Primo Festival della comunicazione sul carcere e sulle pene Ristretti Orizzonti, 20 marzo 2017 Alle persone interessate a partecipare al "Primo Festival della comunicazione sul carcere e sulle pene", organizzato dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia (Bologna, 23 marzo 2017, ore 10 - 18. Biblioteca SalaBorsa del Comune, Piazza Nettuno, 3). Chiediamo alle persone interessate a partecipare al Festival a diverso titolo (realtà dell’informazione sul carcere e sulle pene, volontari, operatori penitenziari, operatori del sociale, giornalisti, avvocati, magistrati…) di comunicare la loro presenza il 23 marzo a Bologna all’indirizzo mail progetti.ristretti@gmail.com Tel. 049654233. Non serve comunicare la presenza per i giornalisti già iscritti all’evento attraverso la piattaforma Sigef dell’Ordine dei Giornalisti. Il Ddl di riforma della Giustizia penale stravolge le Rems, tornano le norme dell’Opg forumsalutementale.it, 20 marzo 2017 Riparte la mobilitazione. StopOpg attacca i Ministri Orlando e Lorenzin, dure reazioni anche dagli operatori Rems. È stato approvato al Senato, con voto di fiducia, il maxi emendamento del Governo sul Disegno di Legge Giustizia n. 2067. Così quanto previsto nell’articolo 1 comma 16 lettera d) rischia di riaprire la stagione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Infatti si dispone il ricovero dei detenuti nelle Rems come se fossero i vecchi Opg, tornando così alla vecchia normativa sui manicomi giudiziari. Ma il diritto alla salute e alle cure dei detenuti, troppo spesso negato, non si risolve così. Invece di rafforzare i programmi di tutela della salute mentale in carcere e di potenziare le misure alternative alla detenzione si scarica il problema sulle Rems, che tornano alla vecchia funzione dell’Opg. Una beffa a pochi giorni dalla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. StopOpg ha apprezzato e sostenuto gli emendamenti presentati dalle senatrici De Biasi, Dirindin e altri, che purtroppo non sono stati ammessi. Il Ddl torna alla Camera. Ora chiediamo al Governo, in particolare al Ministro della Giustizia Orlando e al Ministro della Salute Lorenzin, tutti gli atti necessari a rimuovere il grave errore, per difendere la riforma per il superamento dei manicomi giudiziari. Riparte la mobilitazione di StopOpg: primo appuntamento lunedì 10 aprile ore 9:30 a Roma (Spazio Europa via IV novembre, 149) in occasione di: "Carcere, che fine hanno fatti gli stati generali?" (evento promosso da Antigone con il sostegno di StopOpg). Per partecipare è necessario iscriversi, entro e non oltre venerdì 7 aprile alle ore 12:00, mandando una mail a segreteria@associazioneantigone.it indicando nome e cognome. Sorvegliare e morire. Se detenuti sono anche gli agenti di Tiziana Barillà Left, 20 marzo 2017 È entrato in cucina mentre suo fratello preparava il caffè e si è sparato un colpo alla testa con la pistola di ordinanza. I suoi genitori sono rimasti seduti sul divano. Era sposato, aveva dei figli ed era un agente di polizia penitenziaria. Quello di Falciano del Massico, nel Casertano, è l’ultimo dei suicidi che contiamo mentre andiamo in stampa. L’ennesimo. Sono più di cento negli ultimi dieci anni, dicono i rapporti. Ma che siano più di cento in dieci anni lo dicono già da almeno un anno. Qualcuno lo chiama "effetto carcere", qualcun altro "sindrome del burnout". Il malessere tra le mura delle patrie galere è in aumento - e non solo per i detenuti dei quali ci siamo sempre occupati sulle pagine di Left ma - anche tra gli agenti. Soprattutto tra quelli che lavorano "dentro" gli istituti, a contatto con i detenuti. Sorveglianti ed educatori. Secondini e coinquilini. Perché gli agenti di polizia penitenziaria devono sì mantenere l’ordine e la sicurezza, ma devono anche relazionarsi con degli esseri umani, e con i loro carichi emotivi. Il motto della polizia penitenziaria, del resto, da un pezzo non è più "vigilando redimere", ma "garantire la speranza è il nostro compito", quasi una missione, alla quale gli agenti spesso sono impreparati. Schiacciati tra l’impatto emotivo e la forma mentis di stampo militare che rimane nella memoria, si rischia il mix esplosivo, soprattutto se il tutto è condito dall’assenza di formazione specifica e riconoscimenti da parte di superiori e autorità. 136, 361 e 631. Sono i tre agenti di polizia penitenziaria che abbiamo incontrato a Bologna. Ci hanno raccontato come trascorrono le loro giornate di lavoro, a cominciare dal gabbiotto d’ingresso. Si devono presentare pronunciando il loro codice. "Siamo diventati dei numeri anche noi", lamentano i tre. "Qualcuno di noi ancora si ostina a presentarsi con il proprio nome, ma non serve a nulla. Siamo codici". Li chiameremo così anche noi, con tre numeri identificativi nemmeno reali. Lo faremo per proteggerli, nonostante loro non ce l’abbiano chiesto. Alessio Scandurra: "il reato di tortura non è legge perché la politica ha paura" di Orlando Trinchi Il Dubbio, 20 marzo 2017 Il dirigente di Antigone: "I diritto sono sotto attacco, non dobbiamo arretrare ma vigilare e rilanciare". "Raramente, direi mai, qualcuno, nel Parlamento italiano, si è opposto pubblicamente all’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento; ciò nonostante, in Italia ancora non esiste una legge in merito". Le parole di Alessio Scandurra, responsabile, insieme a Michele Miravalle e Roberta Bartolozzi, dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone - Onlus che dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso si occupa dei diritti e delle garanzie nel sistema penale, sollevano un problema quanto mai spinoso e attuale. Un problema tuttora irrisolto. Il presidente di Antigone Patrizio Gonnella, insieme a Antonio Marchesi (Amnesty International Italia), Luigi Manconi (A Buon Diritto) e Antonio Gaudioso (Cittadinanzattiva), ha firmato una lettera aperta indirizzata al Ministro della Giustizia Orlando per sollecitare l’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento. La vostra richiesta ha avuto seguito? Pensa che verranno accolte le proposte di modifica ivi contenute in favore di una legge che rispecchi maggiormente quanto richiesto dall’attuazione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, ratificata dall’Italia nel 1989? Non abbiamo avuto riscontri. Il disegno di legge che in questo momento è in discussione al Senato presenta diversi aspetti problematici, quindi tornare alla versione della Camera rappresenterebbe per noi un passo in avanti verso una soluzione ottimale. Votando la formulazione della Camera si eviterebbe infatti di dover tornare dal Senato alla Camera e di prolungare così un ping pong parlamentare che finirebbe per durare fino alla fine della legislatura e impedirebbe anche questa volta di ottenere un risultato àmbito - come risulta dalle dichiarazioni - sia dal governo che dal Ministero della Giustizia. Sono poche le resistenze espresse, molte quelle inespresse. Da diversi decenni questo tema è in discussione e in ogni legislatura passata ci sono stati uno o più disegni di legge miranti all’introduzione del reato di tortura. Invano. Tra l’altro, la tecnica di presentare un pessimo emendamento per poi ‘avvelenarè la legge - ovvero fare in modo che nessuno abbia poi più voglia di portare avanti un disegno di legge al riguardo - è una tecnica che è già stata usata in passato: è il modo probabilmente più semplice per affondare il percorso legislativo senza doversi opporre pubblicamente al reato di tortura. In questo caso, però, credo sinceramente che il ministro abbia intenzione di portare a casa questo risultato. Perché, a suo avviso, proprio in Italia, rispetto ad altri Paesi, non esiste ancora una legge contro il reato di tortura? Probabilmente perché in Italia abbiamo da molti anni una politica debole, che stenta a fare scelte magari anche condivise ma che potrebbero scontentare gruppi di pressione importanti, avversi al reato di tortura. La politica non riesce sempre ad arginare tali influenze. Nel caso di specie le forze di polizia sono da noi molto più numerose, dal punto di vista quantitativo, rispetto ad altri Paesi europei e costituiscono un cospicuo gruppo sociale e, quindi, elettorale. Appena insediatosi, Trump aveva in un primo tempo avallato la pratica della tortura per poi, in un secondo momento, tornare sui propri passi. Pensa che questo possa in un certo senso favorire uno sdoganamento internazionale della tortura anche presso Paesi europei? Premesso che Trump è una figura fuori degli schemi, l’Unione Europea, di cui in questo periodo ricorre un anniversario importante, è per noi attivisti un punto di riferimento imprescindibile per la promozione e la garanzia dei diritti fondamentali: tuttora lavoriamo tenendo in considerazione le raccomandazioni e la direttive da essa provenienti riguardo temi come il processo penale o la detenzione. Al tempo stesso, rileviamo oggi all’interno dell’Europa, forse per la prima volta da decenni, tendenze di segno inverso, un disamoramento rispetto ad alcuni valori condivisi: c’è la sensazione che alcuni Paesi europei stiano facendo dei passi indietro. Io non parlerei di inversione di tendenza, mi sembra eccessivo, tuttavia ogni conquista va difesa e ogni avanzamento in questo campo è arduo. È trascorso oltre un anno dall’assassinio di Giulio Regeni. A suo avviso, il governo italiano ha fatto abbastanza o si deve fare di più per appurare fino in fondo la verità? È difficile dire che l’Italia abbia fatto abbastanza visto che non è stata ancora appurata tutta la verità su questo caso. Si deve chiedere di più a quel Paese (l’Egitto, ndr) - il cui governo ha offerto sostegno e tutela ai responsabili di questa vicenda - ed è proprio il nostro Paese che deve farlo: è un nostro cittadino ad essere stato vittima di un caso di tortura di Stato. Auspichiamo che si faccia tutto ciò che è necessario per chiarire la verità storica e il completo accertamento delle responsabilità. La pratica della tortura nel tempo ha sconfinato anche in ambiti diversi da quelli a essa deputati, come le carceri e i manicomi. Cosa ne pensa della riforma del sistema penale promossa dal Guardasigilli Orlando, specialmente in relazione a ciò che riguarda i futuri ospedali psichiatrici? Da tempo si è imposta l’idea che chi ha in mano la vita delle persone debba maneggiarla con la cura e il rispetto che la vita delle persone merita. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, quando istituisce il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti, si impegna a monitorare anche gli ospedali psichiatrici - gli Spdc (Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura, ndr), i ricoveri per anziani e, più in generale, tutti i luoghi in cui si trovino persone non autonome a cui garantire sostegno. Io credo che la nostra rimanga una normativa strutturalmente garantista: abbiamo chiuso i manicomi - cosa che non tutti i Paesi europei hanno fatto - e ora abbiamo superato anche gli ospedali psichiatrici giudiziari, che negli anni successivi alla chiusura dei manicomi avevano assunto il ruolo di unica istituzione di contenimento ma che nei fatti non si discostavano molto dalla tenuta del carcere, da cui differivano solo per un maggiore trattamento sanitario e psichiatrico. Siamo soddisfatti della chiusura degli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari, ndr) e del trasferimento al servizio sanitario nazionale della gestione di persone che non erano responsabili dei fatti che hanno commesso e che, per definizione e per legge, risultano pericolose per sé e per gli altri. Si tratta di un impegno nuovo e maggiore rispetto a quello che aveva prima il sistema sanitario nazionale, del tutto coerente con il nostro quadro normativo e culturale: non sono persone che vanno punite - in quanto non responsabili di quello che hanno commesso - dunque non le si può confinare in un’istituzione che, al di là delle etichette, nella sostanza è analoga al carcere. Siamo abbastanza soddisfatti dell’attuale percorso di riforma, sia in riferimento alla chiusura degli Opg che all’introduzione delle Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, ndr). L’unica nostra riserva riguarda un emendamento al disegno di legge delega sulla riforma dell’ordinamento penitenziario e del processo penale, che introduce una nuova norma che praticamente riporta nelle Rems le stesse persone che prima stavano negli Opg, rischiando così di sovraccaricare un meccanismo non ancora entrato a regime. Il nuovo sistema che si stava delineando era costituito sia dalle Rems che dal potenziamento dei servizi territoriali - cosa che riduceva il numero di persone da allocare nelle stesse Rems, garantendo così una maggiore integrazione con i servizi sociali, livelli di reinserimento maggiori, ecc. La nostra preoccupazione non riguarda la riforma in corso, ma un possibile rallentamento della riforma medesima. In alcune situazioni anche la vita stessa può essere percepita come una tortura. Il caso di dj Fabo, pur con caratteristiche specifiche, ci interroga nuovamente sull’assenza in Italia di una legge sul fine vita. La legge sul testamento biologico ha ripreso ora il suo iter parlamentare: pensa che possa giungere a compimento? È stata una vicenda che ha suscitato grande attenzione e reazioni anche non scontate in ambienti dove prima vigeva una maggiore rigidità; detto questo, per la politica italiana è un momento di riposizionamenti e la maggioranza stessa è in una posizione non facile per cui, al di là della buona volontà e dell’impegno di alcuni parlamentari, l’esito non è scontato. Posizioni di cautela s’impongono anche in ambienti molto aperti e determinati: vi è infatti chi sostiene che chiedere di fare di più riguardo alla legge sul testamento biologico equivalga ad affossarla. Sono strade difficili, su cui quotidianamente forze culturali e sociali spingono per fare dei passi in avanti, con la consapevolezza che a un certo punto, un giorno, quei passi in avanti si faranno. Ci sentiamo dei folli che lottano contro i mulini a vento ma poi, in qualche misura, la storia ci regala qualche soddisfazione. Paletti alle toghe in politica. La legge in Aula (dopo 3 anni) di Dino Martirano Corriere della Sera, 20 marzo 2017 Le nuove norme su candidabilità e ricollocamento dei magistrati: alla Camera arriva il disegno di legge licenziato dal Senato il 13 marzo del 2014, accelerazione chiesta da Renato Brunetta (FI) sull’onda del voto che venerdì ha negato la decadenza di Minzolini. In Parlamento ci sono 7 magistrati (5 in aspettativa, due in pensione). Nel governo, prima dell’ingresso nella squadra di Gentiloni della senatrice Anna Finocchiaro come ministro, ad aver indossato la toga erano in due: i sottosegretari Cosimo Ferri (Giustizia) e Domenico Manzione (Interno), entrambi in aspettativa. In Puglia, il governatore in carica (nonché sfidante di Renzi per la guida del Pd) è Michele Emiliano che è stato procuratore a Bari fino al giorno in cui (era il 2003) decise di correre da sindaco di quella stessa città: "Non mi dimetto da magistrato - è solito ripetere Emiliano - perché è il mio lavoro e io intendo al politico come un servizio. Non come una professione". In Calabria, il giudice Gabriella Reillo ha partecipato (anche se poi si è ritirata) alle primarie del centro sinistra a Lamezia. A Cremona, tra i candidati del Pd alle primarie per il Comune, c’era anche il giudice Pier Paolo Beluzzi. Non sono rari poi i casi di magistrati che esercitano le funzioni giurisdizionali e contestualmente sono sindaci o assessori (oggi è permesso). Infine c’è l’universo dei 150 fuori ruolo distaccati nelle sedi istituzionali e nelle autorità. Per limitare con più rigore i passaggi, in entrata e in uscita, attraverso le "porte girevoli" che separano politica e magistratura, oggi arriva in Aula alla Camera il disegno di legge licenziato dal Senato il 13 marzo del 2014. L’accelerazione, dopo 3 anni di stasi, l’ha chiesta Renato Brunetta (FI) anche sull’onda del voto del Senato, che venerdì ha negato la decadenza (legge Severino) dell’azzurro Minzolini condannato in via definitiva per peculato: in Senato, Minzolini aveva denunziato il ruolo di un giudice del collegio al processo di appello, Giannicola Sinisi, già sottosegretario in un governo Prodi poi rientrato in magistratura, che a suo dire lo avrebbe penalizzato. La presidente