Il ministro Orlando e l’idea di una Rete con gli esperti di carcere di Errico Novi Il Dubbio, 21 marzo 2017 Un’associazione con i responsabili degli stati generali. Servirebbe un partito politico per i diritti dei detenuti, se non ci fosse già: quel soggetto esiste eccome, si chiama Partito Radicale e fa delle carceri una ragione di lotta permanente. Ma al ministro della Giustizia sarebbe piaciuto se dagli Stati generali dell’esecuzione penale fosse nata un’associazione formata da chi ne ha guidato i lavori. Un gruppo di esperti capace di scuotere l’opinione pubblica, e di affiancare magari il tradizionale impegno dei pannelliani. L’invito è stato rivolto alcune settimane fa, per ora non pare destinato a concretizzarsi. L’idea del guardasigilli è in ogni caso un aspetto curioso del lavoro che nel giro di alcuni mesi dovrebbe portare all’emanazione dei decreti delegati sulla riforma penitenziaria. Obiettivo per il quale domani si terrà a via Arenula una riunione tra lo stesso Orlando e i 18 coordinatori degli Stati generali. Non è il primo incontro del genere, ma certo dopo l’approvazione in Senato del ddl penale, al cui interno c’è appunto la delega sulle carceri, si tratterà di una discussione dal significato diverso. Si cominceranno a definire in modo più dettagliato i contenuti dei provvedimenti attuativi. Una radicale ci sarà: Rita Bernardini, che aveva guidato il tavolo sull’affettività dei reclusi. Orlando raccoglierà anche opinioni perplesse come quella dei penalisti (in questa pagina pubblichiamo l’intervento del responsabile dell’Unione Camere penali che è anche uno dei 18 "convocati", ndr). Il ministro, a cui va comunque riconosciuto un impegno sulla questione dei detenuti che non s’era visto nei suoi recenti predecessori, è convinto che la battaglia non si vincerà certo con il completamento di questa riforma. Si tratta per giunta di un politico che ha tutta l’aria di volersi occupare a tempo pieno del suo partito a prescindere da come finiranno le primarie. Non è facile che in futuro Orlando si dedichi al carcere e ai diritti di chi ci vive con la stessa costanza che ha investito durante il mandato da guardasigilli. E anche per questo che alcune settimane fa ha invitato i coordinatori degli Stati generali a riunirsi in un’associazione, in modo da diventare una voce alternativa nel dibattito sulle garanzie, anche una volta finita la legislatura. Invito che è stato cortesemente declinato più o meno da tutti. Vorrà dire che non avremo un Partito radicale bis. E chi intende battersi perché le celle in Italia non siano più, in molti casi, dei luoghi indegni, dovrà andare a bussare alla porta dei seguaci di Pannella. Riforma penitenziaria. Qualcosa si muove, ma la delega è troppo generica di Riccardo Polidoro* Il Dubbio, 21 marzo 2017 L’eredità dei Tavoli sulla riforma penitenziaria, convocati dal ministro in vista dei decreti delegati. è del tutto ignorata l’esigenza di educare l’opinione pubblica al senso della pena, attività di fondamentale importanza e propedeutica per una vera riforma. Gli Stati Generali voluti dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando hanno rappresentato un’importante iniziativa politica. Hanno coinvolto oltre duecento persone, che da tempo, nei loro rispettivi ruoli, si occupano delle problematiche relative alla detenzione. È stato un atto di fiducia verso il Ministro, con molti oneri e pochi onori, dettato dalla passione per la difesa dei diritti degli ultimi e dalla speranza che almeno qualcosa potesse effettivamente cambiare dopo la condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo. A circa un anno dalla conclusione dei lavori il Governo ha ritenuto di porre la fiducia in Senato sul Disegno di Legge che aveva ad oggetto anche la riforma dell’Ordinamento Penitenziario. Se le parole sono importanti - e lo sono - va evidenziato che inizialmente il titolo della proposta al Parlamento era il seguente: "Modifiche al Codice Penale e al Codice di Procedura Penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi, nonché all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena". Il testo approvato lo scorso 15 marzo ha, invece, il seguente titolo: "Modifiche al Codice Penale, al Codice di Procedura Penale e all’Ordinamento Penitenziario". Una differenza non da poco! Scompaiono il rafforzamento delle garanzie difensive, la durata ragionevole dei processi e l’effettività rieducativa della pena. Restando, pur con notevole sforzo, nell’ambito del ruolo di Responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Ucpi, mi atterrò solo ad alcune riflessioni che hanno ad oggetto l’Ordinamento Penitenziario. Innanzitutto va evidenziato che i politici sono in campagna elettorale. Abbiamo due Ministri che si candidano alla segreteria del loro partito. Uno di questi è il Ministro della Giustizia. Dovesse vincere, ha già annunciato le sue dimissioni. Il nuovo giunto - concedetemi il termine carcerogeno - avrà, in vista d’imminenti elezioni, il mandato di non spaventare l’opinione pubblica con garanzie a tutela dei diritti dei detenuti. Dovesse perdere, ci sarebbe la possibilità di vedere attuata almeno qualche delega, ma il Ministro non avrà più il potere politico di una volta. Ancora, il Disegno di legge prevede che non ci debbano essere nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica (articolo 83). In pratica una riforma a costo zero. In concreto non si potrà fare molto. Lo Stato continua a non comprendere che investire nel trattamento individualizzato dei detenuti è una garanzia non solo di risparmio in termini economici, ma anche in sicurezza sociale; che rispettare il diritto alla salute è un dovere morale prima ancora che legale. Come si potranno raggiungere gli obiettivi dall’osservazione scientifica del soggetto da condurre in libertà, del diritto all’affettività, del potenziamento dell’assistenza psichiatrica, dell’integrazione dei detenuti stranieri, della massima conformità della vita penitenziaria a quella esterna, della Sorveglianza dinamica, della tutela degli specifici bisogni e diritti delle donne detenute, della revisione delle attuali previsioni in materia di libertà di culto, senza investire in risorse umane e strutturali? Venendo al contenuto della delega, ci sono alcuni punti che tradiscono il lavoro degli Stati Generali. Resta inalterato il regime dell’articolo 41 bis, nonostante fossero emerse proposte di modifica. Previsto il contraddittorio differito ed eventuale per le decisioni del Magistrato e del tribunale di Sorveglianza, come anche il collegamento audiovisivo per fini processuali, con espressa, incomprensibile e inattuabile precisazione del rispetto del diritto di difesa. Gravissimo quanto disposto per il ricovero dei detenuti nelle Rems, che tornano quindi alla vecchia funzione degli Opg. Aspetti positivi si colgono, ma con una delega troppo generica, nell’aumento del limite di pena per la sospensione dell’ordine di esecuzione, nella revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative, nell’eliminazione di automatismi e preclusioni per i recidivi e per gli autori di determinati reati che impediscono o ritardano l’individualizzazione del trattamento rieducativo; la revisione, pur con ampia discrezionalità, della disciplina di preclusione dei benefici penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo, evitando in alcuni casi il fine pena mai; la previsione di attività di giustizia riparativa; l’incremento del lavoro finalizzato al reinserimento sociale, la valorizzazione del volontariato. Priva di alcuna considerazione nel Disegno di Legge, l’esigenza - più volte indicata dall’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali con uno specifico progetto, ripreso anche dagli Stati Generali - di educare l’opinione pubblica al senso della pena, attività di fondamentale importanza e propedeutica per una vera riforma. Domani 22 marzo, noi coordinatori dei Tavoli degli Stati Generali incontreremo il Ministro e gli chiederemo se vedremo realizzato, almeno in parte, il nostro lavoro. Il pessimismo che ci accompagna dal 1975 e prima ancora dal 1948, ci rende diffidenti. Ma non ci resta che porre, ancora una volta, la "fiducia". *Responsabile Osservatorio Carcere Unione Camere Penali Italiane Il Garante nazionale dei detenuti spiega il sovraffollamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 marzo 2017 Il Garante dei detenuti presenta oggi i dati della Relazione annuale al Parlamento. Luci e ombre del sistema penitenziario italiano e dei centri di accoglienza e trattenimento dei migranti. Trend del sovraffollamento in crescita a partire dal 2016, capienza regolamentare che potrebbe essere aumentata attraverso un’opera di recupero e razionalizzazione, considerevole numero di atti di autolesionismo e tentati suicidi verificati nelle carceri italiane, carenza delle camere di sicurezza onde evitare le cosiddette "porte girevoli" che ingolfano gli istituti penitenziari, criticità nei centri di identificazione ed espulsione. Ma non mancano note positive come l’aumento del ricorso all’esecuzione penale esterna, compresa la "messa alla prova" per chi ha commesso reati minori. Questo alcuni dati della prima relazione annuale del Garante nazionale delle persone detenute, composto da Daniela de Robert, Emilia Rossi e Mauro Palma, che sarà presentata martedì alla Camera, anticipati dall’Ansa. Una relazione scaturita durante le sue diverse visite - come ha documentato il Dubbio - negli istituti penitenziari e nei centri per gli immigrati. Entrando più nel dettaglio, il Garante spiega che il numero dei detenuti nelle carceri italiane è andato diminuendo dal 2013 quando si raggiunse la soglia di 62.536, ma a partire dal 2016 questo trend si è modificato con un leggero aumento delle presenze: al 31 dicembre 2016 erano 54.632 e al 14 febbraio 2017 sono 55.713, con un incremento di oltre 1000 unità. Confrontando tali numeri, in particolar modo le presenze a fine gennaio 2016 e a fine gennaio 2017, si registra un aumento del 6,2%. "Si tratta di una campanello d’allarme da non sottovalutare, anche se forse in parte fisiologico", scrive l’Authority, presieduta da Mauro Palma. Oltre alle presenze, il Garante spiega che sono in aumento anche il numero degli ingressi nel carcere: nell’ultimo anno, dopo una fase di riduzione, sono passati da 45.823 nel 2015 a 47.342 nel 2016, con un aumento di 1.500 unità. Come ha più volte annotato nei suoi rapporti - l’ultimo quello della regione Liguria, l’aumento degli ingressi sono dovuti anche dalla la carenza di camere di sicurezza disponibili. Un problema che "riguarda tutte le forze di polizia e ha come conseguenza l’accompagnamento delle persone in carcere anche per periodi brevissimi, riattivando così il fenomeno delle "porte girevoli"". Nella relazione emergono anche i numeri sugli episodi autolesionistici e di tentati suicidi. Nel 2016 si sono verificati 8.540 casi di autolesione e 1.262 solo dall’inizio di quest’anno. I tentati suicidi sono stati 1.006 nel 2016 e 140 dall’inizio di questo mese. L’anno scorso si sono verificati 40 suicidi in carcere, a cui si aggiungono 12 casi solo quest’anno. Per quanto riguarda i Centri di identificazione ed espulsione, Mauro Palma spiega che "mediamente soltanto la metà dei cittadini stranieri irregolari che transitano nei Cie viene effettivamente rimpatriato", centri che presentano "problematicità strutturali e organizzative". Secondo il Garante, in mancanza di accordi con i Paesi terzi, rimane il dubbio che la percentuale dei rimpatri sul totale dei provvedimenti di espulsione possa aumentare in modo consistente. A differenza dei Cie, gli hotspot si sono invece rivelati "molto efficienti nella identificazione con percentuali che sfiorano il 95% delle persone transitate, ma in mancanza di una effettiva politica di "relocation" si sono trasformati spesso in impropri centri di temporanea accoglienza soprattutto di categorie vulnerabili come i minori, il cui numero è in continuo aumento". Sempre per quanto riguarda il sistema penitenziario, positivo invece il ricorso all’esecuzione penale esterna al carcere, con 34.827 detenuti che al 31 gennaio2017 scontano la pena al di fuori degli istituti. Considerevole aumento anche della cosiddetta "messa alla prova" per chi ha commesso reati minori, che consente di evitare la condanna accettando di sottoporsi a un programma di trattamento. I casi sono passati da solamente 2 nel giugno 2014, quando fu introdotta, a 6.557 nel 2015 e a 9.090 a fine 2016. I penalisti in sciopero contro la riforma del processo penale di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 21 marzo 2017 Adesione oltre ogni aspettativa. "In alcuni Tribunali è stata del 100%", lo affermano fonti delle Camere penali commentando la partecipazione degli avvocati al primo dei cinque giorni di astensione dalle udienze proclamati per protestare contro la riforma del processo penale voluta dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando. Molti avvocati, infatti, pur non essendo iscritti alle Camere penali, hanno voluto aderire allo sciopero proclamato fino al prossimo 24 marzo in risposta alla decisione del Governo di porre la fiducia al Ddl di riforma. Una decisione, a detta degli avvocati, "che non ha precedenti" e che ha eliminato il dibattito parlamentare su una materia alquanto delicata come quella penale. Alcuni avvocati erano favorevoli ad una protesta "ad oltranza". Decisione molto difficile non fosse altro perché l’astensione dalle udienze da parte dei legali comporta in automatico la sospensione dei tempi di prescrizione. Nessun beneficio, quindi, per gli imputati che vedono, con lo sciopero dei propri difensori, allungarsi la durata dei propri processi. Fra i temi più contestati, l’estensione del "processo a distanza" in caso di dibattimenti con presenza di detenuti, in aperta contraddizione con i principi del giusto ed equo processo, e l’allungamento dei tempi della prescrizione tramite istituti che "dilatano i troppo lunghi tempi del processo, violando la presunzione di innocenza, il diritto alla vita degli imputati e la dignità delle persone, mortificando l’interesse dell’intera collettività a conoscere nei tempi brevi se un imputato è colpevole o innocente". Una seconda astensione è già stata programmata dal 10 al 14 aprile in quanto "nonostante le critiche sollevate nei confronti del voto di fiducia in Senato il Governo si appresta a riproporre il voto di fiducia anche alla Camera". Il rischio di processi interminabili è il timore principale dei penalisti. Con le attuali norme, unite all’aumento delle pene avvenuto lo scorso anno, i processi per alcuni reati dei pubblici ufficiali posso legittimamente durare anche un quarto di secolo. Giovedì prossimo, presso la Corte d’Appello di Roma, è già in calendario la manifestazione nazionale delle Camere penali sui temi dell’astensione. Nel frattempo è ai blocchi di partenza la raccolta di firme, organizzata sempre dalle Camere penali, per la proposta di legge di iniziativa popolare per le separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. "In nessun Paese con un sistema processuale di tipo accusatorio come il nostro", dicono i penalisti, "giudici e pubblici ministeri fanno parte del medesimo ordine giudiziario. Lo stesso Giovanni Falcone - proseguono gli avvocati - era favorevole alle separazione delle carriere". La raccolta delle firme inizierà nei tribunali a maggio. 50.000 quelle necessarie. Visto il clima attuale nei confronti delle toghe, la soglia potrebbe essere facilmente raggiunta. Magistrati e politica: la legge arriva in Aula su ordine dei giornali di Errico Novi Il Dubbio, 21 marzo 2017 Così il clamore del caso Emiliano ha resuscitato un Ddl in sonno da 3 anni. Una polizza contro nuovi casi come quello di Giannicola Sinisi, l’ex sottosegretario e parlamentare antimafia del centrosinistra che ha ribaltato in appello l’assoluzione di Augusto Minzolini. "Eppure a Palazzo Madama si era arrivati a un punto di equilibrio con grande fatica. Lo si è smontato la settimana scorsa in un battibaleno: il Pd si è presentato nella congiunta tra le commissioni Giustizia e Affari costituzionali con gli emendamenti preconfezionati, io ero relatore e mi sono dimesso, sarò relatore di minoranza", spiega Sisto. Paradossale perdere l’occasione di disinnescare nuovi casi come quello di cui è stato vittima il senatore di Forza Italia, condannato da un giudice di fatto suo avversario politico nonostante fossero state assolutorie tutte le pronunce precedenti, dal giudizio penale di primo grado al processo civile e alla Corte dei Conti. Il senatore che aveva predisposto la norma, Francesco Nitto Palma, anche lui di Fi, è sconcertato: "Sono un ex magistrato anch’io, ma se non fossi già andato in pensione potrei trovarmi in futuro a giudicare Renzi o Grillo". Palma è anche ex presidente dell’altra commissione Giustizia, quella di Palazzo Madama, che aveva passato le carte ai colleghi di Montecitorio nel lontano marzo 2014. Il timing complica la questione: solo oggi la Camera tira fuori dal cassetto un disegno di legge che si vide arrivare dal Senato all’inizio del governo Renzi. È solo perché Michele Emiliano si è appena candidato segretario del Pd e il resto del partito, da Renzi a Orlando, vuole screditarne le aspirazioni? Sarebbe ingiusto metterla in questi termini. L’accelerazione di Montecitorio sul provvedimento non è che sia arrivata proprio in concomitanza con la discesa in campo del governatore pugliese. Dopo i primi annunci della sfida a Renzi da parte dell’ex procuratore (e sindaco) di Bari, non si era mosso granché. A scuotere i deputati è stata casomai una campagna di stampa che a quel punto si è messa in moto con vigore. E che poi ha assunto un peso e una forza sempre maggiori col passare dei giorni. Il ministro Andrea Orlando è parte in causa, anche se il ddl in questione è di matrice parlamentare: "Emiliano non c’entra, non si tratta di norme così pesanti, e comunque il testo era fermo da tre anni". Se alcuni grandi giornali, a cominciare dal Corriere della Sera, sono andati in pressing sul Parlamento, è perché qualcosa è cambiato fuori dai palazzi della politica. E se il Parlamento e la politica in generale si sono dati una mossa solo dopo che i media lo hanno chiesto, non c’è da stupirsi e soprattutto non si può dire che sia un fatto nuovo. In materia di giustizia è quasi sempre così: anche la legge Severino, piena zeppa di contenuti discutibili a cominciare dal traffico d’influenze, è nata per soggezione del potere legislativo a un’incontrollata onda di malcontento, cavalcata con impeto dal Movimento di Grillo. Checché se ne dica anche stavolta si assiste a quella dinamica: tutto tace, si candida Emiliano, i giornali si muovono, il Csm pure (nei confronti di Emiliano) e la politica arriva buona ultima. Si avverte più che in passato evidentemente una fragilità