Ma un criminale con disturbi psichiatrici va tenuto in carcere? di Lara Tomasetta tpi.it, 1 marzo 2017 Stefano Anastasia, Garante delle persone private della libertà del Lazio, denuncia a TPI gli effetti nocivi della detenzione per chi versa in uno stato di infermità mentale. Il 24 febbraio 2017 un ragazzo di 22 anni si è suicidato nel carcere di Regina Coeli a Roma. Ha utilizzato le lenzuola del letto per impiccarsi alla grata della finestra nel bagno della sua cella. Il suo nome era Valerio, soffriva da anni di disturbi psichiatrici. Il giovane era stato affidato alla Rems di Ceccano (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, strutture che hanno preso il posto degli Ospedali psichiatrici giudiziari), centro dal quale negli ultimi mesi era scappato tre volte. Dopo il terzo tentativo di fuga, il giudice competente del tribunale penale di Roma ha ritenuto di dover trasformare la custodia nella Rems in una custodia cautelare in carcere, in regime di sorveglianza speciale con l’accusa di violenza e resistenza al pubblico ufficiale e danneggiamento. Prima di suicidarsi Valerio aveva inviato diverse lettere ai genitori in cui confessava la difficoltà di stare e in carcere. Un’ultima lettera indirizzata al fratello pochi giorni prima di togliersi la vita conteneva un disperato grido di aiuto. La missiva, pubblicata dall’associazione Antigone per volontà della madre di Valerio, riportava frasi come "Io qui sto impazzendo, non ce la faccio più. Il giudice mi ha ridato la Rems, ma basta, sono stanco. Sono stanco di mangiare, di scappare, di fare qualunque cosa. Ora ti lascio con la penna ma non con il cuore fratellone mio". La madre di Valerio sta procedendo con l’avvocato Simona Filippi perché intenzionata ad andare a fondo della situazione. La donna, infatti, ritiene che suo figlio con evidenti disturbi psicologici non dovesse stare in carcere. "Bisognerebbe chiarire come mai un ragazzo al quale era stato accertato da tempo lo stato di infermità mentale, sia stato mandato in carcere", spiega a TPI Stefano Anastasia - garante delle persone private della libertà e tra i fondatori dell’associazione Antigone, che si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale. "Valerio", spiega Stefano, "poteva essere riportato all’interno della Rems, dove sicuramente avrebbe avuto un’assistenza sanitaria dal punto di vista psichiatrico e psicologico idonea. Non è una sorpresa che le persone che hanno questi problemi di salute siano "irregolari", ossia tendano ad allontanarsi. Ma non parliamo di un detenuto dal profilo criminale particolare, di difficile ritrovamento, stiamo parlando di persone che hanno necessità di cure e assistenza, cure che potevano essere fornite nella Rems, e non certo nel carcere di Regina Coeli". Secondo il garante, infatti, "la struttura carceraria ha fatto il possibile per vigilare su Valerio, ma non era il luogo dove tenere un ragazzo in quelle condizioni". "Normalmente la custodia cautelare viene disposta se c’è il rischio che la persona possa sottrarsi al processo, per pericolo di fuga, o se c’è il rischio che quella persona possa compromettere le prove oppure possa commettere un nuovo reato della stessa specie", spiega Anastasia. "Mentre per la custodia nelle Rems i criteri validi sono esattamente quelli di infermità mentale. Immagino che in questo caso il giudice abbia fatto valere uno dei criteri validi per la custodia cautelare in carcere anche se i reati commessi da Valerio erano veramente di poco conto: tra i più gravi risultava la resistenza al pubblico ufficiale. Forse questa applicazione delle misure cautelari è stata eccessivamente rigorosa". Secondo quanto sostenuto dal garante Anastasia, dunque, si è forse operato con un eccesso di zelo dinanzi a un soggetto che, qualora fosse stato socialmente pericoloso, avrebbe dovuto andare fin da subito in carcere. "Il provvedimento di tenere Valerio in carcere solleva forse una responsabilità verso una persona che doveva essere seguita in altro modo. La valutazione su come trattare un caso così delicato andrebbe fatta con grande accortezza: gli effetti nocivi di un’incarcerazione su un soggetto di questo genere possono essere terribili, proprio come è avvenuto per questo caso. Non voglio sollevare problemi di responsabilità diretta, ma una riflessione è doverosa", ha concluso il garante. Il carcere e il suicidio ai tempi delle Rems. Intervista a Susanna Marietti (Antigone) di Matteo De