della Commissione Giustizia Donatella Ferranti del Pd (già pm a Viterbo e poi segretario generale del Csm, in aspettativa dal 2008), da giorni non si stanca di ripetere: "La mancata applicazione della legge Severino rappresenta un vulnus molto grave...E poi, se quel giudice rappresentava un’anomalia perché il senatore Minzolini non ne ha chiesto al ricusazione?". Diverso il parere di Giacomo Caliendo (magistrato di Cassazione in pensione dal 2010, due anni dopo essere stato eletto al Senato in FI): "Il problema non è il giudice singolo che prima faceva politica ma il fatto che è stata ribaltata una sentenza di assoluzione senza riaprire l’istruttoria dibattimentale. Come prescrivono le Sezioni unite". Felice Casson, senatore di Mdp, è stato pm a Venezia fino al 2005 quando decise di candidarsi come sindaco della città lagunare: "Io, addirittura, avevo proposto che dopo un incarico politico il magistrato non potesse tornare nella magistratura di appartenenza. Quello che abbiamo raggiunto al Senato è un buon compromesso anche se la Camera, poi, ha perso tre anni". Aggiunge Stefano Dambruoso, questore della Camera eletto con Scelta civica è in aspettativa dal 2013 (prima era al ministero e alla procura di Milano): "Non è possibile consentire che un magistrato si candidi nello stesso distretto in cui esercita le funzioni". Il sottosegretario Cosimo Ferri (in aspettativa da quando è stato chiamato al governo) ribadisce che è necessario garantire anche ai magistrati il diritto di fare politica ma poi ammette che "per gli enti locali oggi ci sono regole". La legge - che riguarda soprattutto il futuro - sbarca in aula ma è quasi certo che la votazione verrà rinviata. Sarà più veloce la "disciplinare" del Csm che il 3 aprile "processerà" Emiliano perché da magistrato in aspettativa si è iscritto al Pd. Per l’occasione il governatore sarà difeso a Palazzo dei Marescialli dal procuratore di Torino, Armando Spataro. Il civile più efficiente non "contagia" il processo penale di Antonello Cherchi, Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2017 Il fronte civile guadagna efficienza, ma quello penale continua a soffrire. Segno che la cura somministrata negli ultimi anni alla macchina giudiziaria ha funzionato a metà. È quanto emerge mettendo a confronto i dati relativi all’anno scorso raccolti nei tribunali e nelle corti d’appello dal ministero della Giustizia. Il calo dell’arretrato - Il miglioramento della giustizia civile si legge nel calo dell’arretrato: -20% circa in tre anni. I procedimenti in corso nei 140 tribunali sono infatti scesi del 19,3%, passando da 2,1 milioni a fine 2013 a 1,7 milioni l’anno scorso; mentre nelle corti d’appello, nello stesso periodo, lo stock delle cause pendenti è calato del 21,5%, da 398mila a 313mila circa. I dati sulla giustizia penale (stimati sulla base di quelli inviati da un campione di uffici e del trend storico) fotografano invece un arretrato sostanzialmente stabile: i procedimenti in corso nei tribunali erano 1,31 milioni a fine 2013 e 1,24 milioni al 30 settembre del 2016, mentre nelle corti d’appello lo stock è passato da 266mila a 268mila cause. Una differenza di risultati confermata anche dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Nel discorso pronunciato in Cassazione lo scorso 26 gennaio, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il ministro ha infatti riconosciuto che il decremento dell’arretrato è stato "meno marcato" nel settore penale rispetto a quello civile. Del resto, per intaccare l’arretrato i magistrati devono chiudere ogni anno un numero di procedimenti superiore rispetto ai fascicoli in arrivo. In pratica, il clearance rate, cioè il rapporto tra liti definite e sopravvenute, deve essere superiore a uno. Mentre ciò è accaduto negli ultimi anni in campo civile, così non è stato nel penale: solo lo scorso anno i procedimenti conclusi nei tribunali hanno superato (di poco) quelli sopravvenuti. La doppia velocità - Una spiegazione delle performance poco brillanti della giustizia penale l’ha offerta lo stesso Orlando. Nel suo discorso in Cassazione ha spiegato che l’effetto deflattivo dei provvedimenti adottati finora dal Governo - come l’introduzione della particolare tenuità del fatto, la depenalizzazione di alcuni reati e la messa alla prova - va sostenuto con "ulteriori misure sulla durata dei procedimenti". "Alcune - ha chiarito - si trovano nel disegno di legge di riforma penale", approvato nei giorni scorsi dal Senato e che ora ritorna alla Camera. Più netto il presidente dell’Anm, Piercamillo Davigo, per il quale la giustizia penale è in affanno proprio a causa della maggiore attenzione dedicata al civile: "Se si spostano risorse da una parte all’altra - ragiona - è evidente che la situazione migliora nell’ambito che ha beneficiato del trasferimento e peggiora nell’altro. La coperta è corta e se la tiri da una parte è inevitabile scoprire l’altra". Per Andrea Mascherin, presidente del Consiglio nazionale forense, le migliori performance del civile vanno, invece, ricercate nelle misure alternative al processo - "mediazione, negoziazione assistita e camere arbitrali sono interventi in cui crediamo e che hanno prodotto risultati" - e nel processo telematico, che ha "creato più equilibrio tra cause in entrata e in uscita". "Invece, nel processo penale - afferma Mascherin - non bisogna per forza andar dietro a criteri di efficientismo. È come un’operazione al cuore: non si deve correre. Tuttavia, occorre valutare alcune misure, come il tema delicato dell’obbligatorietà dell’azione penale, la depenalizzazione e il ripensamento del principio dell’offensività del reato". Rischio "avocazione" per i fascicoli giacenti Una riforma "indifferibile", secondo il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che contiene anche una serie di misure in grado di incidere sulla durata dei procedimenti. Norme, al contrario, "non organiche" e che avranno l’effetto di rallentare i processi, fino a bloccare il lavoro delle procure, secondo l’associazione nazionale dei magistrati (Anm). Resta alto il livello dello scontro sul disegno di legge che modifica il processo penale e i termini di prescrizione, approvato la scorsa settimana, con la blindatura del voto di fiducia, in seconda lettura dal Senato. Per diventare legge il testo (che era stato presentato alla Camera il 23 dicembre 2014) deve di nuovo passare al vaglio di Montecitorio, dove non sono escluse altre modifiche. Le norme che dividono magistrati e Governo sono soprattutto quelle che incidono sui tempi e sul lavoro delle procure. Il Ddl impone infatti al pubblico ministero di esercitare l’azione penale o di chiedere l’archiviazione entro tre mesi (prorogabili per altri tre) o entro 15 mesi per i reati più gravi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini preliminari (18 mesi o 2 anni in base al reato). Se il Pm non agisce nei tempi fissati, il procuratore generale presso la corte d’appello disporrà "l’avocazione" delle indagini preliminari. L’obiettivo del Governo è quello di evitare i fascicoli "dormienti", ma secondo i magistrati le nuove norme avranno l’effetto opposto e vanificheranno le indagini, soprattutto quelle più complesse. Se il Ddl sarà approvato senza correzioni, i nuovi "paletti" per le procure si applicheranno da subito, alle notizie di reato ricevute dopo l’entrata in vigore della legge. Il Ddl contiene poi altre norme pensate anche per sgravare la macchina della giustizia penale. È il caso, tra l’altro, della possibilità per l’imputato di ottenere la dichiarazione dell’estinzione del reato se - entro il termine massimo per la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado - ripara per intero il danno provocato. La chance - che si applicherà anche ai processi in corso quando la legge entrerà in vigore - vale solo per i reati perseguibili a querela soggetta a remissione. Prima di decidere il giudice dovrà sentire le parti e la persona offesa. Inoltre, il testo approvato dal Senato - con una soluzione di compromesso - delega il Governo a modificare, con decreti legislativi da approvare entro un anno, le regole sulla procedibilità, estendendo l’obbligo di presentare querela per perseguire i reati contro la persona (esclusa la violenza privata) puniti solo con la pena pecuniaria o con la detenzione fino a quattro anni e i reati contro il patrimonio. Resterebbe però ferma la procedibilità d’ufficio se la persona offesa è incapace per età o infermità, se ricorrono alcune aggravanti o, per i reati contro il patrimonio, se il danno è di "rilevante gravità". I tribunali del Sud smaltiscono più arretrato È tutto occupato dai tribunali del Sud Italia il podio della classifica degli uffici che nel 2016 hanno smaltito più contenzioso civile arretrato. Secondo i dati del ministero della Giustizia aggiornati al 31 dicembre dell’anno scorso, è infatti il tribunale di Avezzano (L’Aquila) quello che ha aggredito di più lo stock (-23,9%), seguito da Foggia (-20,5%) e da Matera (-18,6%). Tutti e tre ben al di sopra del dato nazionale, che segna una riduzione del 4,2 per cento. Sono performance importanti, anche perché riferite solo alle cause civili contenziose, quelle più complesse; sono infatti esclusi fallimenti, esecuzioni e i procedimenti non "litigiosi" (come le separazioni consensuali). La percentuale di smaltimento va letta anche alla luce dei dati iniziali: in fondo alla classifica ci sono uffici che già partivano con un arretrato contenuto. E all’ultimo posto c’è il tribunale di Napoli Nord, istituito a settembre 2013 e che ha quindi uno stock in formazione. Avezzano resta al primo posto anche analizzando solo l’arretrato "patologico", cioè le cause in corso da più di tre anni, che il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha deciso di sfoltire per migliorare il servizio ai cittadini e arginare i costi. Infatti, i procedimenti con più di tre anni in primo grado (più di due in appello e più di uno in Cassazione) superano la "durata ragionevole" e possono produrre, a loro volta, altro contenzioso per ottenere i rimborsi della legge Pinto (la 89 del 2001). Il programma Strasburgo 2 - Per aggredire l’arretrato ultra-triennale il ministero ha varato dal 2014 il programma "Strasburgo 2" messo a punto dall’allora direttore dell’organizzazione giudiziaria Mario Barbuto, con al centro l’applicazione ai processi del metodo first in first out, che impone di iniziare a smaltire i fascicoli più vecchi, da cui potrebbero scaturire richieste di risarcimento. I primi risultati, in questi anni, ci sono stati: lo stock "patologico" del contenzioso civile in tribunale è infatti calato del 23,4% dal 2014 al 2016 e quello delle corti d’appello del 22,5 per cento. Fa eccezione la Cassazione, dove i procedimenti in corso da più di un anno sono aumentati del 9,6% in due anni, come evidenzia una ricerca di Fabio Bartolomeo, direttore del dipartimento di statistica della Giustizia. L’obiettivo dei tribunali - Di certo, tenere sotto controllo l’arretrato è uno degli obiettivi dei tribunali. A Sulmona, che nell’ultimo anno ha ridotto le pendenze del 16% e quelle ultra-triennali del 30,7%, "ho avviato un programma ad hoc alcuni anni fa", spiega Giorgio Di Benedetto, presidente del tribunale abruzzese destinato alla chiusura, prorogata al 2020 per il terremoto. "Sulmona è un tribunale laboratorio, che ha sofferto di forti scoperture di personale (circa il 40% fra i magistrati) ora in parte ripianate con giovani, dove è stata fatta una profonda riorganizzazione, una forte informatizzazione (tutti i fascicoli sono stati digitalizzati a costo zero) ed è cambiato il modo di fare le udienze, alle quali partecipano anche i cancellieri". A Vicenza, invece, "abbiamo creato una sezione stralcio - spiega il presidente del tribunale, Alberto Rizzo - per anticipare le decisioni dei procedimenti per cui l’udienza per la precisazione delle conclusioni era stata fissata dal 2020 in poi; e, parallelamente, abbiamo lavorato sull’arretrato patologico". I risultati? Stock ridotto del 7,5% nel 2016, che sale a -11% per le cause più vecchie. "Ma i numeri ora sono ancora migliorati - precisa Rizzo - perché sono state pubblicate numerose sentenze già pronte". I passi da fare per rendere più efficiente la giustizia civile sono comunque ancora tanti: sia perché restano forti differenze tra i tribunali, sia perché l’impatto sulla durata dei procedimenti è ancora limitato, con alcune sedi dove per arrivare a sentenza servono più di cinque anni. Bolzano conquista il primato dell’efficienza Non è affatto detto che i tribunali dove ci sono forti scoperture di organico siano anche quelli meno produttivi. Ovviamente, vale anche la regola inversa: pur disponendo di tutti i magistrati e del personale amministrativo, ci sono uffici giudiziari che arrancano. Così, per esempio, il tribunale di Bolzano, che pure lamenta il 33% di scoperture tra le toghe e il 53% fra gli addetti alle cancellerie, nell’ultimo anno è riuscito ad aggredire l’arretrato in modo significativo e a ridurre i tempi dei processi: performance che gli valgono il primo posto in classifica. Enna, invece, che fa registrare risultati meno brillanti, ma non per questo negativi, è l’ultimo della classe, perché poteva, invece, contare sulla piena copertura degli organici. La ricerca - La non automatica correlazione tra forze in campo e produttività è uno degli elementi messi in luce dalla ricerca condotta da Fabio Bartolomeo, direttore del servizio statistica del ministero della Giustizia nonché rappresentante italiano presso la Cepej, la commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa. Il ranking risponde all’esigenza del ministro Andrea Orlando di tenere sotto controllo il livello di servizio offerto dagli uffici giudiziari. Lo studio - che l’autore definisce "sperimentale" - prende in considerazione il settore civile e, in particolare, gli affari contenziosi, ovvero quelli più complessi da un punto di vista procedurale, trattati dai 140 tribunali fino al 1° gennaio scorso. A questi processi sono stati applicati più parametri: l’anzianità dell’arretrato (quello ultra-triennale fa scattare i risarcimenti della legge Pinto per l’irragionevole durata del procedimento); i tempi delle cause; il clearance rate (rapporto tra tutte i fascicoli iscritti e definiti), che misura la capacità di smaltire l’arretrato; la copertura degli organici. La ricerca precisa che, per quanto dal punto di vista dei servizi al cittadino non si dovrebbe tener conto dei vincoli organizzativi interni dei tribunali, per misurare le performance non si può ignorare l’indicatore del personale, perché si tratta di una "variabile indipendente dalla responsabilità dei dirigenti degli uffici". Il primato di Bolzano - È la combinazione di questi parametri che assegna il primo posto al tribunale di Bolzano. Un risultato ottenuto "lavorando molto e grazie alla collaborazione dei magistrati - spiega il presidente, Elsa Vesco - e nonostante i vuoti in organico: qui mancano 14 giudici su 39. Per migliorare il servizio abbiamo aggredito l’arretrato storico ma, in parallelo, abbiamo lavorato sui nuovi procedimenti, sulla base di programmi annuali monitorati mensilmente". Ai primi posti della classifica ci sono anche grandi tribunali come Torino e Milano (rispettivamente, al 9° e 11° posto), a dimostrazione che non sempre le migliori performance si registrano negli uffici medio-piccoli. E questo nonostante Torino e Milano abbiano forti scoperture di organico, a cui si è fatto fronte - come in tutti gli altri tribunali premiati dal ranking - con la riorganizzazione del lavoro e delle strutture. Un altro dato messo in luce dalla ricerca è una "territorialità" dell’efficienza: nella parte alta della classifica si trovano soprattutto tribunali del Nord (il primo del Centro è Sulmona, che occupa il quinto posto), mentre quelli dell’Italia centro-meridionale affollano la parte bassa del ranking. Più in particolare, nelle prime 30 posizioni, quasi il 16% dei tribunali è del Nord (3,6% del Centro e 2% del Sud), mentre nelle ultime 30 gli uffici del Nord sono lo 0,7%, quelli del Centro il 3% e del Sud il 18 per cento. E questo - sottolinea la ricerca - nonostante le scoperture di personale amministrativo siano soprattutto al Settentrione, dove si registra una media del 25% contro la media nazionale del 21 per cento. Più