 1984, ha un tumore alla laringe, senza corde vocali, tracheotomizzato e si nutre con una sonda inserita direttamente nello stomaco. Immaginate un uomo con un tumore alla laringe, privo delle corde vocali, che ha da poco terminato diversi cicli di chemio e radio terapia, tracheotomizzato, sottoposto a nutrizione enterale, ovvero l’alimentazione tramite una sonda inserita praticando un foro direttamente nello stomaco, e con una polmonite con prognosi di guarigione di sei mesi. Logica, buon senso e rispetto dei diritti del malato vorrebbero che questa persona fosse assistita a casa propria o in un reparto ospedaliero. Invece se al paziente X diamo il nome di Vincenzo Stranieri le ipotesi di cura svaniscono e lo troviamo chiuso in una cella, in isolamento, sottoposto al regime del 41 bis, nel carcere milanese di Opera. Vincenzo Stranieri è noto per essere il capo fondatore della Sacra Corona Unita in Puglia, dopo essere stato tra i prescelti di Raffaele Cutolo per istituire alla fine degli anni 70 la Nuova Grande Camorra Pugliese. Stranieri entrò in carcere la prima volta a 15 anni ma il salto di qualità lo fece col sequestro di Annamaria Fusco, giovane maestra figlia dell’imprenditore Antonio Fusco, rimasta per sei mesi nelle mani dei suoi rapitori, prima di essere rilasciata dopo il pagamento di un ricco riscatto. Per questo nel 1984 Stranieri fu arrestato e da allora non ha più conosciuto un giorno di libertà. Finisce al 41 bis appena viene istituito, ovvero 25 anni fa. Il suo passato di criminalità però, secondo sua figlia Anna, che si è sempre battuta per il padre, "non giustifica il trattamento che lo Stato gli sta riservando, si sta accanendo contro di lui e non si ferma neanche dinanzi a un gravissimo tumore. Come ha certificato lo stesso direttore sanitario del carcere, mio padre ha una prognosi infausta a medio termine a causa di un carcinoma squamoso infiltrante della laringe", ossia siamo in presenza di un malato terminale: "vogliono fargli fare la stessa fine di Provenzano, aspettano che diventi un vegetale". Il 16 marzo scorso, dalla lontana Manduria (Taranto), Anna va a Milano pensando di trovare suo padre in ospedale, tuttavia è in cella in condizioni disumane: "è diventato uno scheletro, ha un buco in gola con una cannula che deve chiudere con un dito per poter emettere suoni incomprensibili; l’ho visto come sempre attraverso il vetro, senza poterlo accarezzare; non gli hanno neanche fornito un campanello per chiamare qualcuno se ha bisogno, deve battere qualcosa contro la parete o sulle spranghe del letto nella speranza che un agente lo senta. Questo è il trattamento per un malato di tumore?". Per l’avvocato Lorenzo Bullo, che insieme alla sua collega Cubitoso assiste Stranieri, "siamo in presenza di una vera e propria crudeltà. Il 41 bis è una norma nata dopo le stragi mafiose per dare il segno di una presenza forte dello Stato ma oggi si è trasformato in tortura. Inoltre Stranieri non è mai stato condannato per omicidio ma solo per sequestro di persona e associazione mafiosa finalizzata all’ estorsione e traffico di stupefacenti. Sta pagando per fatti vecchissimi, oggi è una persona diversa". Quale pericolosità sociale può avere un soggetto che è entrato in carcere quando aveva 23 anni, ora ne ha 56, ed è pure malato terminale? Come ci spiega nel dettaglio l’avvocato Bullo "la pena del mio assistito si sarebbe dovuta concludere a maggio 2016 ma, secondo quanto previsto dalla sentenza definitiva, restavano ancora da espiare due anni di misura di sicurezza in una colonia penale agricola, tramutati in "Casa lavoro" nella sezione del regime duro del carcere de L’Aquila". A L’Aquila però il lavoro non c’è per gli internati, come denunciato anche dalla radicale Rita Bernardini che a luglio scorso si rivolse al capo del Dap Santi Consolo proprio per porre rimedio alla situazione. Aggravatesi le condizioni di salute Stranieri viene dunque trasferito nella struttura protetta di Milano "Santi Paolo e Carlo" per ricevere le cure adeguate e dove ha subìto un secondo intervento chirurgico: "è davvero un paradosso che il mio assistito si trovi in esecuzione di una misura di sicurezza detentiva della casa lavoro e sia contemporaneamente inidoneo a qualsiasi tipo di lavoro proprio per le sue condizioni di salute. È come dire a un malato terminale di lavorare". Per questo i legali hanno presentato varie istanze per chiedere la sospensione della misura di sicurezza e in subordine una misura di sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel comune di Manduria per farlo curare presso l’ospedale oncologico Moscati di Taranto. Risulta infatti evidente che Stranieri non potendo comunicare per mancanza delle corde vocali ed essendo fisicamente e psicologicamente provato dalla malattia e dalla lunga detenzione non può né lavorare né ritenersi pericoloso. Ed è anche per questo che proprio ieri l’avvocato Bullo ha presentato al ministro della Giustizia una integrazione alla istanza di revoca del 41 bis, allegando nuova documentazione medica, in quanto alla prima richiesta di ottobre e alla successiva di dicembre non c’era stata alcuna risposta. Dubbi sull’obbligo per i magistrati di lavorare in ferie di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2017 Corte di Cassazione, Sezione IV penale, sentenza 13843 del 21 marzo 2017. Saranno le Sezioni unite a stabilire se, dopo il taglio alle ferie dei magistrati, il termine di sospensione feriale possa essere applicato, oltre che alle parti, anche ai giudici, per dare uno "stop" estivo alla redazione delle sentenze. La Cassazione (ordinanza 13843) si chiede se il principio di effettività delle ferie si concili con le modifiche introdotte dal Dl 132/2014 (convertito in legge 67/2014) con il quale le ferie delle toghe sono passate da 45 giorni a 30. La Suprema corte ricorda che la sospensione dei termini nel periodo feriale (articolo 1 legge/742/1969) vale per le parti, e dunque anche per i magistrati che lavorano presso l’ufficio del Pm e per i difensori, ma non per i giudici. Un’esclusione supportata dalla giurisprudenza consolidata, anche a Sezioni unite, che ha affermato che il termine per la redazione della sentenza (articolo 544 del codice di procedura civile), alla scadenza del quale decorre il count down per l’impugnazione, "sfugge" alla sospensione del periodo feriale "con la conseguenza che ove venga a cadere in detto periodo, l’ulteriore termine per proporre impugnazione comincia a decorrere dalla fine del periodo di sospensione". L’obbligo per il giudice di redigere la sentenza anche nel periodo feriale ha un effetto a "cascata" anche sul riposo del difensore. Nel ricorso, dal quale l’ordinanza prende le mosse, si sottolinea, infatti, che la contemporanea scadenza dei termini, tutti magari giunti alla dead line il primo settembre, svaluta il diritto alle ferie dell’avvocato. Di termini di sospensione e ferie si erano già occupate le Sezioni unite, con la Sentenza Giacomini, intervenuta a dirimere un contrasto proprio in occasione di un’altra "sforbiciata" alle ferie dei magistrati (legge 97/1979), passate da 60 a 45 giorni. Ma anche in quell’occasione le Sezioni unite ribadirono l’impossibilità di estendere la sospensione. Il giudice di rinvio ci riprova oggi. Per la Cassazione dalla pronuncia Giacomini qualcosa è cambiato. Si è ormai affermato, anche attraverso la Carta dei diritti fondamentali di Nizza e le sentenze della Corte Ue - un principio netto sul diritto alle ferie che non può essere letto in modo restrittivo. Il Consiglio superiore dalla magistratura (delibera del 2015) ha "interpretato" la modifica legislativa e, pur non mettendo in discussione che il termine per la redazione della sentenza continua a decorrere nel periodo feriale, lascia di fatto alla "buona volontà" del magistrato la scelta di stendere la motivazione. Un eventuale ritardo di 30 giorni, coincidente con le ferie, non peserà più, nella valutazione professionale. Per l’organo di autogoverno dei giudici, evidentemente il Dl ha voluto innovare "la conformazione strutturale della fattispecie, prevedendo un periodo feriale effettivo, cioè durante il quale non pendono in capo al magistrato obblighi lavorativi". Il Csm si rammarica però che il legislatore non abbia previsto una formale sospensione del decorso dei termini di deposito delle sentenze. Ma, malgrado la "svista" la norma va interpretata come in linea con il principio di effettività delle ferie. Bancarotta semplice se non è provato il dolo del "prestanome" di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2017 Corte d’Appello di L’Aquila - Sentenza 30 gennaio 2017 n. 101. Se l’amministratore di diritto non è al corrente della sottrazione o dell’omessa tenuta della contabilità della società, da parte dell’amministratore di fatto, non può essere condannato per bancarotta fraudolenta documentale ma soltanto per bancarotta semplice, mancando il requisito del dolo. Lo ha stabilito la Corte d’Appello di L’Aquila, con la sentenza del 30 gennaio 2017 n. 101, affermando, sulla scorta della giurisprudenza di Cassazione che "in materia di reati fallimentari l’amministratore di diritto risponde del reato di bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione o omessa tenuta della contabilità, in quanto gravato dall’obbligo di regolare tenuta delle scritture, a patto però che sia fornita la prova della consapevolezza della sottrazione, della omessa o irregolare tenuta". In primo grado la ricorrente era sta invece condannata dal Tribunale di Pescara, proprio per