della magistratura nell’immagine popolare. È come se, dopo un decennio di invettive anti-casta, sia la grande stampa sia l’opinione pubblica diffusa si sentano esauste: inutile o quanto meno avvilente sparare sempre e solo sui politici, serve come minimo un nuovo, ulteriore bersaglio. Ed ecco servita la magistratura, che già vacilla per le convulsioni del processo mediatico, in cui spesso finisce accusato (dal popolo e dalle tv) anche qualche gip troppo prudente e rispettoso dei codici nell’applicare le misure cautelari. I giudici sono meno popolari, lo si coglie anche da critiche alle fughe di notizie come quelle avanzate una settimana fa dal vicepresidente dell’organo di autogoverno dei magistrati Giovanni Legnini. Il vento è cambiato. Ma come al solito la politica se ne accorge tardi e, anziché cercare di governarlo, se ne lascia trascinare senza chiedersi esattamente dove porta quella spinta che soffia alle sue spalle. Da Roma a New York, i 222 magistrati prestati ai "palazzi" del governo di Dino Martirano Corriere della Sera, 21 marzo 2017 Un universo di toghe distaccate alla diretta dipendenza dei ministri, nella presidenza del Consiglio, nell’ambasciata di Washington, all’Onu o al Quirinale. Brunetta chiede l’elenco dei giudici "fuori ruolo". Sotto la punta dell’iceberg - i pochi magistrati eletti in Parlamento oppure chiamati al governo - c’è un universo di toghe fuori ruolo. Si tratta di magistrati distaccati nei palazzi del governo "alla diretta dipendenza" dei ministri, nella presidenza del Consiglio, nell’ambasciata di Washington, all’Onu a New York, in Marocco e in Albania per il "collegamento" con la giustizia locale, al Quirinale, alla Corte costituzionale, nelle commissioni parlamentari, alle Corti di Strasburgo, nelle Autorità di controllo, nelle strutture della Ue, di Eulex, di Eurojust, di Europol e dell’Olaf. Comunque, il gruppone dei magistrati che hanno abbandonato temporaneamente il ruolo presta servizio al ministero della Giustizia e al Csm, come impone la legge. Si restringe, invece, la pattuglia degli eletti con la toga negli enti locali: Michele Emiliano (ex pm), governatore della Puglia, una magistrata assessore in Sicilia e poco altro. Nel giorno in cui la Camera avvia, con la relazione di Walter Verini (Pd), la discussione sulla legge Palma approvata tre anni fa dal Senato - il testo varato per stringere i bulloni delle "porte girevoli" che mettono in comunicazione i ruoli della magistratura e il mandato politico o fiduciario del governo - il capogruppo di Forza Italia, Renato Brunetta, ha chiesto al Csm l’elenco dei magistrati fuori ruolo. I numeri e i nomi che saranno forniti a Brunetta dal vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, vengono aggiornati nello "schedario elettronico" curato dal Consiglio: nell’elenco appaiono i nomi di ben 818 toghe che dalla fine degli anni 80 (la ministra Anna Finocchiaro, del Pd, è in aspettativa dall’88) hanno smesso temporaneamente di fare il giudice o il pm. Al netto dei rientri, ora sarebbero 222 i magistrati fuori ruolo: 196 distribuiti tra i ministeri, il Parlamento, il Csm (16), la Scuola della magistratura, le istituzioni internazionali, il Quirinale (3), la Corte costituzionale (23). Altri 16 sono i togati del Csm eletti dalla magistratura ordinaria; 6 sono gli eletti in Parlamento (c’è anche la parlamentare europea Caterina Chinnici del Pd), 2 sottosegretari del governo Gentiloni (Cosimo Ferri e Domenico Manzione), il governatore Michele Emiliano e una magistrata in aspettativa perché ha raggiunto il marito all’estero. Nell’elenco del Csm (prima della periodica revisione avvenuta ieri sera) emergevano alcune posizioni datate: quella dell’ex deputato di Forza Italia Alfonso Papa, arrestato e condannato in primo grado a Napoli, che risulta "in aspettativa per mandato parlamentare". Non è aggiornata anche la posizione di Stefano Dambruoso, oggi questore della Camera eletto in Scelta civica nel 2013, che è in "aspettativa per elezioni politiche". Aggiornata, invece, la casella di Giovanni Melillo, capo di gabinetto del Guardasigilli Andrea Orlando, che dal 15 marzo 2017 è alla Procura generale presso la Corte d’Appello di Roma. A questo universo sommerso, conferma il relatore della legge Walter Verini (Pd), vanno applicate le regole già vigenti per i togati del Csm: cioè, un anno di "congelamento" a fine mandato prima di poter ottenere una promozione con un incarico direttivo o semi direttivo. Il problema sono i magistrati chiamati direttamente dal governo a svolgere il ruolo di capo di gabinetto, capo dell’ufficio legislativo, consulente o esperto giuridico in una ambasciata; ma anche le toghe elette in Parlamento sono sottoposte a un periodo di decantazione alla fine del mandato: pure i 5 anni di "purgatorio" necessari per poter ottenere una promozione (deliberati dal Senato) ora sono ridotti a 3 nel testo giunto in aula alla Camera. Per il quale, il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore (Pd), prevede tempi rapidi di approvazione alla Camera. Anche se poi il ddl dovrà tonare al Senato Albamonte (Anm): "magistrati in politica, non diventi un divieto" di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 21 marzo 2017 Il prossimo presidente dell’Anm Eugenio Albamonte sulla legge in discussione alla Camera: se la fretta deriva dal caso Minzolini-Sinisi hanno preso un abbaglio. "Anche cose buone nella riforma penale. Invece per l’asilo male il decreto Minniti". "Ok a regole più stringenti per i magistrati in politica, ma non si dica che adesso c’è il vuoto. I limiti sono previsti nell’ordinamento giudiziario e nelle circolari del Csm. Restava da coprire il tema delle amministrazioni locali, oggi si può fare contemporaneamente il pm, o il giudice, e il sindaco in un comune non lontano dal proprio distretto. Non sarà più così e va bene. Ma dico anche: facciamo attenzione, non è pensabile che i magistrati diventino l’unica categoria alla quale, di fatto, viene impedito l’elettorato passivo". Sostituto procuratore a Roma, esponente della sinistra delle toghe (Area), Eugenio Albamonte tra qualche giorno smetterà di parlare a titolo personale: sta per sostituire Piercamillo Davigo alla presidenza dell’Associazione nazionale magistrati. Non è il caso dei sindaci a spingere questa legge, ieri arrivata in aula alla camera, ma la vicenda Minzolini che lamenta di essere stato condannato da un giudice già politico di centrosinistra... Se è così si tratta di un’accelerazione del tutto inappropriata, non conosco nel dettaglio la carriera del giudice Sinisi ma da quello che ho letto neanche la nuova legge, con tutte le sue restrizioni, sarebbe stata un ostacolo. Esercita funzioni giudicanti collegiali, si era candidato in una circoscrizione lontana e ben più di cinque anni fa. Ho trovato semmai discutibili altre cose in quel voto sul senatore Minzolini. Quali? C’è stato chi è tornato al merito della decisione giudiziaria, e questo quando c’è stato un giudizio di Cassazione è decisamente un fuor d’opera. Trovo sbagliato che venga messa in discussione la linea di demarcazione tra le prerogative della magistratura e quelle del parlamento, che anche la legge Severino ribadisce in maniera netta. La Costituzione riconosce alle camere il diritto di decidere sui deputati e senatori, non c’è Severino che tenga... La Severino è una legge di attuazione della Costituzione, riconosce senz’altro al parlamento l’ultima parola, ma non prevede un quarto grado di giudizio politico per i parlamentari. E invece nel dibattito c’è stato chi ha sollevato, del tutto fuori luogo, il problema del fumus persecutionis. Passiamo al disegno di legge sul processo penale, l’Anm lo boccia del tutto? No, e voglio dirlo anche per smentire il ministro quando ci accusa di saper solo criticare. Io credo che in questa legge ci siano cose interessanti e positive, ampiamente condivisibili. Tutta la parte sull’ordinamento penitenziario, ad esempio, o il tentativo di snellire le procedure per Appello e Cassazione. L’aspetto più criticabile è la norma sull’avocazione delle indagini da parte del procuratore generale - quando passano più di tre mesi tra la chiusura delle indagini e la richiesta di rinvio a giudizio. In tutto il nostro ordinamento se c’è da garantire un diritto ai cittadini, in questo caso il diritto a tempi certi nel rapporto con la giustizia, questo diritto viene affidato a un giudice e non a un procuratore. Inoltre i tempi morti dopo la chiusura delle indagini sono quasi tutti a carico dell’attività amministrativa, a Roma solo per digitalizzare i fascicoli impieghiamo più di tre mesi. E siamo cento magistrati, in procura generale solo 23. Spostare tutto non risolverà il problema, ma sposterà e aggraverà i ritardi. Lei si occupa di indagini informatiche, che dice della limitazione all’uso dei software spia? È un altro aspetto problematico della legge. Le sezioni unite della Cassazione avevano consentito l’uso dei Trojan all’interno dei luoghi di privata dimora per tutti i reati associativi, la legge limita questa possibilità alle indagini per mafia e terrorismo, Questo vuol dire che nelle indagini per corruzione che coinvolgono un’associazione di persone non potremo più mettere sotto controllo quei luoghi dove spesso si pianifica l’attività corruttiva. Intercettazioni, non pensa che vada messo un limite alla pubblicazione di quelle non rilevanti per le indagini? Sì, ed è un altro aspetto positivo della riforma. Con il limite, però, che la delega al governo è un po’ troppo ampia e fumosa, e lascia spazio a interventi eterogenei rispetto a questo obiettivo di sacrosanta tutela della riservatezza. Credo che il ministro ne sia consapevole e forse per questo è orientato a coinvolgere i procuratori nella stesura dei decreti. Altra questione, la norma che obbliga gli ufficiali di polizia giudiziaria a informare delle indagini i superiori non meritava una presa di posizione critica della magistratura? Il Csm ci sta lavorando e presto lo farà anche l’Anm. A me pare una norma pericolosa, che capovolge completamente l’impostazione del codice di procedura penale, in base alla quale la polizia giudiziaria è posta alle dipendenza del magistrato inquirente con un dovere di fedeltà e riservatezza che protegge le indagini. Bisogna ricordare che al vertice della polizia giudiziaria c’è sempre il governo, il potere politico. Come giudica il decreto Minniti-Orlando che riduce le garanzie per i richiedenti asilo? Snellire le procedure va bene, ma penalizzare i diritti tutelati dalla Costituzione e dalle convenzioni internazionali non dovrebbe essere consentito. Il decreto riduce il processo di primo grado a una sostanziale camera di consiglio, senza la presenza dell’interessato, e abolisce l’appello. Delle due l’una, così è troppo. Casson (Pd): "ai magistrati in politica avrei vietato di tornare alla toga" di Francesco Grignetti La Stampa, 21 marzo 2017 "Ma il compromesso a cui si è arrivati è accettabile: l’importante è fissare il principio che non si eserciti di nuovo per alcuni anni". Il senatore Felice Casson, che in una prima vita è stato magistrato a Venezia, da anni si batte per una regolamentazione più severa dei passaggi tra magistratura e politica e finalmente vede il risultato all’orizzonte. Contento? "Io avrei proprio vietato il ritorno indietro. Se un magistrato fa questa scelta, ai miei occhi perde la necessaria terzietà. Il sottoscritto, per essere chiari, si è dimesso dalla magistratura". Una misura così draconiana, però, non è passata. "No, ma va bene così. Si è arrivati a una ragionevole soluzione, di compromesso, che è comunque importante". Soddisfatto anche se alla Camera hanno ammorbidito il testo del Senato? "Sì, in fondo l’impianto complessivo è stato confermato. Vedo che qualche passaggio è stato ammorbidito, ma non è così fondamentale se devono trascorrere 5 o 3 anni. Importante è fissare il principio che il magistrato, esaurito un periodo elettivo, non torni ad esercitare nella sua città le funzioni direttive per alcuni anni". A proposito, che pensa del suo ex collega Giannicola Sinisi, che è stato parlamentare della Margherita, e poi, tornato in magistratura, ha fatto parte del collegio che ha giudicato e condannato Augusto Minzolini? "Secondo me, Sinisi ha fatto malissimo a non astenersi. Dirò di più: il ministro avrebbe dovuto avviare un’azione disciplinare nei suoi confronti perché c’erano tutti i "gravi motivi di opportunità" prescritti dal codice. Poi, siccome gli avvocati non hanno sollevato il problema, e la sentenza è stata confermata dalla Cassazione, so bene che la sentenza ha tutti i crismi della legalità e il Parlamento doveva prenderne atto". Con questa legge, difficilmente Michele Emiliano avrebbe potuto candidarsi a Bari. "Guardi, sono convinto che al momento di candidarsi Emiliano abbia rispettato le regole e le rispetterà qualora cambiassero. E un po’ ridicolo, però, avviare un’azione disciplinare nei confronti di Emiliano in quanto iscritto al Pd, quando gli viene consentito di essere presidente di Regione". E che dire di quei magistrati che assumono incarichi parapolitici, vedi il capo di gabinetto di un ministro? "Un’area grigia di cui non si parla mai: ci sono circa 200 magistrati fuori ruolo che assumono ogni tipo di incarico a stretto contatto con la politica. Il grave è che se un magistrato decide di candidarsi, è sottoposto al vaglio dei cittadini e poi, da quel momento in poi, tutta la sua attività e le sue scelte avvengono alla luce del sole. Nel caso degli incarichi fiduciari, invece, tutto rimane nell’ombra dei canali riservati, a cominciare dal processo di selezione della persona". Brambilla (Fi): "chi maltratta o uccide un animale deve andare in carcere" quotidiano.net, 21 marzo 2017 Michela Vittoria Brambilla, presidente della Lega Italiana Difesa Animali e Ambiente, ha presentato a Firenze le iniziative a favore delle famiglie in difficoltà. "Chi maltratta o uccide un animale deve andare in carcere. Non possiamo restare indifferenti di fronte al proliferare di atti di violenza, anche molto gravi, contro gli animali. Le norme vigenti hanno avuto il pregio di trasformare in delitti quelli che prima erano solo reati minori, ma oggi non sono più sufficienti, non hanno effetto deterrente. Casi come quelli di Angelo a Sangineto, di Pilù a Pescia, di Balto, Tabata e Nebbia legati ad un binario e travolti dal treno ad Anzola non si devono più ripetere. Per questo chiedo che venga rapidamente esaminata la mia proposta di legge che inasprisce le pene a carico di chi si macchia di queste crudeltà: sarà comunque nella nostra agenda di governo". Lo ha detto oggi l’on. Michela Vittoria Brambilla, presidente della Lega Italiana Difesa Animali e Ambiente presentando, insieme con Laura Cardinali, responsabile della sezione fiorentina dell’associazione, le nuove iniziative sul territorio: una raccolta di alimentari e accessori destinati alle famiglie che hanno animali d’affezione in casa ma, per effetto della crisi, non possono più permettersi di spendere o sono comunque costrette a ridurre il budget per gli amici a quattro zampe. "Riceviamo, purtroppo, sempre più spesso richieste di aiuto da parte di famiglie o persone che stanno attraversando un momento di difficoltà economica e non riescono a far fronte alle spese di cura del amico a quattro zampe",. spiega l’ex ministro. "Agli affetti, e per molti anziani proprio cani e gatti costituiscono l’unica compagnia, non si deve rinunciare. Abbiamo il dovere di mettere in campo azioni di sostegno. L’ultimo rapporto Eurispes denuncia un calo del 10 per cento, dall’anno precedente, del numero di animali presenti nelle case degli italiani e indica la crisi economica quale fattore principale di questa evoluzione negativa. A causa delle ristrettezze, il 17,3% di chi ha un animale ha rinunciato alle cure mediche o agli interventi chirurgici costosi mentre il 15,4% ha ridotto la spesa per i medicinali. Il 25% ha ridotto le visite veterinarie e il 39% ha acquistato cibo meno caro. Oltre il 41% ha rinunciato all’idea di prendere altri animali in casa. L’atteggiamento della Lega Italiana Difesa Animali e Ambiente - argomenta l’on. Brambilla - è l’opposto di quello, diffuso in tutti i livelli di governo, di chi concepisce la convivenza con un animale domestico come "manifestazione di ricchezza" o comunque "riserva di caccia" per un possibile gettito fiscale diretto o indiretto. Si tratta, invece, di un rapporto da sostenere e tutelare anche economicamente, per i benefici sociali e sanitari che apporta, per gli effetti positivi sui bambini e sulle persone anziane, per la prevenzione degli abbandoni e del randagismo". Perciò la nostra associazione ha deciso di dare il suo contributo avviando la raccolta attraverso due canali. Uno diretto: tramite la sezione fiorentina. L’altro indiretto: tramite "corner" che verranno installati in alcuni supermercati della città. Oltre al cibo e ad accessori utili, si possono donare antiparassitari e altri medicinali, purché non scaduti e in confezione integra. Gli aiuti saranno distribuiti ai proprietari che ne faranno richiesta. Eventuali prodotti non distribuiti saranno assegnati ai canili. La sezione di Firenze della Lega Italiana Difesa Animali e Ambiente è a disposizione di chi volesse contribuire a questa grande operazione di solidarietà con delle donazioni di materiali e per raccogliere le richieste di aiuto. È possibile mettersi in contatto con la presidente Laura Cardinali telefonando al numero 3382756545 oppure scrivendo a firenze@leidaa.info. "La solidarietà - ricorda l’on. Brambilla - è il principio ispiratore anche del progetto di sistema sanitario mutualistico al quale stiamo lavorando, destinato agli animali delle famiglie in difficoltà e di tanti pensionati, che si trovano sotto la soglia del reddito minimo. "La salute - avverte - è un diritto per tutti, anche per i nostri animali". Vittime di stalking: assistenza legale gratuita di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2017 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 20 marzo 2017 n. 13497. Assistenza legale gratuita per le vittime di stalking. La Cassazione (sentenza 13497) boccia l’interpretazione restrittiva del Testo unico sulle spese di giustizia (Dpr 115/2002) fornita dal Tribunale, che aveva respinto la domanda di ammissione al patrocinio a spese delle Stato fatta da una donna vittima di stalking, perché non aveva certificato i suoi redditi. Secondo il giudice di merito attualmente la norma (articolo 76, comma 4-ter) non consente alcun automatismo nel concedere assistenza gratuita alle vittime dei reati elencati: maltrattamenti in famiglia, mutilazione degli organi genitali femminili, violenza sessuale, atti sessuali su minori e violenza di gruppo. Per il giudice di merito, infatti, l’articolo prevede che il giudice "può ammettere al patrocinio a spese dello Stato" la