Fazio riforma.it, 1 marzo 2017 Una riflessione sulle residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria, che non possono essere dei nuovi ospedali psichiatrici giudiziari, chiusi nel 2015. Venerdì un ragazzo di 22 anni si è tolto la vita in carcere, impiccandosi a una grata del Regina Coeli di Roma. Il ragazzo era stato preso in custodia nel Rems di Ceccano, dal quale era fuggito due volte. I Rems sono strutture di assistenza per detenuti con problemi psichici che in qualche modo hanno preso il posto degli ospedali psichiatrici giudiziari. Il ministro della Giustizia Orlando ha chiesto un ispezione per appurare che sia stata applicata la direttiva sulla prevenzione dei suicidi: "in generale non credo alla prevenzione materiale, perché se una persona vuole uccidersi trova il modo di farlo - dice Susanna Marietti, presidente dell’associazione Antigone - ma non è quello il punto. Piuttosto bisognerebbe togliere alle persone in carcere la voglia di uccidersi". Questa vicenda torna a mettere in luce le carenze del passaggio dagli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) alle nuove strutture, le residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria, i Rems. "Sì, il ragazzo aveva un’incompatibilità con il carcere dichiarata da parte del magistrato in passato, e varie volte aveva avuto la misura di sicurezza in Rems, dalle quali si era allontanato. La terza volta è stato mandato in carcere, in custodia cautelare, e un altro magistrato ha fatto una perizia psichiatrica, che ha confermato che non doveva stare in carcere: a quel punto doveva essere trasferito in una Rems. Ma la transizione procede con fatica, queste strutture hanno risposto che non c’era posto e lui è rimasto in carcere per molti altri giorni, che gli sono stati fatali". In che punto ci siamo bloccati con la riforma del sistema dell’esecuzione per le persone che andavano negli Opg? "Per ora i posti nelle Rems sono pochi, ma in realtà noi vorremmo che non ne servissero molti: la collocazione in queste strutture deve essere davvero residuale, limitata a quelle persone che sono per davvero socialmente pericolose e non possono essere lasciate libere per il pericolo alla collettività. Devono essere prese in carico in maniera seria dal servizio sanitario nazionale e non devono starci tanto, altrimenti abbiamo chiuso gli Opg e ne abbiamo in qualche modo mantenuto lo spirito culturale per cui vorremmo mandarci un po’ chiunque non sappiamo dove mettere solo perché ha un disagio". Di questo avete avuto modo di discutere con il ministro della giustizia Orlando? "Sì, abbiamo interloquito con il ministro anche con le nostre proposte al disegno di legge, che se mai venisse approvato delegherebbe il governo a riformare l’ordinamento penitenziario. Insieme a Stop Opg abbiamo l’andamento di questa riforma, che va avanti da diversi anni attraverso proroghe e discussioni. Il percorso prosegue ma, come la cronaca ci dimostra, ha ancora tanta strada davanti a sé". Allargando lo sguardo, c’è una passo che si può compiere prima della fine della legislatura? "Realisticamente bisognerebbe stralciare l’articolo 31 che riguarda la riforma dell’ordinamento penale, un solo articolo di un disegno di legge ciclopico che contiene la riforma della prescrizione, la riforma delle intercettazioni e altri temi sensibili alla magistratura, e che quindi va a rilento. Un unico articolo che delega a riscrivere un nuovo ordinamento penitenziario, considerato che quello che abbiamo è del 1975, periodo in cui il carcere era completamente diverso. Dobbiamo ripensare la legge: se mandassimo avanti la discussione su quell’articolo riusciremmo a non sprecare il lavoro che è stato fatto durante gli Stati generali dell’esecuzione penale, a cui abbiamo partecipato, che voleva appunto guardare a questa riforma". A giugno arriveranno mille nuovi braccialetti elettronici per detenuti domiciliari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 marzo 2017 Tre le società ammesse al bando per fornire 1.000 dispositivi per i successivi 27 mesi. Da giugno verranno forniti, installati e attivati mensilmente 1000 braccialetti elettronici, fino a un surplus del 20 per cento in più, con connessi servizi di assistenza e manutenzione per un arco temporale di 27 mesi. Da anni, ormai, centinaia se non migliaia, di persone sottoposte a procedimenti giudiziari che avrebbero potuto avere la possibilità di ottenere gli arresti domiciliari, sono