omogenee, invece, le lacune di magistrati (il 13% di media nel 2016), senza particolari scompensi geografici. La disomogeneità delle performance tra i tribunali e tra le diverse zone del Paese è, secondo lo studio, "molto (forse troppo) ampia". Come dimostrano, per esempio, i 342 giorni necessari per definire una causa ad Aosta, contro i 2.094 di Lamezia Terme. Riforma della giustizia penale: necessaria ma non sufficiente di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2017 Segnali contraddittori arrivano sul fronte dei processi pendenti. L’inchiesta del Sole 24 Ore del lunedì mette in luce come al miglioramento complessivo del settore civile non corrisponda per ora un significativo salto di qualità nel penale. Le ragioni sono diverse. La coperta delle risorse è certo corta, come sottolinea il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, e ha riscaldato più il civile in questi anni. Si pensi, per esempio, all’impulso dato al processo civile telematico o alla messa in campo di un circuito alternativo a quello dei tribunali ordinari per provare a risolvere alcune tipologie di controversie, dalla conciliazione alla negoziazione assistita. O, magari con una punta di cinismo, all’aumento dei costi di accesso alla giurisdizione, con l’incremento progressivo negli anni del contributo unificato. Il penale è invece rimasto al palo. Anche perché, inutile nasconderlo, gli interventi su questo fronte sono a elevato rischio di polemica politica. Più facile invece aggregare in Parlamento inedite forme di coesione tra forze politiche anche divise sui temi più operativi della giustizia civile. E questo anche se all’appello mancano ancora interventi strutturali come la riforma del processo civile e quella della legge fallimentare. È di pochi giorni fa l’approvazione di una complessa legge delega che riscrive, peraltro con numerose disposizioni subito in vigore, larghi tratti del diritto penale sostanziale e, soprattutto, procedurale. Gran parte delle novità si devono leggere, sostiene il ministero, in chiave di riduzione dei carichi di lavoro che affliggono procure e tribunali. È il caso della nuova causa di estinzione del reato per chi ripara le conseguenza di un reato perseguibile a querela. Il punto è che poi queste misure si scontrano con altre. Certo invocate, e con ragione, da anni. Come le modifiche fatte alla disciplina della sospensione dei termini di prescrizione. Che risponde a un’esigenza di ridurre il numero dei reati azzerati dal fattore tempo, ma che, nello stesso tempo, potrebbe produrre un allungamento dei tempi. Come pure bisogna ricordare la timidezza di alcuni interventi anche recenti. Si veda la depenalizzazione più che la tenuità del fatto. È allora (forse) venuto il tempo di un confronto su scelte radicali. Che già sono state adombrate in provvedimenti molto contestati, come quello sui migranti, che cancella un grado di giudizio e apre la strada a un processo con partecipazione solo virtuale e camera di consiglio. Modalità che certo permetterebbero un’accelerazione dei tempi, forte tentazione, ma che, se applicate su larga scala, comporterebbero un cambiamento profondo del nostro ordinamento. Siamo pronti? La Presidente del Tribunale per i Minori di Napoli: "giustizia negata per i minori" di Gigi Di Fiore Il Mattino, 20 marzo 2017 Patrizia Esposito: la riforma cancella i tribunali dedicati, un errore. Presidente del Tribunale per i minori di Napoli dal giugno dello scorso anno dopo aver ricoperto lo stesso incarico a Campobasso per otto anni, Patrizia Esposito guarda con preoccupazione all’ipotesi di soppressione degli uffici della giustizia minorile. Presidente Esposito, pensa che sia davvero vicina l’eliminazione dei tribunali minorili? "Siamo alle battute finali, con la discussione in aula al Senato della legge di riforma del processo civile. Vi è inserita anche l’abrogazione degli uffici minorili e noi siamo davvero sconcertati". Quali sono i vostri principali motivi di preoccupazione? "Si tratta di competenze in materia delicatissima, che rischia di confluire nella macchina già congestionata della giustizia ordinaria. Vengono previste sezioni specializzate minorili all’interno dei tribunali e delle procure ordinarie, ma questo rischia di provocare alla lunga seri problemi di gestione". A cosa pensa, in particolare? "Nelle attuali strutture minorili, c’è naturalmente autonomia organizzativa e rappresentanza esterna nei confronti di istituzioni diverse. Questi due elementi, che sono fondamentali, verranno meno. La gestione diventerà parte dell’ordinaria, non più gestione speciale dovuta ai particolari problemi, sociali e psicologici, legati al mondo dei bambini e degli adolescenti, che meritano attenzione e competenza dedicata". Una critica che riceve consensi e solidarietà? "Centinaia e centinaia di personalità in questi giorni hanno firmato il documento di protesta e preoccupazione elaborato dall’associazione italiana magistrati per i minorenni e per la famiglia. Ci si è resi conto che, in un difficile contesto storico generale, occorrerebbe al contrario una maggiore attenzione verso gli uffici giudiziari minorili". Si riferisce alle ripetute vicende di disagio minorile e ai casi di violenze in famiglia sempre più all’attenzione della cronaca? "Sicuramente. Il giudice per i minori si occupa di situazioni di disagio e abbandono, che impongono soluzioni e decisioni tempestive e rapide. Non si può pensare, in questa situazione, a rinvii a lungo termine come accade per la giustizia ordinaria. Anche un adolescente che commette un reato non può essere certamente giudicato quando è diventato maggiorenne. Il rischio, se questa riforma andasse in porto, esiste". È vero che la giustizia minorile italiana è caposcuola in Europa? "Sicuramente abbiamo ricevuto attestati di stima dall’Unione europea, che ha invitato gli Stati membri ad adeguarsi ad alcuni principi introdotti in questa materia dalla giurisprudenza minorile italiana. E addirittura la giustizia ordinaria ha fatto proprie alcune nostre innovazioni. Penso all’istituto della messa in prova, ad esempio". È vero che la riforma nasce da necessità di efficienze e integrazioni tra uffici giudiziari? "Non si può ridurre l’attenzione al mondo minorile a puro efficientismo teorico. Ci sono problemi di tale complessità, che hanno bisogno di specializzazioni interdisciplinari. In questo momento storico sarebbe stato necessario un rafforzamento dell’esistente, non una soppressione". Momento particolare, con esasperazione di fenomeni di violenza minorile, come dimostra la recente vicenda di Mugnano? "Sì, i fenomeni di bullismo vengono seguiti da noi con attenzione, perché segnali di allarme in un contesto sociale particolare come sanno bene i colleghi della Procura minorile alle prese con forme di violenza di adolescenti legati alla criminalità organizzata". Tribunale e Procura per i minorenni sono, in realtà criminali difficili, dei primi presidi di legalità? "Sì, siamo il primo presidio percepibile di legalità per le famiglie e i giovanissimi che commettono reati. Sappiamo che c’è una recrudescenza di criminalità minorile nelle organizzazioni camorristiche. Le risposte, nell’attuale situazione, sono sempre immediate. Con la soppressione diventerebbero più difficili". Anche l’intervento sulla responsabilità genitoriale attuato di recente a Reggio Calabria come a Napoli, per i figli di genitori affiliati alla criminalità organizzata? "Sono interventi che guardano alla tutela del minore in situazioni particolari. A Napoli è un procedimento all’esame del giudice. Ma è un altro esempio di come la specializzazione in questo settore giudiziario sia necessaria". C’è chi sostiene che unificare gli uffici giudiziari porti risparmi. Che ne pensa? "Credo che sulla tutela dei minorenni non si possa fare il conto della lavandaia. Bisogna tenere lo sguardo alto sul futuro rappresentato dai giovani e il loro destino da tutelare. Viviamo con sconcerto l’ipotesi della soppressione, quando lo stesso ministro Orlando aveva riconosciuto il valore dei risultati raggiunti dalla giustizia minorile". Meno garanzie per le domande di asilo politico di Marco Noci Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2017 Il percorso giurisdizionale per chi chiede asilo in Italia si prepara a diventare meno garantista. Infatti, il Dl sull’immigrazione (13/2017, in vigore dal 18 febbraio e all’esame delle commissioni del Senato per la conversione in legge) elimina il giudizio di appello contro il decreto del tribunale di rifiuto della domanda di asilo: il provvedimento resterà solo ricorribile per Cassazione entro il termine ordinario (60 giorni dalla notifica o sei mesi dalla pubblicazione). Il diritto fondamentale di ogni richiedente asilo a ottenere un ricorso effettivo di fronte a un giudice, comprensivo della difesa gratuita in caso di indigenza, contro ogni decisione negativa delle decisioni sulle domande di protezione internazionale è garantito in tutti gli Stati della Ue dall’articolo 46 della direttiva 2013/32, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale. Le modifiche - Questo diritto è stato attuato dall’Italia con il decreto legislativo 25/2008. Con il decreto legge 13/2017 il Governo introduce sostanziali modifiche ai procedimenti giurisdizionali. In particolare, inserisce nel Dlgs 25/2008 l’articolo 35-bis che innova sostanzialmente la disciplina delle controversie in materia di riconoscimento asilo. La norma dispone che le controversie siano regolate dal rito camerale (a contraddittorio scritto e a udienza eventuale), anziché dal rito sommario di cognizione, da definirsi entro quattro mesi dalla presentazione del ricorso. È previsto che la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale non operi per i procedimenti in materia di riconoscimento della protezione internazionale. Niente più appello - Inoltre, il decreto del tribunale non sarà più impugnabile in appello, ma solo in Cassazione. L’eliminazione del grado di appello appare una compressione del diritto di difesa, soprattutto nel nostro ordinamento giudiziario basato sulla garanzia del doppio grado di giudizio di merito anche nelle controversie di modesto valore economico. L’obiettivo del decreto legge è quello di sgravare gli uffici giudiziari impegnati con i ricorsi dei richiedenti asilo. Ma una soluzione meno netta potrebbe essere quella di prevedere la possibilità di presentare un reclamo, in base all’articolo 739 del Codice di procedura civile, alle sezioni specializzate d’appello, che potrebbero essere introdotte a fianco di quelle previste dal decreto legge 13 per i tribunali. Le nuove norme non sono ancora operative: l’entrata a regime di molte disposizioni previste dal decreto legge 13 è rimandata a 90 o 180 giorni dall’entrata in vigore del Dl stesso. Sembra quindi difficile ravvisare la sussistenza dei requisiti di straordinarietà, necessità e urgenza che la Costituzione richiede per l’emanazione del decreto legge. E anche l’associazione immigrazione-emergenza/urgenza è ormai anacronistica. Sui confini della decretazione d’urgenza, in linea generale, la Corte costituzionale con la sentenza 171/2007 ha già sancito l’incostituzionalità di un decreto legge per evidente mancanza dei presupposti di necessità e urgenza. Non è abnorme la citazione a giudizio senza richiesta di sospensione con messa alla prova di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2017 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 26 gennaio 2017 n. 3864. Il provvedimento con cui il giudice del dibattimento abbia restituito gli atti al pubblico ministero sul presupposto che il decreto di citazione a giudizio fosse affetto da nullità perché non contenente l’avviso della facoltà di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova ex articolo 168-bis del Cp, pur essendo erroneo - in quanto l’articolo 552, comma 1, lettera f), del Cpp non prevede l’obbligo per il pubblico ministero di inserire tale avviso nel decreto di citazione a giudizio - non presenta tuttavia i caratteri dell’abnormità, dal momento che il pubblico ministero ben può proseguire nell’esercizio dell’azione penale rinnovando l’emissione del decreto nella stesura originaria erroneamente sanzionata dall’organo giudicante. Lo hanno stabilito i giudici della Cassazione penale con la sentenza n. 3864 del 2017. Il decreto di citazione a giudizio - La Cassazione ha concluso nel senso dell’erroneità della tesi del giudicante secondo cui il decreto di citazione a giudizio dovesse contenere l’avviso della facoltà dell’imputato di chiedere, mediante l’opposizione, la sospensione del procedimento con messa alla prova, osservando in proposito come non fosse esportabile, al decreto di citazione a giudizio, il portato della decisione (sentenza n. 201 del 2016) con cui la Corte costituzionale, di recente, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’articolo 24, comma 2, della Costituzione, l’articolo 460, comma 1, lettera e), del Cpp, nella parte in cui non prevede che il decreto penale di condanna contenga l’avviso della facoltà dell’imputato di chiedere mediante l’opposizione la sospensione del procedimento con messa alla prova. La declaratoria di incostituzionalità si è infatti basata sulla specificità del decreto penale, nel quale la mancata formulazione della richiesta di sospensione con messa alla prova con l’atto di opposizione determina una decadenza, sicché nel giudizio conseguente all’opposizione l’imputato, che prima non l’abbia chiesta, non può più chiedere la messa alla prova. È questo, quindi, che impone che con il decreto penale sia dato avviso della facoltà di chiedere la messa alla prova, mentre la mancata previsione tra i requisiti del decreto penale di condanna dell’avviso della relativa facoltà dell’imputato è stata conseguentemente censurata come lesiva del diritto di difesa. Tale situazione, osserva la Cassazione, è completamente diversa per il decreto di citazione, nel cui contenuto quindi, giustamente, non vi è traccia dell’avviso della facoltà di chiedere la messa alla prova: in tale caso, non vi è alcun pregiudizio per la parte non avvisata, giacché questa non incorre in alcuna decadenza nella proposizione della richiesta, tranquillamente avanzabile in sede di giudizio nei limiti temporali ordinariamente stabiliti dall’articolo 464-bis, comma 2, del codice di procedura penale. Sull’estorsione pesa l’efficacia della minaccia e cioè se il male risulta certo e realizzabile di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2017 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 9 febbraio 2017 n. 6278. Il criterio distintivo tra il reato di truffa e quello di estorsione, quando il fatto è connotato dalla minaccia di un male, deve essere individuato valutando la concreta efficacia coercitiva della minaccia, dovendosi ritenere l’estorsione se il male viene indicato come certo e realizzabile a opera del reo o di altri, poiché in tal caso la persona offesa è posta nell’ineluttabile alternativa di far conseguire all’agente il preteso profitto o di subire il male minacciato; si verte, invece, nella truffa quando il male viene ventilato come possibile ed eventuale e comunque non proveniente direttamente o indirettamente da chi lo prospetta, in modo che la persona offesa non è coartata, ma si determina alla prestazione, costituente l’ingiusto profitto dell’agente, perché tratta in errore dalla esposizione di un pericolo inesistente. Lo hanno chiarito i giudici penali della Cassazione con la sentenza n. 6278 del 2017. In questa prospettiva - prosegue la Corte - se si individua nella concreta efficacia coercitiva della minaccia l’attributo della condotta utile per distinguere la truffa dall’estorsione perde rilevanza anche l’eventuale irrealizzabilità del male prospettato, essendo l’analisi richiesta limitata alla verifica ex ante della concreta efficacia coercitiva dell’azione minatoria, sicché l’eventuale irrealizzabilità del male non consentirebbe comunque di invocare l’articolo 49 del Cp. Il criterio distintivo tra truffa ed estorsione - È pacifico in giurisprudenza che il criterio distintivo tra il reato di truffa e quello di estorsione, quando il fatto è connotato dalla minaccia di un male, va ravvisato essenzialmente nel diverso modo di atteggiarsi della condotta lesiva e della sua incidenza nella sfera soggettiva della vittima: ricorre