bancarotta fraudolenta documentale, a tre anni di reclusione, oltre le pene accessorie, perché in qualità di amministratrice della società, dichiarata fallita nel maggio 2010, "aveva tenuto le scritture contabili in modo da non consentire la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari della società ed aveva distratto beni della società". Il marito della prevenuta, socio unico, aveva dichiarato che in realtà la moglie era solo formalmente amministratrice, mentre di tutto si occupava lui e che le aveva chiesto di assumere la carica sociale perché aveva dei problemi con la banche. Secondo il tribunale però ciò non era sufficiente "ad esimere la donna dalla propria responsabilità dato che la stessa era ben consapevole dei propri obblighi". Proposto appello, l’imputata ha sostenuto la mancanza della prova del dolo specifico richiesto per la integrazione del reato dal momento che ella era del tutto ignara delle condizioni economiche della società limitandosi a prestare la propria firma, per cui andava ravvisata la fattispecie della bancarotta semplice. E per la Corte territoriale le dichiarazioni del marito, confermate anche dal curatore secondo cui ella nulla sapeva delle condizioni della società, sono "credibili". Mentre la posizione del Tribunale, ricorda la sentenza, si innesta su di una giurisprudenza che "tradizionalmente" ha ritenuto la carica di amministratore di diritto "sufficiente a ravvisare il concorso nel reato per omesso impedimento commesso dall’amministratore di fatto". Tale assunto, prosegue la Corte, "non può essere condiviso, dato che a ben guardare la mera omissione dagli obblighi gravanti sull’amministratore di diritto consente solo un addebito di colpa, non potendosene dedurre automaticamente la consapevolezza della commissione del reato di bancarotta fraudolenta documentale che necessita del dolo anche in capo al soggetto cui si addebita il mancato impedimento". Non solo, prosegue la sentenza, anche se l’amministratore di diritto ha percepito dei segnali di rischio "è necessario poter affermare che essi siano stati apprezzati come tali". Infatti, "la eventuale mancata valutazione degli stessi è ancora nell’ambito della colpa che potrebbe solo consentire l’attivazione di una azione di responsabilità civile per risarcimento danni". È in definitiva indispensabile accertare che "l’amministratore di diritto ha percepito e si sia reso conto di segnali di rischio da cui era intuibile la possibilità della commissione di reati punti a titolo di dolo e scientemente non sia attivato per impedirli riassumendo tutti i poteri connessi alla carica rivestita". "Ciò - conclude sul punto - in ossequio ad una corretta valutazione del concetto di dolo eventuale". Inoltre, l’accettazione della gestione altrui della società e quindi anche delle scritture da parte dell’amministratore di fatto, non significa che l’amministratore di diritto abbia accettato la commissione di azioni delittuose, le quali non possono essere considerate "l’automatica conseguenza del fatto che un soggetto si presti a ricoprire, per le più svariate ragioni (anche non illecite) la carica formale, così consentendo la gestione anche illecita ad un amministratore di fatto, salvo sia provato un previo accordo in tal senso o la emergenza di fatti che dovevano indurre l’amministratore formale ad avvertire almeno il rischio della commissione di reati, in concreto accettandolo". Il ricorso dell’imputata, dunque, è stato parzialmente accolto dalla Corte di Appello secondo cui le si può imputare unicamente la bancarotta documentale semplice "essendo del tutto ragionevole ritenere che si sia disinteressata delle attività della società e degli adempimenti che ne derivavano fidandosi del marito proprio a seguito del rapporto coniugale, nulla potendo indurla a sospettare della commissione di condotte illecite, quali la sottrazione delle scritture". Trento: Garante dei detenuti, c’è uno spiraglio Corriere del Trentino, 22 marzo 2017 Domani la proposta torna in commissione. Borga: "Va corretta. Ostruzionismo? Vedremo". Se e quando il consiglio provinciale uscirà dall’ostruzionismo sulla doppia preferenza di genere, in aula approderà il disegno di legge istitutivo del garante dei detenuti. Anche questa norma si scontra con la contrarietà dell’opposizione. In questo caso, però, uno spiraglio perché si arrivi all’approvazione pare si sia aperto. La proposta, già oggetto di un lungo e tortuoso percorso, tornerà domani in prima commissione. L’ultima volta che il consiglio se ne occupo’ fu in occasione della manovra di bilancio, quando l’ufficio di presidenza decise la sua inammissibilità all’interno della collegata al bilancio. Era un tentativo per evitare l’ostruzionismo, inattuabile sulle leggi di carattere finanziario. Un tentativo andato male, che irritò l’opposizione. Mattia Civico, primo promotore del disegno di legge, nei mesi scorsi ha chiesto prima al suo partito e poi alla maggioranza di sostenere convintamente la proposta e non ha incontrato obiezioni. Come noto, la figura del garante dei detenuti - che si innesterebbe all’ufficio del difensore civico insieme al garante dei minori - è stata nuovamente evocata nei mesi scorsi anche in relazione alle presunte violenze che si sarebbero consumate ai danni di alcuni detenuti del carcere di Spini. "Si tratta di una figura di cui non si sente alcun bisogno" afferma il capogruppo di Civica trentina, Rodolfo Borga, da sempre il più critico verso il disegno di legge. "In questo momento poi, rischia di alimentare l’ingiustificato clima negativo costruito contro la polizia penitenziaria". Di ostruzionismo, però, Borga non parla, o almeno non lo considera scontato. "Sicuramente presenterò emendamenti di merito per correggere la proposta. Servono garanzie sull’assoluta imparzialità di questa figura. Quanto all’ostruzionismo, vedremo, non decido da solo". Un approccio in ogni caso diverso da quello sulla doppia preferenza di genere. "Un accordo? Non c’è alcun accordo da trovare. Ci vuole una bella faccia tosta a tornare in aula con quella proposta, quando tanto la giunta di Trento quanto quella provinciale di donne ne prevedono così poche". Bologna: bando per il nuovo Garante per i diritti dei detenuti in scadenza il 31 marzo comune.bologna.it, 22 marzo 2017 Il Comune di Bologna ha aperto il bando per individuare il nuovo Garante per i diritti delle persone private della libertà personale, visto che il 23 luglio prossimo scadrà il mandato dell’attuale Garante, Elisabetta Laganà, eletta il 23 luglio del 2012. La Presidenza del Consiglio comunale ha avviato l’iter per individuare la nuova figura: c’è tempo fino al 31 marzo per avanzare le candidature. "Con l’apertura del bando - afferma la Presidente del Consiglio comunale, Luisa Guidone - confermiamo l’adozione di una procedura aperta e trasparente. Desidero ringraziare la Garante in carica, Elisabetta Laganà, che ha svolto il suo compito in questi anni con passione e competenza. Il Garante per i diritti delle persone private della libertà personale è figura molto importante per il Consiglio comunale, che già in questi primi mesi di mandato ha dimostrato di essere molto sensibile a questi temi. La Presidenza del Consiglio infatti, in accordo con tutti i Gruppi consiliari, ha già chiesto di calendarizzare visite nelle carceri della città: su questo è mio preciso impegno lavorare e il nuovo Garante sarà, insieme al Consiglio, protagonista di questo percorso". Il Garante per i diritti delle persone private della libertà personale, previsto dallo Statuto del Comune di Bologna ed eletto dal Consiglio comunale è una figura istituzionale che opera in piena libertà ed indipendenza per il rispetto della dignità delle persone private della libertà personale; negli istituti di pena vigila sul rispetto dei diritti, attivandosi nei casi di compressione o mancato esercizio di essi al fine di sollecitare ogni utile intervento presso le istituzioni competenti. Svolge attività di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani e sulla finalità rieducativa della pena, avvicinando la comunità locale al carcere. Parma: il Sindaco Pizzarotti "il Comune non viene coinvolto nelle scelte sul carcere" La Repubblica, 22 marzo 2017 Il direttore del penitenziario risponde ai rilievi degli avvocati delle Camere penali. "Le carenze di organico nel carcere di Parma ci sono come in altri istituti penitenziari d’Italia e lo stesso vale per il sovraffollamento, un problema nazionale. Il ministero è informato e ha previsto alcuni rientri di personale - ha dichiarato il direttore del penitenziario di via Burla Carlo Berdini in risposta ai rilievi della delegazione delle Camere Penali in seguito a una visita nei reparti - per quanto riguarda le attività trattamentali, non risponde al vero che siano assenti. Si può sempre migliorare ma ad oggi abbiamo intrapreso vari percorsi, come testimonia anche l’iniziativa con le Biblioteche presentata oggi". I legali hanno lamentato il fatto di non aver avuto accesso alla sezione del 41bis: "Si tratta di un reparto con caratteristiche speciali, quindi per motivi di opportunità non è stato dato l’accesso. Ricordo però che il Garante dei detenuti del Comune di Parma vi accede frequentemente". Il direttore è stato recentemente nominato dirigente pro tempore anche del carcere di Sollicciano: "È un provvedimento temporaneo - spiega - mi attengo alle decisioni del ministero". Per quanto riguarda i problema del sovraffollamento, entro il 2017 dovrebbero essere completati i lavori di costruzione di un nuovo