rimaste dietro le sbarre a causa del numero insufficiente dei braccialetti elettronici. Come anticipato da Il Dubbio, l’anno scorso il ministero dell’Interno aveva fatto sapere che avrebbe indetto un nuovo bando di gara per la produzione di nuovi dispositivi. Così era stato fatto. Il 6 dicembre, due giorni dopo il big bang referendario, con il governo dimissionario, è stato finalmente pubblicato il bando di gara per la fornitura dei nuovi apparecchi. Il due febbraio è scaduto il termine per le offerte e la settimana scorsa sono state valutate e ammesse alla gara tre società produttrici: Fastweb spa, la Rti Engineering ingegneria informatica e la Telecom Italia Spa. La gara di appalto a normativa europea con aggiudicazione sulla base del criterio dell’offerta più vantaggiosa, ha un importo complessivo a base di gara pari a più di 45 milioni di euro. A giugno, se tutto andrà bene, arriveremo alla fine di una vicenda paradossale. Il problema di oggi, e che presto, si spera, si risolverà, è l’opposto di quello che si era manifestato nel corso degli anni dopo l’introduzione dei dispositivi elettronici: superata la diffidenza e i disguidi iniziali, che nei primi sei mesi del 2013 aveva portato all’attivazione di soli 26 braccialetti, la nuova modalità di concessione della misura di custodia cautelare, aveva iniziato a farsi largo nei tribunali anche grazie al decreto svuota-carceri del 2013. La quantificazione dei duemila braccialetti che Telecom Italia si era impegnata a fornire, senza gara d’appalto, al ministero della Giustizia, risale all’accordo siglato con l’allora ministro Angelino Alfano dopo uno studio ad hoc commissionato sull’applicabilità della misura. Il dispositivo odierno viene gestito dalla centrale operativa grazie a un’infrastruttura di telecomunicazioni a larga banda messa a disposizione da Telecom. Il sistema fornito dall’operatore provvede anche all’assistenza 24 ore su 24, 365 giorni all’anno (dal momento che potrebbero rendersi necessarie installazioni o controlli anche nei giorni festivi o di notte, a seconda delle necessità dell’autorità giudiziaria), e l’aggiornamento dei software agli standard più avanzati. Il braccialetto elettronico, che si applica alla caviglia, è dotato anche di una centralina, che ha la forma di una radiosveglia, che va installata nell’abitazione in cui deve essere scontata la condanna, un device che riceve il segnale dal braccialetto e lancia l’allarme per eventuali tentativi di manomissione e in caso di allontanamento del detenuto. ll business dei braccialetti elettronici nasce nel 2001 da un accordo di due membri dell’allora governo Amato: il ministro dell’Interno, Enzo Bianco, e il Guardasigilli, Piero Fassino. Ma dei ben 400 dispositivi elettronici che il Viminale aveva noleggiato dalla Telecom, solo 11 erano stati utilizzati: in poche parole, per una decina di braccialetti utilizzati, si impose una spesa pubblica di circa 11 milioni di euro all’anno per un affare complessivo da 110 milioni di euro. Un gap che la ex ministra Cancellieri aveva tentato di risolvere con un decreto del 2013 che caldeggiava l’utilizzo dei braccialetti per le persone agli arresti domiciliari. Però, fino al 2014, ne erano attivi solo 55 in otto uffici giudiziari. Perché? La risposta è in una lettera scritta allora da una gip di Torino, Alessandra Bassi, e da un sostituto procuratore di Firenze, Christine von Borries. Furono loro a spiegare ai colleghi ignari che potevano chiamare Telecom per installare le centraline. Da allora, anche in seguito ai provvedimenti che ne incentivavano l’utilizzo, c’è stato un boom delle richieste fino a esaurire i braccialetti disponibili. Processo penale, un altro stop. Resta bloccata anche la riforma dei penitenziari Libero, 1 marzo 2017 La riforma del processo penale, che contiene anche la delega al governo per la riforma dell’ordinamento penitenziario, torna in Commissione Giustizia del Senato. "Stavolta ci siamo", aveva detto, due settimane fa, il Guardasigilli Andrea Orlando. E così pareva, con il disegno di legge inserito nell’ordine del giorno dell’assemblea di Palazzo Madama. Ieri, invece, nuovo stop: il governo con Anna Finocchiaro, ministro dei Rapporti con il Parlamento, ha chiesto una settimana di tempo per "presentare un emendamento in tema di razionalizzazione delle spese per le intercettazioni telefoniche. L’idea è di andare verso un modello unico di contratto". Una legge ad hoc per i testimoni di