persona offesa dai reati indicati. L’uso del verbo "può" e non "deve" ha indotto il Tribunale a concludere che il giudice non possa prescindere dal valutare il reddito della persona offesa. La Cassazione spiega invece che ratio della norma è proprio quella di rimuovere ogni ostacolo, anche economico, che possa "scoraggiare" una persona, già in condizioni di disagio, dall’agire in giudizio. La Suprema corte sottolinea poi che la legge non fa cenno al danneggiato dal reato, che intenda costituirsi parte civile nel processo penale e che può non coincidere con la vittima. Il via libera al beneficio per la persona offesa è dunque possibile solo se vengono rispettati i limiti di reddito. Nel caso della vittima invece il "può" va letto come un "deve", senza che sia necessario presentare alcuna certificazione che dimostri il reddito. I giudici della quarta sezione penale ritengono l’interpretazione fornita in linea con la finalità della norma di assicurare alle vittime dei reati indicati l’assistenza legale gratuita. Gli unici requisiti che le persone offese dai reati devono rispettare sono quelli previsti dalle lettere a) e b) dell’articolo 79 del Testo unico sulle spese di giustizia. Va dunque presentata la richiesta di ammissione al patrocinio, corredata dall’indicazione del processo cui si riferisce, nel caso sia già pendente. Inoltre occorrono le generalità dell’interessato e dei componenti della famiglia, insieme ai rispettivi codici fiscali. Mentre non serve l’attestato del reddito perché la sua mancanza non basta a far scattare il rigetto della domanda. Incidente stradale, conducente responsabile se il passeggero non ha la cintura di sicurezza di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2017 Corte di Cassazione - Sezione IV - Sentenza 9 marzo 2017 n. 11429. Passeggero senza cintura? È responsabile il conducente. Così ha deciso l a IV sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 11429 del 9 febbraio-9 marzo 2017, pronunciandosi in materia di omicidio e lesioni derivanti da circolazione stradale, così come riformata dalla legge 41/2016 che ha introdotto i reati di omicidio stradale e lesioni personali stradali. Il caso - Gli imputati ricorrono per Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello che aveva riformato quella del Tribunale che aveva dichiarato il non doversi procedere per parte dei reati (causa intervenuta prescrizione) e confermato, invece, la condanna per l’omicidio colposo di una passeggera deceduta a seguito del sinistro in cui erano coinvolte le vetture degli imputati. Davanti ai giudici della Corte, questi hanno evidenziato segnatamente il comportamento della vittima, che durante la marcia del veicolo non aveva allacciato la cintura di sicurezza e che era deceduta dopo essere stata sbalzata fuori dal veicolo a causa dell’incidente. Per i ricorrenti non si evidenzierebbe il nesso di causalità, in quanto il comportamento della parte offesa sarebbe stata "eccezionale, imprevedibile, indipendente dal fatto del reo" sottolineando che la deceduta aveva preso posto sul veicolo senza allacciare la cintura di sicurezza ed il conducente, a causa del buio, non se ne era reso avveduto. La decisione - Gli Ermellini hanno ritenuto i ricorsi infondati e di conseguenza respinti poiché oltre ad aver stabilito e confermato il nesso di causalità, non condivide la dichiarazione del conducente con la quale ribadisce la pretesa impossibilità o difficoltà del conducente di rendersi conto, a causa del buio, che la trasportata non aveva allacciato la cintura di sicurezza ed era stata sbalzata fuori dall’auto a causa dell’incidente. È stato violato un puntuale obbligo di legge da parte del conducente, in quanto la giurisprudenza ha ripetutamente affermato che "è tenuto, in base alle regole della comune diligenza e prudenza, ad esigere che il passeggero indossi la cintura di sicurezza ed, in caso di sua renitenza, anche a rifiutarne il trasporto o ad omettere l’intrapresa della marcia. Ciò a prescindere dall’obbligo e dalla sanzione a carico di chi deve fare uso della detta cintura". Inoltre i giudice della Corte hanno ritenuto meramente apodittiche le affermazioni del ricorrente circa la pretesa inadeguatezza motivazionale relativamente alla velocità tenuta ed alla condotta di guida dell’imputato e del conducente dell’autoarticolato contro il quale andò a collidere il veicolo e, più in generale, alla dinamica dell’incidente, tutte, al contrario, analiticamente ricostruite ed esaminate nelle sentenza di merito. La rilevanza penale della cancellazione dei files pedopornografici dal proprio computer Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2017 Reato pedopornografico - Files informatici a valenza pornografica - Condivisione e scambio dei files - Cancellazione dalla memoria del PC - Rilevanza penale - Non cessazione della fattispecie di reato. Nell’ambito dei reati pedopornografici, commessi tramite condivisione di files presenti nella memoria di un personal computer, non ha alcuna rilevanza il loro mero trasferimento nel cestino del sistema operativo in quanto gli stessi restano comunque disponibili mediante la semplice riattivazione dell’accesso al file. Al contrario, la loro definitiva cancellazione dal computer escluderebbe la detenzione materiale dei files pedopornografici e, dunque, l’elemento oggettivo del relativo reato. Tuttavia, anche prescindendo dal fatto che l’avvenuta cancellazione dei files non esclude di per sé la loro pregressa detenzione, tale evento incide soltanto sul perdurare della flagranza del reato in esame: fino al momento dell’eliminazione, infatti, i files erano senza dubbio detenuti, comportando la loro cancellazione non la elisione ex tunc della rilevanza penale di tale condotta bensì la cessazione di essa, dato senza dubbio rilevante in considerazione della natura permanente del reato contestato ma tuttavia inidoneo ad escludere la sussistenza stessa della fattispecie criminosa. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 8 marzo 2017 n. 11044. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - In genere - Detenzione di materiale pedopornografico - "Files" pedopornografici "scaricati" da internet - Cancellazione degli stessi con spostamento nel "cestino" del sistema operativo - Persistente disponibilità degli stessi - Reato - Configurabilità. Integra il delitto di detenzione di materiale pedopornografico la cancellazione di "files" pedopornografici, "scaricati" da internet, mediante l’allocazione nel "cestino" del sistema operativo del personal computer, in quanto gli stessi restano comunque disponibili mediante la semplice riattivazione dell’accesso al "file", mentre solo per i "files" definitivamente cancellati può dirsi cessata la disponibilità e, quindi, la detenzione. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 8 giugno 2015 n. 24345. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - In genere - Detenzione di materiale pedopornografico - "Files" pedopornografici "scaricati" da internet - Cancellazione degli stessi con spostamento nel "cestino" del sistema operativo - Persistente disponibilità degli stessi - Reato - Configurabilità. Integra il delitto di detenzione di materiale pedopornografico (articolo 600-quater c.p.) la cancellazione di "files" pedopornografici, "scaricati" da internet, mediante l’allocazione nel "cestino" del sistema operativo del personal computer, in quanto gli stessi restano comunque disponibili mediante la semplice riattivazione dell’accesso al "file". (In motivazione la Corte ha precisato che solo per i "files" definitivamente cancellati può dirsi cessata la disponibilità e, quindi, la detenzione). • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 13 gennaio 2011 n. 639. Pornografia minorile - Detenzione di materiale pedopornografico - Configurabilità del reato di cui all’articolo 600-quater c.p. anche in caso di cancellazione di files scaricati da Internet mediante allocazione nel cestino del computer - Possibilità di riattivazione dell’accesso al file - Possibilità di condivisione del materiale detenuto - Natura di reato di pericolo concreto - Genericità dei motivi di ricorso - Inammissibilità. L’avvenuta parziale cancellazione dei files pedopornografici non ne esclude in sé l’effettiva detenzione e dunque la relativa disponibilità, condotta quest’ultima penalmente rilevante. Al riguardo infatti occorre ribadire che integra il delitto in esame la cancellazione dei files pedopornografici, scaricati da internet, mediante la loro allocazione nel "cestino" del sistema operativo del personal computer, in quanto gli stessi restano comunque disponibili mediante la semplice riattivazione dell’accesso al file. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 3 novembre 2016 n. 46153. Quando l’antimafia condanna chi combatte la mafia di Piero Sansonetti Il Dubbio, 21 marzo 2017 La storia di Piero e Natale, un medico e un prete, perseguitati da procure e giornali perché non avevano il patentino di nemici della ‘ndrangheta. Sui muri dell’arcivescovado di Locri, l’altra notte, sono state tracciate delle scritte che hanno suscitato una grande indignazione. Una di queste era contro don Ciotti, il fondatore di Libera, e cioè della principale associazione anti- mafia che opera in Italia. La scritta diceva: "don Ciotti sbirro". La seconda scritta era più generica, ma anche più politica. Diceva: "meno sbirri più lavoro". Non sono due scritte uguali, anche se è uguale lo sdegno che hanno provocato sui grandi giornali e nel palazzo romano. La prima è un semplice insulto a un sacerdote molto impegnato sul fronte della lotta alla mafia. La seconda, con termini molto rozzi, esprime un concetto non del tutto insensato. E cioè l’idea che per riscattare il Sud, e in particolare la Calabria - che è il sud del sud - e ancora più in particolare la Locride - che è il Sud della Calabria - lo Stato non debba presentarsi con le manette ma con una offerta economica e sociale. Innanzitutto il lavoro, che manca, e mancando crea miseria, emigrazione, rabbia. E poi la sanità, la scuola, il welfare. Invece lo Stato, da molti anni, per affrontare la mafia conosce solo l’opzione militare. E affida la direzione delle operazioni non alla politica ma alla Procura. Non è un delitto dire queste cose. Anche se pochissimi le dicono, e se le dici molti ti accusano di corrività con la ‘ndrangheta. È probabile che le scritte sul muro della Chiesa le abbia scarabocchiate qualche picciotto di mafia. E questo giustifica lo scatto contro la ‘ndrangjheta, ma non la retorica vuota, le belle e inutili e spesso molto ipocrite parole. Don Ciotti e Mattarella erano stati accolti, in Calabria, da una lettera - che giovedì scorso abbiamo pubblicato sulla prima pagina del nostro giornale - scritta da Piero Schirripa e da Natale Bianchi. Tra poche righe vi diciamo chi sono Piero e Natale. Prima volgiamo dirvi che quella lettera era molto polemica con Ciotti. Ne ricopio un brano: "Caro Ciotti, noi ti accusiamo fraternamente di aver sbagliato (…) Tu, politicamente, ci hai fatto massacrare dalle persecuzioni giudiziarie e dal disdoro dei pettegolezzi. Tu, politicamente, stavi con i potenti: con la Procura e la Prefettura. Hai scelto, come altri, ciò che ti è convenuto. Noi, che pure non eravamo contro le istituzioni, ma volevamo conquistare un’altra Calabria, siamo stati puniti per questo, e messi alla gogna". Chi sono Piero Schirripa e Natale Bianchi? Piero è un medico, lo ho conosciuto da giovane perché militavamo insieme nella sezione universitaria del Pci. Laureatosi, alla fine degli anni settanta, è sceso nella Locride, cioè la sua terra, e ha dato vita a varie cooperative, che servivano a creare lavoro e a fornire assistenza. Negli anni 90, con l’aiuto del vescovo Bregantini, ha realizzato anche una cooperativa per aiutare gli ex detenuti e i bambini figli dei boss di mafia. Insieme a lui c’era Natale Bianchi, un ex prete, che era stato sospeso a divinis perché si era schierato per il divorzio, nel 1974. Natale è molto famoso nella Locride perché è stato l’unico prete, forse, a schierarsi a faccia aperta contro don Stilo, il prete potentissimo appoggiato dalla ‘ndrangheta e dai signori della Locride. Della lotta tra Natale e don Stilo parla a lungo Corrado Staiano, in un dei suoi libri più famosi, "Africo", scritto alla fine degli anni settanta. Un giorno don Stilo, di fronte a molti testimoni, esasperato dalle posizioni di don Bianchi, gli gridò sul muso: "Tu non sai chi sono io; anche le pietre mi conoscono. Se io voglio posso schiacciarti come una formica". Piero e Natale, coraggiosi nemici della mafia, negli anni novanta furono perseguitati dalla giustizia. Ma anche dalla mafia, che un paio di volte gli sparò. La Chiesa, per evitare conflitti con lo Stato, rimosse mons. Bregantini dalla Locride e lo mandò nelle Marche. Le Procure avviarono diversi processi contro Schirripa e Bianchi. Dissero - mostrando fantasia e logica ferrea - che le loro cooperative di assistenza ai figli dei mafiosi erano frequentate da molti figli di mafiosi... Non c’è niente da ridere. Per anni Piero a Natale hanno dovuto sostenere l’assalto. Dei giudici, della stampa, dell’antimafia ufficiale. Alla fine, è logico, sono stati assolti da tutte le accuse. E ora anche Mattarella, anche il governo, persino gli stessi giudici, esaltano le cooperative. Ma ormai la cooperativa di Pietro e Natale è morta, gran parte del loro lavoro, della loro vita, distrutti. L’antimafia ufficiale - anche quella rappresentata da "Libera" - non mosse un dito per difendere il medico e il prete. L’antimafia ufficiale, in Italia - non c’è bisogno di Sciascia per accertarlo - ha una idea molto autoreferenziale della lotta alla mafia. Considera se stessa l’unica struttura autorizzata, non conosce pluralismo: tutti gli altri, se vogliono occuparsi di mafia, devono chiedere il permesso, e se non hanno il permesso allora sono sospettabili di amicizia coi mafiosi. Questa abitudine, questo vizio, sono stati il freno principale alla lotta alla mafia. Magari è ora di farla finita con quelle abitudini. E con la retorica e i salamelecchi al posto dei fatti. Liguria: una regione di frontiera, senza Garante e senza Rems di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 marzo 2017 L’ultimo rapporto dell’authority nazionale evidenzia una serie di criticità negli Istituti della regione. Denunciata l’assenza di camere di sicurezza, delle Residenze e del Presidente del Tribunale di sorveglianza. Senza dimenticare la situazione problematica degli immigrati a Ventimiglia. Assenza di camere di sicurezza che determina il cosiddetto fenomeno delle "porte girevoli", ovvero quando si è costretti a portare in carcere una persona sottoposta all’arresto di una sera, perché non c’è una camera di sicurezza libera. Ancora non esiste una legge che istituisca la figura del garante regionale dei diritti dei detenuti. Mancanza di fatto del provveditore dell’amministrazione penitenziaria essendo la funzione temporaneamente condivisa con quella di Provveditore per la Lombardia. Manca il presidente del tribunale di sorveglianza e infine ancora non è stata portata a compimento la realizzazione della Rems, la residenza per le misure di sicurezza psichiatriche. Questo è il quadro offerto dall’ultimo rapporto pubblicato dal Garante nazionale delle persone detenute, composto da Daniela de Robert, Emilia Rossi e Mauro Palma che oggi illustrerà alla Camera il rapporto nazionale, dopo la sua recente visita generale nella regione Liguria. "La sua caratteristica di regione di frontiera - si legge nel rapporto - si ripercuote in maniera forte sull’ambito della privazione della libertà. Nei sei Istituti di detenzione per adulti la presenza di stranieri è molto alta (in qualche caso oltre il 52%), con una serie di conseguenti problematiche che caratterizzano la vita degli Istituti stessi e la gestione delle persone". Il rapporto prosegue con una riflessione sugli altri luoghi di privazione della libertà e si sofferma sulla situazione creatasi a causa della chiusura dei confini che "acquistano una rilevanza non congiunturale ma strutturale". Mauro Palma fa riferimento all’insediamento di protezione e accoglienza temporanea gestito dalla Croce Rossa Italiana nel territorio di Ventimiglia, al Parco Roja. Un campo di accoglienza che pur non essendo formalmente un luogo di restringimento della libertà, ne ha tutte le caratteristiche. Infatti - come già riportato da Il Dubbio - il Garante nazionale aveva effettuato una visita riscontrando numerose criticità. La situazione è nota e il Garante lo ribadisce nel rapporto. Perdura oramai da tempo la sospensione degli accordi comunitari in materia di libera circolazione delle persone da parte delle autorità francesi che ha comportato, di fatto, la chiusura della frontiera per i migranti che, arrivati a Ventimiglia, non hanno la possibilità di proseguire il proprio viaggio verso la Francia. Ciò nonostante che, a prescindere dai vincoli definiti dal cosiddetto "sistema di Dublino", il flusso di persone straniere che raggiunge la Liguria con l’intenzione di proseguire per la Francia e per i Paesi del nord Europa non si sia arrestato. Nell’area attorno alla città di Ventimiglia si trovano pertanto a sostare un numero sempre più ingente di migranti che attendono di varcare il confine. Il Garante Nazionale in ogni sede istituzionale ha raccomandato al Governo nazionale di "fare fronte alla condizione di Regione di confine, nel contesto ormai strutturale dei grandi flussi migratori che coinvolgono l’Europa, in maniera da garantire risposte adeguate alle necessità delle persone, nel pieno rispetto non solo del diritto alla vita ma a una vita dignitosa, allestendo con estrema urgenza strutture congrue di assistenza che garantiscano il rispetto e la tutela della dignità umana dei migranti e forniscano altresì un’informativa sulla disciplina della protezione internazionale e, in caso, il supporto necessario per l’accesso al circuito dell’accoglienza". Mauro Palma ha incontrato vari rappresentanti istituzionali della regione Liguria, in particolar modo la vice Presidente della Giunta regionale ligure Sonia Viale e il presidente del consiglio regionale Francesco Bruzzone dove ha avuto modo rappresentare le esigenze relative alla tutela del disagio mentale nelle istituzioni privative della libertà personale. Il Garante nazionale ha quindi raccomanda alla Regione Liguria di rendere funzionante con estrema urgenza la Rems provvisoria presso Villa Caterina a Genova, dando così attuazione alla Legge 31 marzo 2014, n. 81 e nel contempo portare a conclusione i lavori di allestimento della Rems di Calice in modo tale da renderla operativa nel più breve tempo possibile. Inoltre ha raccomandato di garantire, in accordo con l’Amministrazione penitenziaria, la presenza di una specifica sezione per la tutela della salute