padiglione da 200 posti. Sul carcere è intervenuto in Consiglio comunale - a seguito di un intervento del consigliere comunale di Possibile Giuseppe Bizzi - anche il sindaco Federico Pizzarotti che ha lamentato il mancato coinvolgimento del Comune nelle scelte inerenti il penitenziario che ha un impatto preciso sulla città. Berdini ha partecipato in mattinata in municipio alla presentazione di un primo bilancio dell’iniziativa "Leggere in libertà. Biblioteche, libri e lettori in carcere", un protocollo d’intesa tra il Sistema bibliotecario del Comune e il carcere per permette ai detenuti di accedere al previsto di tutto il patrimonio librario delle biblioteche civiche. In nove mesi sono già stati registrati mille prestiti. L’iniziativa non si sostituisce alle biblioteche interne al carcere (una per l’Alta sicurezza e una per la Media sicurezza) che continuano ad essere gestite dagli stessi detenuti dopo corsi di formazione specifici. Grazie al prestito inter-bibliotecario i reclusi possono accedere all’intero catalogo Opac e fare richiesta dei titoli che vengono portati dai bibliotecari in carcere. Tra i libri più richiesti dai detenuti ci sono i romanzi gialli e thriller. Per quanto riguarda la saggistica, nel reparto di Alta sicurezza si predilige il diritto mentre nella media sicurezza i libri di storia. La prossima sfida, spiega l’assessore alla Cultura Laura Ferraris, è realizzare nel contesto penitenziario una sezione di libri per l’infanzia per permettere ai papà detenuti di trasmettere ai propri bambini l’amore per la lettura in un momento di condivisione e scambio reciproco. I cittadini interessati a sostenere il progetto Leggere in libertà possono contribuire con un’offerta libera per l’acquisto di volumi per le biblioteche del carcere rivolgendosi alla Civica in vicolo Santa Maria. Palermo: tensione al Centro per l’Impiego, ex detenuti disoccupati salgono sul tetto di Caterina La Corte blogsicilia.it, 22 marzo 2017 Il lavoro che non c’è. Grande tensione stamane al Centro per l’Impiego di viale Praga a Palermo. Una ventina di persone disoccupate, ex detenuti, sono salite sulla terrazza dell’edificio, al settimo piano, minacciando di buttarsi nel vuoto. Hanno esposto uno striscione con su scritto: "150 famiglie escluse dal bacino per non aver commesso il fatto". Uno di loro, Pietro Onorato, spiega che fanno parte della Social Trinacria Onlus, ‘chiusà da Crocetta nel 2014 e che dava lavoro ad oltre 1100 persone. Ben 150 di loro sono stati esclusi da questo bacino e dicono di non capire perché in quanto non avrebbero più commesso alcun reato. "Vogliamo un documento che attesti le motivazioni di questa nostra esclusione - racconta l’ex pip - perché ad oggi non c’è stata alcuna spiegazione. È da tempo che rimandano nel darci delle risposte. Abbiamo sbagliato in passato, abbiamo scontato i nostri errori e adesso vogliamo tornare a lavorare, esattamente come tutti gli altri". Molti i manifestanti a cavalcioni sul muretto di cinta della terrazza che si affaccia in via Briuccia, dove sono intervenuti gli agenti in assetto antisommossa, la polizia municipale, il 118, tre squadre dei vigili del fuoco che hanno montato i materassi gonfiabili per attutire eventuali cadute. Alcuni pompieri sono saliti sulla terrazza insieme ai manifestanti per convincerli a scendere. Intorno alle ore 13 i manifestanti hanno ritirato lo striscione esposto. L’allarme è rientrato solo poco prima delle 15, quando tutti i manifestanti hanno abbandonato il tetto dell’edificio ed i vigili del fuoco hanno potuto smontare i materassi gonfiabili. Una storia che purtroppo si ripete, ed anche frequentemente. L’ultima minaccia di suicidio al Centro per l’Impiego risale al 9 marzo scorso, quando un disoccupato, era salito sulla stessa terrazza con la medesima intenzione. Milano: Papa Francesco e la "siesta" nel carcere di San Vittore di Gian Guido Vecchi Corriere della Sera, 22 marzo 2017 Il Vaticano ha chiesto la disponibilità di un posto dove il pontefice, nel caso ne avesse bisogno, possa distendersi un po’ dopo il pranzo: l’ufficio del cappellano del penitenziario. Da Francesco un richiamo ai giovani: "Le tv sono piene di reality show, ma la realtà è altra cosa". Per trovare un Papa che abbia riposato in un carcere, seppure non di sua volontà, bisognerebbe risalire a San Pietro o a qualche malcapitato successore altomedievale. Per Francesco, piuttosto, si tratterà di una "siesta" a San Vittore, sempre ammesso che voglia concedersela. Del resto il programma di sabato a Milano è fittissimo, dopo le Case bianche e il Duomo Bergoglio visiterà per tre ore il carcere e pranzerà coi detenuti prima di andare a Monza per la messa. Così dal Vaticano è stata chiesta la disponibilità di un posto dove il pontefice, nel caso, possa distendersi un po’ dopo il pranzo: l’ ufficio del cappellano vicino alla Rotonda. I reality e la realtà - La prigione, come i casermoni di via Salomone, sarà del resto il cuore del viaggio. "Ogni volta che entro in un carcere, penso: perché loro e non io?". Un richiamo alla realtà, come quello che Francesco ha rivolto ieri ai ragazzi nel messaggio per la Giornata mondiale della gioventù: "I programmi in tv sono pieni di cosiddetti reality show, ma non sono storie reali, sono solo minuti che scorrono davanti a una telecamera, in cui i personaggi vivono alla giornata, senza un progetto. Non fatevi fuorviare da questa falsa immagine della realtà. Siate protagonisti della vostra storia, decidete il vostro futuro!". Il Papa invita i giovani a fare memoria del passato per guardare all’ avvenire e "maturare un progetto di vita", con buona pace di una società appiattita su un presente senza storia né scopo che "svaluta ciò che si eredita", come il matrimonio o la vocazione religiosa. La realtà sta altrove, le immagini rimandate dai reality come dai social somigliano alla Caverna platonica: si tratta di uscirne. La coetanea di duemila anni fa - Il Papa indica ai ragazzi l’esempio di una coetanea, Maria, "poco più che adolescente", che dopo l’Annunciazione "va in fretta a visitare Elisabetta". Maria "non si chiude in casa, non è una giovane-divano!". Ecco: "Come Maria, potete far sì che la vostra vita diventi strumento per migliorare il mondo", scrive Francesco. Non bisogna "resettare" il passato né archiviare i ricordi "in una nuvola virtuale". Dare valore alla tradizione, però, "non vuol dire essere tradizionalisti, no!". Per questo la preghiera del Magnificat è "rivoluzionaria", dice: Maria attinge alla storia del suo popolo per aprirsi al futuro. Milano: il Papa a San Vittore. Don Marco, il cappellano: i detenuti aspettano un amico radiovaticana.va, 22 marzo 2017 "Aspettando un amico", è il titolo della preghiera distribuita in questi giorni ai detenuti del carcere di San Vittore a Milano, e che bene rappresenta lo stato d’animo di chi, dentro quello mura, è in attesa della visita del Papa il prossimo 25 marzo. Una visita inattesa di un amico, "che insegna a sperare", i cui "passi - recita la preghiera - s’intrecciano ai nostri e percorrono con noi dolori e distanze". Roberta Gisotti ha intervistato don Marco Recalcati, da quattro anni cappellano dell’Istituto di pena. D. Don Marco, cosa può rappresentare questa visita per i detenuti? Il Papa, sappiamo, resterà con loro un paio d’ore. Ma cosa può precedere e cosa può seguire a questo tempo breve rispetto alle lunghe giornate, i mesi, agli anni, che queste persone devono passare in carcere? R. - Sicuramente un momento di grande gioia, di grande entusiasmo da parte di tutti i detenuti. C’è una grande attesa non solo tra di loro, ma anche tra il personale della struttura, di poter avere questa opportunità. Una visita che stiamo accompagnando attraverso alcuni interventi nelle Messe della domenica, nelle catechesi, nei momenti religiosi durante la settimana, ascoltando le parole straordinarie di Papa Francesco ma anche quelle mitiche di Papa Giovanni XXIII, che quando andò per la prima volta nel carcere di Regina Coeli usò quell’immagine bellissima e disse: "sono venuto a mettere i miei occhi nei vostri occhi, il mio cuore vicino al vostro cuore". Ecco, rileggere questo passaggio del Papa a San Vittore, anche attraverso questo magistero che esprime una forza, una speranza di cui c’è bisogno proprio perché a volte sono tanti gli anni e i giorni sono comunque lunghi in carcere e dare una prova di speranza, è ciò che fa respirare le persone che vi sono recluse. Questa è la preparazione che stiamo facendo. Il dopo lo affidiamo allo Spirito Santo e alla Provvidenza, per raccogliere il frutto delle sue parole, i tanti pensieri che poi i detenuti ci porteranno. D. - Don Marco, sono state anticipate dalle stampa alcune lettere al Papa dei detenuti. Qualcuno scrive: "Ciao Francesco, sei un fratello …" o "Caro Papa, non sono molto credente …"; un altro detenuto chiede preghiere per i suoi fratelli musulmani. Cosa unisce questi spaccati di vita? R. - Noi stiamo sperimentando una specie di ecumenismo e dialogo religioso dal basso. L’esperienza della condivisione delle fedi in carcere rimane abbastanza semplice. Così capita che i musulmani cercano il sacerdote per una chiacchiera, per un colloquio e noi li sosteniamo, e ci capita di dare anche preghiere in arabo oppure il Corano perché possano comunque pregare. Una cosa molto bella è che il carcere ti impegna - anche per me è stato fondamentale - a tenere i piedi per terra. Per cui anche queste parole che sembrano così semplici - il detenuto che si rivolge al Papa scrivendo: "Ciao Francesco" - sono