la prima ipotesi delittuosa (articolo 640, comma 2, numero 2, del Cp) se il male viene ventilato come possibile ed eventuale e comunque non proveniente direttamente o indirettamente da chi lo prospetta, in modo che la persona offesa non è coartata, ma si determina alla prestazione, costituente l’ingiusto profitto dell’agente, perché tratta in errore dalla esposizione di un pericolo inesistente; mentre si configura l’estorsione se il male viene indicato come certo e realizzabile a opera del reo o di altri, in tal caso la persona offesa è posta nella ineluttabile alternativa di far conseguire all’agente il preteso profitto o di subire il male minacciato (tra le tante, sezione II, 9 luglio 2009, D’Aranno e altro). È in questa ottica ricostruttiva che, esemplificando, si risolve l’ipotesi paradigmatica dell’attività di intermediazione svolta per far riottenere al derubato la cosa sottrattagli. Si sostiene, in proposito, che integra il reato di estorsione la condotta di colui che chiede e ottiene dal derubato il pagamento di una somma di denaro come corrispettivo per l’attività di intermediazione posta in essere per la restituzione del bene sottratto, in quanto la vittima subisce gli effetti della minaccia implicita della mancata restituzione del bene come conseguenza del mancato versamento di tale compenso: il soggetto passivo è infatti posto davanti all’alternativa di aderire all’ingiusta e pregiudizievole richiesta o subire il danno. Invece, il reato di truffa aggravata dall’essere stato ingenerato nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario si configura allorché venga prospettata al soggetto passivo una situazione di pericolo che non sia riconducibile alla condotta dell’agente, ma che anzi da questa prescinda perché dipendente dalla volontà di un terzo o da accadimenti non controllabili dall’uomo: in tal caso la vittima viene infatti indotta ad agire per l’ipotetico pericolo di subire un danno il cui verificarsi, tuttavia, viene avvertito come dipendente da fattori esterni estranei all’agente, che si limita pertanto a condizionare la volontà dell’offeso, senza peraltro conculcarla, con una falsa rappresentazione della realtà (sezione II, 16 ottobre 2013, Proc. Rep. Trib. Taranto in proc. Perniola e altro). Discriminatorio chiamare "clandestino" chi chiede asilo di Giuseppe Buffone Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2017 Tribunale di Milano, ordinanza del 23 febbraio 2017. Con ordinanza del 23 febbraio 2017, il Tribunale di Milano, in accoglimento del ricorso presentato dalla Associazione degli studi giuridici sull’immigrazione, ha dichiarato il carattere discriminatorio dell’espressione "Clandestini" contenuta nei manifesti della Lega Nord, diffusi nel territorio di Saronno nell’aprile 2016. La discriminazione per ragioni di nazionalità - Il primo snodo giuridico esaminato dal Tribunale di Milano concerne il riconoscimento di tutela giuridica anche alla discriminazione in ragione della nazionalità (non menzionata dal decreto legislativo 215 del 2003 ma tipizzata dal decreto legislativo 286 del 1998). L’articolo 2, lettera a), della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla cittadinanza del 1996 la definisce come "il vincolo giuridico tra una persona e uno Stato". Benché il numero di Stati che ha ratificato la convenzione sia limitato, la definizione si basa su norme riconosciute di diritto internazionale pubblico ed è stata adottata anche dalla Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza. Ebbene, la Cedu impone a tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa (che comprende gli Stati membri dell’Ue) l’obbligo di garantire i diritti sanciti dalla Convenzione a ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione (compresi i cittadini di paesi terzi) e tipizza, dunque, una discriminazione fondata anche sull’origine nazionale (si vedano, tra le altre, le sentenze della Cedu del 16 settembre 1996, Gaygusuz c. Austria, e del 30 settembre 2003, Koua Poirrez c. Francia). Sul punto, comunque, la giurisprudenza interna è del tutto consolidata: sono state, infatti, anche in tempi recenti, le Sezioni unite della Cassazione ad affermare che il cittadino straniero è legittimato a esercitare l’azione antidiscriminatoria in base all’articolo 44 del decreto legislativo 286 del 1998 per ragioni di nazionalità (sentenza 7951 del 2016 delle Sezioni unite della Cassazione). L’ordinanza milanese, quindi, costituisce l’espressione di una giurisprudenza tradizionale. La discriminazione veicolata da molestie - Il secondo punto rilevante del provvedimento in esame è nella parte in cui ha ammesso che la discriminazione possa essere veicolata da una molestia. Il divieto di molestie e dell’ordine di discriminare costituiscono un’evoluzione relativamente recente nell’ambito del diritto dell’Unione, introdotta per garantire una protezione più completa. Le direttive Ue considerano le molestie una specifica forma di discriminazione quando - in particolare - hanno lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona o di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. Anche qui, pertanto, la decisione milanese costituisce la fedele attuazione dei precetti europei, come trasposti nel diritto interno. Interessante è l’applicazione in concreto che il tribunale milanese fa di queste regole. Il caso riguardava una cartellonistica che mirava a contestare l’accoglienza, nel Comune di Saronno, di una trentina di richiedenti asilo politico, in attesa di decisione, definiti, nell’occasione, "clandestini": "Saronno non vuole i clandestini (…) vitto, alloggio e vizi pagati da noi (...). Nel frattempo ai saronnesi tagliano le pensioni e aumentano le tasse", recitavano i manifesti. Chi chiede asilo non è clandestino - Un punto in diritto è, invero, pacifico: il richiedente asilo è il cittadino straniero che ha un ragionevole timore di poter essere, in caso di rimpatrio, vittima di persecuzione e non è, quindi, un clandestino. Il richiedente asilo è persona vulnerabile in attesa di protezione; il clandestino è persona che versa in una situazione irregolare, senza l’approvazione dell’autorità e, soprattutto, che commette reato (articolo 14 del decreto legislativo 286 del 1998). Il richiedente asilo esercita un diritto proprio; il clandestino viola diritti altrui. È dunque evidente che, in astratto, qualificare il richiedente asilo come clandestino può costituire molestia discriminatoria se, a questa qualifica lessicale, venga accostata una sottrazione di risorse pubbliche dai cittadini (rispettosi della legalità) ai clandestini (autori di reato), nel ristretto ambito di un territorio, sede di accoglienza di rifugiati. Un messaggio così strutturato - come ha ritenuto il Tribunale di Milano - "veicola l’idea fortemente negativa che i richiedenti asilo costituiscano un pericolo per i cittadini". Sugli eco reati la variabile-tenuità di Paola Ficco Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2017 Anche i sistemi ambientali sono toccati dalla clausola di non punibilità per tenuità del fatto prevista dall’articolo 131-bis del Codice penale, introdotto dal Dlgs 16 marzo 2015, n. 28 con l’obiettivo di ridurre i carichi di lavoro nei tribunali evitando che vadano a processo casi sostanzialmente irrilevanti. A due anni di distanza la giurisprudenza di legittimità ha iniziato a tracciare una strada. Le pronunce riguardano tutte il tema dei rifiuti: segno evidente del malessere del settore. I requisiti - Il giudice può chiedere l’archiviazione del reato per tenuità del fatto per i reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni o puniti con la sola pena pecuniaria o congiunta alla pena detentiva, a patto che non siano reiterati e che chi li ha commessi non sia un delinquente abituale. Nella cornice edittale rientra quindi la grande maggioranza dei reati ambientali che, in massima parte contravvenzioni, hanno una pena detentiva non superiore a tre anni. Si pensi al trasporto di rifiuti senza formulario che, punito con la reclusione fino a due anni, vede la sua punibilità fortemente ammortizzata dalla nuova disciplina. D’altro canto, il rischio è che condotte fortemente lesive del bene ambiente come declinato dalla Corte costituzionale possano trasformarsi in reati con ridotta lesività e di minore rilevanza sociale. Ed è proprio sulla lesività del danno e sulla rilevanza sociale che la Cassazione ha iniziato a dettare i primi punti fermi. La valutazione del giudice - L’elemento cardine è la valutazione dell’offensività e dell’abitualità della condotta. La Cassazione penale con la sentenza 41850/2015ha riconosciuto l’applicazione del nuovo istituto alla gestione senza autorizzazione di un blocco motore e diversi tubi di scarico di auto fuori uso poiché la minima offensività era determinata dalla non abitualità della condotta e dal fatto che il soggetto era incensurato e si era adoperato per lo smaltimento dei rifiuti. Niente tenuità, invece, in caso di violazioni plurime della stessa norma in quanto viene meno il requisito dell’occasionalità. La Cassazione penale (sentenza 30 dicembre 2016, n. 55287) ha infatti negato l’istituto a un caso di deposito incontrollato di imballaggi usati, potenzialmente pericoloso per la salute umana, poiché commesso con violazioni multiple della norma. Sempre a causa della reiterazione della condotta, la Cassazione penale (sentenza 16 novembre 2016, n. 48318) non ha ravvisato la tenuità del fatto anche per un trasporto illecito di materiali ferrosi senza autorizzazione che si era perpetrato nel tempo. L’entità del danno - La lieve entità del danno va inoltre desunta dalla condotta assunta durante la commissione del reato e il successivo atto riparatorio non è rilevante. Con la sentenza dell’8 febbraio 2017, n. 5745, la Cassazione penale ha negato l’accesso al nuovo regime per l’abbandono di rifiuti inerti da costruzione e demolizione, anche se l’autore si impegna a bonificare l’area. Di segno opposto un’altra sentenza della Cassazione penale (30 gennaio 2017, n.4187) sempre in tema di inerti da costruzione e demolizione, che, invece, a causa della modesta offensività della condotta, ha riconosciuto la tenuità all’ attività di gestione illecita di rifiuti. Questo perché non si trattava di un comportamento abituale e il reato era caratterizzato da minima offensività. La necessità di rispettare i requisiti della particolare tenuità dell’offesa e della non abitualità della condotta ai fini dell’applicabilità del nuovo istituto è stata ribadita da Cassazione penale con la sentenza del 29 gennaio 2016, n. 3874in ordine allo smaltimento illecito di rifiuti liquidi su suolo, acque superficiali e sotterranee in caso di percolazione di reflui da stoccaggio di scarti vegetali e da reflui zootecnici provenienti dalle stalle. Il "buonismo" minaccioso di Francesca de Carolis remocontro.it, 20 marzo 2017 Avrei voluto parlare di famiglie, bimbi, adozioni, quelle negate e quelle usurpate… ma a proposito della vicenda della bambina sottratta a genitori "troppo" anziani, lunedì scorso mi è capitato di ascoltare l’intervento di un noto, notissimo giornalista, che quasi giornalmente ci propone riflessioni da altrettanto notissimi spazi su quotidiani e tv, e a proposito di questa triste vicenda ha parole ben dure contro questa sorta di reato di anzianità "punito con la sottrazione di un minore ai genitori biologici da parte della cosiddetta Giustizia". E fin qui, d’accordo, d’accordissimo. Peccato che il pezzetto sia chiuso da un corollario… "tutto questo in un paese che non leva i figli ai mafiosi"! Naturalmente non voglio insegnare niente a nessuno, figurarsi se a illustre giornalista… Ma è facile, troppo facile… Mi interrogo spesso, da quando mi sono imbrigliata in storie di ex appartenenti alla criminalità, su quanto la parola "mafia, mafioso" sia diventata una sorta di "tana libera tutti", che ci autorizza a brutalità inaudite. A violare diritti fondamentali. I figli, dunque. Intanto, non è vero che i figli non vengono sottratti ai "mafiosi". È un po’ come la falsa notizia che "l’ergastolo non lo sconta nessuno". I figli vengono sottratti eccome ma, naturalmente, su disposizione del magistrato, il tribunale dei minorenni, che valuta, come è giusto che sia, i singoli casi. E valuta ogni volta, come è giusto che sia, nell’interesse del minore. Ogni tanto, però, salta fuori l’idea, "generalista", di "levare i figli ai mafiosi". Lo scorso anno c’era stata anche una proposta di legge, che rischiava di creare pericolosi automatismi (come non ce ne fossero abbastanza di devastanti automatismi nel nostro sistema penale). E sottrarre la patria potestà rischia di diventare, anziché una forma di tutela dei figli, di fatto una "pena accessoria" nei confronti di chi ha una condanna. Eppure, eppure… Conosco persone in carcere appartenute alla criminalità organizzata che hanno trovato la forza di cambiare grazie al pensiero dei figli e al rapporto che nonostante le barriere, dello spazio e del tempo, sono riusciti a mantenere con loro. Penso ad Alfredo, in carcere da 26 anni, che arriva a dire: alla fine sono contento di essere stato arrestato tanto giovane, che ho capito, e ho voluto che mio figlio restasse distante da quello che a me ha portato qui dentro… Penso a Gino, che segue passo passo la vita del suo Nicholas, ed è la cosa che dà un senso alla sua vita, pur imbrigliata in una pensa infinita. Penso a Giovanni, che scrive favole per le sue nipotine. E che se ha momenti di abbattimento e di rabbia è perché la distanza ha talmente rarefatto gli incontri… Penso a Carmelo, distante anni luce dall’uomo che 25 anni fa fu condannato all’ergastolo, che mi parlava, ora accorato, del figlio che cercava lavoro, ora felice della figlia, che quando lui si abbatteva era pronta a correre per dolcemente rimproverarlo, e sostenerlo. Che mi parla fiero dei suoi nipotini, che sono la ragione del suo cercare di ricostruire, ora che è in semilibertà, una vita "normale". Le persone in carcere parlano molto dei figli, dei nipoti, quasi più che delle compagne. Perché i figli e i nipoti sono la loro unica idea di futuro. E sono loro ad alimentare il pensiero che il futuro può essere diverso dal passato. Lo so che remo contro, e questo è remare contro in salita… Ma il punto è sempre lo stesso. La nostra presunzione di stare dalla parte dei "giusti", e tutto quello che è al di là della linea che abbiamo tracciato appartiene al mondo degli indegni, e non si va troppo per il sottile… Discorso pericolosissimo, questo di ragionare per categorie, di degni e di indegni, poi… Perché se passa il criterio, se oggi leviamo i figli a "tutti i mafiosi", domani potremmo trovare naturale levarli, che so, a "tutti" i poveri (e quale sarà la linea di povertà per cui si è incapaci di educare degnamente dei figli…), e dopodomani si può passare ai deboli di cuore, e poi dopodomani, allora perché no?, ai genitori che giudicheremmo troppo vecchi. Noi eventualmente giovani, buoni, ricchi e giusti… E il cerchio si chiude. A proposito di figli di mafiosi… Ricordate? Lo scorso anno sulla Gazzetta del Mezzogiorno comparve questa notizia: "quattro scuole di Bari hanno rifiutato un ragazzo perché figlio di un boss in carcere". La cosa fu commentata con sconforto anche dal sottosegretario all’istruzione Faraone. Le sue parole, durante una conferenza nell’ambito di un progetto educativo antimafia organizzato a Palermo: "Come si può pensare di chiudere la scuola a chi probabilmente ha bisogno più di altri di spazi di condivisione positivi? (…) Questo ragazzo ha bisogno di veri luoghi di educazione, di formazione civile, che lo tengano lontano da modelli criminali. Se la scuola non lavora per superare tutto questo, se la società tutta non si adopera per superare questi preconcetti non andiamo da nessuna parte". Per la cronaca, il ragazzo poi ha trovato, anche per intervento del provveditore, una scuola che l’accogliesse, ma pensate la tristezza… eravamo (noi società) tutti pronti a respingerlo, condannandolo noi da subito ad una vita fuori dalle "nostre regole", condannandolo, noi, a sceglierne inevitabilmente delle altre. Già, non andiamo da nessuna parte, e da nessuna parte andremo (scusate lo sconforto). Levare i figli ai mafiosi… Sembra un dettaglio, ma non lo è, perché una frasetta buttata lì da una finestra tanto autorevole, può distruggere, anche senza