mentale delle persone ristrette negli Istituti del territorio, in linea con l’Accordo sancito dalla Conferenza Unificata Stato- Regioni in data 13 ottobre 2011 e sollecitare le aziende sanitarie locali della Regione a proporre all’Amministrazione penitenziaria dettagliati protocolli che impegnino entrambe le amministrazioni alla erogazione di servizi alla salute che corrispondano ai criteri internazionalmente riconosciuti per la loro funzione preventiva, educativa e di accesso alle cure. Sulle carceri della Liguria il giudizio non è positivo. Oltre al problema dell’elevato numero di detenuti con disagio mentale a cui non corrisponde un livello di accoglienza sanitaria all’altezza, ha riscontrato una scarsissima presenza di mediatori culturali che non garantisce una adeguata assistenza per abbattere la barriera linguistica e culturale nei confronti dei detenuti stranieri che risultano di elevato numero negli istituti penitenziari della Regione. Pertanto Mauro Palma raccomanda al Dap di attivarsi per garantire l’effettiva disponibilità di mediatori culturali all’interno degli Istituti, considerato che il vigente ordinamento professionale prevede tale figura, ma non risulta ancora bandito alcun concorso. Inoltre chiede al Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria di reperire e mettere a disposizione gli stanziamenti finanziari che consentano di garantire una presenza di mediatori culturali continuativa e strutturata. Si rivolge anche alle direzioni degli Istituti affinché si attivino per la stipulazione di accordi e convenzioni con Enti locali o associazioni per l’attivazione di servizi di mediazione culturale. La regione Liguria, tuttavia, offre un quadro positivo riguardante il terzo settore nell’ambito della giustizia e ottima collaborazione delle Istituzioni nei confronti della delegazione del Garante. "Ciò rende il Garante Nazionale - si legge nel rapporto - fiducioso della possibilità di proseguire un rapporto positivo e costruttivo". Vibo Valentia: detenuto tenta il suicidio, è in coma profondo in ospedale zoom24.it, 21 marzo 2017 Lotta tra la vita e la morte un detenuto di 44 anni di Lamezia Terme, F. B., che nel tardo pomeriggio di ieri ha tentato di impiccarsi nella sua cella all’interno del carcere di Vibo Valentia. Gli agenti della polizia penitenziaria lo hanno trovato agonizzante e, dopo i primi soccorsi, hanno provveduto ad allertare l’equipe del 118 e a trasferire il 44enne all’ospedale Jazzolino. L’uomo è giunto al Pronto soccorso poco dopo le 20 in codice rosso ed in gravissime condizioni. Il 44enne a causa della mancanza di ossigeno, provocato dal tentativo di impiccagione, ha riportato gravi danni al cervello e si trova in stato di coma Da quanto si è appreso da un paio di anni si trovava recluso all’interno della Casa circondariale di località Cocari. Roma: schizofrenico "scarcerato" resta in cella perché non ci sono strutture alternative di Francesco Salvatore La Repubblica, 21 marzo 2017 Il giudice lo scarcera perché schizofrenico ma non c’è posto nelle strutture di ricovero di tutta Italia ed è costretto a restare a Regina Coeli. Vittima del sistema tutt’altro che collaudato delle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza - le strutture che hanno sostituto gli ospedali psichiatrici - è un detenuto romano di 40 anni. Lunedì scorso il Gup lo ha rimesso in libertà a causa delle "gravi patologie di cui è affetto", un disturbo "schizo-affettivo di tipo bipolare", destinandolo al ricovero in una Rems. La richiesta, però, è rimasta lettera morta e Mario (nome di fantasia) sta ancora in carcere. "Si rappresenta che le Rems sul territorio nazionale comunicano indisponibilità di posti letto", riporta la lettera "urgente" del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, inviata all’ufficio gip del Tribunale, alla Procura e al direttore di Regina Coeli. L’avvertimento, per quest’ultimo, è chiaro: "Si raccomanda la scrupolosa osservanza delle disposizioni per la prevenzione dei suicidi e della tutela della vita dei detenuti". Il 40enne finisce in carcere ad ottobre per aver tentato di uccidere il suo migliore amico. I suoi difensori, gli avvocati Nino Marazzita e Daniele Bocciolini, notano che qualcosa non torna e nominano un consulente psichiatrico. Anche il Gup nomina un perito, che nell’arco di poche settimane arriva alla stessa conclusione. Ma per Mario alla cella non c’è alternativa. Parma: gli avvocati penalisti "ci è negato l’ingresso al padiglione del 41bis" La Repubblica, 21 marzo 2017 Una delegazione delle Camere penali ha riscontrato sovraffollamento e carenze di organico. Preoccupazione dei lettori per la presenza di un capomafia libero di muoversi all’interno dell’ospedale Maggiore. L’Ospedale: "Informata Procura e magistrato di sorveglianza". Gravi carenze per sovraffollamento, mancanza di attività trattamenti e di socialità e insufficienza del personale incluso quello medico e paramedico. Sono questi i rilievi riscontrati da una delegazione dell’Osservatorio carcere dell’Ucpi, l’Unione delle camere penali italiane, e della Camera penale di Parma (associazione degli avvocati penalisti) in seguito all’ultima visita nel penitenziario di via Burla. Ai delegati è stato vietato l’accesso al padiglione che accoglie in detenuti in regime di 41 bis: "Non avremmo avuto alcun contatto con i ristretti, ma avremmo voluto verificare le reali condizioni di detenzione - si legge in una nota. Vietarlo rappresenta un atto apertamente contrario a quella trasparenza più volte indicata da Ministro della Giustizia". Negli altri reparti si sono riscontrate gravi carenze: "Dalla visita a Parma, come da quella di altri istituti, si ha un quadro drammatico della situazione detentiva in Italia". Proprio la settimana scorsa il Garante dei detenuti Roberto cavalieri aveva criticato pubblicamente l’assegnazione di un doppio incarico al direttore del carcere di Parma Carlo Bedini, nominato rettore pro-tempore del penitenziario di Sollicciano. Nell’istituto di via Burla sono presenti sei sezioni di Alta sicurezza, una per detenuti appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso e cinque per detenuti condannati per reati associativi. Ci sono poi detenuti in 41 bis, membri della criminalità mafiosa, altri in media sicurezza. Ottanta gli ergastolani. L’ospedale del carcere conta 20 posti aperti a detenuti in grave stato di salute provenienti da altre strutture. A fronte di una capienza di 468 persone, sono 590 i detenuti oggi presenti. L’istituto di Parma è noto per aver ospitato negli ultimi anni detenuti del calibro criminale di Bernardo Provenzano (deceduto nel luglio dello scorso anno), Totò Riina e Massimo Carminati. La presenza di questi e di altri nomi di spicco della criminalità organizzata non manca di suscitare riflessioni e preoccupazioni per eventuali ricadute sul parmense. Lo scorso gennaio, ad esempio, è stato arrestato in un hotel a Parma il boss catanese Massimiliano Salvo, capo di un potente clan di Cosa Nostra e latitante dal 2015. L’uomo non pare avere legami con la città ducale se non per la presenza del padre ergastolano nel carcere di via Burla. Il boss in ospedale. Ha fatto discutere nei giorni scorsi un servizio delle "Iene" sulla detenzione ospedaliera, in regime domiciliare (quindi non nel reparto detenuti), dell’ergastolano Francesco Cannizzo ritenuto uomo di spicco del clan di Tortorici (Messina) dei Bontempo Scavo. Il 57enne, tetraplegico in seguito a un agguato subito nei primo anni Novanta, è stato condannato in via definitiva. Fino al 2018 è previsto che sia ristretto nel reparto di lungodegenza dell’ospedale Maggiore di Parma per poter seguire terapie riabilitative. Il servizio televisivo ha mostrato che Cannizzo può muoversi liberamente per i padiglioni, avere contatti con altre persone anche sconosciute e che in alcune occasioni, a sua detta, si sarebbe allontanato dal nosocomio per brevi tragitti. Diversi lettori hanno contattato Repubblica Parma dicendosi preoccupati per la sicurezza all’interno dell’ospedale. Non si tratterebbe solo di allarmismi, basti pensare che nel 2014 ai famigliari del detenuto è stata recapitata una testa di capretto mozzata con cartucce da caccia caricate a pallettoni. Non è ancora noto se l’amministrazione penitenziaria abbia preso provvedimenti in seguito alla trasmissione del programma il 15 marzo. Repubblica Parma ha chiesto all’Azienda ospedaliera se sia informata della vicenda, ecco la risposta della Direzione: "La direzione dell’Azienda è informata da parte dell’Autorità Giudiziaria e della Direzione degli Istituti penitenziari di tutti i detenuti che vengono ricoverati in ospedale, sia nella apposita sezione detentiva, quando in condizioni di restrizione personale, sia in normali reparti di degenza quando, in quest’ultimo caso, il Magistrato dispone per il regime di "detenzione domiciliare". La Direzione dell’ospedale è in continuo rapporto con l’autorità giudiziaria, in particolare il magistrato di sorveglianza, cui viene riferito ciascuna situazione e comportamento di pericolo o di inosservanza di norme e regolamenti interni. Va precisato che non tutti i regimi di detenzione domiciliare sono sovrapponibili: alcuni, infatti, comprendono determinate restrizioni rispetto ad altri. In caso di particolari regimi di detenzione domiciliare questi ultimi vengono comunicati dal Magistrato di Sorveglianza e trasmessi al Personale di reparto per gli opportuni adempimenti. Nel caso del detenuto in questione, la Direzione aveva informato la Procura della Repubblica e il magistrato di sorveglianza in ordine a comportamenti del detenuto, come segnalati dal personale sanitario in servizio. L’ambiente sanitario non è un ambiente di reclusione per cui le segnalazioni sulla sicurezza dei pazienti vengono subito inoltrate all’autorità giudiziaria per gli atti di pertinenza". Salerno: al carcere di Fuorni una sola infermiera, visite mediche bloccate di Petronilla Carillo Il Mattino, 21 marzo 2017 Detenuto malato, la famiglia da sette giorni in attesa di una copia della cartella clinica. Ha avuto una ischemia che gli ha danneggiato il cuore. Durante gli undici mesi di detenzione è stato sottoposto a diversi ricoveri e accertamenti diagnostici ma, secondo il direttore sanitario della Asl, responsabile anche dei servizi medici carcerari, le sue condizioni cliniche sono compatibili con il regime detentivo. La sua famiglia, però, ha paura per le sue condizioni di salute. Così ha chiesto al proprio legale, l’avvocato Stefania Pierro, di poter far visionare la sua cartella clinica ad un medico di fiducia. Ma, nonostante la richiesta già presentata da sette giorni, la cartella non è ancora stata duplicata. E questo perché il compito di fare la copia, per la direzione sanitaria, è dell’unica infermiera che lavora presso l’istituto penitenziario. Quindi la stessa o segue le terapie dei detenuti malati o svolge le pratiche amministrative. "Ci rendiamo conto della situazione - commenta l’avvocato Pierro - ma qui si parla della salute di un uomo di sessant’anni, malato e che ha avuto diversi ricoveri per una patologia cardiaca. Vogliamo solo far vedere le carte ad un nostro perito e fargli valutare la situazione. Ci sono già due casi di detenuti morti per problemi di salute". Il detenuto in questione è un ex dipendente del Comune di Castel San Giorgio, in carcere per un cumulo di pena. Il suo legale conosce soltanto la patologia, indicata nelle carte della direzione sanitaria nelle quali si dichiara la compatibilità del suo stato di salute con il regime carcerario. "Non conosciamo neanche il tipo di accertamenti che gli sono stati fatti e quale siano gli esiti", prosegue Stefania Pierro. Proprio la cardiologa dell’Asl, in servizio presso il penitenziario cittadino, è finita sotto inchiesta per la morte di un altro detenuto, Ivan Gentile, deceduto a 43 anni, secondo quanto scritto nella perizia medico legale richiesta dalla Procura di Salerno, per non essere stato sottoposto ad accertamenti specifici, essendo un cardiopatico. La stessa perizia evidenzierebbe delle negligenze da parte degli operatori in servizio presso il penitenziario cittadino che avrebbero omesso di effettuare accurati controlli medici in presenza di una sintomatologia, anche pregressa, che faceva pensare a problemi cardiaci. Solo esami specifici di laboratorio per la ricerca di enzimi cardiaci, ed un successivo ricovero presso il reparto di cardiologia dove il paziente sarebbe potuto essere monitorato, avrebbero potuto consentire la formulazione di una corretta diagnosi ed evitare, quindi, il decesso. Neanche a dirlo, l’avvocato di Gentile è sempre la Pierro. E c’è anche un altro caso che ha visto finire sotto inchiesta due medici in servizio al carcere: il decesso di Alessandro Landi, il 36enne salernitano morto la notte di Santo Stefano: nei giorni precedenti l’uomo avrebbe accusato dei malori che sarebbero stati sottovalutati. Alla Procura, in questi ultimi due casi, l’ultima parola. Pavia: al carcere di Torre del Gallo un Reparto per detenuti con problemi psichiatrici diocesi.pavia.it, 21 marzo 2017 Prevista una "corsia preferenziale" per accogliere e curare detenuti lombardi. Al carcere di Torre del Gallo, a Pavia, verrà presto attivata una struttura sanitaria per accogliere detenuti (provenienti anche da altri penitenziari) affetti da problemi psichiatrici. Una "corsia preferenziale" sarà riservata ai detenuti lombardi che hanno bisogno di essere curati. La notizia è stata data oggi, lunedì 20 marzo, a conclusione della visita alla casa circondariale pavese effettuata dalla Commissione speciale di Regione Lombardia sulla situazione carceraria guidata da Fabio Fanetti (Consigliere della Lista Maroni; nella foto la commissione che ha visitato il carcere). "C’era l’impegno per realizzare questo centro all’interno del carcere di Pavia e siamo lieti che l’obiettivo sia stato centrato, grazie all’impegno della direzione e del personale - ha sottolineato Fanetti. Riguardo al fatto che verrà privilegiata l’accoglienza di detenuti lombardi, non si tratta certo di una scelta dettata da ragioni campanilistiche: il recupero di questi detenuti e il loro reinserimento nella società al termine del periodo di carcerazione, risulterà senz’altro più semplice in un contesto più vicino alla realtà dalla quale provengono". Oggi sono 586 i detenuti del carcere di Torre del Gallo, tra "comuni" e "protetti": la metà sta scontando una condanna in via definitiva, gli altri sono ancora in attesa della sentenza finale. "Nel polo psichiatrico - ha spiegato Stefania D’Agostino, direttore del carcere di Pavia - verranno inizialmente accolti 4 detenuti, provenienti da altre case circondariali. Si tratta di detenuti che rientrano neo casi previsti dall’ex articolo 148 del codice penale, ovvero di incapacità sopravvenuta durante la detenzione. La struttura è stata allestita per arrivare ad ospitare, e curare, un massimo di 12 detenuti. Per far fronte a questo impegno assistenziale, c’è stato un incremento del personale sanitario; a livello medico siamo a posto, attendiamo ora che venga anche garantita la presenza di un infermiere durante la notte. Ringrazio la grande disponibilità della polizia penitenziaria e del personale del carcere, che ci permetterà di offrire questo servizio così importante". Verona: il carcere apre le porte alle imprese veronesi "qui c’è lavoro" Corriere di Verona, 21 marzo 2017 Il carcere apre le porte alle imprese. Tre giorni di incontri per creare sinergie e sviluppare una rete virtuosa che mira al reinserimento di chi ha sbagliato. Si chiama "Porte aperte al lavoro" ed è il progetto presentato ieri mattina dalla direttrice della casa circondariale di Montorio, Maria Grazia Bregoli. Da domani a venerdì, dalle 8 alle 15, legali rappresentanti, responsabili e chiunque avesse interesse a incontrare le realtà lavorative operanti all’interno del carcere veronese potranno toccare con mano l’esperienza veronese. Basta prenotarsi scrivendo una mail all’indirizzo cc.verona@giustizia.it. Grazie all’introduzione della legge Smuraglia, a Verona sono circa 160 i detenuti attualmente impegnati in attività lavorativa. Dai falegnami che danno nuova vita ai materiali di scarto con il progetto Reverse alle operaie tessili del progetto Quid (che vanta collaborazioni con aziende esterne), passando per i fornai impiegati nella gestione del forno realizzato con l’aiuto della cooperativa sociale Vita (e che rifornisce ogni mattina le mense scolastiche delle scuole primarie della città) e i calzolai della Pelletteria di Gastaldin. Senza dimenticare la "storica" cooperativa Lavoro e Futuro che in 12 anni di attività a Montorio ha assunto 603 matricole. Grazie al patronato Acli, inoltre, da tempo i detenuti possono usufruire di prestazioni per il riconoscimento dei loro diritti pensionistici, di invalidità o per ottenere il permesso di soggiorno e regolarizzare la propria permanenza in Italia una volta pagati i propri debiti con la giustizia. Acli ha creato una scheda di raccolta dati e ha adottato un database per i detenuti, utilizzato dal carcere, per permettere alle imprese di individuare le richieste e in modo che l’offerta di lavoro possa allo stesso tempo incontrare agevolmente la domanda. Lo stesso Provveditorato del Triveneto ha creato un database in modo che gli imprenditori possano recarsi nei vari istituti per incontrare direttamente la forza-lavoro, effettuare colloqui e provare concretamente la loro preparazione. Nel corso della presentazione di ieri mattina, inoltre, sono stati ricordati i vantaggi (sgravi contributivi e fiscali per le aziende che assumono detenuti) previsti dalla norma Smuraglia. Un incentivo in più per quegli imprenditori chiamati a un ruolo sempre più "sociale" all’interno della nuova società veronese. Da domani mattina, porte aperte a Montorio. Bollate (Mi): avvelenati dalle sigarette dei detenuti, gli agenti vincono la guerra salutista di Marco Galvani Il Giorno, 21 marzo 2017 Il Tar condanna il Ministero a installare impianti di aerazione. Gli agenti del carcere di Bollate vincono (in parte) la loro battaglia contro il fumo passivo: il ministero della Giustizia condannato a installare "adeguati impianti di aerazione nei locali destinati ai fumatori". La sentenza del Tar della Lombardia ha, invece, respinto la richiesta di risarcimento dei danni perché, secondo i giudici amministrativi, non basta "il generico riferimento alla privazione della serenità e tranquillità conseguente all’avere lavorato in un ambiente non salubre". Anche se, "restando sbigottiti, andremo davanti al Consiglio di Stato per sanare anche questo aspetto", promette Giuseppe Bolena, segretario regionale dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria). Perché nel carcere milanese di Bollate "fin dall’apertura nel 2002 c’è stato un problema legato al fumo passivo - ricostruisce il