il segno di questa grande vicinanza che il Papa ha saputo cogliere di chi è in carcere, di chi lo vuole incontrare. D. - Una visita che comunque aprirà una finestra su un mondo ancora oggi troppo isolato … R. - Certo. L’esperienza del carcere credo che per la maggior parte delle persone venga vissuto come qualcosa di completamente assente dalla propria vita. Per cui è facile dividere - i buoni fuori e dentro i cattivi, poi la realtà è molto più complessa. È vero che le persone che sono dentro sono persone fragili, che hanno compiuto dei reati, per cui c’è una responsabilità che non può essere nascosta, ma rimangono persone, uomini e donne, quindi riescono ad esprimere anche quelle potenzialità meravigliose presenti nel cuore di ogni uomo, donna, di ogni persona. È quindi giusto avere una cura per tutte le persone, anche quelle più fragili, quelle segnate da un’oggettiva traccia di male; non si può minimizzare, però questo non nasconde un’umanità che rimane aperta alla speranza, ad un futuro, ad un miglioramento. Milano: banditi, terroristi, tangentisti. In quei raggi la storia tra disperazione e riscatto Corriere della Sera, 22 marzo 2017 I suoi cancelli hanno rinchiuso l’anarchico Gaetano Bresci che aveva ammazzato re Umberto I, di uno intero dei suoi raggi si impadronirono per due anni le Ss e la Gestapo facendone luogo di tortura e di concentramento prigionieri da spedire ad Auschwitz, nelle sue celle sono passate generazioni di banditi dalla banda Vallanzasca in giù, o un su, nella sua rotonda centrale si sono sfiorate a distanza di poco tempo la generazione delle Brigate Rosse e di mezza Prima Linea poi quella dei tangentisti e di mezza Prima Repubblica, per arrivare a oggi in cui il 70 per cento dei suoi ospiti è un popolo di stranieri in molti casi senza neppure una casa e il detenuto attualmente più popolare è un fotografo di nome Fabrizio Corona. Eppure un ospite come quello che arriverà sabato, è stato già ricordato talmente tante volte che una in più non fa peccato, non c’era mai stato nei suoi 137 anni di vita: con la visita di Jorge Mario Bergoglio, che tra i detenuti di Piazza Filangieri 2 farà la tappa più lunga della sua visita di un giorno a Milano, sarà la prima volta che un Papa varca le porte di San Vittore. La storia della struttura - Iniziato nel 1872 e inaugurato nel 1879, con la sua struttura panottica che da una rotonda centrale consentiva potenzialmente a un solo guardiano di sorvegliare tutti i suoi sei raggi, l’istituto è oggi diretto da Gloria Manzelli e negli ultimi anni ha una popolazione che oscilla intorno ai 900 detenuti, a seconda dei periodi. Prima, dall’89 al 2004, il suo direttore era stato Luigi Pagano che oggi dal suo ufficio sull’altro lato della piazza governa come provveditore le carceri lombarde: "Appena pochi mesi dopo il mio arrivo, nel 90, arrivò anche la prima Commissione europea con la prima condanna all’Italia per il sovraffollamento". Problema non risolto visto che giusto ieri l’Europa è tornata a rimproverarci a causa di una popolazione carceraria totale di 55.827 persone a fronte di 44mila posti-carcere disponibili. "A San Vittore - ricorda Pagano - negli anni 90 siamo arrivati ad avere anche 2.400". Eppure. "Eppure San Vittore è sempre stato, dico sempre, almeno nella mia esperienza, un luogo avanti un pezzo rispetto a quasi tutti gli altri istituti italiani". In che senso? "Nel senso che è sempre stato un posto... aperto". Del resto sul tema delle "carceri da aprire" Pagano ci aveva fatto anche la tesi di laurea, dire che è il suo pallino è poco. "A San Vittore - dice - è stato possibile fare esperimenti che altrove erano impensabili. Nell’89 c’era già stata la legge Gozzini che aveva cambiato tutto, di lì a un po’ sarebbe arrivato il nuovo codice di procedura penale, ma molte cose erano già state superate: la fase dell’emergenza e delle rivolte era finita, il cardinale Martini era venuto a San Vittore come prima visita dopo il suo arrivo a Milano, ottenne dai terroristi la famosa consegna delle armi in Curia, proprio per i terroristi era stata sperimentata a San Vittore per la prima volta la cosiddetta area omogenea destinata a quelli che non erano pentiti ma neanche irriducibili. C’erano già i volontari della Sesta opera, si cominciò a pensare con serietà al lavoro dei detenuti. I laboratori, le cooperative, la lavorazione delle pelli... ecco, per dire: chi avrebbe mai pensato che sarebbe arrivato un giorno in cui mettere in mano a un detenuto uno scarnificatore per le pelli? Eppure successe". Trento: l’ex terrorista D’Elia "Ora ho il dovere di riparare i danni" di Stefano Voltolini Corriere del Trentino, 22 marzo 2017 Testimone Sergio D’Elia è il segretario di "Nessuno tocchi Caino". Ha militato in Prima linea. "Una società che cura la propria sicurezza è in grado di cogliere la nuova vita di chi rompe con il proprio passato e si riscatta attraverso il bene". Sergio D’Elia rafforza la propria riflessione con l’esperienza personale mentre parla di efficacia del sistema detentivo - anche di quello locale - e di "redenzione" personale. Lo spunto per il segretario dell’associazione Nessuno tocchi Caino - ex terrorista del gruppo di estrema sinistra Prima Linea, esperienza per la quale ha scontato 12 anni di carcere, e parlamentare dei Radicali - è la proiezione, a cui parteciperà lui stesso, del documentario "Spes contra Spem. Liberi Dentro" di Ambrogio Crespi. L’appuntamento è venerdì alle 16.30 al teatro San Marco. Che valore ha la realtà raccontata dal documentario di Crespi, prodotto da Indexway e Nessuno tocchi Caino? "Il film ha sullo sfondo le vite di alcuni condannati per omicidio, nell’ambito di organizzazioni mafiose, alla pena dell’ergastolo ostativo, che significa non avere accesso a benefici. In condizioni di carcere duro, da 41 bis, nell’isolamento dal mondo, questi uomini hanno trovato la forza per iniziare una strada. Hanno rotto con il proprio passato, in un percorso di liberazione morale interiore, senza tornaconti come quelli legati alla collaborazione di giustizia". Lei appare critico verso l’istituto della collaborazione, nonostante sia stato finora un modo efficace per combattere le mafie. "Credo che la collaborazione sia un’arma a doppio taglio. Se c’è un interesse materiale a uscire dal carcere, è chiaro che vi è anche un condizionamento. Credo che dissociarsi, senza tornaconti, sia qualcosa di più profondo a livello personale. Il documentario parla di chi ha rotto con il passato in modo genuino, senza aspettative, e stava in carcere senza speranza". In Italia non si interviene a fondo per cambiare l’impostazione delle strutture detentive. Cosa andrebbe fatto secondo lei? "Il carcere potrebbe essere un luogo della speranza se non fosse invece quella realtà denunciata dai Radicali e dagli organismi europei come luogo criminogeno. Io tendo a valorizzare gli aspetti positivi. Se non hai un buon avvocato e una famiglia che ti sostiene, è il posto in cui ti impicchi. Al contrario, se hai forza interiore, là dentro puoi maturare, diventare una persona diversa. Purtroppo il carcere non è tutto uguale, dipende da quali operatori trovi. Basterebbe che fossero rispettosi della funzione assegnata dalla Costituzione e dalle leggi". Anche la casa circondariale di Trento, inaugurata nel 2011, appare un malato cronico. Conosce la situazione? "Certamente ci sono problemi strutturali comuni a tutta l’Italia come la carenza di agenti penitenziari. Se questo si traduce una lacuna degli operatori preposti alle attività di rieducazione, è difficile che queste siano partecipate. Anche la comunità deve essere sensibile, preoccuparsi dell’accoglienza all’uscita. Bisogna fare in modo che il rientro di queste persone sia il più costruttivo possibile, attraverso il lavoro. Purtroppo, sono pochissimi quelli che in carcere riescono a formarsi una professionalità". Si discute del garante dei detenuti provinciale. Potrebbe aiutare? "Sì, ma non provinciale, regionale. Averne uno diverso per Trento e Bolzano mi sembrerebbe uno spreco, un eccesso di autonomia". Venendo alla vita dopo la detenzione, a pena espiata, in Italia nascono talvolta delle polemiche quando emergono all’attenzione i casi di chi ha un passato "imbarazzante" legato a vicende giudiziarie e fa notizia perché ottiene dei meriti lavorativi o sociali. Vedi il caso di Ivana Cucco, ex brigatista e oggi dirigente sanitario a Novara. Si ha o no diritto all’oblio? "Non c’è un diritto all’oblio, semmai il dovere della società della memoria, di ricordare ciò che è successo. Ma anche il dovere di riconoscere la vita diversa di una persona che ha espiato la condanna e ha cambiato modo di pensarsi. La società deve cogliere il cambiamento. Io sono stato 12 anni in carcere, ho compiuto alcuni danni irreparabili soprattutto per i parenti delle vittime. E ho il dovere di riparare. Se uno si riscatta con il bene, la società deve accoglierlo. Nel caso di cronaca citato, non vedo nulla da obiettare". Opera (Mi): vittime e carnefici a confronto "guardarsi dentro aiuta a cambiare vita" di Sandro De Riccardis La Repubblica, 22 marzo 2017 "Eravamo sordi, vuoti, ragazzi che non capivano e non ascoltavano, facevamo quello che ci ordinavano", dice l’uomo che sconta l’ergastolo per aver ucciso un poliziotto in Sicilia. "Adesso mi sento meno povera, meno sola. Mia figlia mi è stata strappata quasi ventisette anni fa, mi sembra ancora più importante perché mi ha fatto incontrare tanti altri figli. E oggi la sento viva come non l’ho mai sentita dal giorno in cui è stata