giustizia di Francesco Cerisano Italia Oggi, 1 marzo 2017 Atteso per domani il voto della Camera sulla legge bipartisan frutto del lavoro dell’Antimafia. Indennizzo forfettario per i danni psicologici o biologici subìti, inserimento lavorativo nella p.a., ma solo come extrema ratio, qualora ogni altra forma di reinserimento occupazionale sia fallito. Assegnazione in uso dei beni confiscati alla mafia. Maggiore ricorso all’incidente probatorio e alla videoconferenza per acquisire nel processo le dichiarazioni del testimone senza esporlo a pericoli. E soprattutto possibilità di avere al proprio fianco un referente dello stato per tutto il periodo della protezione. Dovrebbe arrivare tra stasera e domani alla camera il primo sì sulla proposta di legge bipartisan che regolamenta per la prima volta lo status dei testimoni di giustizia, ossia coloro che, essendo del tutto estranei alle organizzazioni criminali, denunciando ciò che hanno subìto o visto, si espongono a pericolo "concreto, grave e attuale" al punto da dover, spesso, cambiare residenza, e identità. Il testo è frutto del lavoro della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosy Bindi che sin dall’ottobre 2013 ha individuato tra le priorità d’azione il riconoscimento della piena dignità ai testimoni, il cui status è ancor oggi regolamentato da una legge del 1991 (n. 82), modificata poi nel 2001 (con la legge n. 45) ma con norme pensate per i collaboratori di giustizia (i cosiddetti pentiti) che in realtà poco hanno a che fare con i testimoni, visto che sono persone interne alle organizzazioni criminali che decidono di collaborare per avere uno sconto di pena. La proposta di legge, che vede relatori il deputato Pd, Davide Mattiello, e l’ex pm Stefano Dambruoso (Civici e Innovatori) punta innanzitutto a fare chiarezza tra le due fi gure circoscrivendo la figura del testimone e specificando che, per essere tale, l’oggetto della testimonianza deve essere "attendibile e rilevante" ai fini delle indagini o del giudizio. Il testimone, inoltre, per poter essere ammesso al programma di protezione non dovrà aver riportato condanne per delitti non colposi, né essere stato sottoposto a misure di prevenzione e soprattutto non dovrà aver tratto beneficio dai reati che sta denunciando. Per esempio, l’imprenditore che per anni abbia subito una estorsione da parte di una organizzazione criminale, ma che proprio grazie al rapporto con questa organizzazione sia stato concretamente avvantaggiato nell’accaparrarsi appalti, non potrà essere considerato un testimone di giustizia anche se ad un certo punto decidesse di denunciare. Altro aspetto su cui la proposta di legge interviene a fare chiarezza è sull’autorità deputata a valutare la gravità del pericolo. Questa potrà essere solo l’autorità giudiziaria perché, chiarisce Davide Mattiello (che in seno alla Commissione antimafia ha coordinato il V Comitato che ha lavorato sul dossier testimoni dal maggio del 2014) "solo i magistrati sono in grado di apprezzare l’insorgere del pericolo qualificato e il permanere nel tempo di tale pericolo, non certo l’autorità amministrativa". Il riferimento è alla Commissione centrale e al Servizio centrale di protezione del ministero dell’interno (su cui spesso si sono concentrate le critiche e le aspettative da parte dei testimoni) a cui però spetta solo predisporre organizzativamente le misure di protezione ma che non hanno il potere di stabilire "se e fi no a quando" un testimone abbia bisogno di tutela. Nel merito, il leitmotiv del provvedimento è favorire la protezione in loco del testimone in modo da salvaguardarne il contesto lavorativo e sociale. Vengono inoltre previste nuove misure di sostegno economico e sociale, quali: - l’indennizzo forfettario per i danni psicologici o biologici derivanti dalla testimonianza resa; - l’inserimento lavorativo nella p.a., ma solo come extrema ratio, qualora ogni altra forma di reinserimento occupazionale sia fallita; - la possibilità che al testimone vengano assegnati in uso beni confiscati e gestiti dall’Agenzia nazionale; - l’istituzione del referente del testimone di giustizia, individuato all’interno del Servizio centrale di protezione, fi n dal momento dell’inserimento nel piano provvisorio. Un punto di riferimento continuo fi no a che l’affidamento al sistema non sia terminato. Magistrati in politica, è lite tra Forza Italia e Pd di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 1 marzo 