sindacalista - ma la direzione lo ha sempre sottovalutato". Sopralluoghi e diffide continue hanno convinto l’Amministrazione penitenziaria a firmare i primi ordini di servizio per mettere dei paletti. "Prima si fumava dappertutto nonostante la legge sui divieti fosse in vigore dal gennaio del 2005 e dovesse essere applicata, a maggior ragione, anche da tutte le amministrazioni dello Stato - continua Bolena. C’erano fumo e mozziconi di sigaretta dappertutto e soltanto nel maggio del 2014 la direzione ha iniziato a mettere dei cartelli di divieto di fumo (anche se non a norma di legge) "nei locali utilizzati da tutta la comunità carceraria, dagli uffici ai corridoi, dalle salette della socialità a tutti gli spazi chiusi dell’istituto", individuando anche i responsabili per i controlli". Qualcosa ha iniziato a muoversi ma con 9 anni di ritardo rispetto a quanto imposto dalla legge. E sono arrivate anche le prime multe: 112 fra il 2015 e il 2016, 3 ad agenti di polizia penitenziaria, 4 al cosiddetto personale civile (amministrativi, educatori, volontari, medici e infermieri), le altre ai detenuti. Loro possono fumare anche nelle celle. In ogni sezione dell’istituto, un quarto è abitata da fumatori. Ci sono anche locali appositi ma, come confermato dal Tar, "non sono a norma". "Come Bollate, nessun altro carcere italiano ha impianti di aerazione in stanze per i fumatori - chiarisce Bolena. Sarà un grosso problema metterli a norma tutti". E intanto, pur riconoscendo gli sforzi della direzione e il fatto che comunque nelle sue ispezioni semestrali l’Asl "non ha mai rilevato criticità legate al fumo e alla salubrità degli ambienti lavorativi", scrive il Tar, "noi continuiamo a respirare il fumo dei detenuti perché le celle sono aperte". Aspettando che l’Amministrazione penitenziaria rispetti la sentenza installando gli impianti per il ricambio dell’aria, "proseguiremo la nostra guerra fino al Consiglio di Stato". Rovigo: il carcere minorile trasloca in via Verdi? Opposizione di Ferrari e Crivellari di Giulia D’Argenio Corriere del Veneto, 21 marzo 2017 L’ipotesi di trasformare il penitenziario dismesso di via Verdi in carcere minorile, ex novo o attraverso il trasferimento della struttura di Treviso, desta perplessità. Livio Ferrari, consigliere comunale e figura di primo piano nel volontariato carcerario nazionale solleva il tema. "Chiederò lumi nel prossimo Consiglio - annuncia - il Comune non può essere tagliato fuori. La detenzione minorile è residuale e tale deve restare, per favorire la crescita della persona con l’affidamento ai Servizi sociali, in comunità, case-famiglia o con la messa alla prova". Sul punto Diego Crivellari ha già chiesto un incontro al ministro della Giustizia, Andrea Orlando. "Temiamo che la scelta possa intaccare il percorso del Tribunalone - osserva il deputato Pd. Il ministero ha prospettato questa ipotesi, ma chiederemo sia congelata". Tra gli ostacoli, la carenza di fondi per la ristrutturazione di via Verdi e il regolamento degli agenti penitenziari che impedisce trasferimenti oltre 50 chilometri dal posto di lavoro. Avellino: dalla lotta armata alla lotta per la libertà, la storia di Beppe Battaglia orticalab.it, 21 marzo 2017 "Dietro le sbarre di Bellizzi ho combattuto la mia resistenza". "Comunità di Servizio Sociale dei Detenuti" era il nome dell’associazione che, negli anno Ottanta, organizzò un laboratorio autogestito nel penitenziario avellinese, trasformato in luogo di sperimentazione di un processo che stravolgeva il concetto stesso di detenzione. Tra i soci vi era anche il Comune di Tufo che, sfruttando la legge Gozzini, sostenne la riabilitazione di alcuni membri del gruppo fondatore. "Nel 1985, tremila persone varcarono le soglie del penitenziario. Poi fui ammesso al lavoro esterno e quando uscivo mi sentivo a casa. Oggi dico che il carcere può e deve essere messo in discussione". "Ti faccio una premessa assolutamente necessaria: la memoria ha senso e valore solo ed esclusivamente quando ha una prospettiva, quando riesce, attingendo dal passato, a guardare al futuro". Giuseppe, o meglio Beppe, Battaglia ha lo sguardo determinato tanto quanto la voce: gli occhi scuri arrivano diretti insieme alle parole sul volto del suo interlocutore. Genova - La Spezia - Perugia - Alessandria - Torino - Reggio Emilia - Caltanissetta - Bologna - Imperia - San Remo - Savona - Volterra - Pisa - Sassari - Firenze - Porto Azzurro - Lecce - S. Maria Capua Vetere - Cuneo - Fossombrone - Favignana - Pianosa - Trani - Asinara - Novara Trapani - Avellino - San Giorgio del Sannio. È stato questo il mio labirinto, il mio scarabocchio geografico, la storia penitenziaria entro la quale ho trascorso venti anni della mia esistenza. Dal 1971 al 1991. Così riassume in uno dei suoi scritti - "Carcere e Cittadinanza" - gli anni che lo hanno visto passare da un istituto penitenziario all’altro e nel corso dei quali ha maturato un intimo percorso di "autocritica rispetto alla mia storia. Una storia che non potrei mai rinnegare perché è elemento costitutivo di ciò che sono. Io, oggi, non rinnego le ragioni sociali, ideali e morali sulle quali le mie scelte si fondarono: quel che metto in discussione, invece, sono i mezzi utilizzati per affermare quelle ragioni". Mezzi che lo piombarono in quello che Beppe definisce il suo girone infernale, la cui fase finale si sviluppo’, in ultima istanza, tra Cuneo, Novara e Avellino. "Eravamo una dozzina nel carcere di Bellizzi Irpino e venivamo tutti da esperienze di lotta armata. Fu ad Avellino che le mura perimetrali cominciarono, poco alla volta, ad abbassarsi, riducendo la distanza tra la nostra vita dentro ed il mondo esterno. Come dissi all’on. Garocchio, notabile della DC venuto a vedere il nostro lavoro in penitenziario, non eravamo né ridotti, né irriducibili: noi eravamo ridottissimi. Si sorprese di quello che aveva trovato a Bellizzi perché lo avevamo creato dal nulla, a differenza di quello che era stato fatto altrove, con altri compagni, cui erano stati dati mezzi per riempire il tempo vuoto del carcere. A condizione che accettassero di sconfessare il loro passato, con il loro conseguente annientamento. Questo non ha niente di educativo. Se un’autocritica deve esserci, deve essere un processo spontaneo, che parta da dentro". Beppe Battaglia militò nei Gruppi d’Azione Partigiana teorizzati da Giangiacomo Feltrinelli e dissoltisi nei primi anni Settanta: la sua storia personale, di militanza e scelte di campo, s’intreccia a doppio filo con quella collettiva dell’Italia degli Anni di Piombo. Nella Casa Circondariale di Avellino, Beppe portò a compimento un percorso intrapreso per riempire di senso il tempo della pena ed evitare di essere risucchiato dal nulla dell’attesa. Ci volle un po’ di tempo e una crisi esistenziale profonda, scrive Beppe Battaglia, prima d’individuare il nuovo campo di impegno che riuscisse a lasciarmi lo spazio per la necessaria resistenza quotidiana al carcere. Quel campo è il campo dei diritti dei detenuti che Beppe declina con un logica che sfida sottilmente il sistema, per mezzo d’un ragionamento ineccepibile. "Il prodotto del carcere è un prodotto di pessima qualità e non sono io a dirlo ma i numeri. All’inaugurazione di questo anno giudiziario, s’è parlato di otto detenuti su dieci che ritornano in carcere una volta scontata la pena senza alcuna forma di riabilitazione. La recidiva si abbatte a 2 su 10 quando si viene riaccompagnati fuori con un altro genere di percorsi". Percorsi come quelli che egli stesso, insieme ad altri compagni incontrati nel Carcere di Bellizzi, non solo teorizzò ma sperimentò direttamente, nel cuore degli anni Ottanta, in quella definisce come l’esperienza più edificante, all’insegna dell’impegno pienamente liberatorio nella sua accezione più ampia. "Il lavoro: il lavoro come strumento di emancipazione. Creammo un’associazione di volontari, detenuti e non, anima di un laboratorio autogestito che intrecciava situazioni di bisogno a vario livello. Realizzavamo oggetti di pelletteria dalla cui vendita ricavavamo fondi che venivano devoluti all’infanzia. In particolare sostenevamo due realtà che conoscevamo per mezzo di legami e relazioni trasversali: una comunità per minori in Perù, gestita da un medico italiano, e un’altra in Brasile che, fondata da due infermiere anch’esse italiane, si occupava dei ragazzi delle favelas. Sia chiaro: tutto questo non aveva nulla di filantropico. Ogni piatto di minestra che teneva per un giorno quei ragazzi lontani dai fucili, abbassava di un centimetro in più il muro del carcere per noi". L’obiettivo, dunque, era quello di accorciare la distanza con l’esterno e l’esperimento funzionò talmente tanto che tremila persone, nel 1985, varcarono, in tre giorni, la soglia del Carcere di Bellizzi per partecipare ad un convegno organizzato dalla "Comunità di Servizio Sociale dei Detenuti" creata da Beppe e dai suoi compagni. "Ricordo ancora un uomo piccolo, piccolo che venne a darci il suo appoggio per questa impresa dalla quale nessuno si sarebbe aspettato un simile risultato: quell’uomo era il sindaco di Solofra Aniello De Chiara che ci disse che sarebbe già stato un risultato portare qualche centinaio di persone all’iniziativa. Ebbene, coi soli francobolli fornitici dal carcere, noi ne muovemmo tremila. Quel convegno ebbe una tale eco che il direttore generale delle carceri, Nicolò Amato, ci comunicò perentoriamente che l’esperienza non avrebbe avuto repliche perché noi avevamo parlato il linguaggio della libertà mentre "il carcere deve fare paura". Ecco dov’è il punto. Il carcere conferisce alle persone un senso immotivato di sicurezza, per quel muro che separa quel che c’è dentro da loro che sono fuori. Non riescono a comprendere che quella fabbrica, che drena fiumi di denaro, non fa altro che restituirci prodotti di pessima qualità. Hai mai notato che quando un detenuto varca la soglia del penitenziario, l’inquadratura della telecamera stringe sempre sul portale di accesso principale? Eppure, mai una immagine che documenti il momento della liberazione: quel momento passa sempre per la porta carraia, quasi a sottolineare che quello in uscita è uno sorta di scarto". L’approccio olistico col quale Beppe guarda alla sua vita, un continuum che muove dal passato di lotta al presente di volontario che resiste al fianco dei detenuti, gli ha restituito nuove chiavi di lettura e nuovi strumenti attraverso cui mettere in discussione il mondo e le sue forme che, in quanto prodotti sociali e dunque umani, sono dimensioni discutibili e non immutabili. "Chi ha detto che il carcere non possa essere superato e che sia il solo modo per sanzionare le violazioni delle leggi che regolano l’esistenza comune? Il carcere è un prodotto moderno e non un elemento inveterato, ragion per cui nulla vieta che esso possa essere messo in discussione, anzi: oggi sarebbe quanto mai urgente e necessario aprire un dibattito serio sulla sua esistenza. Dentro, i detenuti imparano che chi viola le leggi resta impunito e non lo imparano dagli altri detenuti, no. Lo imparano da chi lì, in quei corridoi, rappresenta lo Stato. E sai la lezione che resta qual è? Che una volta fuori bisogna alzare l’asticella ché tanto si è finti in carcere perché non s’è delitto abbastanza". Questa storia che ha attraversato ed attraversa le carceri e le esistenze, propagandosi dalla vicenda di Beppe a quella di altri detenuti, s’è intrecciata a doppio filo con quella dell’Irpinia. "Il Comune di Tufo, quello del Sindaco Sandor Luongo, era socio della nostra associazione e fu uno dei primi, su stimolo di Michele D’Ambrosio, ad impegnarsi per l’applicazione della legge Gozzini". La 683/86 intendeva valorizzare l’aspetto rieducativo, contro quello punitivo, della pena carceraria, con l’introduzione di misure alternative alla detenzione. "Grazie a quella sperimentazione cominciai a fruire prima dell’articolo 21, ovvero l’ammissione al lavoro esterno, e poi del regime di semilibertà. In pratica uscivamo al mattino e tornavamo alla sera: l’amministrazione ci aveva messo a disposizione i terreni della cooperativa "Di Vittorio", dove si trovava un capannone del post-terromoto che doveva trovare nuova destinazione. Sfruttando anche i contenuti della legge 285/77, mettemmo su una serie di attività: la gestione del bosco ceduo, un piccolo maneggio e poi i laboratori di pelletteria. Dopo le prime diffidenze, Tufo ci avvolse in un abbraccio caldo e accogliente: io sapevo che, seppure un giorno fossi uscito senza una lira in tasca, avrei fumato, mangiato e bevuto ugualmente perché lì eravamo accolti come in una famiglia". In quel percorso Beppe portò a compimento la sua rivoluzione interiore e trovò un altro elemento costitutivo della sua identità. "Posso dirti che io mi sento come se avessi tre radici: la Calabria, dove sono nato; l’Irpinia, dove sono rinato; la Toscana, Firenze, dove oggi io vivo". Ma quella che cominciò a restituire Beppe alla libertà era un’altra Irpinia: una terra, una comunità ora spenta e confusa da un senso di smarrimento plasticamente percepibile. "Quando torno qui, oggi, sento come se qualcosa si sia rotto: quel calore, la capacità di accogliere che conobbi in quegli anni sono come sfumati. I ritorni oggi sono accompagnati da un certo senso di straniamento, una sorta di freddezza". Eppure, qui in Irpinia continua ha continuato a trovar senso e prospettiva la memoria dell’esperienza e dell’esistenza stessa di Beppe. "Quando cominciai a fare il volontario ad Eboli, conobbi un falegname che aveva la passione per l’aria: sì, amava volare. Lui mi insegnò a fare parapendio: una passione contagiosa che dovetti, però, abbandonare con gli anni. Dopo tempo che ero salito a Firenze, ricordo che Aurelio mi chiamò dicendomi di venir giù a volare ma io gli dissi che, oramai, non potevo più. E invece lui mi rispose che dovevo venire perché c’era riuscito: nel suo bugigattolo di falegnameria era riuscito a costruire un vero e proprio aereo. Non potevo crederci. Lo provammo e quando mi resi conto che davvero funzionava, decisi che se quel fenomeno era stato possibile in uno spazio tanto piccolo, non poteva non essere realizzabile all’interno di un carcere. E così è stato: con tre detenuti del carcere di Lauro, ammessi ad un progetto finanziato dalla Regione, nel quadro dei programmi nazionali per la lotta alle tossicodipendenze, abbiamo messo su un laboratorio a lungo sabotato dalle guardie. Eppure, nonostante tutto, ci siamo riusciti: abbiamo costruito l’areo, che è stato esposto anche all’Expo di Milano. Si chiamava, e si chiama, Le ali della libertà". Quelle che riescono a superare i muri e a restituire a tutti la dignità. Roma: bambini fuori dal carcere grazie alla Casa di Leda di Chiara Carli maternita.it, 21 marzo 2017 Quello de La Casa di Leda è un progetto che dovrebbe prendere il via proprio in questo periodo, che si pone l’obiettivo di far uscire dal carcere i figli di donne detenute che hanno commesso reati non gravi, perché i bambini da 0 a 3 anni possano crescere in un ambiente che sia il più normale possibile. Quello dei bambini rinchiusi in prigione insieme alle madri detenute coinvolge circa quaranta minori sparsi per tutte le carceri d’Italia, quasi tutti figli di donne di etnia rom che, non avendo fissa dimora, non sono idonee ad ottenere gli arresti domiciliari. Anche se alcuni di questi istituti dispongono di strutture denominate Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri), esse fanno comunque capo all’amministrazione penitenziaria e ne seguono le restrizioni. La Casa di Leda, intitolata a Leda Colombini, che si è sempre battuta attivamente per i diritti delle donne, è in tutto e per tutto uguale a una normale abitazione civile, con otto stanze e un giardino privato che consentirà ai piccoli ospiti di stare all’aria aperta. Una Casa Famiglia Protetta, come è indicato nel decreto attuativo della legge n. 62 del 21 aprile 2011. L’edificio, confiscato alla mafia, potrà ospitare sei donne che hanno commesso reati poco gravi, insieme ai loro bambini; donne che sono già state individuate e che dovrebbero trasferirvisi a breve. I costi di mantenimento saranno sostenuti in parte dal comune di Roma, che pagherà le utenze, e in parte dalla Fondazione Poste Insieme, che ne finanzierà le attività. Gli arredi, invece, sono stati donati da Ikea. Gioia Passarelli, presidente dell’associazione A Roma Insieme, che gestirà la struttura, non nasconde la propria soddisfazione per il raggiungimento di un traguardo così importante. Un passo avanti, anche se piccolo, verso un miglioramento delle condizioni in cui vivono questi bambini, che "non devono scontare i reati commessi dalle mamme" e hanno diritto di crescere da persone libere, senza venire separati dalle genitrici. Milano: "In nome del padre", il progetto nelle carceri di San Vittore e Opera omune.milano.it, 21 marzo 2017 Scritture autobiografiche tra papà detenuti e papà volontari. Milano, via Camporgnago, 40 (Teatro del carcere di Opera), 27 marzo 2017 - dalle 9.30 alle 13. Da anni ormai si parla a vari livelli, con differenti prospettive e profondità, della crisi della figura paterna. Un’ampia discussione che comprende temi fondanti quali l’autorevolezza, la credibilità, la cura, in poche parole la funzione educativa del genitore di sesso maschile. Negli Istituti di pena che racchiudono prevalentemente uomini di molteplici culture e religioni la riflessione sul ruolo si padre assume una significativa valenza trattamentale. L’associazione Verso Itaca Onlus, forte di una competenza sulla scrittura di sé maturata in un lungo e denso percorso di formazione presso la Libera Università di Anghiari - Lua, fondata e presieduta dal prof. Duccio Demetrio, che ha pensato a questo progetto per offrire uno spazio di riflessione e scambio tra papà detenuti e papà volontari, da sperimentarsi in cinque Istituti di pena tra lo molto differenti: a Milano San Vittore e Opera, Verona, Parma e Modena. Grazie dunque alla sensibilità dei direttori delle carceri (dott.ssa Gloria Manzelli della Casa circondariale di San Vittore e dott. Giacinto Siciliano della Casa di reclusione di Opera), il progetto ha potuto avviarsi alle fine del 2015 riuscendo a coinvolgere enti e associazioni di volontariato operanti negli stessi Istituti di pena in una virtuale catena di collaborazione e amicizia. In particolare Progetto Ekotonos a San Vittore e la Camera del Lavoro di Milano a Opera. Più di un centinaio di uomini, di cui un’ottantina di papà reclusi e una trentina di papà volontari, hanno scritto sul proprio essere padri e figli, sui propri figli e sui propri papà, sulla scelta di dire o non dire la verità ai propri cari, sulla cura, sul futuro. Altrettanti i familiari coinvolti nei cinque momenti conclusivi e circa 200 i cittadini che sono entrati nei vari Istituti di pena per partecipare ai reading. Più di 