uccisa", gli dice la madre di una vittima della Sacra corona unita, la mafia salentina. Al carcere di massima sicurezza di Opera, vittime e carnefici sono gli uni accanto agli altri. Un centinaio di detenuti per gravissimi fatti di sangue, e una decina di parenti di vittime delle mafie. Dopo un incontro tra un familiare e un gruppo di detenuti lo scorso settembre, nell’ambito delle attività del "Gruppo della trasgressione" e con il supporto del "Centro per la mediazione penale e la giustizia riparativa" del Comune, è nata l’idea di leggere in carcere l’elenco delle vittime innocenti di mafia. La direzione del carcere si è fatta promotrice dell’iniziativa, e Libera ha inserito Opera nell’elenco dei luoghi in cui si dà lettura dei nomi. Al centro del teatro, c’è un leggio. Sopra, i fogli con oltre novecento nomi. Per oltre un’ora, chiunque tra i presenti può alzarsi e leggere. Il primo a farlo è un detenuto. Raggiunge i piedi del palco e inizia coi primi nomi. "Emanuele Notarbartolo, Emanuela Sansone, Luciano Nicoletti..". Altri si alzano e aspettano al lato della sala il loro turno. Ognuno legge una pagina, poi porta con sé il foglio. "Abbiamo lavorato con fatica perché questo momento di confronto potesse avvenire qui, il primo in un carcere in Italia - dice il direttore di Opera, Giacinto Siciliano. La sicurezza è anche questo: che le persone s’incontrino e si dicano quello che c’è da dire, con l’obiettivo di restituire a ogni uomo il significato profondo della responsabilità delle proprie azioni. La vera sicurezza nasce quando si abbandona la contrapposizione e si restituisce spazio alla persona. Guardare dentro se stessi è difficile, ma se si capisce che si può cambiare vita, facciamo un servizio alla sicurezza, ma anche qualcosa di più duraturo per la società". A rappresentare il coordinamento lombardo dei familiari che si riconoscono in Libera, ci sono i parenti di diverse vittime: la madre di Marcella Di Levrano, la sorella e il fratello di Gaetano Giordano, la nipote di Giuseppe Tallarita. Dopo la lettura dei nomi, ascoltano i detenuti che da tempo riflettono sul proprio passato. "Mi sento in dovere di regalare alle persone che hanno avuto i loro congiunti uccisi alcuni beni sequestrati alle mafie - dice Angelo Aparo, lo psicologo che coordina il "Gruppo della trasgressione". Sono beni che hanno voce per parlare, che non possono restituire la vita a chi è morto, ma possono dare ai parenti delle vittime una gioia, quella di dire che chi ha ucciso è ancora vivo. Dopo aver affogato se stessi nella palude dell’odio e del rancore, oggi sono vivi. Sono beni che i clan hanno usato per uccidere, ma che i clan non sono stati capaci di uccidere: dopo aver cancellato la loro coscienza, l’hanno recuperata". "Mentre leggevo quei nomi, mi sono tornati in mente quelli che ho ucciso io - confida uno di loro. La prima volta ho provato soddisfazione, finché sono stato fuori non me ne sono più ricordato. In carcere la nebbia lentamente si è diradata, sono venuti fuori l’uomo che era, i suoi figli. La sofferenza è venuta fuori, ora è un dolore che purifica, ogni giorno ci faccio i conti. Il dolore è di voi vittime e di noi carnefici, ma sono diversi: uno è stato subito, l’altro causato. Voi dimostrate grande coraggio a stare qui a dialogare con noi". Accanto al detenuto, è seduta una ragazza. "Ho sempre vissuto a Milano, la mafia era qualcosa di lontano, quando mio nonno è stato assassinato in Sicilia, ero piccolina. I miei genitori hanno impiegato un sacco di tempo a spiegarmi cos’era successo. In questi anni ho sentito spesso parlare di perdono, sentivo molta retorica ed ero molto intransigente, perché chi uccide stravolge la vita di una famiglia, di chi c’era e di chi ci sarà. In un incontro ho conosciuto un ex camorrista. Mi ha raccontato la situazione di Scampia, storie a cui non credevo. Sono andata a vedere e ho capito cosa voleva dire quando mi spiegava che i ragazzini lì non hanno scelta. Ho cominciato a capire che il mio dolore non è molto lontano dal vostro. Che nella vita sbagliamo tutti. Forse mio nonno non apprezzerebbe quello che sto facendo. Ho pensato spesso: lui è morto, loro sono vivi. Ma sono venuto per conoscervi, per sentire il dolore di tutti, perché il mio lo conosco abbastanza. Non so se saprò perdonare. Ma sono sicura che ho fatto la scelta giusta". Roma: "Ulisse", la casa dei detenuti 180gradi.org, 22 marzo 2017 Il progetto Ulisse è un servizio residenziale per detenuti in misura alternativa o ex detenuti che promuove l’inserimento socio-lavorativo delle persone. "L’esperienza del carcere di per sé è un’esperienza totalizzante che può portare le persone, una volta fuori, a vivere con un atteggiamento estremamente passivo rispetto alla propria attività. È come se dovessi ricominciare da zero" ci ha raccontato Fulvio responsabile del progetto Ulisse. "Vivere nella casa con gli altri ti porta ad affrontare quelli che sono i problemi della quotidianità, aspetto che costituisce una grande risorsa per reagire". Insieme al suo collega Mirco lo abbiamo intervistato per saperne di più. Che cos’è il progetto Ulisse? È un progetto del Comune di Roma che nasce nel 1999 ed è diretto al reinserimento di detenuti in misura alternativa o ex detenuti. Di fatto è un appartamento, che può ospitare fino a un massimo di 6 persone, uomini e donne, per periodi di permanenza variabili: da sei mesi minimo fino a un anno e mezzo massimo. L’obiettivo è quello di permettere alle persone di costruire le risorse necessarie per rientrare nella società durante il periodo di permanenza nell’appartamento. Su cosa lavorate durante la permanenza degli ospiti e quali sono obiettivi maggiormente raggiunti? Per ognuno degli ospiti si pensa a un progetto individuale per raggiungere una completa riabilitazione sociale. Un’espressione in realtà molto complessa, che di fatto riguarda sia il reinserimento nella società dal punto di vista lavorativo, sia la riacquisizione di abilità di movimento all’interno della società che la costruzione dei legami familiari e amicali. Gli utenti che ospitiamo nel servizio cercano di fare tutto questo, con risultati variabili. Abbiamo un’utenza fatta sia di stranieri immigrati che di italiani e ognuno raggiunge risultati differenti. Per quanto riguarda gli immigrati, per esempio, uno degli obiettivi più importanti è quello di portare a termine la procedura di regolarizzazione, per quanto riguarda gli italiani è, magari, il reinserimento lavorativo. Quali sono i punti di forza e le criticità del progetto? Una delle criticità è rappresentata sicuramente dal fatto che la struttura è gestita da pochi operatori. Infatti non abbiamo una copertura della residenza 24 ore su 24 e questo vuol dire che le persone devono essere autonome nella gestione dei loro progetti e della casa. A volte sono incombenze critiche da gestire per il gruppo. Altro aspetto è il confronto con le difficoltà del reinserimento lavorativo, quindi la scarsità di risorse che ritroviamo sia nel sociale sia rispetto a quello che il mondo del lavoro può offrire agli utenti. Terzo tipo di criticità è che a volte, una struttura di questo tipo può portare le persone a entrare in un’ottica più assistenzialistica anziché promuovere delle autonomie, come dovrebbe essere per gli obiettivi del progetto. D’altra parte l’esperienza del carcere di per sé è un’esperienza totalizzante che può portare le persone, una volta fuori, a vivere con un atteggiamento estremamente passivo rispetto alla propria attività. È come se dovessi ricominciare da zero. Vivere nella casa con gli altri ti porta ad affrontare quelli che sono i problemi della quotidianità, aspetto che costituisce una grande risorsa per reagire. In che modo Ulisse potrebbe migliorare? Sarebbe utile avere la possibilità di essere in contatto diretto con le agenzie del lavoro. Avere un canale preferenziale per il gruppo che si forma dentro la struttura, così da accedere ai centri di orientamento al lavoro ma anche a dei tirocini formativi. Un altro aspetto è quello di creare una cabina di regia a livello romano che possa coordinare il lavoro che si fa nelle strutture residenziali, seguendo appunto tutto ciò che riguarda gli altri aspetti trasversali che emergono nel momento in cui si lavora sul reinserimento. Come il lavoro, ad esempio. All’inizio del progetto era il Comune a garantire la possibilità per le persone di essere ospiti della casa e prevedeva una serie di risorse economiche finalizzate anche ad attività trasversali come l’autonomia abitativa, le borse lavoro, cure e sostegno psicologico. Oggi manca tutto questo. Busto Arsizio: Microfestival Incontri, sul palco per "evadere dal carcere" di Valentina Colombo informazioneonline.it, 22 marzo 2017 Al via il mini-festival teatrale, realizzato da L’Oblò Onlus in collaborazione con la Fondazione Comunitaria del Varesotto e la casa circondariale di Busto, con gli studenti delle scuole superiori del territorio. Studenti e detenuti, insieme sul palco, per "evadere dal carcere". È "Microfestival Incontri", un mini-festival teatrale, realizzato dall’associazione L’Oblò Onlus in collaborazione con la Fondazione Comunitaria del Varesotto e la Casa Circondariale di Busto Arsizio, con la partecipazione degli studenti delle scuole superiori del territorio. Insieme ai detenuti dell’istituto di via per Cassano collaborano infatti i ragazzi di quattro scuole della provincia di Varese, ovvero Ite Tosi e Ipc Verri di Busto Arsizio, Itc Gadda Rosselli di Gallarate e il Marie Curie di Tradate. In programma