2017 Partiti e pm, è guerra aperta anche all’interno del Partito Democratico. La decisione di Michele Emiliano, magistrato, di candidarsi a segretario del Pd è stato il detonatore con la polemica innescata da Donatella Ferranti, presidente Pd della Commissione Giustizia della Camera. Ma adesso la mina della candidabilità o meno delle toghe e l’opportunità che ci siano magistrati che occupano incarichi politici è deflagrata e sta provocando un duro scontro tra Pd e Forza Italia. Il primo a intervenire è il capogruppo forzista Renato Brunetta. Che ricorda come ci sia una proposta di legge che da oltre due anni e mezzo "giace insabbiata" nelle Commissioni Giustizia e Affari costituzionali di Montecitorio, riguardante candidabilità, eleggibilità e ricollocamento dei magistrati in occasione di elezioni, già approvata a larghissima maggioranza dal Senato. "Il testo è bloccato inspiegabilmente dalla presidenza della Commissione Giustizia, che da ormai oltre due anni e mezzo frappone ogni tipo di ostacolo. Chi è il presidente della Commissione Giustizia che blocca il provvedimento? Un bravo magistrato, in aspettativa, Donatella Ferranti. La stessa che ha attaccato Michele Emiliano. Che ci sia un lievissimo conflitto d’interessi per un magistrato in aspettativa che guida, pro tempore, una Commissione parlamentare che deve esaminare un testo che si occupa della sua categoria professionale? Immediata la replica del capogruppo del Pd, Ettore Rosato "Quelle di Brunetta sono parole inopportune. Nessuna legge è bloccata in commissione Giustizia dalla presidente Ferranti. La proposta su candidabilità, eleggibilità e ricollocamento dei magistrati in occasione di elezioni - rileva l’esponente Dem - è all’esame della Commissione secondo i tempi previsti e richiesti dai gruppi stessi. La verità è che neanche Forza Italia ci tiene così tanto, avendola tolta dall’elenco delle proposte spettanti al suo gruppo, giusto in tempo per ritirarla fuori alla bisogna e attaccare una delle commissioni più efficienti del Parlamento". Controreplica di Brunetta: "Rosato dice il falso. Ho in mano ben 25 lettere trasmesse alla Presidenza della Camera e a tutti i presidenti di gruppo, dal mese di giugno 2014 sino allo scorso gennaio (ultima comunicazione inviata), con riferimento alla programmazione e alla calendarizzazione dei lavori dell’Aula da decidere in occasione delle diverse Conferenze dei capigruppo convocate a tal proposito, in cui il gruppo Forza Italia, ha formulato, tra le proprie indicazioni, la richiesta di inserimento della proposta di legge in materia di candidabilità ed eleggibilità dei magistrati. La colpa è del Pd e del partito dei magistrati. Rosato farebbe bene a starsene zitto: altro che inopportune le mie parole. Basta con il suo muro di gomma, basta con la sua ipocrisia". Non basta. Walter Verini, capogruppo dei Democrat nella stessa Commissione lancia la sfida: "Il Pd è pronto ad approvare la norma non appena il provvedimento sarà calendarizzato in Aula. Si tratta di un testo complesso che interviene su questioni sensibili e che deve contemperare interessi e diritti differenti: quello attuale stabilisce che durante il mandato elettivo e durante lo svolgimento di incarichi di governo il magistrato deve obbligatoriamente trovarsi in aspettativa, in posizione di fuori ruolo. La proposta di legge esclude l’esercizio delle funzioni giudiziarie nella regione interessata dalla presentazione della candidatura e amplia, anzi, tale limite. Il magistrato candidato e non eletto alle elezioni amministrative è ricollocato nel ruolo di provenienza, con vincolo di esercizio per cinque anni di funzioni giudicanti collegiali. Per altrettanti anni non potrà essere assegnato ad un ufficio del distretto di corte d’appello con competenza sul territorio della provincia o del comune nel quale ha presentato la candidatura né ricoprire incarichi direttivi o semi direttivi. La discussione in Commissione è avvenuta senza la benché minima interferenza di alcuno, tantomeno della presidente Ferranti. Gli attacchi di Renato Brunetta nei suoi confronti sono immotivati e irricevibili. Come suo costume conclude Verini - la presidente Ferranti ha svolto il suo ruolo in maniera competente e imparziale, affidando il mandato di relatore al capogruppo Pd che non è né magistrato né avvocato". Reato di peculato: no al patteggiamento se non si restituisce il profitto o il prezzo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2017 