700 gli scritti prodotti per creare un piccolo archivio di frammenti di vita. Bel oltre la riflessione su momenti e situazioni legati alla storia personale, ben oltre la produzione di testi emotivamente ricchi e interessanti, il risultato più significativo, fin qui raggiunto è stato l’incontro profondo e autentico tra persone molto differenti per età, formazione, cultura, provenienza geografica e percorsi umani. La sorpresa che si è moltiplicata lungo la strada di sentirsi diversi e profondamente simili nella propria umanità. Concetto facile a intuirsi a livello cognitivo e intellettuale, ma molto più forte e generativo quando può essere sentito a livello emozionale ed esperienziale. Programma Introduce: Giacinto Siciliano, direttore di Opera Raccontano il progetto: Carla Chiappini e Laura Gaggini Intervengono Duccio Demetrio Fondatore e Direttore Scientifico della LUA don Gino Rigoldi Cappellano dell’IPM Beccaria e di Comunità Nuova Roberto Vecchioni Artista, cantautore e autore del libro "La vita che si ama" Conclude Luigi Pagano Provveditore alle carceri di Lombardia, Piemonte e Liguria Coordina i lavori Corrado Mandreoli Segretario della Camera del Lavoro Milano Sarà presente il Sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore Partecipano con letture di testi autobiografici i papà detenuti e i papà volontari. Ringraziamenti: Fondazione Cattolica e Società Axing. Napoli: "Le porte di casa", uno scrittore entra nel carcere di Secondigliano di Paolo Tricoli linkabile.it, 21 marzo 2017 Le porte di casa, le porte delle nostre stanze, le apriamo e le chiudiamo ogni giorno. Sono gesti consueti, quotidiani, irrilevanti. Poi capita di imbattersi in porte di ferro che si aprono davanti a noi e si chiudono dietro di noi per mano di altri. Le prime hanno la familiarità, il colore e la morbidezza del legno. Le seconde hanno la freddezza, le screpolature e la rumorosità del ferro. È questa la prima immediata sensazione che ho avvertito durante la breve esperienza vissuta venerdì scorso presso la Casa Circondariale di Secondigliano. Un’esperienza che trae origine dalla curiosa idea di scrivere un libro alla non più tenera età di 64 anni. Questa singolare avventura che ha incontrato il favore di diversi lettori (molti amici, lo confesso) ha fatto sì che mi imbattessi per la prima volta nella mia vita in Samuele Ciambriello, docente universitario, direttore editoriale, sociologo, uomo politico nel senso stretto e ampio del termine e molte altre cose ancora, anche se ritengo che qualsiasi definizione lo limiti e tra l’altro lo lasci indifferente. Questo libro che si intitola "Informazioni sulla vita e sulla morte del povero Vincenzo" ed. New Book - Rovereto (Tn) che Samuele ha avuto l’ardire di presentare al pubblico presso la Libreria Mondadori al Vomero Alto nel gennaio dello scorso anno è stata l’occasione di rincontrarlo pochi giorni fa nella veste, che forse gli è più cara, di Presidente e animatore dell’Associazione La Mansarda che si propone di stimolare le persone sottoposte a detenzione alla lettura perché "la lettura oltre ad un impegno intelligente del tempo, fa diminuire le distanze tra le persone e le stesse diseguaglianze. Una persona che legge, è più ricca rispetto ad una persona che non legge e non utilizza la conoscenza. Un modo, un piacere, una fonte di idee, riflessioni, pensieri, perché i detenuti riescano a comprendere l’importanza della lettura, ad amarla e considerarla un tesoro da scoprire". Dunque Samuele un anno dopo il nostro primo incontro mi ha invitato a parlare con un gruppo di detenuti del mio libro. Si tratta di un giallo ambientato a Napoli che è la mia città e lo è stata per 23 anni, da quaranta non lo è più. Vivo la realtà di una piccola e bella città del Trentino ma ogni tanto, attirato dalle origini e dagli affetti familiari, torno; sempre con un pizzico di emozione in più. Questa volta l’emozione si è fatta trepidazione, non lo posso negare. Non ero mai entrato in un carcere. Sebbene fossi accompagnato oltre che da Samuele Ciambriello da una serie di giovani volontarie dell’Associazione che con l’allegria della loro età proponevano un’immagine di normalità, sentivo l’inquietudine di oltrepassare un confine. Ho sempre pensato che la detenzione sia per un individuo come una sospensione del tempo. Il vivere in una dimensione astratta, innaturale. Come ho detto all’inizio è proprio l’attraversare quelle soglie di ferro che scandisce la differenza, così come quel rumore cupo e battente dei cancelli, dei chiavistelli, quell’entrare in un mondo fatto di regole sue, di disciplina, di continuo adattamento a situazioni sempre uguali a se stesse ma sempre nuove. Credo sia impossibile vivere quelle giornate come un tempo comune. Ho attraversato estesi corridoi segnati da strisce colorate lungo i muri che indicano i vari reparti così come "fuori" i nomi di persone, di fatti, di luoghi indicano le strade delle città; ho visto pareti tappezzate di murales "fatti in casa" colorati di allegra semplicità, ho visto riprodotta l’Amerigo Vespucci una nave scuola, forse il massimo simbolo della libertà, la libertà che da sempre associamo al mare. Ed in questo mondo "diverso" ho incontrato un gruppo di persone in detenzione chi provvisoria chi perenne. Samuele aveva dato loro qualche giorno prima un certo numero di copie del mio libro affinché lo leggessero e così ne potessimo parlare insieme. Proprio così: "parlare insieme". Perché "parlare" è il bisogno primario che ogni membro di quelle collettività dovrebbe poter soddisfare, parlare di un libro, anche un semplice libro come il mio serve a raccontare, più o meno consapevolmente, se stessi, a "farti uscire". E quella che per me è stata la soddisfazione di un piacere simile ad un gioco, quale scrivere un racconto, si è trasformata nell’emozione di sentirne "parlare", di verificare che persone che non ho mai visto, non ho mai conosciuto, che vivono una realtà così estrema abbiano letto le parole che io ho scritto, e si siano calate nei panni di Antonio, di Amalia, di Vincenzo e degli altri protagonisti anche minori di una storia inventata, abbiano vissuto per qualche ora, e dunque per sempre, un’altra vita (che altro è il leggere, se non questo?) mi ha commosso intensamente. Non credo si possa usare altro verbo. Ed è stato inevitabile alla fine discutere, nei pochi minuti rimasti a disposizione, oltre che dei personaggi anche della nostra città che è quasi persona essa stessa nel libro. Avevo uomini davanti a me con esperienza di vita indubbiamente diversa dalla mia eppure c’eravamo mossi per molti anni, sulle stesse strade, sullo stesso palcoscenico quello di una città abusata, esaltata, meschina, superba, ognuno ne aveva tratto il meglio e il peggio, eppure tutti ce ne sentivamo figli. Molti mi hanno detto che quella città che intravvedevano nel mio libro non esisteva più, che quella solidarietà che scaturiva dai vicoli, dalle piccole botteghe, dai cortili di quei palazzi ammuffiti e scrostati, era figlia del mio ricordo lontano; parole amare che forse servivano ad attenuare il dolore di un forzato distacco o forse no. Sembravano riecheggiare i versi di Munasterio ‘e Santa Chiara, celebre quanto amara canzone dell’ultimo dopoguerra. Ma quando poi la separazione fisica con l’uditorio si è sciolta, e le distanze si sono annullate, e le ultime parole si sono fatte capannelli, e si sono firmati autografi e si sono strette mani, uno dei presenti mi si è avvicinato timidamente dicendomi "non è vero, dottò, questa città è ancora come quella del suo libro, la gente si vuole ancora bene, nonostante tutto". Proprio così: nonostante tutto e nonostante tutto è stato un incontro tra uomini con vissuti diversi ma comunque liberi di leggere e dunque desiderosi di pensare, di credere e di sperare. Busto Arsizio: i detenuti escono dal carcere per una sera e diventano attori Il Giorno, 21 marzo 2017 Il 6 aprile va in scena al Teatro Sociale uno spettacolo in cui recitano degli attori molto particolari: i carcerati. In programma "Pirandello remix". Per il Microfestival Incontri calcheranno il palcoscenico i detenuti del carcere di Busto Arsizio, in programma lo spettacolo "Pirandello remix" per la regia di Elisa Carnelli. Si tratta di un evento eccezionale che ha visto la partecipazione degli studenti delle scuole superiori del territorio. L’evento è aperto a tutti, meglio prenotare inviando una email a obloteatro@gmail.com. Inizio spettacolo alle 20,30. Ingresso con contributo (contributo suggerito di 10 euro), a sostegno del progetto. L’articolo 27 della nostra Costituzione recita: "le pene devono tendere alla rieducazione del condannato", in questa logica si è realizzato lo spettacolo del 6 di aprile. Statisticamente la recidiva, il ritorno al crimine, nei detenuti che si dedicano al teatro, si abbassa del 6% rispetto al quasi 70% di ritorno al crimine per ex carcerati che teatro non fanno. I dati sono quelli dell’Istituto Superiore di Studi Penitenziari. Il tasso di recidiva fra i detenuti in Italia (55.000) arriva al 70%. Per chi svolge un lavoro in carcere il tasso scende al 19% e su un centinaio di Laboratori teatrali in carcere, la recidiva per chi li frequenta si abbassa al 6%. L’esperienza teatrale, infatti, quando è guidata da una corretta metodologia artistica, crea una situazione pedagogica positiva, arricchendo la cura e la stima della persona, la propria salute mentale e corporea, la propria esperienza cognitiva. Recitare un testo teatrale offre un doppio sostegno a chi è in una cella a scontare la propria pena, permette il libero flusso di emozioni e sentimenti rimossi e repressi dalla contenzione carceraria e spinge alla cooperazione, alla solidarietà, allo scambio con gli altri. Il mondo teatrale è entrato in carcere grazie ad Armando Punzo che nel 1988 iniziò l’esperienza della Compagnia della Fortezza nella Casa di Reclusione di Volterra con laboratori, spettacoli e attività teatrali con i detenuti, i quali hanno dato il via ad un moltiplicarsi di iniziative un po’ dappertutto con presupposti, scopi e metodologie molto diverse. Negli ultimi dieci anni il teatro in carcere ha assunto un peso rilevante, arrivando a toccare molte città, fino a Busto Arsizio. Durante la serata sarà presentato il reportage di Michela Chimenti sul teatro in carcere. Livorno: "Ulisse", un futuro oltre le sbarre. La sfida di 12 cani: salvare i detenuti di Irene Cicora La Nazione, 21 marzo 2017 L’associazione DoReMiao con il Rotary Club e la Fondazione Livorno. Oltre il reato ci sono persone che ritrovano lo stimolo per sorridere e pensare un futuro oltre le sbarre del carcere. E questo grazie alla mediazione di un team composto da 12 cani, addestrati e formati dai volontari dell’associazione livornese DoReMiao. Sono una decina i detenuti coinvolti nel progetto "Ulisse", che ha preso avvio nel carcere delle Sughere. Un macrocosmo fatto di rapporti interpersonali complessi, dove ogni lunedì si compie un piccolo miracolo. "Nelle due ore che passiamo all’aperto con i carcerati, cogliamo sfumature di serenità che vanno oltre il motivo per il quale la persona è reclusa - spiega Barbara Bellettini, presidente di DoReMiao. Il detenuto acquisisce competenze nella gestione ordinaria dell’animale che potrà spendere una volta fuori dal carcere lavorando in canili e rifugi o come dog sitter. Al termine viene rilasciato un certificato". Patrizia Critti, funzionario dell’area giuridico pedagogica del carcere, ha sottolineato come "l’attività del progetto Ulisse vada a incidere sull’aspetto umano e relazionale dei detenuti coinvolti, i quali traggono benefici anche dal lato dell’affettività". Il progetto è stato realizzato grazie al sostegno di Rotary club Livorno e Fondazione Livorno, insieme a FrontLine. "I carcerati e le loro famiglie sono in una situazione di debolezza - ha detto il presidente Rotary, Augusto Parodi, il cui amato cane ha dato il nome al progetto di pet therapy. Ecco perché Ulisse è stato finanziato per più anni e potrà essere sviluppato in continuità nel tempo". Oltre al ciclo di incontri settimanali c’è un’altra area di intervento: l’accompagnamento e la mediazione negli incontri con i minori in visita. "Saremo a disposizione con i nostri cani - ha aggiunto la Bellettini - nell’attesa dell’incontro con il genitore in carcere e poi accompagnando i bambini all’uscita". "Tutti i progetti che sosteniamo - ha detto Marcello Murziani, vicepresidente di Fondazione Livorno - tendono a colmare situazioni di mancanza. Il progetto Ulisse vuole essere d’aiuto ai detenuti per il reinserimento nella società". L’attività si concentra nella sezione media sicurezza, di cui è responsabile l’ispettore Vanni: "Mai visto in 20 anni niente di più efficace, che colpisce il detenuto nel profondo. Un’iniziativa che piace anche al personale e che ha assunto caratteristiche di ritualità. Cercheremo di aumentare i detenuti coinvolti, con attenzione a più giovani". "Ciascun detenuto è un Ulisse che lotta per tornare a casa", ha concluso dando un’interpretazione affascinante il dottor Marco Melosi, presidente dell’ordine dei veterinari. Enna: Festa del papà, 8 detenuti condividono il pranzo con le famiglie grazie a Soroptmist ennapress.it, 21 marzo 2017 Otto detenuti e le loro famiglie hanno potuto trascorrere un momento di condivisione familiare pranzando assieme, nella sala polivalente della Casa Circondariale "L. Bodenza" per festeggiare così la Festa del Papà. L’iniziativa, promossa dal Soroptimist club di Enna e accolta dalla direzione del Carcere, ha permesso un momento di familiarità agli ospiti, nell’ambito delle iniziative tese a favorire il rapporto detenuti-famiglia con particolare attenzione alla genitorialità " Abbiamo, da sempre, attenzione all’accoglienza delle famiglie - dice il direttore della Casa Circondariale, Letizia Bellelli - Questo si concreta in un ambiente decoroso dove svolgere i colloqui che vogliamo siano quanto più sereni possibili ". Prima di consumare il pranzo tutti assieme, il Vescovo della Diocesi di Piazza Armerina, monsignor Rosario Gisana, ha benedetto la tavola e i partecipanti ricordando l’importanza della famiglia cristiana. "Voglio ringraziare la direttrice del Carcere che, insieme a Cettina Rampello, responsabile dell’Area Trattamentale, ci hanno permesso di realizzare questo progetto, reso possibile con la collaborazione di tutte le socie e di tutto il personale del Corpo di Polizia Penitenziaria, in testa il comandante Marco Pulejo" dice la presidente del Soroptimist, Sandra Mingrino, un club internazionale di donne che in tutto il mondo svolgono una professione e un lavoro che mettono a disposizione della società per realizzare insieme progetti e attività finalizzate a costruire pari opportunità per le donne, i giovani e tutti coloro che per motivi culturali, economici, sociali si trovano in difficoltà e svantaggio. "Con questa iniziativa abbiamo voluto celebrare la famiglia. In un luogo di disagio e di sofferenza come è il carcere, ma anche di separazione fisica, la famiglia, come valore, assume ancora più importanza, specie nell’ottica del processo di riabilitazione e di riappropriazione del ruolo genitoriale". Campi di accoglienza in Libia per fermare i migranti di Grazia Longo La Stampa, 21 marzo 2017 L’intesa siglata a Roma durante il summit Europa-Africa alla presenza del premier Sarraj. Da maggio pattugliamenti nel Mediterraneo con motovedette italiane e personale di Tripoli. Con la bella stagione alle porte, sono già 23.000 circa i migranti sbarcati in Italia nel 2017, circa il 40% in più rispetto allo stesso periodo del 2016, che alla fine fece registrare il record, con 181mila arrivi. Due appuntamenti - uno operativo, l’altro programmatico - emergono dal Gruppo di contatto Europa-Africa settentrionale, presieduto ieri a Roma dal ministro dell’Interno, Marco Minniti. Entro i primi giorni di maggio, le coste libiche cominceranno ad essere presidiate da 10 motovedette (che l’Italia consegnerà restaurate, dopo averle ritirate nel 2011), sulle quali lavoreranno 90 libici formati dalla nostra guardia costiera. E contemporaneamente si creeranno sul luogo dei "campi di intrattenimento", supervisionati dalle organizzazioni umanitarie e l’Uhncr. Mentre entro la prima settimana di giugno, a Tunisi, si svolgerà il secondo appuntamento del Gruppo di contatto. A conferma che l’incontro di ieri è stato "molto fruttuoso", come lo definisce il titolare del Viminale. Il quale ribadisce, inoltre, "l’importanza della stabilità della Libia anche nell’affrontare l’emergenza dei flussi migratori". L’interlocutore principale resta il premier riconosciuto dall’Onu, Fayez Al Sarraj, intervenuto ieri al summit insieme al nostro presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. Ma non si tralascia neppure il dialogo con il generale Khalifa Haftar, a Tobruk, nell’Est del Paese, che preoccupa per l’intesa con il presidente russo Vladimir Putin. Il viceministro degli Esteri Mario Giro ribadisce che "confrontarsi con Haftar è un modo per rafforzare il processo di ricostruzione dello Stato libico". Contatti con Haftar sono stati avviati dalla nostra ambasciata, mentre il ministro Minniti ha incontrato i sindaci delle regioni del Sud della Libia. Il traffico di esseri umani e la minaccia del terrorismo islamico sono gli aspetti prioritari che vanno "governati" in Libia, ponte desertico tra Europa e Africa. E l’Italia si pone come guida tra i Paesi europei e quelli del Nord Africa. "Nel momento in cui le autorità libiche faranno il servizio di ricerca e soccorso nelle loro acque - osserva il ministro Minniti - riporteranno i migranti in campi di accoglienza fatti insieme alle organizzazioni umanitarie e nel pieno rispetto dei diritti umani: questo è incancellabile". Ma è chiaro che, nonostante gli intenti, non mancano le insidie. Il premier Gentiloni sottolinea che il fenomeno dei flussi migratori, "non si esaurirà d’incanto dall’oggi al domani. Chi promette miracoli rischia di confondere la nostra opinione pubblica". E "l’Ue deve insieme farsi carico dell’impegno sia dell’accoglienza di chi ha diritto sia del rimpatrio per chi non ha diritto". Quest’anno si registra un’impennata: siamo già sopra quota 20 mila, contro le 13 mila dello stesso periodo del 2016, anno record. Problema che ora l’Italia affronta insieme a e Paesi europei (Austria, Francia, Germania, Malta, Slovenia e Svizzera) e due africani (Libia e Tunisia, mentre l’Algeria si è sfilata all’ultimo momento). Migranti. Dal Viminale un piano per accogliere 200 mila persone di Alfredo Marsala Il Manifesto, 21 marzo 2017 Nelle informative dei servizi raccolte in un dossier a disposizione di alcuni ministri si stima che quest’anno saranno 250 mila i migranti che potrebbero raggiungere il nostro Paese, 70 mila in più rispetto all’anno scorso. Nei primi due mesi dell’anno gli arrivi sono stati 15.844, il 