spettacoli e progetti teatrali realizzati sia dai ristretti del carcere di Busto che dagli studenti degli istituti coinvolti. I primi salgono sul palco grazie al laboratorio teatrale per detenuti promosso da Rita Gaeta, la responsabile dell’area trattamentale. Gli spettacoli presentati dagli studenti sono invece realizzati in modo autonomo all’interno delle attività scolastiche. Le rappresentazioni, che verranno ospitate nel teatro interno alla casa circondariale, vedranno di volta in volta studenti e detenuti nel ruolo di attori o pubblico. Mentre, al termine di ogni pièce, attori e spettatori parteciperanno congiuntamente ad un laboratorio di dramma-terapia incentrato su alcune delle tematiche emerse dallo spettacolo. I risultati e le sperimentazioni del laboratorio verranno documentate e raccolte in un opuscolo. Tutto culminerà con una rappresentazione aperta al pubblico, in programma al Teatro Sociale di Busto Arsizio, il 6 aprile, con "Pirandello Remix". Gli attori-ristretti avranno così la possibilità di esibirsi su un palcoscenico vero e - soprattutto - di fronte ad un pubblico reale, evadendo per un giorno dalla routine del carcere. Come spiega Elisa Carnelli, responsabile di Microfestival Incontri, attrice e dramma-terapeuta, presidente dell’associazione L’Oblò, l’obiettivo dell’iniziativa è "favorire un’apertura dell’istituto penitenziario alle realtà territoriali esterne, per promuovere una diversa percezione dello stesso, in termini non solo di istituto di pena ma di centro di cultura, volto a contribuire con le sue stesse risorse allo sviluppo del territorio". "La strategia - come segnalano gli organizzatori - mira a fornire, a detenuti e studenti coinvolti, competenze tecniche specifiche riguardanti l’ambito teatrale, dal punto di vista della promozione e della realizzazione di un evento, che possano essere spese nella vita quotidiana in termini pratici e relazionali. Momenti di inclusione sociale fra detenuti e studenti, sensibilizzando questi ultimi sui temi della legalità e della responsabilità sociale. Si tratta di risocializzazione per i detenuti, promuovendo l’idea dell’inclusione come strumento di rieducazione e prevenzione della devianza". "La Onlus - aggiunge Carnelli - si occupa della realizzazione di interventi riabilitativi e risocializzanti mediante l’uso di terapie a mediazione artistica per favorire il benessere psicofisico e la qualità della vita di detenuti, ex detenuti e delle loro famiglie. L’esperienza maturata nel carcere di Busto Arsizio dal 2008,ha ora l’opportunità di ampliarsi e aprirsi anche alla cittadinanza, con interventi artistici e di arti-terapie, dedicati non solo a detenuti ed ex detenuti per favorire percorsi di risocializzazione, ma anche ai giovani e alle scuole, con l’intento di maturare percorsi di prevenzione del disagio ed educazione alla legalità". "Nella vita - commenta ancora - in ogni cosa che si fa, ogni gesto dice di noi, del nostro modo di porci, di stare nel mondo. E ogni cosa che raccontiamo la raccontiamo con la nostra voce, e nel raccontarla - sia essa cronaca o pettegolezzo - ci dà la possibilità di rispecchiarci in essa. Nel teatro per un attore avviene lo stesso: si parla sempre di noi stessi e ogni cosa ci può parlare. È solo questione di distanza. Così anche una favoletta, una ‘zuppa di nientè racconta qualcosa: alcune cose degli attori che la mettono in scena e degli attori che sono in scena. E al pubblico che li ascolta". Parma: "Leggere in libertà", biblioteche, libri e lettori in carcere di Matteo Mori parmareport.it, 22 marzo 2017 A nove mesi dalla firma del protocollo d’intesa tra il Sistema Bibliotecario del Comune e l’Istituto Penitenziario di Parma si registrano quasi mille prestiti di volumi effettuati dalle biblioteche comunali a favore del carcere di via Burla. Durante la mattinata di martedì si è tenuto in municipio la presentazione di un primo bilancio del progetto "Leggere in libertà" grazie al quale con il supporto delle biblioteche comunali nel carcere di via Burla sono nate due biblioteche fruibili dai detenuti: una per la sezione dell’Alta Sicurezza e una per quella di Media Sicurezza. Ad organizzarle sono stati direttamente i carcerati che attraverso un corso di formazione durato dal 26 aprile al 30 settembre 2016 hanno imparato il mestiere e sono riusciti ad organizzarle, a gestirle e a riprodurre nella realtà carceraria il modello delle biblioteche comunali. Infatti attraverso bollettini delle novità e bibliografie tematiche questi possono conoscere la varietà di volumi presenti nei locali comunali e farne richiesta direttamente dal sito dell’Opac. Tra i libri più richiesti dai detenuti ci sono romanzi gialli e thriller. "Questa iniziativa ha concesso ai detenuti di accedere a tutto il patrimonio bibliotecario della città generando in loro un fortissimo interesse e un esponenziale aumento delle richieste di prestito" queste le parole del Direttore dell’Istituto Penitenziario di Parma Claudio Berdini. "Il progetto nasce dall’ascolto delle esigenze dei detenuti e dalla consapevolezza di quanto la cultura possa essere fondamentale con l’intervento nei processi di disagio sociale" è invece il commento dell’assessore alla Cultura, Laura Ferraris, che continua: "La prossima sfida è realizzare nel contesto penitenziario una sezione di libri per l’infanzia per permettere ai detenuti padre di trasmettere ai propri bambini l’amore per la lettura in un momento di condivisione e scambio reciproco". Torino: "Metà - Meditazioni sul Cantico dei Cantici", al carcere Lorusso e Cutugno torinotoday.it, 22 marzo 2017 La casa circondariale di Torino si apre alla città per l’evento teatrale "Metà - Meditazioni sul Cantico dei Cantici" dal 9, 10, 11, 12, 15 e 16 maggio. Iscrizioni entro il 7 aprile 2017. Per sei serate, donne e uomini detenuti parleranno, attraverso la rappresentazione teatrale, del valore dei sentimenti, in particolare di quelli familiari e coniugali. La mediazione poetica del testo biblico "Cantico dei Cantici" guiderà il viaggio attraverso gli stati d’animo di coloro che, passando per la solitudine della reclusione, rischiano di essere restituiti alla società persone "dimezzate". È questo il senso di Metà - Meditazioni sul Cantico dei Cantici con cui per la prima volta in venticinque anni di regia, Claudio Montagna realizza una rappresentazione esclusivamente ispirata ai temi dell’affettività in carcere invitando la città a riflettere, nuovamente sulla realtà carceraria: "perché solo pensando i detenuti come uomini e donne - spiega Claudio Montagna - sarà possibile dopo il carcere accoglierli come cittadini". Sulla scena anche un gruppo di quindici studenti del primo anno della facoltà di Giurisprudenza, cui spetta il compito di stimolare differenti riflessioni, facendo emergere giudizi, ragioni e paure rispetto ai detenuti. Le sei rappresentazioni saranno replicate presso il teatro della Casa Circondariale "Lorusso e Cutugno" di Torino il 9, 10, 11, 12, 15 e 16 maggio, ore 21.00. La partecipazione agli eventi prevede la prenotazione obbligatoria entro il 7 aprile 2017, da inviare via e-mail all’indirizzo: prenotazione@teatrosocieta.it con allegata copia della carta d’identità e del codice fiscale. Tutte le informazioni sul sito: www.teatrosocieta.it Metà - Meditazioni sul Cantico dei Cantici è realizzato da Teatro e Società nell’ambito del progetto " Il Teatro per un dialogo tra i detenuti e i cittadini sul valore degli affetti" è promosso con il contributo della Compagnia di San Paolo e condiviso operativamente dalla Direzione, dagli educatori e dagli agenti della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno e dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino nell’ambito della Cattedra di Filosofia del diritto del prof. Claudio Sarzotti; con la collaborazione del Primo Liceo Artistico Torino - Sezione Carceraria. Roma: "Il muro della terra" a Regina Coeli i detenuti spezzano le catene dell’isolamento farodiroma.it, 22 marzo 2017 Testi di Eugenio Montale, Alda Merini, Eduardo De Filippo, Erri De Luca, e altri protagonisti del Novecento italiano, sono stati recitati, con musiche dal vivo, da alcuni detenuti di Regina Coeli in un evento che si è tenuto nel pomeriggio del 21 marzo. E poiché l’etica della nuova spettacolarità si nutre di immagini forti, l’icona di riferimento è stata la stessa locandina, che riproduce una natura morta del Maestro Carlo Cupini che raffigura un libro che spezza le catene. E questo è accaduto davvero nei due mesi che hanno visto a Regina Coeli impegnarsi insieme un gruppo di detenuti e due giovani attori specializzati nel teatro sociale, Antonello Azzarone e Gabriele De Simone. La formazione teatrale in situazioni di disagio diviene un momento di riflessione sul Sé e di recupero della propria dignità, indipendentemente dai percorsi del vissuto di ciascuno. Questa profonda verità del nostro lavoro ha incontrato la sensibilità del Direttore della casa circondariale Silvana Sergi, del Direttore Aggiunto Anna Angeletti e della responsabile dell’area pedagogica Margherita Marras" spiega Gennaro Colangelo, Direttore Artistico del progetto della terra. Il titolo è tratto da una raccolta poetica di Giorgio Caproni, e proprio la letteratura del Novecento sarà oggetto della dimostrazione di lavoro che ha concluso l’esperienza formativa il 21 marzo presso la struttura carceraria di via della Lungara, in occasione della Giornata Mondiale della Poesia patrocinata dall’Unesco. Il progetto è stato supportato dal Soroptimist International d’Italia