volerlo, il lavoro paziente, sotterraneo, accorato, di chi si ostina a non voler fare di tutta l’erba un fascio, di chi cerca spazi possibili di ricomposizione. Eppure, quanto sarebbe importante se l’informazione che ha grande ascolto, che ha gli strumenti di conoscenza e cultura, avesse più attenzione a questo lavoro, certo non facile, di ricomposizione e di civiltà. Padri di vetro con figlie di fuoco don Marco Pozza Il Sussidiario, 20 marzo 2017 Il volto è grazioso, la sua voce è una pungitura, lo sguardo un incrocio di spaesamenti: malinconia, riscatto, vagabondaggi. Staziona in-fronte alle sbarre concitate di una fredda-galera: là dentro, stretta e costretta tra ferro e cemento, scorre lentissima la vita del padre. Uscirà quando apparirà una data-non-data: il 31 dicembre 9999. Tradotto: fine-pena-mai, condannato all’ergastolo ostativo. Il campanello, davanti a quell’ammasso cementizio, sta ancora suonando come in quella dannata mattina. Lei aveva diciotto mesi, quel suono è per-sempre: "È una brusca scampanellata nel cuore della notte - scrive A. Solzenicyn nel suo Arcipelago Gulag - o un colpo brutale alla porta. L’arresto è uno sconvolgimento spirituale inimmaginabile al quale non tutti possono assuefarsi e che spesso fa scivolare nella follia". A diciotto mesi si è troppo piccoli per capire: diciotto mesi, per altri, è l’età non-scelta per accettare d’essere scaraventati allo sbaraglio. In una perquisizione non c’è più nulla di sacro: la vita è stata trapiantata altrove. Una vita a lasciarsi interrogare: "Lei è affezionata a suo padre. Pensa mai alle vittime che ha lasciato per strada?" Ad accettare di rispondere: "Certo, signora. Come potrei non farlo?" Per poi spostare la tenda e chiedere che si guardi la realtà tutt’intera: "Lei, invece, ha mai pensato che di tutte le vittime causate da mio padre io sono stata la prima? Sto ancora scontando la pena di crescere senza-padre". Orfana, con un padre vivente. Per lei, ragazza di un Sud complicato, la paternità è uno snervante Giro d’Italia degli affetti. Le città, nella sua geografia, non sono piazze, monumenti: le città sono nomi abbinati a carceri. Le stagioni sono un elenco di carcerazioni che accecano, stordiscono. Venticinque anni su ventisei a vagabondare per lo stivale per salvare l’affetto. Gli anni del 41-bis a gustarsi il padre dietro il vetro-blindato: niente tocco, tatto, contatto. "È severamente vietato toccare" il filo dell’alta tensione, la statua al museo: il padre dietro il vetro, una lapide. "Mia madre è caduta in depressione: la tengo a casa. Col mio stipendio tengo in piedi la famiglia". A diciotto-mesi la vita è in-salita, controvento, senz’olio: "Per chi rimane, dopo l’arresto, è la lunga coda di una vita sconvolta" (A. Solzenicyn). A restare è la speranza dell’amore: quello che, furtivo e improvviso, fa sbocciare l’umano. Le capita: s’innamora, sogna, s’imbarazza. Fino al giorno in cui c’è un addio non-calcolato: "Suo padre è in carcere. Lasciala". Lasciata: ancora in piedi, ancora in viaggio. Che le colpe dei padri cadano sui figli è roba da Antico-Testamento: per taluni il Nuovo deve ancora arrivare. La festa del papà, in galera, è un ossimoro d’inganno: il campo semantico della festa con la semantica della paternità? "Ti ascolteremo nel 9999". Perché dire-padre è uno strazio, l’allargarsi della ferita, l’infezione della mancanza. Gli arresti si distinguono per il grado di sorpresa che arrecano: anche la donna si riconosce dal grado di sorpresa ch’è capace di generare: "Ho vissuto anni di rabbia, d’inquietudine, di pena: mi è mancato tanto il padre in tutti questi anni. Oggi sono orgogliosa di lui: è mio padre". Nessun figlio può concedersi il lusso di scegliersi il padre: il cognome cucito è un marchio d’appartenenza. Nessun padre, alla nascita del figlio, immagina chi diventerà, di cosa sarà capace quel pugno di carne indifesa. A diciotto mesi ciò che sembra normale è sentire dire da un padre: "Preferirei soffrire io piuttosto di veder soffrire mia figlia". Ciò che pare assurdo è l’inversione di marcia della frase: "Preferirei soffrire io al posto di veder soffrire mio padre, mia madre". Detta da una figlia cresciuta troppo in fretta per vestire le parole di velluto, l’eco è da vertigini. Esistono padri che, per amore, sanno aspettare i tempi di maturazione dei figli. Ciò che non si calcola è il fattore-sorpresa: l’esistenza di figlie che, per amore, sanno aspettare i tempi di maturazione dei destini dei loro padri. Essere padre, in certi luoghi, è accettare d’essere figli-dei-propri-figli. Paternità-murate che le figlie non molleranno mai. La giustizia e il paradigma del sospetto di Luigi Labruna Il Mattino, 20 marzo 2017 L’azione, per tanti versi meritoria, di contrasto al crimine da parte della magistratura rischia di esser seriamente offuscata dalla ormai sempre più frequente adozione di provvedimenti restrittivi della libertà personale degli indagati (spesso di una moltitudine confusa di indagati) basati - più che su prove, indizi corposi, esistenza effettiva delle condizioni tassativamente previste dalla legge che disciplinala detenzione preventiva - sulla adozione di quello che si potrebbe dire "il paradigma del sospetto". Inteso come regola metodologica, criterio astratto di soluzione dei problemi posti dal deperimento del costume sociale e della moralità pubblica non solo, ma anche di quelli che hanno a che fare con le vere e proprie violazioni della legalità. Sia chiaro, l’urgenza di moralizzare la vita pubblica è drammaticamente reale. E i magistrati debbono naturalmente poter fare serenamente il proprio difficile lavoro. Occorre tuttavia che i loro interventi siano (e appaiano) sempre rispettosi delle esigenze di legalità e dei diritti fondamentali dei cittadini. I quali dovrebbero poter non ritrovarsi, prima che ne sia dimostrata definitivamente la eventuale colpevolezza, con l’onorabilità, le carriere, le famiglie, la vita compromesse o distrutte da avvisi di garanzia, accompagnati dalla divulgazione arbitraria di discorsi, notizie, particolari, magari relativi a fatti penalmente non rilevanti. Frutto di intercettazioni non sempre condotte (come insegna la Cassazione) "in modo da non svilire e vanificare le garanzie di inviolabilità che la Costituzione ha apprestato", o peggio, privati addirittura della libertà personale senza che ricorrano tutte le condizioni tassativamente previste dalle norme che consentono il ricorso alla detenzione preventiva. E che sono: il rischio attuale di inquinamento delle prove, il rischio (altrettanto "attuale") di fuga dell’imputato e quello (con la stessa caratteristiche di attualità) di reiterazione del reato. Ebbene, siamo davvero sicuri che per ognuno dei ben 69 indagati per l’affare degli "appalti truccati" uno di tali rischi fosse attuale al punto da giustificare i 69 arresti cautelari? O "è legittimo, pur nel rispetto che si deve all’iniziativa dei pm, coltivare il dubbio che le misure cautelari siano davvero scattate in presenza di prove schiaccianti"? È l’interrogativo che ha posto sabato su queste colonne Vittorio del Tufo in un lucido articolo in cui ha dato voce all’inquietudine di molti cittadini per quel che si ricava dall’ordinanza del gip relativamente agli indizi posti alla base dei tanti provvedimenti di restrizione cautelare della libertà. In non pochi casi indizi (non prove) apparentemente labili. Indiretti. Dedotti da accenni ambigui raccolti captando conversazioni di terzi e senza che siano idonei a dimostrare debitamente l’esistenza di una delle condizioni che sole autorizzano a privare un cittadino, "presunto innocente", della libertà. Ed è il dubbio che, con altre e altrettanto inquietanti argomentazioni, sorge leggendo l’editoriale di ieri di Paolo Macri sul Corriere del Mezzogiorno. In cui, tra l’altro, si sofferma con incisività sul disorientamento evidente di un’opinione pubblica, pur abituata a essere bombardata quotidianamente da notizie vere o fasulle di scandali, sconcezze, corruzioni e disonestà varie, di fronte "all’enormità del quadro disegnato dall’accusa". Secondo il quale, sarebbero coinvolti in questa ennesima maxi inchiesta (che svelerebbe "un sistema" di malaffare dietro il quale ci sarebbe, per alcuni, addirittura la camorra) oltre al "solito drappello di politici e amministratori pubblici", alcuni "pezzi pregiati" della società napoletana, tra cui una dozzina di professori universitari. Uno scenario che dovrebbe apparire a tutti, soprattutto ai colleghi degli incolpati, "insopportabile" e che invece viene appreso da molti o "attestandosi su un giustizialismo sconsolato", che vede confermata la percezione di una corruttela onnipresente, o, all’opposto, ritenendo "poco credibile la magistratura" e perciò dando "poco peso alle accuse". Una trappola dalla quale non c’è modo di uscire (scrive) se non recuperando "la cultura dell’innocenza". Non so se questo sia possibile e se davvero è ipotizzabile l’abbandono del raggelante "paradigma del sospetto" da cui ha preso le mosse questa nostra riflessione. Ne dubito, purtroppo, nel momento attuale, in cui tra l’altro la politica tende a strumentalizzare sempre più di frequente la giustizia e questa appare a sua volta non sempre immune da impropri coinvolgimenti con la politica o da tentazioni di eccedere dalle responsabilità e dai compiti che sono suoi propri. Eppure nel panorama infido in cui ci muoviamo occorre che tutti - giudici e pm in prima linea e, con loro, intellettuali, politici, legislatori, alte autorità dello Stato - cerchiamo con onestà e determinazione di fare la nostra parte per far ritrovare alle istituzioni e alla società il valore dello scrupoloso rispetto della legalità che troppo spesso è stato smarrito. Occorre che tutti rispettiamo, nella forma e nella sostanza, le regole. Tutte. Scrupolosamente. A cominciare da quelle che sono a presidio delle libertà fondamentali dei cittadini. Calabria: visite dei Radicali a Paola, Cosenza, Rossano e Castrovillari di Emilio Enzo Quintieri* cosenzapage.it, 20 marzo 2017 Dopo una breve pausa, torneremo a visitare le Carceri della Calabria. Non è che in questi mesi abbiamo fatto sciopero, ma siamo stati impegnati a visitare gli Istituti Penitenziari della Puglia e della Campania. In quest’ultima Regione, torneremo fine mese, per fare il punto sulla situazione, in un Convegno che abbiamo organizzato insieme ai Giovani Giuristi Vesuviani ed al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Nola, presso la Sala Multifunzionale della Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, uno dei migliori stabilimenti penitenziari del Sud Italia. Lo dichiara Emilio Enzo Quintieri, esponente del Movimento dei Radicali Italiani, nell’annunciare le visite a tutte le Carceri della Provincia di Cosenza. Negli Istituti Penitenziari di Paola, Cosenza, Rossano e Castrovillari, aventi una capienza regolamentare di 737 posti, vi sono ristrette 809 persone; tra queste vi sono 16 donne e 207 cittadini stranieri. Abbiamo, dunque, 72 detenuti in eccesso ed il numero continua a crescere. Le Carceri più affollate, sono le Case Circondariali di Cosenza e di Paola: a Cosenza, a fronte di una capienza di 218 posti, vi sono ristretti 268 detenuti, 45 dei quali stranieri ed a Paola, invece, ove sarebbe possibile ospitarne solo 182, c’è ne sono 220, 95 dei quali stranieri. A Castrovillari e Rossano, invece, le cose stanno leggermente meglio: nel Penitenziario del Pollino sono presenti 121 persone, 28 stranieri, a fronte di una capienza di 122 posti ed in quello della sibaritide 200 detenuti, 39 dei quali stranieri, per 215 posti disponibili. Nell’anno appena trascorso, secondo i dati del Sistema Informativo Automatizzato del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, negli stabilimenti penitenziari della Provincia di Cosenza, vi sono stati diversi "eventi critici" ed in particolare modo 39 risse, 10 ferimenti, 91 atti di autolesionismo, 13 tentati suicidi e 2 suicidi. Rispetto al 2015 sono diminuite, seppur lievemente, le risse (37), i ferimenti (3), gli atti autolesionistici (42) ed i tentati suicidi (9). Tirando le somme, tra tutti gli Istituti Penitenziari della Provincia di Cosenza, quello più "problematico", è stato la Casa di Reclusione di Rossano che, con 18 risse, 4 ferimenti, 32 atti di autolesionismo e 4 tentati suicidi, si colloca al primo posto. Sono convinto che questi eventi critici, qualora fosse stata attivato il modello operativo della c.d. sorveglianza dinamica, sarebbero stati molto di meno come sperimentato in altri Istituti Penitenziari della Repubblica ove sono sensibilmente diminuiti sia gli eventi individuali che collettivi. Non c’è nessuna Sezione a "custodia aperta", nemmeno per la media sicurezza, fatta eccezione per un Reparto nella Casa Circondariale di Paola e per la Casa di Reclusione di Laureana di Borrello in cui è attiva la "custodia attenuata". Mentre in altre Regioni stanno abolendo la "custodia chiusa" anche per il Circuito dell’Alta Sicurezza, in Calabria siamo ancora all’anno zero. Ho più volte sollecitato il Dipartimento a rivedere l’organizzazione custodiale degli Istituti calabresi ma, nonostante le rassicurazioni ricevute, non è stato fatto alcun intervento. Martedì 21 saremo in visita alla Casa Circondariale di Paola - prosegue l’esponente radicale Quintieri - venerdì 24 alla Casa Circondariale di Cosenza, martedì 28 alla Casa di Reclusione di Rossano ed infine mercoledì 29 alla Casa Circondariale di Castrovillari. In queste visite, la Delegazione di Radicali Italiani, composta da Quintieri, Valentina Anna Moretti e Maria Ferraro, sarà integrata da Francesca Stancati, Delegato Provinciale del Coni di Cosenza, Adamo Francesco Guerrini, Presidente Provinciale Acsi di Cosenza e da Roberto Blasi Nevone, Francesco Iacucci e Giovanni Gagliardi, Tecnici Sportivi operanti sul territorio. In questa occasione, durante le visite, autorizzate dai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, conclude Emilio Enzo Quintieri, visiteremo anche i locali, gli spazi e le attrezzature per lo svolgimento dell’attività sportiva, valutando la possibilità di proporre proposte progettuali per il miglioramento dell’impiantistica e delle attrezzature e per l’avvio di progetti con Istruttori qualificati come già fatto presso la Casa Circondariale di Cosenza. *Esponente del Movimento Radicali Italiani Roma: suicida a Regina Coeli, indagine sul trasferimento dalla Rems al carcere di Giulio De Santis Corriere della Sera, 20 marzo 2017 Dalla Rems di Ceccano al carcere di Regina Coeli. È l’ultimo viaggio di Valerio Guerrieri, affetto da un vizio di mente, verso la cella dove si è poi suicidato impiccandosi il 24 febbraio. Un trasferimento pieno di zone d’ombra, evitabile almeno secondo il pm Attilio Pisani che ha inviato gli atti alla procura di Frosinone perché valuti se nel giudizio decisivo per lo spostamento del 22enne sia ipotizzabile il reato di falso ideologico. A decidere l’incompatibilità con la struttura riservata a detenuti affetti da patologie psichiche è stato lo scorso 19 dicembre il responsabile della Rems nel frusinate che giudicò il 22enne "lucido". Dalla Rems di Ceccano al carcere di Regina Coeli. È l’ultimo viaggio di Valerio Guerrieri, affetto da un vizio di mente, verso la cella, dove si è poi suicidato impiccandosi il 24 febbraio scorso. Un trasferimento pieno di zone d’ombra, evitabile almeno secondo il pm Attilio Pisani che ha inviato gli atti alla procura di Frosinone perché valuti se nel giudizio decisivo per lo spostamento del 22enne sia ipotizzabile il reato di falso ideologico. A decidere l’incompatibilità con la struttura riservata a detenuti affetti da patologie psichiche è stato lo scorso 19 dicembre il responsabile della Rems nel frusinate che giudicò il 22enne "lucido, in possesso della capacità di intendere e volere". Osservazioni formulate dopo diciotto giorni di permanenza nella casa di cura - dove il 30 novembre era stato inviato in seguito alla decisione della Corte D’Appello - che contrastavano con quanto stabilito nelle stesse ore dal consulente del tribunale, Gabriele Mandarelli, dove il ragazzo era sotto processo per resistenza e lesioni. Secondo il professionista nominato dal giudice Anna Maria Pazienti per studiarne lo stato di salute mentale, il detenuto era pericoloso avendo un vizio di mente. Una conclusione messa nero