74% in più rispetto allo stesso periodo del 2016, diventato l’anno record per l’arrivo di stranieri via mare: 181mila. Gli archivi del dicastero però vengono aggiornati di ora in ora, per via dei flussi di questi ultimi giorni ripresi in massa grazie al miglioramento delle condizioni meteo-marine. Dalle coste libiche, secondo le Ong, sarebbero in partenza migliaia e migliaia di profughi. Così in appena due settimane il dato è salito a oltre 21 mila sbarchi, il 40% in più rispetto ai primi tre mesi dell’anno scorso. Solo ieri sono approdati da Augusta, a bordo della nave Dattilo, 1.477 persone, soccorse in sette distinte operazioni: 747 migranti si trovavano a bordo di un barcone, 82 su una imbarcazione più piccola e gli altri su cinque gommoni. Oggi è previsto nel porto di Catania l’arrivo della nave Aquarius di Sos Mediterranee, che opera in partnership con Medici senza Frontiere, con a bordo 946 persone, soccorse lo scorso week-end mentre si trovavano in sette gommoni e due imbarcazioni di legno al largo delle coste libiche. Due giorni fa le operazioni di soccorso in mare sono state ben 22, con 3.300 persone salvate. Numeri impressionanti. I minori non accompagnati sono già 2.200, l’anno scorso furono 25mila. Messa a dura prova la macchina dell’accoglienza, che sta gestendo 174mila persone, la maggior parte, 136mila, in strutture temporanee. È la Lombardia a ospitare il numero più alto di profughi, 23.408, pari al 13% del totale, seguita da Campania con 14.870, Lazio con 14.646 e Piemonte con 14.030. Il Viminale ha predisposto un piano di accoglienza per 200mila persone, che andrebbe aggiornato nel caso fossero confermate le previsioni. I comuni che ospitano sono 2.800 e l’obiettivo di ministero e dell’associazione nazionale dei comuni è di aumentarli, favorendo l’accoglienza diffusa, con piccoli numeri, più facilmente gestibili. La relocation, che avrebbe dovuto dare un po’ di respiro all’Italia, stenta ancora a decollare anche se qualcosa si sta muovendo. Ad oggi sono 4.170 i richiedenti asilo trasferiti in altri Paesi europei secondo il piano della Commissione che però prevedeva 40mila ricollocamenti dall’Italia in due anni. Anche il piano sui nuovi hotspot, concordato da Roma con Bruxelles, va avanti tra resistenze e contraddizioni. "Non daremo né ci è stato chiesto il consenso per realizzare un hotspot", avverte il sindaco Leoluca Orlando. "Noi abbiamo affrontato, e le carte dicono questo, il tema di come evitare le lunghe soste dei migranti sul ponte delle navi al freddo o al caldo e sulle banchine - precisa - Abbiamo dato la disponibilità ad attrezzare un’area complementare rispetto all’attività che viene al momento svolta nel commissariato San Lorenzo". Eppure il capo del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno, Gerarda Pantalone, pochi giorni fa ha riferito in commissione migranti che, tramontata l’ipotesi di creare un hotspot a Mineo (Catania), altre strutture per l’identificazione e la prima accoglienza dei migranti, volute dalla commissione europea, apriranno in Sicilia, Calabria e Sardegna. Attualmente, ha ricordato Pantalone, sono attivi 4 hotspot a Lampedusa, Pozzallo, Trapani e Taranto. Si stanno svolgendo lavori per aprirne altri due entro giugno nella caserma Gasparro di Messina e in un’area messa a disposizione dall’Agenzia per i beni confiscati alle mafie, proprio a Palermo. Anche in Calabria sono in corso contatti con le istituzioni per aprirne tre entro ottobre-novembre a Corigliano Calabro (400 posti), Crotone (800) e Reggio Calabria (400). Infine, per la Sardegna si pensa a hotspot mobili che possono essere trasferiti nei diversi porti dove approdano le navi. A Palermo, intanto, si è concluso ieri con una condanna il processo, in abbreviato, per due cittadini, uno del Mali e uno della Guinea. Secondo la Procura tenevano i contatti con una organizzazione criminale che, dall’Africa, gestiva i viaggi verso le coste siciliane, mettevano in contatto gli extracomunitari con i familiari già emigrati, riscuotevano il denaro incassato coi viaggi nel canale di Sicilia e curavano la permanenza in Italia dei connazionali. Tra i viaggi organizzati dalla banda criminale anche quello del febbraio 2015 in cui persero la vita 300 persone. Solo 29 cadaveri vennero recuperati. Migranti. L’allarme del Garante: "Senza accordi chiari non scattano i rimpatri" Corriere della Sera, 21 marzo 2017 Un poliziotto in testa a un gruppo di migranti appena sbarcati ad Augusta dopo essere stati soccorsi dalla Guardia di Finanza al largo delle coste libiche è uno dei più densi e attuali, e fornisce le cifre di un’emergenza sempre più ardua. La competenza dell’ufficio guidato dall’ex presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura Mauro Palma si spinge fino al controllo sui voli di linea o charter con i quali gli irregolari vengono riaccompagnati nel Paese d’origine: una particolare classifica, fatta di numeri esigui, guidata da tunisini (1.268 nel 2016), seguiti a distanza da 691 egiziani, 329 marocchini, 169 nigeriani, 107 albanesi e via di seguito. Tra i cosiddetti clandestini destinati all’espulsione ci sono anche gli ex detenuti entrati in carcere mentre avevano il permesso di soggiorno, scaduto durante la permanenza dietro le sbarre. Il Garante segnala questa situazione alla voce "rendere fruibili i servizi della Pubblica amministrazione" anche in prigione, nella quale si spiega che "troppo spesso gli istituti di pena sono luoghi in cui le persone entrano regolari ed escono irregolari, prive di documenti, codici fiscali, permessi di soggiorno". Quanto agli hotspot, cioè le quattro aree in cui i migranti vengono rinchiusi al loro arrivo (a Lampedusa, Pozzallo, Trapani e Taranto), la Relazione segnala che "risultano una sorta di limbo giuridico", senza la garanzia di alcun controllo del giudice, come invece accade nei Centri di prima accoglienza e nei Cie. "Il trattenimento negli hotspot, le modalità, la durata non sono sottoposti al vaglio dell’autorità giudiziaria, nonostante si tratti di una misura che incide sulla libertà personale dell’individuo", e questo potrebbe contrastare con la Costituzione che impone un provvedimento del magistrato per ogni forma di restrizione. In queste aree bisognerebbe rimanere il tempo minimo indispensabile per effettuare i controlli sanitari. I Cie - La creazione dei nuovi Centri di permanenza e rimpatrio voluti dal governo che sostituiranno i vecchi Cie, i Centri di identificazione e espulsione, non è ancora divenuta realtà, ma il Garante nazionale dei detenuti avverte: "Rimane il dubbio che in mancanza di accordi di riammissione con i Paesi terzi, la percentuale dei rimpatri sul totale dei provvedimenti di espulsione possa aumentare in modo consistente rispetto all’attuale valore; nei primi nove mesi del 2016, dei 3.737 cittadini stranieri rimpatriati dall’Italia, solo uno su quattro proveniva da un Cie. Molti rimpatri, infatti, sono stati eseguiti direttamente dagli hotspot (cioè i luoghi di prima accoglienza, dove i richiedenti asilo vengono separati dagli irregolari ndr), sotto forma di respingimenti". Così si legge nella prima Relazione al Parlamento del nuovo ufficio istituito a protezione "dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale", quindi anche dei migranti trattenuti in attesa di decidere il loro destino, che sarà presentata oggi alla Camera dei deputati. Il capitolo intitolato "migrazione e libertà". I Centri di identificazione e espulsione (Cie), prima chiamati centri di permanenza temporanea (Cpt), sono stati istituiti con la legge Turco-Napolitano nel 1998. Lo scorso febbraio il governo ha deciso di sostituire i Cie con i Centri di permanenza e rimpatrio: il piano è di crearne uno per ogni regione vicino ad hub di comunicazione stradale. Migranti. Sarraj a Roma incassa solo promesse di Carlo Lania Il Manifesto, 21 marzo 2017 Da aprile via alla guardia costiera libica, nel Paese aperti campi per i migranti. Minniti: "Oim e Unhcr controlleranno". Di nuovo c’è il fatto che l’Europa ha deciso di dar vita a un "Gruppo di contatto sul Mediterraneo centrale" che faccia da punto di unione tra la Commissione europea e i paesi dell’altra sponda del Mediterraneo maggiormente coinvolti dai flussi di migranti, primi fra tutti Libia, Algeria e Tunisia. Per il resto - nonostante l’enfasi data all’appuntamento - il vertice che si è tenuto ieri a Roma tra i ministri degli Interni di alcuni paesi europei e dei tre paesi nordafricani non ha fatto altro che ribadire decisioni già annunciate a febbraio al termine del vertice di Malta e, prima ancora, nell’incontro avuto dal premier Paolo Gentiloni con il primo ministro libico Fayez al Sarraj. Decisioni che dovrebbero tradursi in maggiori investimenti economici e in mezzi utili alla Libia per contrastare le partenze dei barconi dalle proprie coste. Come questo sia possibile in un paese sempre più instabile e che lo stesso Sarraj sembra controllare con sempre maggiore difficoltà, è tutto da vedere. Un po’ a sorpresa a Roma si presenta anche il premier libico, la cui partenza da Tripoli è stata in forse fino all’ultimo minuto. Ai leader europei Sarraj ha chiesto sostanzialmente aiuto per arginare la crisi che investe il suo paese. In sostanza la conferma di un riconoscimento politico che spera possa aiutarlo a rafforzarsi all’interno della Libia, visto che l’Europa lo accredita come l’unico interlocutore affidabile. Ma anche misure tangibili con cui rispondere alla principale richiesta degli europei, vale a dire fermare i flussi di migranti. "La stabilità della Libia e la lotta ai trafficanti di uomini sono due facce della stessa medaglia", spiega non a caso il ministro degli Interni Marco Minniti, padrone di casa dell’incontro di ieri. Il gruppo di contatto, al quale partecipano i ministri degli Interni di Italia, Malta, Germania, Svizzera, Austria, Francia, Slovenia, Tunisia e Libia, i paesi che si sono visti ieri, servirà a reperire le risorse necessarie ai paesi africani, mutuando il metodo di lavoro già adottato l’anno scorso per arrivare all’accordo siglato con la Turchia. Dal punto di vista economico per ora sul piatto ci sono solo i 200 milioni già stanziati dall’Italia per il Fondo Africa e altri 200 messi nello stesso fondo dall’Unione europea. Di questi, ha spiegato il commissario europeo all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos, presente anche lui al vertice, 90 milioni sono destinati alla Libia. Poco, anzi pochissimo se è vero che Serraj avrebbe chiesto aiuti per almeno 800 milioni di euro per la sola Libia (cifra circolata sempre ieri ma sulla quale dal vertice non è arrivata nessuna conferma ufficiale). "Le risorse si troveranno, l’importante è attivare il meccanismo degli aiuti", spiega però chi ha assistito all’incontro dei ministri. Diverso il discorso per quanto riguarda uomini e mezzi. L’addestramento della nuova guardia costiera libica da parte della missione europea Sophia è praticamente concluso e i primi 90 marinai libici riceveranno tra aprile e maggio le 10 motovedette promesse dall’Italia. Una volta operativi dovranno fermare i barconi alla partenza, salvare i migranti in difficoltà riportandoli indietro fino al porto di partenza, dove verranno alloggiati nei campi. E qui l’accordo si fa preoccupante. "Il rispetto dei diritti umani è prioritario", ha garantito Minniti ricordando come sul punto vigileranno Unhcr e Oim, ma sorvolando sul fatto che il governo Serraj è in grado di controllore solo una minima parte dei campi in cui oggi vengono richiusi i migranti. L’impegno che l’Europa chiede alla Libia non riguarda però solo le coste. Bruxelles vuole soprattutto mettere fine agli arrivi dei migranti sigillando i confini con Niger e Ciad - i due principali paesi di transito dei migranti - dove, nella regione Fezzan, già sorgono alcuni campi profughi. Per raggiungere lo scopo Roma e Bruxelles sono pronte a fornire un cospicuo numero di jeep insieme a sistemi radar e visori notturni, ma anche a contribuire alla formazione di un moderno corpo di guardie di frontiera. Il problema, per quanto riguarda il sud della Libia, è che non si capisce con chi si sta starebbe trattando visto che il Fezzan non rientra tra le aree controllate da Sarraj ed è anzi popolata da tribù che finora si sono dimostrate ostili al premier libico. Le cifre degli sbarchi spingono il governo ad accelerare nella ricerca di un accordo con la Libia. Gli ultimi dati del Viminale parlano di 18.232 arrivi dal primo gennaio al 20 marzo, il 31,88% in più rispetto allo spesso periodo del 2016. "L’Italia è sottoposta a una fortissima pressione, ma Roma non è sola", ha detto ieri Avramopoulos. Sarà anche vero, ma intanto i ricollocamenti - sui quali si dovrebbe manifestare la solidarietà europea - restano al palo: dei 40 mila promessi finora ne sono stati fatti poco più di 4.000. Droghe. Se la scuola è la prima piazza di spaccio di Claudia Voltattorni Corriere della Sera, 21 marzo 2017 Si racconta che quando a scuola entrano carabinieri e cani, dalle finestre volino felpe e zaini e che i bagni si affollino di ragazzi. Si racconta che già all’ultimo anno delle medie, i tredicenni abbiano avuto un primo contatto con gli spinelli. E poi dai 14 anni in su uno studente su 4 ammette di aver consumato qualche tipo di stupefacente, spesso senza neanche sapere cosa sia. La droga è a scuola. Non solo davanti, intorno, vicino, ma anche dentro. "È la piazza principale dello spaccio", avverte Gabriele Toccafondi, sottosegretario all’Istruzione, che lancia un appello: "Questa è una vera emergenza, non si tratta più ormai solo di casi sporadici, ma della normalità. Però siamo impreparati, serve l’aiuto di tutti, una vera e propria alleanza tra famiglia, scuola e Stato". La sensibilità è sicuramente aumentata con il 43% delle scuole italiane che ha attività specifiche per la prevenzione, percentuale in crescita e che tocca il 51% delle superiori; lì il 33% organizza anche percorsi per genitori,come corsi di formazione o incontri con addetti ai lavori. Perché se cani antidroga e carabinieri possono essere una delle soluzioni, rischiano di diventare solo "un atto occasionale, dimostrativo e poco efficace". Ne sa qualcosa Ludovico Arte, preside dell’Itt Marco Polo di Firenze che cani e carabinieri li ha lasciati fuori: "Sono per una collaborazione con le forze dell’ordine ma non con le perquisizioni, che utilità hanno? Nella mia scuola non voglio vedere cani puntati contro un ragazzo, non fa bene a nessuno". E allora, il problema lui lo ha affrontato "da dentro": "I ragazzi sono fragili, hanno bisogno di supporto e la lotta alla droga si fa creando un ambiente accogliente: ho disseminato la scuola di figure che aiutano". Cinque psicologi, un nutrizionista, educatori durante la ricreazione. E poi formazione dei più grandi per aiutare i più piccoli e perfino lo spazio "LiberaMente" con cuscinoni dove rilassarsi. I risultati ci sono, dice Arte, con i ragazzi che chiedono aiuto e sanno che qualcuno li ascolterà: "Se metti delle antenne, loro prima o poi le captano, bisogna lavorare su affettività ed emotività, rompiamo l’idea che la scuola sia solo trasmissione di conoscenza". In Italia sono decine i progetti ideati dagli istituti con forze dell’ordine, asl, associazioni, però la droga in classe dilaga, tra spaccio e consumo, a ricreazione e dal mattino con studenti già "sballati" dalla prima canna della giornata. "Dimentichiamoci lo spinello di Woodstock", dice Toccafondi, "quello che arriva in mano ai ragazzi è molto più pesante". Lo spinello, dice Fabio Voller coordinatore dell’Osservatorio di epidemiologia dell’Agenzia regionale di sanità della Toscana, è solo "la droga di entrata". Poi dai 15 anni si apre il grande mercato sul web: "Sostanze chimiche, sintetiche, da sole o associate a farmaci". Cose che si fumano, si sniffano, si sciolgono nei drink e che per pochi euro provocano danni irreparabili. Racconta Elisabetta Giustini, preside dell’Itis Galilei di Roma e dell’Istituto Carlo Urbani di Acilia e Ostia che "qualche giorno fa un ragazzo dopo aver fumato chissà cosa camminava sui tetti delle auto". Il problema "è che non sapendo cosa c’è in quella roba, non si sa come intervenire, ci sono delle droghe capaci di modificare il dna". Due anni fa ha ideato il progetto "S.o.n. (Save our net) Support" per spiegare quel deep web (web profondo) sconosciuto agli adulti ma "dove i ragazzi sanno muoversi benissimo trovando una piazza di commercio enorme", droga di tutti i tipi, ma anche pedofilia e illegalità di ogni genere. Ha girato l’Italia per parlare agli studenti, ma soprattutto a presidi, docenti e genitori: "Perché tutta la comunità educante deve essere allertata". C’è anche la app "Giù le mani dai nostri figli", dove trovare informazioni e chiedere aiuto. Alla Urbani carabinieri e cani sono entrati, "scelta difficile chiamarli, ma siamo in un’area a rischio, a Ostia hanno portato via quattro 14enni, è stato doloroso". Però, "non bastano le forze dell’ordine, le prediche e il controllo", riflette la preside. "Bisogna lavorare da dentro, seguire i ragazzi, farli sentire meno soli, noi facciamo il possibile e spesso è un Calvario, però poi i risultati ci sono". Cani antidroga nelle classi? Il dilemma dei presidi di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 21 marzo 2017 I dirigenti di istituto continuano a ricorrere ai controlli come estrema ratio, ma il sottosegretario all’Istruzione: "La maggior piazza di spaccio è la scuola. Serve la divisa". Progetti, relazioni, dibattiti: e poi, quando tutto questo non serve, arrivano i cani che fiutano la "roba" e scovano chi ha, o ha avuto, addosso del "fumo". Mentre il fenomeno sembra evaporato dalla lista delle emergenze, docenti e presidi "al fronte" continuano a combattere tutti i giorni con le "canne" a scuola. E, quando non ce la fanno più, chiamano le forze dell’ordine. Statistiche precise non ce ne sono, ma fioccano i casi segnalati dalle cronache locali. E spesso non sono falsi allarmi: l’anno scorso, quando la Questura di Firenze fece un controllo a tappeto delle scuole della provincia, in 28 istituti su 60 furono trovate sostanze. "È l’ennesima dimostrazione che il problema c’è- dice il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi- La maggiore piazza di spaccio è la scuola. E l’educazione non basta: serve anche la divisa". Il dilemma dei presidi - Non è una scelta facile per un dirigente, quella di chiedere un controllo. "Certo - racconta Isabella Pinto, preside dell’istituto Magarotto per sordi di Roma - non lo faccio mica a cuor leggero. Ma so che, se i ragazzi non mi amano, genitori e docenti mi apprezzano. Ho dovuto chiamare i carabinieri anche qui, i ragazzi arrivavano in classe già fumati. Non hanno trovato niente, ma spero sia servito da deterrente". L’esperienza più desolante? "A Ostia, al Faraday. Mentre i cani antidroga erano dentro, dalle