e dall’Associazione Ideando Onlus. "Fra i nostri scopi associativi l’impegno sociale e culturale è fondamentale, questo progetto rappresenta un segno di speranza: attori, detenuti e studenti che partecipano allo spettacolo finale saranno indistinguibili almeno per un giorno" dice Maria Grazia Di Filippo presidente del Club Roma Tiber. "Abbiamo già prodotto eventi di spettacolo per il Giubileo, per la valorizzazione dei beni culturali e per i ragazzi dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, ma il senso morale di questa esperienza assume per noi un significato speciale…" ribadisce Patrizia Tommasi, Presidente di Ideando Onlus. Migrazioni e terrorismo, divisi si può solo perdere di Romano Prodi Il Messaggero, 22 marzo 2017 Da Roma a Roma: dopo sessant’anni dalla firma dei Trattati che hanno istituito le Comunità europee, i leader dell’Unione si ritrovano in Campidoglio per ricordare il passato e per riflettere sul futuro. Anche se viviamo in tempi difficili i risultati passati vanno sottolineati con consapevolezza e con orgoglio. La costruzione europea prometteva pace, sicurezza e sviluppo quando questi obiettivi sembravano impossibili: eppure essi sono stati pienamente raggiunti. Lo scorrere del tempo sembra cancellarne il merito ma è bene cogliere l’occasione di questa celebrazione per meditare su quanto è stato fatto e in quali condizioni saremmo oggi senza l’Unione Europea. Il muro di Berlino non è stato solo abbattuto dalla potenza militare americana ma anche e soprattutto dalla prosperità e dal modello di vita che la solidarietà europea avevano reso possibili. Questa è la ragione per cui il progetto europeo ha avuto tanta capacità di attrazione nei confronti di tutti i paesi del nostro continente: nelle sale del Campidoglio non vi saranno i rappresentanti di sei Paesi, come nel 1957, ma di ventisette nazioni europee. Tuttavia proprio questo numero, che ci ricorda un passato di cui possiamo andare orgogliosi, ci ammonisce anche sulle difficoltà del presente. Perché i membri dell’Unione Europea sono ventotto ma a Roma non vi sarà la Gran Bretagna, in via di uscita dopo un referendum popolare che ne ha sancito il definitivo distacco dall’Unione. Un distacco che ha radici lontane nella storia ma che è il simbolo delle difficoltà e dei problemi che l’Europa sta affrontando in questo difficile momento. Il terrorismo, la prolungata crisi economica, le migrazioni ma, soprattutto, la mancanza di una solidarietà e di una politica condivisa hanno reso più deboli le nostre radici comuni e hanno di conseguenza fatto nascere al nostro interno movimenti e partiti politici che mettono in dubbio le ragioni stesse dell’Unione. Le mettono in dubbio proprio quando si afferma sempre più forte l’evidenza che le sfide che abbiamo di fronte non possono essere affrontate con successo da nessun paese europeo preso singolarmente. Non le migrazioni, non la globalizzazione, non il terrorismo. Stiamo cadendo, nella tentazione di una rottura fra nord e sud e fra est e ovest proprio quando è chiaro che di fronte a queste sfide e di fronte al ruolo che Stati Uniti, Cina e Russia stanno assumendo nel mondo, un’ Europa divisa è un’Europa finita. Anche se può sembrare un paradosso una sollecitazione alla presa di coscienza di questa nostra fragilità ci viene proprio dal nuovo atteggiamento degli Stati Uniti che, attraverso una voce sempre più forte e perentoria del presidente Trump, vedono in un’Europa unita il concorrente economico più pericoloso e operano in modo attivo perché si abbandoni l’Unione e si ritorni agli stati nazionali. Un atteggiamento che, ovviamente, rende sempre più assertivo e muscoloso il comportamento della Russia nei nostri confronti. Siamo quindi ad un crocevia decisivo della nostra storia, anche se non è ancora maturo il momento per una risposta comune a questa sfida mortale. Vi sono ancora troppe divisioni fra di noi. Per questo motivo il documento preparatorio della Commissione Europea per l’incontro del Campidoglio non contiene una strategia precisa ma elenca cinque diverse opzioni tra le quali scegliere, opzioni che vanno da un’unione sempre più stretta fino ad un’alleanza puramente commerciale. Nemmeno il vertice di Roma sarà quindi in grado di fare una scelta precisa: siamo ancora nella tempesta e siamo in un anno elettorale. I risultati delle elezioni olandesi e le prospettive francesi e tedesche ci danno tuttavia il messaggio che il punto più critico è forse passato. Per questo motivo la proposta di proseguire il cammino anche se non tutti assieme contemporaneamente, e con diverse intensità, costituisce un’importante occasione per fare ripartire il progetto europeo. Non con la velocità che la storia richiederebbe ma almeno nella direzione giusta. D’altra parte, come recita un antico proverbio: "Roma non è stata fatta in un giorno". Figuriamoci l’Europa. Migranti. Entro l’anno 2mila nuovi posti per hot spot di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2017 Il piano del Viminale per potenziare la rete dei centri post-sbarco chiesti dall’Unione europea. Hotspot: il Viminale pianifica 2mila posti in più per il 2017. I centri post-sbarco voluti dall’Unione europea, dove gli stranieri - una volta arrivati nei porti italiani - sono assistiti e svolgono le procedure di identificazione, oggi sono quattro. A Lampedusa, Pozzallo, Taranto e Trapani, per un totale di 1.600 posti. Al ministero dell’Interno, guidato da Marco Minniti, l’intenzione è più che raddoppiarli. Al più presto. D’intesa con gli enti locali interessati, la tabella di marcia ha fissato luoghi e posti disponibili. In Sicilia, innanzitutto. Ci sono lavori in fase avanzata per un’area attrezzata a Messina vicino al porto, all’interno della caserma "Gasparro" dove ci sarà anche un centro di accoglienza; l’area attrezzata sostituirà le tende oggi in uso e nelle previsioni sarà pronta per giugno. A Palermo è in costruzione, con il sì del Comune, un altro centro post-sbarco in un bene confiscato alla mafia. Il ministero dell’Interno ha pianificato anche hotspot a Corigliano Calabro (Cs), Crotone (Cz) e Reggio Calabria. I lavori, nel caso della regione calabrese, dovrebbero avviarsi tra ottobre e novembre. Ultima novità, un hotspot anche in Sardegna: l’anno scorso anche lì ci sono stati sbarchi e si ipotizza adesso un hotspot mobile, da spostare nei porti dove arrivano i migranti soccorsi. Ma potrebbe anche sorgere una struttura fissa a Cagliari nel centro di Monastir. La somma dei posti dei nuovi hotspot è di 1.950 senza contare quelli in Sardegna, non ancora quantificati. Si aggiungono ai 1.600 posti già attivati. Se tutto sarà confermato, a fine anno l’Italia potrà dire all’Unione europea che la rete di verifica e controllo dei migranti approdati è quantomeno estesa visto che può contare su oltre 3mila500 posti. Oggi, del resto, non mancano porti di destinazione dei soccorsi dove invece gli hotspot non ci sono. Dall’inizio dell’anno, secondo i dati del ministero dell’Interno, sono sbarcati 6.059 stranieri ad Augusta, 3.570 a Catania, 1.204 a Reggio Calabria, 975 a Palermo, 632 a Messina e 608 a Vibo Valentia. Va però aggiunto che Polizia di Stato e dipartimento delle Libertà civili, guidato dal prefetto Gerarda Pantalone, fanno sì che gli immigrati dopo lo sbarco nel porto siano portati comunque nell’hotspot più vicino. La moltiplicazione di queste strutture dovrebbe essere fattore aumentato di deterrenza alle partenze dei migranti senza titoli per l’istanza di asilo o protezione internazionale. Ma i segnali provenienti finora dalla Libia sono in realtà di segno del tutto contrario. Dall’inizio dell’anno siano a oltre 23mila migranti sbarcati e stando ai dati ufficiali del Viminale l’incremento, nello stesso periodo, è +31,8% rispetto al 2016 e +80,9% rispetto al 2015. L’anno scorso il consuntivo è stato di 181.436 arrivi, l’anno prima di 153.842: le tendenze in atto, dunque, preoccupano e non poco. Un altro intervento contro l’immigrazione illegale è il decreto legge sull’immigrazione all’esame del Senato. Approda oggi in aula a palazzo Madama alle 16,30, come ha deciso la conferenza dei capigruppo. Il voto finale è previsto per giovedì, ma non si esclude un’accelerazione e il sì dell’aula già stasera. Il governo sarebbe intenzionato a porre la fiducia al provvedimento. La questione più delicata è la riduzione a un grado di giudizio, dopo la decisione delle commissioni territoriali, davanti a 14 sezioni specializzate presso i Tribunali, del contenzioso sulle istanze di protezione internazionale. L’Anm (associazione nazionale magistrati) ha già protestato con durezza. Migranti. Minniti: "l’intesa con la Germania per sbloccare l’accoglienza" di Grazia Longo La Stampa, 22 marzo 2017 Il ministro dell’Interno rilancia il piano di collaborazione europea: "Anche Svizzera e Austria ora apriranno le porte a quote di rifugiati". Dall’inizio del 2017 al 19 marzo, un totale di 20.484 migranti e rifugiati sono giunti in Europa via mare e 525 sono morti mentre tentavano di attraversare il Mediterraneo. C’è la convergenza tra Roma e Berlino al cuore dell’accordo sui migranti raggiunto al vertice di Roma di lunedì. La Germania, con la sua decisione di accogliere 500 migranti al mese, spiega a "La Stampa" il ministro Marco Minniti, ha sbloccato la situazione. "E ora anche Austria e Svizzera hanno promesso di aprire le porte a quote significative di migranti", portando per la prima volta i paesi dell’Europa centrale ad aiutare concretamente l’Italia nel fronteggiare la marea dei profughi. Il