su bianco nella consulenza depositata a piazzale Clodio il 15 dicembre, poche ore prima che a Ceccano arrivassero a un esito opposto. Ora la presenza di due relazioni contrastanti ha convinto il pm a fare luce su come sia stato possibile arrivare a valutazioni inconciliabili. L’addio a Ceccano - "da dove Valerio era fuggito più volte in tre settimane" ricorda il suo difensore, l’avvocato Claudia Serafani - è stato una tappa determinante, secondo gli inquirenti, nell’evoluzione della tragedia. Qualora Guerrieri fosse rimasto al Rems, ipotizza la procura, il detenuto sarebbe stato curato secondo le esigenze imposte dalle sue condizioni. Il pm Attilio Pisani ha inviato gli atti a Frosinone perché si valuti se sia ipotizzabile il falso C’è una seconda inchiesta coordinata dal pm Pisani dove s’indaga per omicidio colposo. In questo caso nel mirino c’è il personale carcerario di Regina Coeli, obbligato a controllare ogni quarto d’ora cosa facesse Valerio in cella, com’è previsto per i detenuti sottoposti alla grande sorveglianza. Verifiche mancate per la procura. Cosa faceva Valerio il 24 febbraio in cella? Attendeva che lo ospitasse una Rems, come stabilito dal giudice Pazienti. Insomma un corto circuito, considerando che da una Rems era stato mandato via due mesi prima. Frosinone: l’omicidio di un detenuto camuffato da suicidio in carcere di Angela Nicoletti Il Tempo, 20 marzo 2017 È accaduto otto mesi fa nel carcere di Frosinone, ma solo oggi è trapelata la notizia. Non c’è pace per il penitenziario ciociaro che in queste ore si trova al centro di una vera e propria bufera mediatica dopo le fuga rocambolesca e da fiction del pericoloso camorrista Alessandro Menditti del quale, da sabato mattina all’alba, si sono perse le tracce nonostante le ricerche a tappeto in tutta Italia e in particolar modo in provincia di Caserta, dov’è nato e dove milita nel gruppo criminale dei Belforte di Marcianise. Alla clamorosa evasione si è aggiunta quindi la notizia, tenuta segreta, di una delicata indagine per il reato di ‘omicidio volontariò che da qualche tempo la Procura di Frosinone, unitamente agli investigativa della Polizia Penitenziaria, sta portando avanti. Si sta cercando di fare chiarezza sulla morte violenta di un anziano detenuto, con problemi di deambulazione, avvenuta lo scorso agosto e che in un primo momento era stata classificata come suicidio. L’uomo, infatti, venne trovato impiccato in cella e nonostante i tentativi di strapparlo alla morte non ci fu nulla da fare. A trovare il suo corpo fu un 43enne di Sabaudia che aveva il compito di assisterlo. Una sorta di tutor assegnato dalla direzione per consentire all’anziano di poter svolgere senza difficoltà i più banali gesti quotidiani. Un rapporto di affetto e stima che improvvisamente si sarebbe interrotto e che sarebbe sfociato in un omicidio. A dare conferma ai sospetti di coloro che per primi sono arrivati in cella, ed hanno notato quel corpo penzolante ma pieno di ecchimosi, è stata l’autopsia che parlerebbe di asfissia meccanica. Un soffocamento provocato da due mani che avrebbero fortemente stretto il collo della vittima e non da un rudimentale cappio. Gli accertamenti del medico legale avrebbero evidenziato che il detenuto era già morto quando sarebbe stata messa in atto la messinscena del suicidio. Settimane di indagini serrate e finalmente nei giorni scorsi la svolta: ad essere indagato per quella morte sarebbe stato proprio il tutor della vittima, Daniele Cestra, detenuto nel penitenziario frusinate con pena definitiva per aver assassinato nel dicembre del 2013 una pensionata di una donna di 81anni, Anna Vastola, uccisa dopo un tentativo di rapina nella sua abitazione di Borgo Montenero in provincia di Latina. Cestra, difeso dagli avvocati Angelo Palmieri e Sinuhe Luccone si è visto notificare l’avviso di conclusione indagini con la grave imputazione di omicidio volontario. Sarebbe stato considerato dagli inquirenti uno spietato killer che predilige le persone di una certa età. A sfuggire alla sua furia mortale è stata, nel 2012 e solo per puro caso, un’altra anziana: Settimia Filosa di ottantadue anni. Daniele Cestra con la scusa di darle un passaggio in auto fino a Sabaudia si sarebbe poi appartato con la donna a Baia d’Argento, si sarebbe sbottonato i pantaloni, mostrandole parti intime e poi l’avrebbe rapinata della collana e dei due anelli in oro che indossava. A salvare la donna fu il tempestivo intervento di alcuni passanti che allertarono i carabinieri. Opera (Mi): "mio padre detenuto al 41bis malato di tumore, va curato come tutti gli altri" di Nazareno Dinoi Quotidiano di Puglia, 20 marzo 2017 "Allo stato attuale si può comunque ipotizzare che la prognosi sia infausta a medio termine". È la spaventosa conclusione della relazione fatta dal medico del carcere di Opera a Milano. A leggerla, con voce tremante, è Anna Stranieri, figlia del manduriano Vincenzo, detto "Stellina", l’ex boss cofondatore con Pino Rogoli della Sacra corona unita. La donna è tornata l’altro ieri da Milano dove è andata a trovare il padre a cui si riferiscono le implacabili prospettive di vita pronosticate dal medico un mese e mezzo fa. "Ora che l’ho visto in quelle condizioni, sempre separati da un vetro, non posso più stare in silenzio, ho il dovere di rivendicare il diritto di una figlia di curare un padre con un tumore che se lo sta mangiando; domani (oggi per chi legge, ndr) è la festa del papà ed io che non posso fare altro, voglio festeggiarla così, facendo sapere a tutti le condizioni in cui è ridotto e come lo stanno trattando sino alla fine". Stranieri, che ora ha 56 anni, è il detenuto ancora in vita con il più lungo periodo di isolamento secondo il 41bis, il regime di carcere duro a cui è sottoposto ininterrottamente da quasi 25 anni. Non certo uno stinco di santo, rude e violento, ha scontato 33 anni di carcere senza nessuna interruzione e con nessuna condanna per omicidio ma per reati associativi di mafia, contrabbando, rapine, estorsioni, droga. La vita ora gli ha presentato il conto con un carcinoma squamoso infiltrante della laringe, già operato e sottoposto a terapia chemio e radio terapica. "Per capirci - racconta la figlia - come quei poveri malati di Taranto per i quali si fa di tutto per curarli e per alleviare le loro sofferenze con tutti i mezzi e con ogni cura e soprattutto con l’amore dei familiari e degli operatori sanitari. Questo non è concesso al mio papà, perché lui è un malato di cancro differente perché è un maledetto detenuto che hanno deciso di farlo morire in carcere". Il racconto della donna sui trattamenti a cui sarebbe ancora sottoposto il padre, merita davvero una seria riflessione. "Sapete come l’ho trovato ieri? Uno scheletro, un buco alla gola con una cannula che deve chiudere con un dito per poter emettere suoni incomprensibili e con un tubo nella pancia che arriva direttamente nello stomaco, attraverso il quale si alimenta con una sacca per 24 ore al giorno; l’ho visto come sempre attraverso il vetro e sapete dove lo tengono in quelle condizioni? Nella sua solita cella di isolamento, da solo, senza neanche un fottuto campanello per chiamare se ha bisogno, quando accade deve battere qualcosa contro la parete o alle spranghe del letto nella speranza che qualcuno lo senta. Questo è il trattamento per un malato di tumore?", conclude la 39enne che aveva appena 6 anni quando il padre fu arrestato per il sequestro durato sei mesi di una giovane donna rilasciata dopo il pagamento del riscatto. "Ha pagato abbondantemente per quegli errori, ora mio padre è un malato di tumore in fase avanzata e io voglio per lui le cure che meritano tutti gli esseri umani". La figlia del boss ha deciso così di far sentire lontano la sua voce. Varese: con Malerba e Gregori i radicali aprono il carcere dei Miogni alla città varesereport.it, 20 marzo 2017 Stefano Malerba, Presidente del Consiglio Comunale di Varese, Mauro Gregori, consigliere comunale della lista "Lista Davide Galimberti" insieme a Gianni Rubagotti e Diego Mazzola, iscritti al Partito Radicale Nonviolento transpartito transnazionale, hanno visitato la Casa circondariale di Varese. "Come radicali abbiamo ringraziato chi, fra i 20.000 detenuti che hanno digiunato per la marcia per l’Amnistia del novembre scorso, è recluso qui anche in previsione della marcia di Pasqua" dichiara Rubagotti "Il Partito Radicale, se non raggiungiamo 3000 iscritti entro quest’anno, chiude e queste iniziative non saranno più possibili. Spetta ai varesini e agli italiani decidere se impedirlo. Un pensiero particolare inoltre va agli agenti penitenziari di cui abbiamo visitato gli alloggi: manca anche solo una lavatrice, ce ne è una rotta, le divise e le scarpe sono vecchie e consumate. Lo stato dovrebbe rispettare di più i suoi servitori, anche quelli che fanno funzionare le carceri". Stefano Malerba, Presidente del Consiglio Comunale di Varese ha commentato "Quello che è il mio sentimento è domandarsi qual è il senso di un carcere. Serve per punire o serve per cercare di rieducare e per reinserire le persone nella vita civile? Io credo che sia il secondo per un paese civile. Questo è un carcere che oggi dà poche possibilità ai detenuti: ha poche aule studio, ha pochi corsi scolastici, non ha spazi ricreativi non ha spazi dove i carcerati possono lavorare. In quest’ottica credo che questo carcere ha ancora bisogno di tante ristrutturazioni e sistemazioni. Deve cambiare il concetto di cosa significhi oggi mettere una persona in carcere". Mauro Gregori, Consigliere Comunale della "Lista Davide Galimberti" ha dichiarato "Il carcere di Varese è in pieno centro, è un ex-convento di fine 800. Sono partiti dei lavori di ristrutturazione, una cosa che mi sento di poter sollecitare al ministero è che si sta lavorando al piano terra e si sta facendo un lavoro per cui i detenuti potranno vivere in condizioni umane però questa cosa non è ancora programmata per i piani superiori. Sarebbe fondamentale che i lavori partissero in progressione sugli altri piani. In ogni caso devo dire che l’approccio che abbiamo avuto con le guardie carcerarie è di enorme disponibilità. Al di là delle condizioni attuali dove nelle camerate vedo che le condizioni sono migliori di quelle che mi aspettavo e si può fare ancora meglio. C’è una cappella stupenda di fine 800 che non è agibile per un piccolo cedimento: oggi la messa viene celebrata in sala mensa. Lo dico al ministero e alla curia: che qualcuno intervenga o anche qualche associazione che possa raccogliere del denaro". Dopo l’assemblea nazionale degli iscritti del 25 marzo alla sede della Uil in via Campanini 5 a Milano i radicali continueranno le loro visite nelle carceri lombarde. Spoleto (Pg): mostra "Trame longobarde", tessuti e abiti che rivivono grazie ai detenuti artemagazine.it, 20 marzo 2017 Al Museo Nazionale del Ducato alla Rocca Albornoziana i risultati di un progetto nato dalla collaborazione di molte istituzioni. Hanno ricostruito minuziosamente tessuti, abiti e monili degli antichi Longobardi, basandosi su quanto testimoniato dall’archeologia. Fino al 18 giugno lo sforzo dei detenuti della Casa di reclusione di Spoleto, sarà in mostra al Museo Nazionale del Ducato alla Rocca Albornoziana della città in un viaggio per riscoprire la vita quotidiana di questa antica civiltà. "Trame longobarde: tra architettura e tessuti" torna a Spoleto, alla Rocca Albornoziana, in una veste rinnovata e ampliata, dopo gli allestimenti a Monte Sant’Angelo, Brescia, Benevento. Sono previste nuove tappe a Cividale del Friuli, Museo Nazionale dell’Alto Medioevo a Roma, Ferentillo, Abbadia San Salvatore (provincia di Siena). Curata da Glenda Giampaoli e Giorgio Flamini, con il confronto scientifico di Donatella Scortecci, la mostra è stata realizzata grazie alle risorse della Regione Umbria, legge regionale 24 del 2003 progetto "Musei che hanno stoffa", del Mibact, legge 77 del 2006 a sostegno dei siti Unesco e dall’Associazione stessa per il valore scientifico, didattico illustrativo e sociale, e rappresenta un progetto nato da una eccezionale collaborazione tra enti e istituzioni, dal Comune di Spoleto alla Regione Umbria, dall’Istituto Sansi Leonardi Volta, alla Casa di Reclusione di Spoleto, al Museo Nazionale del Ducato coordinati e diretti dall’associazione Italia Langobardorum (l’ente che gestisce il sito Unesco dei Longobardi che include le evidenze monumentali di 7 città: Cividale del Friuli, Brescia, Castelseprio, Campello sul Clitunno, Spoleto, Benevento, Monte Sant’Angelo) e dall’Ufficio Unesco di Spoleto. "I tessuti e le bordure - spiegano dal Comune di Spoleto - sono stati realizzati nella Casa di Reclusione di Spoleto dai detenuti del corso di tessitura, con i telai dell’IIS Sansi Leonardi Volta, dopo uno straordinario lavoro di studio e ricostruzione di trame e orditi desunte dalle scoperte archeologiche. La composizione dell’abito maschile e femminile è stata realizzata con attenti confronti iconografici uniti alle poche fonti letterarie (Historia Langobardorum di Paolo Diacono), il risultato è un’accurata proposta delle antiche tecniche di tessitura e di taglio e cucito dell’abito altomedievale. Sono rappresentati i diversi ceti sociali completati da accessori realizzati dai detenuti del Liceo Artistico ristretto". Trento: lo zafferano coltivato dai detenuti per aromatizzare la birra Galeorto ladigetto.it, 20 marzo 2017 La cooperativa La Sfera e l’Agribirrificio Argenteum insieme per produrre la birra con lo zafferano coltivato dai detenuti. Inclusione sociale, networking e radicamento sul territorio. Questi sono gli elementi chiave che caratterizzano il progetto di agricoltura sociale promosso dalla cooperativa La Sfera all’interno della Casa Circondariale di Trento. L’esperienza, avviata nel 2015 e proseguita nel 2016, ha visto sei detenuti impegnati nella coltivazione delle ampie aree verdi - circa 9.000 mq - presenti all’interno della struttura penitenziaria. La squadra di carcerati, coordinata dai tutor della cooperativa si è infatti cimentata nella coltivazione biologica di cavoli, erbe aromatiche e zafferano. La forte volontà di dare continuità al progetto di agricoltura sociale intrapreso, l’ambizione di creare nuove opportunità di lavoro all’interno della Casa Circondariale, accompagnate dalla propensione de La Sfera allo stringere relazioni, ha portato la cooperativa ad immaginare un particolare rapporto con il mercato. Così è nato Galeorto, il brand che contraddistingue materie prime e prodotti di qualità realizzati nell’ambito dell’omonimo progetto di agricoltura sociale promosso da La Sfera all’interno del carcere di Trento. La Sfera si è dunque attivata con l’intento di intercettare dei partner-trasformatori, aziende produttive che desiderano sviluppare una propria "linea sociale" utilizzando le materie prime prodotte in carcere e impiegandole come ingredienti per i propri prodotti. Ad oggi la cooperativa ha stretto un accordo di collaborazione con l’Agribirrificio Argenteum di Cortesano, che condivide con la cooperativa la visione valoriale e che, da qualche anno, si sta sperimentando nella ricerca di gusti nuovi e inediti. Grazie a questa partnership è nata Zafferana, la birra artigianale aromatizzata con lo zafferano biologico del carcere. Avezzano (Aq): al via il progetto "Carcere e scuola: ne vale la pena" di Magda Tirabassi terremarsicane.it, 20 marzo 2017 È stato presentato ufficialmente il progetto "Carcere e scuola: ne vale la pena" che intende far conoscere agli studenti degli Istituti Superiori di Avezzano la realtà del carcere per promuovere riflessioni critiche e maggiore consapevolezza nei ragazzi riguardo la detenzione, la riabilitazione, la legalità. La presentazione, a cura della dirigente scolastica del Centro provinciale istruzione per adulti che ha organizzato l’iniziativa, Claudia Scipioni, si è tenuta nell’aula magna dell’istituto industriale, alla presenza della preside Anna Amanzi, dei docenti degli istituti di Avezzano che saranno coinvolti e di una rappresentanza di studenti. "Le finalità del progetto sono fornire agli studenti strumenti di conoscenza critica per avviare la riflessione personale e collettiva sulle molteplici tematiche inerenti la reclusione e sviluppare un approccio progettuale per ridurre la "logica" dell’avventura, dell’imitazione e dell’improvvisazione", ha