finestre volavano pezzi di roba, zainetti, pacchetti, aggeggi strani", racconta Pinto. E naturalmente il dilemma non colpisce solo chi lavora in una grande città. "Con le forze dell’ordine ho un accordo di collaborazione", spiega Carlo Braga, dirigente dell’istituto Salvemini di Casalecchio sul Reno (Bologna). "Purtroppo è una realtà conclamata, non si può fingere di non vedere. Deve passare il messaggio che il controllo esiste: i miei 1.400 studenti sanno che mi basta alzare il telefono, per far intervenire qualcuno. Ma negli ultimi tre anni l’ho fatto una sola volta: preferisco lavorare sulla prevenzione, sull’educazione. Abbiamo un articolato progetto di prevenzione delle dipendenze con collaborazioni con San Patrignano, col carcere minorile e uno sportello interno di ascolto. L’intervento delle forze dell’ordine è solo successivo, in presenza di segnali di pericolo". Ma c’è anche chi si è messo di traverso: come Ludovico Arte, il preside del Marco Polo di Firenze, che ha detto no ai controlli della Polizia. "Penso che non siano efficaci, perché non colpiscono uso e spaccio delle sostanze. E non sopporto l’idea che un cane punti un ragazzo, mi ricorda un regime repressivo. Preferisco puntare su psicologi e tutor: chiamare le forze dell’ordine significa derogare alle proprie responsabilità". Il rispetto dei confini - Il punto cruciale del dibattito si sposta sui confini: dove finisce quello mentale, temporale, affettivo della scuola? "Il tema è borderline - ammette Angela Nava, Associazione genitori democratici - se la scuola è una Repubblica con leggi sue, va protetta, e anche il cane antidroga deve avere un confine: può stare fuori, non dentro". Il controllo può essere un "pugno allo stomaco", ammette Rosaria D’Anna, Associazione italiana genitori: "Deve avvenire come extrema ratio. Non è che un figlio, quando entra in classe, diventa di proprietà dell’istituzione scolastica". Certo che no, sottolinea Santo Rullo, psichiatra dell’età evolutiva ed ex consigliere dell’Agenzia capitolina per le tossicodipendenze: "Ma visto che i cannabinoidi intralciano l’effetto dell’insegnamento, perché in età evolutiva incidono sull’apprendimento, allora è compito della scuola insegnare a non usarli". Venezuela. Ritrovati 15 cadaveri in fossa comune in un carcere agensir.it, 21 marzo 2017 La Commissione Giustizia e Pace della Conferenza episcopale venezuelana prende posizione sul ritrovamento di fosse comuni, con almeno 15 cadaveri, nella Penitenciaría General de Venezuela, un carcere chiuso da qualche mese nello stato di Guárico. Nel comunicato a firma di monsignor Roberto Lückert, arcivescovo emerito di Coro, si definisce "terribile" questa scoperta che dimostra "la violazione di diritti umani fondamentali" attraverso "torture e atti crudeli, inumani e degradanti" e si fa presente che delitti come questi "sono perseguibili d’ufficio". Perciò si chiede alle istituzioni venezuelane, ai vari livelli e competenze, di mettere in atto con urgenza le indagini che portino al chiarimento di quanto accaduto. Inoltre i vescovi rivolgono al Ministero competente la richiesta "di garantite l’integrità e la dignità delle persone detenute, perché non si ripeta una tragedia come questa". A tutte le organizzazioni della società civile si chiede, invece, di esigere dalle autorità la garanzia del rispetto dei diritti umani nelle carceri. Guatemala. "Incendio nella casa-famiglia Hogar Seguro: femminicidio di Stato" di Geraldina Colotti Il Manifesto, 21 marzo 2017 Intervista a Gerard Lutte, fondatore del Movimiento de Jovenes de la Calle (Mojoca). L’8 marzo, in Guatemala, uno spaventoso incendio nella casa-famiglia Hogar Seguro, un istituto pubblico, ha tolto la vita a 41 adolescenti. Un "femminicido di Stato", accusa il movimento delle donne. Ne abbiamo parlato con Gerard Lutte, fondatore del Movimiento de Jovenes de la Calle (Mojoca), a Città del Guatemala. A lungo professore di psicologia degli adolescenti e dei giovani (Pontificio Ateneo Salesiano, la Sapienza e ora alla Facoltà di scienze della Formazione dell’Ipu di Montefiascone), Lutte ha partecipato ai movimenti di base negli anni ‘60-70 (in particolare nella baraccopoli di Prato Rotondo a Roma), in ambito universitario e nella chiesa cattolica. In Nicaragua ha collaborato con i giovani lavoratori sandinisti, del Joc. Cos’è successo nella casa-famiglia Hogar Seguro? Il Guatemala sta vivendo giorni di tristezza, di rabbia, di ribellione per la trage di 41 ragazze tra i 13- 17 anni in un’istituzione statale deputata a educare e proteggere i minori da 0 ai 17 anni che vivevano per strada, avevano subito maltrattamenti e violenze in famiglia o che ne erano fuggiti, oppure erano orfani o abbandonati. A volte, venivano mandati lì dai genitori senza risorse, oppure dai giudici perché con precedenti penali. Minori provenienti da famiglie povere, spesso disintegrate. Avrebbero avuto bisogno di rispetto, attenzione, tenerezza, educazione professionale, sostegno psicologico. Anziché piccole case-famiglie come sarebbe stato necessario, il governo ha costruito una struttura per 500 minorenni che però ne conteneva oltre 700 e in condizioni subumane, sottoposti a gravi e continue violazioni. Il pomeriggio del 7 marzo, alcune adolescenti della sezione chiamata "Mi Hogar" - in cui la maggior parte delle ragazze aveva subito e denunciato stupri - si è ribellata e ha chiesto aiuto ai ragazzi della sezione maschile. Il personale, spaventato, ha aperto le porte e invitato gli adolescenti ad andarsene. Una sessantina di loro si sono nascosti nei burroni e nei boschi circostanti. Il presidente della Repubblica, Jimmy Morales, è stato immediatamente avvertito di quanto stava succedendo nell’istituto, che dipende dalla Segreteria del Benessere Sociale della Presidenza e ha ingiunto alla polizia di mantenere l’ordine e riprendere i fuggitivi. I poliziotti ne hanno ritrovato una trentina e, secondo le testimonianze, li hanno insultati e maltrattati. Alle 22 li hanno portati all’ingresso dell’istituto e sono stati costretti a rimanere fuori fino all’una di notte. E poi non li hanno fatti andati nelle loro stanze. Si sa che dalle 52 alle 60 ragazze sono state chiuse a chiave in un’aula di circa 16 metri quadrati senza servizi igienici mentre i ragazzi sono stati portati nell’auditorio. Sono stati distribuiti materassi sotto l’occhio della polizia (poliziotte, per le ragazze). Alle sette del mattino hanno passato la colazione ma alle ragazze che chiedevano di andare al bagno le poliziotte rispondevano: "che marciscano". Le ragazze si sono ribellate di nuovo, rompendo i vetri. Secondo le testimonianze di tre sopravvissute, una ha messo un materasso sotto la finestra e gli ha dato fuoco. Il materasso è caduto sugli altri e il fuoco si è propagato. La temperatura è arrivata ai 900° centigradi. Sentendo le urla di aiuto delle compagne, i ragazzi sono riusciti ad aprire la porta e sono accorsi, ma i poliziotti li hanno respinti a calci. Le poliziotte non si sono mosse, guardavano e le insultavano dicendo "Che soffrano le disgraziate, così come sono state brave a fuggire siano brave a sopportare il dolore". Un’altra sopravvissuta racconta di essere svenuta e che quando ha ripreso i sensi, la porta era aperta e si trovava con metà del corpo fuori e la testa dentro e di essersi alzata a fatica nonostante le bruciature, mentre la polizia la picchiava. Ricorda le urla delle compagne, morte carbonizzate. Altre 21 moriranno nei giorni successivi, e il loro numero potrebbe aumentare. I familiari delle vittime non sono stati avvertiti. Nonostante la promessa della Secretaria de Bienestar Social, non hanno ricevuto aiuto per i funerali. Il presidente della Repubblica non ha avuto tempo per recarsi sul luogo dell’incendio e si è accontentato di proclamare un inutile lutto di tre giorni. Una tragedia annunciata… Sì. Molti sapevano che quel luogo era un "lager" fin da quando l’ex generale Otto Pérez Molina, nel 2012, è diventato presidente del Guatemala. E la situazione non è migliorata con l’ex comico Jimmy Morales. Erano già state presentate 45 denunce. La procura dei Diritti Umani, la Procura Generale della Nazione, il Consiglio Nazionale dell’Adozione, il Ministero Pubblico e l’Istituto Nazionale delle Scienze Forensi, l’Unicef avevano denunciato le condizioni inumane nelle quali vivevano i minorenni e alcuni avevano chiesto la chiusura dell’istituto. L’avvocata Paula Barrios, direttrice dell’organismo Donne che trasformano il mondo, ha denunciato la sparizione di 200 ragazze tra il 2012 e il 2016, e ha chiesto la chiusura dell’Hogar Seguro. La lista dei delitti contro i neonati, bambine, bambini e adolescenti è un elenco di orrori inimmaginabili: maltrattamenti fisici e psicologici, alimentazione insufficiente o avariata; violenze, stupri, torture, tratta. Sono già stati condannati un maestro che obbligava ragazzi della quinta e sesta elementare a fare sesso orale per poter uscire dalla classe e un muratore che ha violentato una ragazza disabile. Ora la Procura indaga sui diversi tipi di delitti come il femminicidio e la tratta. Dalle autopsie si cerca di determinare se le ragazze carbonizzate siano state drogate e violentate. Il 13 marzo sono stati arrestati alcuni funzionari e responsabili della casa famiglia con l’accusa di omicidio colposo, inadempimento dei doveri e maltrattamento sui minori. Il 15 il presidente Morales è stato denunciato per tortura, esecuzioni extragiudiziarie, abuso di autorità e violazione dei doveri dai deputati Sandra Moran e Leocadio Juracán, del partido Convergencia. Qual è la politica del governo per i minori? Non esiste. Non ci sono soldi, perché Governo e Parlamento rifiutano di far pagare le tasse ai ricchi. Proprio in quei giorni, la maggioranza del Parlamento ha votato a favore degli gravi fiscali per i latifondisti e gli allevatori di bestiame, che sono tra i settori più reazionari dell’oligarchia. In America, il Guatemala è il paese dove le tasse per loro sono le più basse. La gran maggioranza della popolazione vive in povertà estrema e molti nella miseria; una grande parte vive in abitazioni insalubri e non ha accesso a una buona educazione. Molti giovani non hanno sufficiente istruzione e un lavoro dignitoso, si rifugiano nelle droghe o fanno parte di bande violente. La politica è di aggressione e repressione, non di prevenzione e di accompagnamento. Le associazioni come il Mojoca non ricevono finanziamenti. Qual è la situazione politica in Guatemala dopo il movimento de las antorchas e lo scandalo denominato La Linea? Ad aprile del 2015, è iniziata "la primavera guatemalteca", abilmente indotta dall’ambasciata Usa per realizzare il patto di prosperità nel triangolo nord (Guatemala, El Salvador e Honduras): per creare impiego e contenere le emigrazioni di massa verso gli Stati uniti. Hanno giocato un ruolo importante la Comisión Internacional Contra la Impunidad en Guatemala (Cicig) organo dell’Onu guidato dal giudice colombiano Iván Velázquez, e il Pubblico Ministero, amministrato dalla procuratora Generale Thelma Aldana. Le reti sociali che hanno diffuso le notizie della corruzione alla dogana, sono riuscite a mobilitare migliaia di persone, soprattutto delle classi medie urbane che hanno portato alla rinuncia e all’arresto del Presidente Otto Perez Molina, della Vicepresidente Roxana Baldetti Elías e di altri funzionari e vari imprenditori. Un duro colpo al potere oligarchico mafioso che domina il paese. La situazione si è sviluppata molto in questi ultimi mesi. Come scrive il professor Mario Sosa, tra le forze che si fronteggiano attualmente sulla riforma costituzionale, si possono indicare tre poli o convergenze di forze sociali e politiche, coagulate per difendere interessi diversi. C’è il potere che da secoli domina il paese, il potere oligarchico, mafioso, razzista, capeggiato dal Cacif, l’associazione coordinatrice di diversi settori imprenditoriali. In questo gruppo si trovano anche associazioni di veterani militari che parteciparono al genocidio negli anni ‘80 e organizzazioni criminali, narcotrafficanti. Ricevono spesso appoggio da imprese multinazionali. Questo gruppo ha portato alla presidenza sia Molina che Morales e i loro partiti, il Partido Patriota e ora il partito Fcn-Nación. Il secondo polo di destra moderata riformista è capeggiato dall’ambasciata Usa con la collaborazione della Cicig, del Pubblico ministero, della Procura dei Diritti umani, del Ministro degli Interni e dell’Agenzia delle Entrate. Questo gruppo ha perso potere dopo l’elezione di Morales con la maggioranza dei deputati che controlla il Parlamento, eletti tra i partiti mafiosi come il Parttito Pattriotico di Molina, e il Partito Lider di Manuel Baldizón e altri partiti di destra alleati. In questo modo, Morales è riuscito a far eleggere una giunta Direttiva del congresso che sostiene la politica del suo governo. Il terzo polo lo potremmo chiamare popolare, multietnico. In questa convergenza troviamo molti gruppi eterogenei, associazioni in difesa dei diritti umani, associazioni indigene, educative, sindacali, fondazioni, ong. Tra questi emergono il Gran Consejo de Autoridades Ancestrales, e l’Assemblea Sociale e Popolare, creata nell’Università di San Carlos per coordinare le associazioni che hanno partecipato alla primavera guatemalteca con l’obiettivo di avviare una riforma radicale dello Stato. Questi gruppi non sono riusciti a unirsi e organizzarsi per poter ottenere un’influenza a livello nazionale. Anche nell’atroce tragedia della casa-famiglia statale, si contrappongono questi tre gruppi di potere. Il polo mafioso, responsabile del massacro, il gruppo riformista che attraverso il Ministero Pubblico cerca di scoprire e punire i colpevoli; il polo popolare che esige una riforma radicale dello Stato ma in modo disorganizzato e poco efficace. Diversi gruppi convocano assemblee e manifestazioni, ma non emerge un coordinamento di tutte queste associazioni. In Belgio, nel 1996, un caso più limitato di un pedofilo che sequestrò e assassinò alcune bambine provocò una reazione massiccia e una marcia di oltre trecentomila persone nella capitale. Avrei desiderato una mobilitazione di grandezza simile in questo paese che amo e col quale mi identifico. Come ha reagito il Mojoca? Con stupore, rabbia e tristezza. Le adolescenti bruciate vive erano compagne dei giovani del Mojoca. Vivevano negli stessi ambienti, con gli stessi problemi di povertà e di esclusione. Madelyn, 15 anni e la sorellina, sono passate dal Mojoca, hanno vissuto nella Casa 8 Marzo e sono state reinserite nella loro famiglia. Poi, purtroppo, un giudice ha affidato Madelyn alla casa-famiglia maledetta, dov’è stata bruciata viva. Jacqueline, 15 anni, è fuggita sette volte da quel posto di morte e per fortuna si è riconciliata con la nonna ed è andata a vivere con lei. Faceva parte della sezione Mi Hogar dove ebbe inizio la giusta protesta delle adolescenti contro i loro aguzzini. La strada può essere violenta quando ti picchiano i poliziotti, quando ti uccidono i sicari, ma nei gruppi di strada le ragazze e i ragazzi trovano una famiglia che li protegge, che li appoggia, che li rispetta. Il Mojoca è un Movimento diretto e autogestito dalle ragazze e dai ragazzi che vivono o hanno vissuto in strada. Il metodo educativo è basato sull’Amicizia, nel rispetto della loro dignità e della loro libertà. Nel Mojoca, le ragazze e i ragazzi si organizzano per difendere i loro diritti, migliorare la loro qualità di vita, contribuire alla costruzione di una società più giusta ed equa, fraterna. Nel Mojoca, le bambine, i bambini e gli adolescenti trovano un appoggio per realizzare i loro sogni e molti sono già usciti dalla strada e si sono integrati nella società. Il Mojoca partecipa al Movimento Popolare guatemalteco e internazionale. In questi giorni si unisce alla protesta di altre organizzazioni contro i femminicidi dell’8 marzo, compiuti proprio mentre, nella capitale, il movimento protestava contro violenze, discriminazioni e femminicidi. Stati Uniti. La bellezza in un carcere (maschile), detenuti a lezione di manicure e trucco di Alessandro Cannavò Corriere della Sera, 21 marzo 2017 La teoria con 1.600 ore di lezione e poi pratica sui manichini e con i compagni di cella: il corso, istituito nella prigione californiana di Chowchilla quando ospitava sole donne, è stato confermato dopo la conversione in carcere maschile. Un uomo coglie con l’accortezza di un cavaliere una mano femminile. Il suo braccio è tatuato e contrasta con l’arto del manichino che ha tutta la delicatezza dell’amor cortese. L’uomo impugna uno strumento di lavoro, uno spazzolino per la manicure. Non siamo in un salone di bellezza ma nella prigione californiana di Chowchilla. Il protagonista di questa storia è un detenuto di quella casa di detenzione. Uno dei tanti di un carcere tutto maschile. Che ha deciso di seguire un corso di cosmetologia. Con l’aiuto di alcune insegnanti, c’è chi si esercita sugli smalti, chi impara come applicare le creme sul viso, chi scopre le tecniche da coiffeur. Il corso cominciò più di vent’anni fa, nel 1996, quando la prigione ospitava solo donne. La conversione di genere dell’istituto penitenziale non l’ha fermato. E perché mai?, avranno detto i nuovi ospiti. I detenuti si esercitano prima sui manichini, poi fanno prove tra di loro. Una cosa seria: milleseicento ore complessive di studi sui libri (dalla composizione dei make up ai principi attivi delle creme) e di pratica "sul campo": quindi un esame scritto per ottenere la licenza di parrucchiere e cosmetologia. Ammettiamolo: pensiamo alle carceri solo come scenario di dolore, di violenza, di perdizione. Un luogo davanti al quale è meglio girare la testa. E invece dietro le sbarre ci sono tante attività, sostenute dalle istituzioni e gestite da un esercito di associazioni di volontariato, che mirano a tenere accesa la speranza. Anche in Italia proliferano i corsi per far apprendere un lavoro che possa costituire una chance di riscatto una volta scontata la pena. Ecco i laboratori di pelletteria, le falegnamerie che creano mobili per i designer, le scuole di cucina. Al carcere-modello di Bollate è stato persino inaugurato un ristorante stellato che con una buona dose di autoironia si chiama InGalera. Ma non avevamo ancora visto una popolazione maschile in cattività affrontare un lavoro di tradizione marcatamente femminile. Non sappiamo che crimine abbia commesso Michael Espinosa, il detenuto ritratto in questa foto, ma nel suo gesto c’è molto di più della concentrazione in una fase di lavoro. C’è un’attenzione e una cura che sfocia nella gentilezza, la migliore arma per dare una svolta a una vita sbagliata. Al bando le facili e banali battute, questa cosmetica tra uomini che irrompe in carcere contribuisce a costruire la dignità. Non si tratta più di beauty ma di un valore ben più alto: la bellezza.