ministro dell’Interno getta un’occhiata distratta al computer con le agenzie di stampa e alla televisione fissa su un canale all-news. Nell’ampio ufficio al secondo piano del Viminale assapora la soddisfazione per l’apertura di Vienna e di Berna nella gestione dell’emergenza immigrazione. Non si tratta di gesti di generosità ma di scelte politiche frutto di un intenso lavoro diplomatico con la Germania, "nel contesto di un rafforzamento dell’intesa tra Roma e Berlino", come ha anticipato il vicepresidente della Commissione Ue Frans Timmermans sulle pagine nel nostro giornale sabato scorso. È solo un primo spiraglio, certo, ma all’indomani del Gruppo di contatto Europa-Africa settentrionale, nel governo iniziano a mettere in fila i segnali positivi. Il piano di collaborazione europeo, oltre a Germania, Austria e Svizzera, vede coinvolte infatti anche Francia e Slovenia; e sul fronte africano, la Libia, la Tunisia e l’Algeria, mentre la diplomazia italiana e il Viminale puntano ora ad ampliare l’intesa anche con Egitto e Niger. La strategia è duplice: da una parte convincere i paesi africani a riprendersi i clandestini, dall’altra ricevere aiuti dai partner europei per ricollocare nell’Ue parte dei richiedenti asilo. Minniti scorre sul computer gli ultimi dati degli sbarchi e fa il punto sulla cooperazione con la sponda Sud del Mediterraneo: "Oltre il 90 per cento dei flussi arriva dalla Libia, ma nessuno di loro è cittadino libico, provengono prevalentemente dall’area subsahariana. Il resto viene dall’Egitto, il secondo punto di snodo dei flussi migratori verso l’Italia. E mentre con il Niger è più vicina una collaborazione per favorire i controlli al confine a Sud della Libia, con l’Egitto stiamo ancora lavorando". Il fatto è che tra Roma e il regime di Al Sisi resta ancora il macigno del caso Regeni. È essenziale che prima si risolva in maniera trasparente e definitiva l’inchiesta per scoprire colpevoli e mandanti dell’omicidio. La via diplomatica, la strada del dialogo, è l’unica perseguibile anche per gestire i conflitti interni alla Libia. "La stabilizzazione del Paese è preziosa sia per governare il fenomeno dei trafficanti di essere umani, sia per il benessere socio economico interno - osserva Minniti -. La partecipazione del premier Fayez Al Sarraj al meeting di Roma testimonia quanto ritenga importante contrastare i trafficanti: sottraendo loro la sovranità criminale si contribuirà alla stabilità politica della Libia e alla sua ripresa economica e sociale". Al Sarraj resta sicuramente l’interlocutore privilegiato, perché l’unico riconosciuto dall’Onu, ma non si tralascia neppure il confronto con il generale Khalifa Haftar a Tobruk, nell’Est della Libia. "Il nostro ambasciatore di recente è stato a Tobruk con l’obiettivo di mantenere un canale aperto. La stabilizzazione militare non solo è sbagliata ma anche irrealistica. Si aprirebbe un’avventura drammatica di guerra civile, con un pericoloso salto all’indietro fino al 2011, che produrrebbe un’emergenza umanitaria epocale". Minniti non si nasconde l’importanza della posta in gioco. L’immigrazione incontrollata rischia di far saltare gli equilibri democratici del Continente, alla vigilia di importanti elezioni. Sull’approccio strategico per governare l’emergenza migratoria "si gioca il futuro dell’Europa". Il gruppo di contatto del Mediterraneo centrale, per il ministro, "può rappresentare un passo importante, una cooperazione rafforzata che spinge l’Europa ad affrontare unita una sfida che finora sembrava essere rimasta circoscritta al nostro Paese. Si tratta di mettere da parte egoismi e chiusure nel nome di un’Europa mai messa in discussione come in questo momento". La sfida, da qui alle elezioni, è allora quella di far tornare nei cittadini l’immagine dell’Europa "come una risorsa che, nonostante il buio delle minacce del populismo e della destra xenofoba, sa trovare lo slancio per guardare al futuro". Anche a questo serviranno le celebrazioni a Roma, sabato prossimo, del sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma. Una quarantina le personalità attese, tra capi di Stato, di governo e vertici dell’Ue. Una prova da brivido per chi deve gestire la sicurezza della Capitale. Sono previsti, infatti, almeno sei diversi cortei e sit-in: il più numeroso e a rischio è quello dei movimenti della piattaforma Eurostop, che raccoglie varie sigle (dai No Tav ai Cobas, dai centri sociali italiani e europei, a varie sigle comuniste). Roma sarà una città blindata ma, come conclude il numero uno del Viminale, "pronta a gestire l’evento con un dispositivo a garanzia della sicurezza delle personalità invitate e dei cittadini che hanno il diritto di godersi quella che è di fatto una festa. Non sarà impedito di manifestare il dissenso, in ogni democrazia ciascuno può esplicitare il proprio punto di vita, ma c’è un limite inaccettabile. Quello della violenza. Un evento quindi che affronteremo con tranquilla fermezza". Droghe. Il Capo dell’anticorruzione Cantone riapre il dibattito: "vanno legalizzate" di Simona Musco Il Dubbio, 22 marzo 2017 "Nascondersi dietro il proibizionismo è ipocrita e serve solo a riempire le carceri". Il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, è intervenuto a gamba tesa nel dibattito sulla legalizzazione delle droghe leggere, schierandosi dalla parte di chi, in Parlamento, pensa che legalizzare significhi sottrarre mercato alla criminalità organizzata. La proposta di legge è sottoscritta da 218 parlamentari, che compongono l’Intergruppo parlamentare per la legalizzazione della cannabis. Le firme arrivano da schieramenti diversi: Pd, M5s, Sel, Misto, Fi e Sc. La proposta prevede la possibilità, per i maggiorenni, di detenere 15 grammi a casa e 5 grammi fuori casa a scopo ricreativo. Si potrà coltivare fino ad un massimo di cinque piantine di marijuana a casa ma il raccolto non potrà essere venduto. Previsti anche "Cannabis social club" senza fini di lucro e l’auto-coltivazione per fini terapeutici, con modalità più semplici per consegna, prescrizione e dispensazione dei farmaci a base di cannabis. A ciò si aggiunge la proposta di Radicali italiani, associazione Coscioni e altre organizzazioni, che hanno depositato alla Camera, con oltre 60mila firme, una proposta di legge di iniziativa popolare che prevede oltre alla legalizzazione della cannabis la decriminalizzazione dell’uso tutte le sostanze stupefacenti. Sono 13 milioni gli italiani che hanno fatto uso di cannabis, quattro milioni quelli che ne hanno fatto consumo nell’ultimo anno, per un mercato di 12 miliardi e 147 tonnellate di cannabis sequestrate ogni anno in Italia. "Nessuno si preoccupa del perché il fenomeno cresce - ha affermato Cantone nel corso del forum web Agi "Viva l’Italia". Confrontiamoci sulla legalizzazione. Mi pongo una domanda, anche se non sono in grado di dare una risposta: una legalizzazione di una droga controllata, anche nelle modalità di vendita, non potrebbe avere effetti migliori rispetto allo spaccio che avviene alla luce del giorno nella totale e assoluta impunità e che riguarda amplissime fasce della popolazione giovane?". Il dibattito sulla legalizzazione riguarda anche la possibilità di sottrarre ai clan introiti milionari, messi su anche con le droghe leggere. Soldi, tanti soldi al punto da mandare in confusione gli esperti di numeri e calcoli, creando un balletto di cifre che vanno dagli 8 ai 53 miliardi. È un mercato che non conosce crisi e i cui proventi servono ad alimentare tutti gli altri traffici delle ‘ndrine, in un circolo vizioso che i governi si limitano ad ignorare. Perché spesso il problema della legalizzazione delle sostanze stupefacenti viene interpretato come incentivazione al consumo. Ma cosa accadrebbe se questo florido mercato venisse sottratto alle mani dei clan? Il commercio di droga non ha competitor: ci sono solo loro, le cosche, che sfruttando i floridi terreni italiani realizzano distese di oro verde da smerciare su tutto il territorio. I dati diffusi dalle forze dell’ordine parlano di piantine che raggiunti i tre metri valgono da sole anche 4mila euro, circa quattro euro al grammo. Che moltiplicato per i chili sequestrati ogni anno portano a cifre da milioni di euro. Tolta la canapa dalle mani del mercato nero, dunque, si correrebbe il serio "rischio" di togliere parte del potere economico ai clan e creare lavoro sul territorio, attraverso la coltivazione legale e tutti i suoi utilizzi, dalla medicina all’edilizia. Sono tanti a sostenere la tesi che togliere il mercato della droga ai clan significherebbe diminuirne il potere, a partire da Roberto Saviano, che da osservatore della Camorra ha messo nero su bianco i particolari dell’impero economico costruito sulla polvere bianca e sull’erba. Ed ha evidenziato un particolare: a sponsorizzare il proibizionismo sono proprio le mafie, che così possono continuare a fare affari con le droghe. Le parole di Cantone hanno però suscitato commenti di dissenso. Per Maurizio Lupi, presidente dei deputati di Area popolare, "Le cronache di ogni giorno documentano che la droga, ogni droga, fa male". Entusiasti i radicali italiani che con Riccardo Magi e Antonella Soldo che "consegnano" a Cantone la tessera del "Radical Cannabis Club" e rilanciano: "Bene ha fatto il presidente dell’Anticorruzione Cantone a denunciare l’ipocrisia proibizionista. Gli irriducibili del proibizionismo se ne facciano una ragione: ormai sono rimasti davvero in pochi a difendere l’indifendibile. Legalizzare la cannabis è una questione di buon senso".