spiegato la dirigente Scipioni che ha la sua sede operativa nella scuola di via Aldo Moro, all’interno del Majorana, "acquisire le capacità di critica e di autocritica per favorire una maggiore consapevolezza dei propri comportamenti e analizzare e superare pregiudizi per un maggiore senso di realtà". "Obiettivi del progetto", hanno proseguito le responsabili del progetto, le docenti Marilena Emili e Fabiola Piccirillo, "sono conoscere, riflettere e argomentare criticamente su tematiche come diritti e doveri, legalità, devianza, misure alternative alla pena, disagio minorile, sicurezza e le diverse figure professionali che operano in carcere". Gli obiettivi dell’iniziativa, che coinvolgerà una rappresentanza di studenti che poi riporterà la propria esperienza ai colleghi, sono: conoscere l’istituzione carceraria e le sue finalità; conoscere la struttura del carcere e riflettere sulle relative problematiche; conoscere la vita in carcere attraverso percorsi narrati da detenuti e promuovere la riflessione sui reati e sulle pene; riflettere sulla situazione del dopo carcere e le difficoltà derivanti dal reinserimento nella società; conoscere le proposte presenti sul territorio che un ex detenuto può realizzare nel dopo carcere e conoscere alcuni testi legislativi relativi alla carcerazione e le misure alternative alla detenzione. Alla presentazione hanno partecipato anche Anna Angeletti, la direttrice della casa circondariale di Avezzano e il comandante degli agenti della polizia penitenziaria, Cristiano Laurenti. La direttrice della casa circondariale di Avezzano che è a "custodia attenuata" nel suo intervento ha sottolineato come troppo spesso chi è detenuto in strutture penitenziarie è soggetto a vere e proprie gogne mediatiche a dispetto di quanto recita l’ordinamento italiano. E cioè che fin quando una persona non viene condannata da un tribunale si presume sempre che sia innocente. Angeletti si è detta entusiasta dell’iniziativa che coinvolge i giovani e che mira a far crescere in loro una maggiore consapevolezza della legalità e della giustizia. Brindisi: il Rotaract Club cittadino dona 500 libri alla Casa circondariale brindisireport.it, 20 marzo 2017 Nella mattinata di sabato 18 marzo sono stati consegnati 500 libri alla casa circondariale di Brindisi per la risocializzazione e la rieducazione dei detenuti. L’evento, organizzato dal Rotaract Club, si è svolto alla presenza della direttrice Anna Maria Dello Preite che ha ricevuto dai due presidenti Giorgia Quarta e Domenico Giordano (Brindisi e Ceglie Messapica) il ricavato ottenuto grazie anche al sostegno dei club Rotary. Continua dunque l’operato del Rotaract Club Brindisi sul territorio; braccio Under 30 del Rotary International, si occupa di sensibilizzare, informare e sostenere la società. Questa volta le ragazze del Club hanno appoggiato il service nazionale "Sulla scia delle ali della libertà" nato con lo scopo di diffondere, attraverso la diffusione di libri di vario, la cultura nelle case circondariali di tutta Italia. Sulla scia delle ali della libertà prende spunto, infatti, dal famoso film "Le ali della libertà" di Frank Darabont, nel quale attraverso il contribuito di materiale scolastico i detenuti del Maine hanno la possibilità di ottenere il diploma. "L’educazione è il mezzo più efficace per la rieducazione e la risocializzazione - ha dichiarato il Presidente del Club - Gran parte del nostro anno sociale è stato dedicato alla promozione della cultura e dell’istruzione sotto varie forme. Per questo abbiamo ritenuto doveroso appoggiare questo service nazionale". Cuneo: dal carcere di Saluzzo "Amunì" conquista la platea esterna del Teatro civico targatocn.it, 20 marzo 2017 Coinvolgimento del pubblico allo spettacolo prodotto in carcere da Voci Erranti, portato in scena dal cast di 11 detenuti ed ex detenuto del carcere Morandi. Il progetto di formazione culturale e crescita umana è riconosciuto come eccellenza. E alla fine, coinvolti dal dinamismo e dalla musica, gli spettatori più giovani sono saliti sul palco, catturati dai protagonisti di "Amunì" uno dei pezzi forti prodotti da "Voci erranti" con il cast di detenuti ed ex detenuti del carcere Morandi di Saluzzo, andato in scena al teatro civico Magda Olivero, finito tra applausi ed esclamazioni di "bravi!". Un successo anche questa venticinquesima replica dello spettacolo, prodotto nel 2013 dall’associazione, scritto e diretto da Grazia Isoardi, con le coreografie di Marco Mucaria, già rappresentato nella casa di reclusione e andato in tour all’esterno sui palcoscenici italiani e nelle scuole. Prossima tappa Gorizia. "Amunì" è la storia di 11 fratelli che vivono l’ attesa del ritorno del padre, che ha lasciato la nidiata di figli vent’anni prima. Un atteso ritorno, celebrato con una festa di ricordi. "Il lavoro è nato all’interno del laboratorio teatrale in carcere - racconta Stefano - riflettendo sul concetto di paternità e responsabilità, chiedendoci che figli siamo? Cosa vuol dire essere contemporaneamente figli e padri". Padri assenti e figli difficili, cresciuti senza padri autorevoli, portatori di valori e testimoni delle responsabilità della vita e di affetti famiglia. "Le frasi sono le nostre, scaturite dai ricordi, come il quadro della partita di calcio (che ha coinvolto nella tifoseria il pubblico in sala) tratto dal racconto di un detenuto colombiano che ricordava, legato al padre, la partita del cuore che gli emozionato la vita". Forte presenza scenica del cast, 11 protagonisti tutti diversi, ma impeccabili in camicia bianca e cravatta nell’affrontare il tema della fragilità personale e famigliare, le nostalgie d’infanzia negate, che sul palcoscenico il dinamismo della danza maschera e l’atmosfera della festa, dal sapore amaro dell’assenza, camuffa. La regia tipizza le loro caratterialità per poi farle convergere, in coro, nella stessa gestualità protettiva di un uomo che culla un bambino. dopo l’annuncio della neo-paternità di uno di loro. Come Telemaco ha atteso il ritorno del padre (il riferimento della regia e del contesto è evidente) ed ha pregato affinché si ristabilisse nella sua casa, invasa dai Proci, la Legge, uno dei 11 figli, accorato si spoglia, rimanendo in costume pronto per andare al mare, l’atteso appuntamento d’infanzia negato. Prega il padre (o il Padre) di arrivare, per accompagnarlo, perché stanco di aspettare, di avere rimandi, di rimare lì chiuso. Le produzioni di Voci Erranti, dal 2002 nel Carcere Morandi con il laboratorio permanente teatrale e il progetto di trasferta in teatri esterni, sono oggi una riconosciuta eccellenza in Italia, rappresentando un esempio di crescita artistica ed umana del percorso di formazione offerto ai detenuti, occasione di riscatto sociale e di costruzione di ponti tra la realtà reclusa e quella libera. Foggia: da ex detenuto ad attore, la testimonianza di Salvatore Striano nel carcere Ristretti Orizzonti, 20 marzo 2017 Teatro pieno, applausi spontanei e il messaggio dello scrittore e attore ai reclusi: "Noi siamo leader delle cause sbagliate e dobbiamo solo imparare a usare l’energia in positivo: non abbiate paura di lasciare l’arma e sposare un’altra causa, positiva" Teatro pieno, applausi spontanei, domande e tante risate. È stato un successo l’incontro dello scorso 17 marzo nel carcere di Foggia con Salvatore Striano. L ‘attore, già protagonista dei film "Gomorra" di Matteo Garrone e "Cesare deve morire" dei fratelli Taviani, ha presentato ai detenuti il libro "La tempesta di Sasà". La visita foggiana di Striano, iniziata in mattinata al liceo psicopedagogico "C. Poerio" di Foggia, è proseguita nel pomeriggio nella Casa Circondariale, grazie all’organizzazione dell’Ass. Leggo Quindi Sono, con la collaborazione del Csv Foggia e la partecipazione del Centro Studi Diomede di Castelluccio dei Sauri. "Questo romanzo - ha detto Elisabetta de Palma durante la presentazione dell’autore - è la storia di una vita salvata da Shakespeare e dall’amore per i libri. La "Tempesta di Sasà" narra gli anni nel carcere romano, dopo l’arresto in Spagna. Qui, recitando nel dramma shakespeariano, Striano ha fatto l’incontro che gli avrebbe salvato la vita". Incontro che l’autore ha raccontato in modo simpatico ma profondo ai detenuti della Casa Circondariale di Foggia, che gli hanno chiesto dalla platea come possano cambiare il carcere e la vita dopo la detenzione. "La riforma penitenziaria deve partire dai detenuti, che devono ritrovare alcuni principi - ha detto l’attore - io sono stato arrestato la prima volta nel 1984 e allora in carcere c’era più fratellanza, rispetto. Valori che, invece, non ho trovato nel corso dell’ultima carcerazione. Il carcere deve essere l’eccezione, può capitare ma non può essere la vita. Anche perché, quando si esce, non c’è più niente: dopo cinque anni di galera trovi il mondo al contrario. Si può cambiare, scegliere di fare mille lavoretti, prendere una bagnarola e vendere le bibite allo stadio: una sorta di ‘reddito di cittadinanza ambulantè e non fare l’ennesima rapina, che non porta a nulla se non alla cella. Io ho capito sulla mia pelle che la vita che stavo facendo non mi avrebbe portato da nessuna parte e che è possibile togliersi di mezzo, lasciare il mondo criminale. Non sono mai stato minacciato da nessuno, per questa mia scelta e nel mio quartiere, a Napoli, tutti mi vogliono bene. Noi - ha detto Striano - siamo leader delle cause sbagliate e dobbiamo solo imparare a usare l’energia in positivo, non abbiate paura di lasciare l’arma e sposare un’altra causa, positiva". Una lunga parte dell’intervento dell’autore è stata dedicata al mondo del volontariato, introdotto da Roberto Lavanna, direttore del Csv Foggia, che ha spiegato ai presenti l’impegno del Centro di Servizio, sempre accanto alle associazioni, nella promozione delle proprie attività. "Chi porta cultura, come i volontari qui presenti - ha detto Striano - deve avere la precedenza. Qui potete decidere se prendere un bus nuovo oppure continuare a procedere in direzione della tempesta. Il carcere lo potete cambiare voi detenuti, grazie al dialogo con le guardie penitenziarie, proprio attraverso il collante dei volontari che vengono qui regolarmente". "Gli incontri con gli scrittori proseguiranno nel mese di aprile - spiega Annalisa Graziano, responsabile della comunicazione e della promozione del volontariato penitenziario del Csv - grazie alla collaborazione con Leggo Quindi Sono e la libreria Ubik e al sostegno della Fondazione Banca del Monte di Foggia. Venerdì 7 aprile è in programma l’appuntamento con Mila Venturini, autrice di "Londra per famiglie" e il 28 aprile quello con Roberto Delogu e il suo "L’amore come le meduse". Intanto, proseguono il progetto del gruppo di lettura in Alta Sicurezza, con Michele Paglia di Centro Studi Diomede e le attività messe in campo da associazioni e assistenti volontari, con la preziosa collaborazione del cappellano. Nell’ultimo periodo, le attività di promozione si sono consolidate e moltiplicate, grazie al supporto e alla disponibilità del Direttore e del Commissario e al sostegno dell’Area educativa e del corpo della Polizia Penitenziaria. Non era scontato, si è creata una rete solida, grazie all’apporto di ciascuno: il ponte tra esterno e interno diventa ogni giorno più solido". Un Ispettore, venerdì scorso, ha voluto salutare Striano con una stretta di mano e un messaggio: "Continui a portare il buon esempio negli Istituti Penitenziari, c’è bisogno di testimonianze positive". In una dedica dell’attore al Centro di Servizi al Volontariato la promessa di un ritorno: "Al Csv, grazie di cuore e ad altri incontri. L’arte, quindi vivo. Salvatore Striano". Terrorismo. La Ue si blinda: "pronti nuovi attacchi". Massima allerta in Italia di Gianluca Di Feo La Repubblica, 20 marzo 2017 Paura Isis, la Ue si blinda: "Pronti nuovi attacchi". Massima allerta in Italia. La perdita di territori dello Stato islamico riporta i foreign fighters verso il Vecchio continente. A Roma potenziate misure di sicurezza in vista delle celebrazioni del Trattato europeo. La frantumazione dello Stato islamico, con le due capitali di Raqqa e Mosul prossime alla caduta, non è una buona notizia per l’intelligence europea. C’è la convinzione che l’Isis tenterà il colpo di coda, cercando presto di attaccare l’Unione. Ogni episodio, come l’aggressione all’aeroporto di Parigi, viene analizzato per ricostruire qualunque possibile contatto con la ragnatela radicale che comunica sul web o si affida a predicatori itineranti. L’allerta è massima. Un allarme che riguarda anche l’Italia e spinge a potenziare le misure di sicurezza in vista delle celebrazioni del Trattato di Roma, che nel prossimo weekend raduneranno nella capitale i capi di Stato della Ue. Dalla scorsa estate le partenze di volontari della jihad verso il Medio Oriente si sono sostanzialmente fermate: la frontiera turca è stata chiusa, i viaggi sono diventati impossibili. È la stessa propaganda del Califfato a invitare i suoi accoliti a non partire: "Bisogna seminare la morte in Occidente, dovete ucciderli lì dove vi trovate", ripetono gli appelli rilanciati su Internet. Invece aumentano le segnalazioni sui reduci che dall’Iraq e dalla Siria cercano di tornare in Europa, muovendosi soprattutto lungo i percorsi balcanici dove possono contare su appoggi vecchi e nuovi. Si sentono emuli della Hijrah, la sacra migrazione che nel 622 portò Maometto dalla Mecca a Medina, permettendogli di sfuggire ai nemici e rimettere in sesto il suo gruppo. Sono combattenti che non si sentono sconfitti e credono in una missione di fede senza scadenze: uomini addestrati da mesi di guerra e pronti a tutto. Non sono soltanto loro a fare paura. Alla ritirata dell’Isis si accompagna una nuova vitalità di Al Qaeda, mai scomparsa seppur afflitta negli scorsi anni da un calo di visibilità e di reclute. Con i soldati iracheni alle porte della moschea dove nel luglio del 2014 Abu Bakr Al Baghdadi proclamò la nascita del Califfato, oggi i militanti dell’organizzazione di Osama Bin Laden trovano più seguaci e si dimostrano sempre più attivi, sui campi di battaglia della Siria e della Libia, ma anche nelle cellule rimaste nascoste in Europa. In questo contesto, l’Italia non è immune dai pericoli. Anzi, i vertici della sicurezza nazionale restano convinti che il terrorismo jihadista colpirà anche da noi. Non è fatalismo, ma l’analisi dei segnali aggiornata continuamente e che mostra aspiranti kamikaze privi di armi ma capaci di usare qualunque strumento per cercare di uccidere: un coltello, un auto, un camion. Una minaccia che si cerca di contrastare ogni giorno. Ci sono ottomila soldati a presidiare piazze e monumenti; agli agenti è stato chiesto di girare sempre armati, anche quando sono fuori servizio. Misure che nascono dall’esperienza degli attacchi condotti sulle strade in Francia, in Germania, in Belgio. Soprattutto viene rafforzata l’attività di controllo sul territorio, a qualunque ora: quella vigilanza che ha permesso di individuare Anis Amri, il killer di Berlino bloccato durante un pattugliamento di routine a Sesto San Giovanni dopo avere attraversato indisturbato quattro Paesi. La preoccupazione non riguarda solo il rischio di attentati: le valutazioni dell’intelligence tengono conto pure del clima politico di questi mesi. Perché gli assalti dell’ultimo anno - che fossero opera di squadre organizzate o di lupi solitari - avevano un obiettivo politico: scatenare la reazione contro gli immigrati, spingendo così le comunità musulmane a radicalizzarsi. In Francia nonostante le stragi di Parigi e Nizza questo non è accaduto e anche le autorità tedesche sono riuscite a contenere la xenofobia dopo il massacro del mercatino di Natale: non c’è stata la caccia allo straniero. È vero, in quelle nazioni la prova più importante saranno le prossime elezioni, al momento però i kamikaze hanno mancato il bersaglio più importante: davanti agli attacchi, l’Europa non ha rinunciato ai suoi valori democratici e non ha tradito i principi di solidarietà. Ma se dovessero colpire da noi, come reagiremmo? Terrorismo. L’Italia sperimenta i droni per proteggere le città e i summit di Francesco Grignetti La Stampa, 20 marzo 2017 La sorveglianza aerea parte oggi al vertice coi Paesi mediterranei. Verranno utilizzati anche per l’anniversario del Trattato di Roma. Saranno l’arma segreta del futuro, per polizia e carabinieri, i piccoli agili droni che controlleranno le città dal cielo. È iniziata ieri in provincia di Frosinone una sperimentazione congiunta di controllo del territorio attraverso droni ad ala rotante. Con sistemi ottici di alta qualità, in grado di fotografare una targa da 150 metri di altezza, silenziosi, veloci, e pure economici, i futuri droni delle nostre forze di polizia integreranno e sempre più sostituiranno i classici elicotteri. Spiegano gli esperti: il controllo del territorio, specie in azione di ordine pubblico, grazie anche alle nuove previsioni legislative che permettono l’arresto di violenti in flagranza differita, potrà fare un balzo in avanti. Ovvio che avere le foto di uno sfascia-vetrine in azione, e poi seguirlo quando si toglie la maschera e sale in auto, cambierà molte cose. Prospettiva un po’ fantascientifica, ma neanche troppo. Non che le polizie abbiano sottovalutato finora l’ausilio dei droni, ma finora ne avevano a disposizione pochi esemplari integrati nei reparti speciali. Nella Capitale, per dire, tra il 24 e il 25 marzo, quando la città ospiterà almeno 40 capi di Stati, capi di governo e vertici dell’Unione europea, ci saranno anche i droni a vigilare, oltre a 3000 uomini e donne in divisa. Ma quello sarà il tipico impegno straordinario. La sperimentazione in atto a Frosinone, iniziata già da mesi e per la prima volta portata fuori dai poligoni, mira a dotare di droni i reparti ordinari per l’uso quotidiano. E già si progetta di mettere in connessione le Volanti con il drone, via sala operativa della questura, utilizzando al meglio le tecnologie che già sono a disposizione di agenti e carabinieri. A proposito di vigilanza straordinaria della città, si comincia già oggi con il vertice tra i Paesi europei e quelli mediterranei, convocato dal ministro Marco Minniti. Alla Conferenza del Gruppo di Contatto parteciperanno i ministri di Germania, Francia, Slovenia, Svizzera, Austria e Malta, insieme a Tunisia, Algeria e Libia. Mancherà il premier del governo di accordo nazionale libico, Fayez Al Sarraj, il quale ha annullato la sua partenza "a causa delle condizioni critiche e preoccupanti" in cui versa Tripoli. Ma è normale che per i grandi eventi sia dichiarato il divieto di sorvolo sulla Città Eterna e affidato agli elicotteri delle polizie il monopolio dei cieli. Da anni si dispongono anche batterie di contraerea e si allertano i jet dell’Aeronautica perché non si ripeta un evento tipo le Torri Gemelle. Ma anche il drone, ampiamente usato anche dai terroristi dell’Isis, può diventare un’arma a doppio taglio. Perciò è importante la sperimentazione in atto: i droni delle forze di polizia dovranno essere inarrivabili per un petardo o un sasso, dovranno avere una congrua autonomia di volo, la capacità di portare adeguati sistemi ottici, e dovranno essere irraggiungibili anche per un hacker. La sperimentazione andrà avanti almeno un anno. Migranti. Gommoni, elicotteri e la sala-radar: per la Libia piano da 800 milioni di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 20 marzo 2017 Tripoli presenta le sue richieste. Al vertice a Roma con Minniti e i leader Ue atteso il premier Serraj. Una nuova intesa per collaborare con la Libia nella lotta ai trafficanti di uomini "con azioni comuni, rapide e decisive per evitare che migliaia di persone rischino la vita per raggiungere il Nord Africa e l’Europa". E per coinvolgere in questo programma gli altri Stati africani. È un nuovo e decisivo passo quello che sarà compiuto questa mattina a Roma durante la riunione dei ministri dell’Interno della rotta del Mediterraneo (Europa, Africa, con la presenza della Svizzera) presieduta da Marco Minniti. Perché nei giorni scorsi il governo presieduto da Fayez Al Serraj ha presentato all’Italia la lista delle "necessità" per rendere operativo l’accordo siglato il 2 febbraio scorso con il premier Gentiloni e appoggiato dall’intera Unione. Un elenco di una decina di pagine che contiene nel dettaglio le forniture da inviare a Tripoli e rappresenta la base per i negoziati avviati un mese e mezzo fa dopo il lavoro di mediazione svolto con le varie fazioni libiche proprio da Minniti. Nuovi record di sbarchi - La trattativa è dunque entrata nel vivo. Ora è però necessario uno sforzo comune anche dal punto di vista economico. Tenendo conto che nei primi due mesi e mezzo del 2017 il numero delle persone sbarcate ha subito un’impennata del 36 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno: con 16.206 arrivate fino al 17 marzo. Per questo il gruppo di lavoro che agisce per conto del governo ha già programmato diversi incontri con la commissione libica e un sopralluogo a Tripoli che dovrebbe svolgersi entro la metà di aprile. Consapevole che bisogna dare subito un segnale forte ai trafficanti. Mezzi e uomini per 800 milioni - Per controllare i flussi migratori e fermare le partenze il governo Serraj chiede infatti navi, elicotteri, fuoristrada, macchine, ambulanze, sale operative, apparecchiature. La spesa prevista è di almeno 800 milioni di euro. Bruxelles ha già stanziato in via d’urgenza 200 milioni di euro, ma è una cifra che non può bastare e dunque si dovrà attingere al fondo per l’Africa, come del resto era stato promesso dai leader dell’Ue subito dopo la firma dell’intesa. La presenza del commissario europeo Dimitri Avramopoulos al vertice di questa mattina viene ritenuta garanzia per la volontà di cooperazione internazionale ed è proprio su questo tasto che Minniti continua a battere per raggiungere in tempi brevi i primi risultati. Ma anche per sostenere Serraj in un momento di estrema difficoltà: la presenza del premier libico a Roma fino a ieri sera non era data per scontata "a causa delle condizioni attuali del Paese dopo gli scontri dei giorni scorsi a Tripoli", mentre è stata confermata la presenza della delegazione composta dal ministro dell’Interno Elarif El Khoja, quello degli Esteri, Mohamed Tahar Siala e il presidente dell’Alto Consiglio di Stato, Abdel Rahman Swaheli. L’accordo bilaterale prevede "l’addestramento, l’equipaggiamento ed il sostegno alla guardia costiera libica". Per questo l’elenco delle forniture è lungo e costoso. L’obiettivo è di completare il piano di consegna in 24 mesi, anche se alcuni punti dovranno essere ritoccati. In particolare sono state chieste 10 navi per la ricerca e il soccorso (alcune da oltre trenta metri) e 10 motovedette che devono essere utilizzate per i controlli sotto costa in modo da impedire alle "carrette" dei trafficanti di salpare. Le prime tre imbarcazioni potrebbero essere consegnate già agli inizi di giugno, prevedendo una dilatazione dei tempi per quelle più grandi. E poi quattro elicotteri che dovranno "guidare" le operazioni contro le organizzazioni che gestiscono i viaggi della speranza, ma anche coadiuvare il recupero in mare. Nell’elenco sono stati poi inseriti: 24 gommoni, 10 ambulanze, 30 jeep, 15 automobili, 30 telefoni satellitari Turaya oltre a mute da sub, bombole per l’ossigeno, binocoli diurni e notturni. Saranno le forze dell’ordine italiane a dover addestrare i poliziotti locali e gli uomini della Guardia costiera. Su questo c’è già l’intesa con l’Ue che finanzierà la missione della Capitaneria di Porto che partirà entro due mesi. Le due sale operative e i sistemi radar - Uno dei punti fondamentali dell’intesa riguarda la creazione di una sala operativa uguale a quelle che si trovano in tutti gli Stati dell’Unione e consentono di tenere sotto controllo costantemente il tratto di Mediterraneo che separa la Libia dall’Europa, dunque dall’Italia. In questo modo Tripoli avrà infatti il monitoraggio costante della situazione e dunque sarà obbligata a effettuare tutte le azioni di recupero di eventuali naufraghi. Non solo. La connessione con il sistema internazionale garantirà l’obbligo di cooperazione. Esiste però un aspetto che dovrà essere risolto: riguarda la fornitura dei sistemi radar che Tripoli ha inserito nella lista consegnata all’Italia. Per la concessione di questo tipo di apparecchiature occorre infatti il via libera dell’Onu visto che si tratta di materiale che finora era sotto embargo e dunque i tempi non potranno essere brevi, anche se dalle Nazioni Unite più volte è stata evidenziata la necessità di siglare l’accordo con il governo libico e quello guidato da Serraj è l’unico ad aver ottenuto il riconoscimento. Progetti e campi negli Stati africani - Il piano messo a punto da Minniti tiene conto - come sarà evidenziato nel documento in discussione questa mattina - che "i dati dei flussi lungo la rotta del Mediterraneo Centrale lasciano già prefigurare un forte incremento rispetto al 2016" e dunque sarà necessario "segnare un turning point nella gestione del fenomeno coinvolgendo i nostri partner nordafricani in un’azione strategica condivisa che porterà i suoi frutti nel medio lungo periodo, ma che già a breve termine potrebbe consentire di constatare dei progressi concreti". In particolare è stato già avviato un negoziato per la creazione di campi di accoglienza per i profughi in alcuni Paesi africani in modo da alleggerire la pressione proprio sulla Libia. Minniti lo ribadirà questa mattina in modo da inserire nel documento finale la necessità di dare "un segnale forte per aprire nuove prospettive di collaborazione", sottolineando come "la partecipazione dell’Unione europea sia determinante per il successo di questa iniziativa, così come lo è stata per il raggiungimento dell’accordo con la Turchia". Migranti. In fuga dal Senegal sognando l’Europa: "meglio morire in viaggio che di fame" di Lorenzo Simoncelli La Stampa, 20 marzo 2017 In autobus assieme ai migranti che percorrono la rotta africana: "Fermarci è inutile. Da voi c’è la crisi? Non può essere peggio di qui". Nel 2016 è raddoppiato il numero di senegalesi in partenza verso l’Europa. Alcuni di loro sono stati incarcerati in Libia e poi espulsi. "Prossime fermate Goudiry (Senegal), Bamako (Mali), Ouagadougou (Burkina Faso), Niamey e Agadez (Niger)". Il 26enne Mourjam grida a squarciagola alla stazione degli autobus di Tambacounda, città del Senegal a 180 chilometri dal confine con il Mali, per cercare di vendere gli ultimi posti rimasti vuoti a bordo dell’autobus Gran Turismo della Diallo Transport, partito la notte prima dalla Gare routière di Dakar. Due giorni e mezzo di viaggio fino ad Agadez, 3.720 chilometri attraversando il Sahel, una strada cosparsa di buche, terra rossa e immensi baobab a bordo pista. Un percorso fino a 20 anni fa reso celebre dai centauri della Parigi-Dakar che lo attraversavano; oggi, invece, trasformatosi nell’inizio della Western Route, come i migranti in viaggio verso l’Europa l’hanno ribattezzata. Mourjam è riuscito a riempire l’autobus. L’autista, con il portellone ancora aperto, riprende il suo cammino. A bordo 54 persone, almeno il doppio i bagagli. Scattando una fotografia immaginaria verrebbe fuori l’istantanea d’Africa: giovani senegalesi con indosso il Boubou, tradizionale abito lungo con trame sgargianti, tuareg maliani avvolti nel tagelmust, la fascia di cotone che copre il capo e lascia trasparire solo la fessura degli occhi. C’è poca voglia di parlare. Alcuni tornano a casa, altri sono commercianti transfrontalieri, molti stanno iniziando il loro viaggio verso l’Europa (nel 2016 lo hanno fatto in 10.327 secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni). Tra questi Mohammed e Omar, 24 e 26 anni, entrambi senegalesi e un unico sogno: la Francia. "Lavoravo come assistente del capo villaggio, ma guadagnavo troppo poco, ho iniziato a contrarre debiti per sopravvivere, finché mi hanno denunciato ed ero ricercato dalla polizia. Così ho deciso che la mia unica salvezza era provare la traversata del Mediterraneo e sono partito - racconta Mohammed a bordo dell’autobus con cui ha iniziato il suo viaggio verso l’Europa -. In Africa non abbiamo niente, lo Stato non aiuta i giovani e non mantiene le promesse. Ho parenti e amici che sono già in Francia e loro stanno bene, sono sicuro che anch’io ce la farò. So che il viaggio è pericoloso, ma sono pronto a rischiare e a morire. Se andrà male almeno non sentirò più i crampi della fame". Omar, seduto accanto al finestrino, si lascia dietro di sé con lo sguardo villaggi aridi e semi disabitati, anche il suo. Non sa se un giorno ritornerà. "L’Europa crede di fermarci facendo accordi con i singoli Paesi africani, ma non ci fermeremo, anche se da voi c’è la crisi e i giovani non hanno lavoro. So che i miei fratelli ce l’hanno fatta e poi è impossibile che sia peggio di stare qui", dice Omar. Mourjam ogni settimana fa la stessa tratta e svela che tra i passeggeri c’è sempre qualcuno che va fino ad Agadez per poi proseguire il percorso verso la Libia. Dopo tre ore di viaggio si arriva a Goudiry, circa 60 chilometri dal confine con il Mali, alla fermata degli autobus ci sono molti giovani che vogliono salire, ma non c’è più posto, devono aspettare il prossimo autobus. È arrivato il momento di scendere e salutare Mohammed e Omar. Le strade di Goudiry sono quasi deserte, è una delle località più colpite dalla migrazione giovanile verso l’Europa, chi è rimasto fa parte di quelle decine di persone rimpatriate dalla Libia e dalla Tunisia dopo che non sono riuscite a imbarcarsi. Moussa è uno di loro, nel 2014 ha venduto tutto quello che aveva: 6 vacche per 1,5 milioni di franchi senegalesi (circa 2.500 euro), ed è partito. "Stavamo nel mezzo del Mediterraneo con una barca in legno. All’improvviso si è spezzata in due, i miei amici erano a prua, il posto riservato a chi paga di meno, non sapevano nuotare e sono annegati. Io invece ero a poppa e mi sono salvato - racconta Moussa -. Prima di essere rimpatriato in Senegal, sono rimasto in carcere in Libia per 3 mesi, quando sono arrivato a Goudiry ho cercato mia madre, ma non c’era più: mi hanno detto che quando ha saputo del naufragio è morta d’infarto". Da allora Moussa, insieme ad altri ragazzi rimpatriati, ha fondato un’associazione che cerca di scoraggiare i giovani di Goudiry al viaggio verso l’Europa. "Non è facile convincerli, ma se non ci fossimo noi quelli che vogliono partire sarebbero ancora di più. Per essere credibili però servono fondi, dobbiamo offrire alternative concrete come allevamento e agricoltura", spiega Moussa. Accanto alla sua casa decadente, trasformata nella sede dell’associazione, vive Alassane Diallo, sindaco della città e anche lui con una tragica storia di migrazione alle spalle. "Mio figlio aveva 29 anni quando nel 2015 di nascosto ha lasciato Goudiry per andare in Europa. Da allora non ho più sue notizie, credo sia morto, ho cercato di fare di tutto per fermarlo, ma non ci sono riuscito e adesso devo vivere con questo rimorso. C’è bisogno di lavoro per i nostri giovani, è l’unico modo per fermare la migrazione". L’appello alla Turchia: rispetti la libertà d’informazione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 marzo 2017 La Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan vanta un record mondiale assai poco glorioso: è il paese col maggior numero di giornalisti imprigionati: oltre 120. Alcuni sono in prigione da mesi, nella maggioranza dei casi in attesa del processo. La repressione seguita al tentato colpo di stato del luglio 2016 è stata feroce e ha preso di mira giornalisti della carta stampata, della radio, della televisione e di testate online. Sono state anche chiuse oltre 160 agenzie di informazione. La proprietà di testate critiche nei confronti del governo è cambiata assumendo una linea editoriale più compiacente nei confronti del governo. Si ricorre sempre più spesso all’auto-censura: gli editorialisti e i talk show più popolari si limitano a esprimere solo velate critiche per evitare gli arresti. Il messaggio è chiaro e inquietante: in Turchia lo spazio per esprimere il dissenso è sempre più limitato e chi lo valica può pagare un prezzo molto alto. L’erosione della libertà di stampa non è una cosa nuova in Turchia. Nel 2013, durante le grandi manifestazioni di Gezi Park, un importante canale trasmise un documentario sui pinguini anziché un servizio giornalistico. Ma ora siamo di fronte a qualcosa di assai più grave. Per questo, Amnesty International ha lanciato un appello globale per chiedere alla Turchia il rispetto della libertà d’informazione.