Il giudice non può concedere il patteggiamento se a questo non si accompagna la restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato. La Corte di cassazione (sentenza 9990) accoglie il ricorso del Procuratore generale contro la decisione del Giudice per le indagini preliminari di applicare, in seguito al patteggiamento (articolo 444 del Codice di procedura penale) la pena di un anno e tre mesi di reclusione, con sospensione condizionale, per il reato di peculato. Secondo la pubblica accusa, il Gip aveva sbagliato a non verificare che venisse rispettato, per l’ammissibilità al patteggiamento, quanto richiesto dall’articolo 444 comma 1-ter del Codice di procedura penale che subordina l’ammissibilità al rito alternativo alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato. La norma elenca, infatti, i reati per quali è necessario restituire il profitto e, tra questi, c’è il peculato. Per la Cassazione il ricorso del Pm è fondato. Una volta verificato che il Gip ha pronunciato la sentenza di applicazione della pena su richiesta della parti senza fare alcun cenno alla restituzione, la Suprema corte chiarisce che il tema che si pone alla sua attenzione è quello di verificare la natura della norma violata (comma 1-ter dell’articolo 444). L’esame si impone perché se si trattasse di una norma di diritto penale sostanziale, che prevede una sanzione analoga a quella della confisca del profitto del reato di peculato (articolo 322 ter del Codice penale) non sarebbe applicabile al caso in esame. Il peculato è, infatti, stato commesso nel 2014 mentre l’articolo 1-ter è stato introdotto nell’ordinamento nel 2015 e dunque dopo la sua consumazione. Per costante giurisprudenza la confisca (articolo 322 ter del codice penale) ha natura sanzionatoria con conseguente irretroattività in caso di fatti commessi prima dell’entrata in vigore della norma. Un principio che sarebbe estensibile, per evidente analogia, anche alla "sanzione" prevista dal comma 1 ter dell’articolo 444. Per la Cassazione però l’articolo 444, comma 1-ter non può essere considerato una sanzione. Lo esclude il chiaro riferimento a condotte riparatorie, adottate volontariamente anche al di fuori di qualsiasi intervento giudiziale prescrittivo e anche precedenti la richiesta di applicazione della pena. La norma enuncia in realtà una condizione meramente processuale di ammissibilità al rito speciale e va considerata di natura esclusivamente procedimentale. Il comma 1-ter è dunque applicabile al caso in esame in cui la richiesta di applicazione di pena era stata fatta quando la norma era in pieno vigore. La Cassazione, in linea con il Pm, ricorda che scopo dell’adempimento è impedire vantaggi di natura economica derivanti dal reato. Lettera aperta ai Giudici della Corte Costituzionale di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 1 marzo 2017 "Non è consentito avere in cella più di tre libri: è una regola che risale ad 80 anni fa, al tempo della detenzione di Antonio Gramsci che fu autorizzato a tenere solo tre libri in cella". (Voce dal regime di tortura del 41 bis). Signori Giudici, ventisei anni di carcere mi hanno insegnato che prima di scrivere bisogna leggere. E dopo bisogna tentare di riflettere con la mente e con il cuore. Subito dopo però bisogna avere il coraggio di scrivere quello che si pensa. È quello che ho deciso di fare adesso: non sono assolutamente d’accordo con voi che avete deciso di ritenere corretta la norma che consente all’amministrazione penitenziaria di vietare ai detenuti sottoposti al regime di tortura del 41 bis di ricevere libri e riviste dall’esterno. In questo modo, il "fine giustifica i mezzi" e, secondo voi, questo divieto consente di prevenire contatti del detenuto con l’organizzazione criminale di provenienza. A mio parere però con questa decisione avete fatto un "favore" alla mafia perché non avere tenuto conto che i libri potrebbero aiutare a sconfiggere l’anti-cultura mafiosa. Signori Giudici, credo che pensiate in questo modo perché leggete poco, forse perché non avete tempo. Io, invece, in questi 26 anni di carcere, ho letto moltissimo. Potrei affermare che sono sempre stato con un libro in mano. E sono convinto che senza libri non ce l’avrei potuta fare. Mi sono fatto la convinzione che noi siamo anche quello che leggiamo e, soprattutto, quello che non leggiamo. Vi confido che nei libri ho vissuto la vita che non ho potuto vivere: ho sofferto, ho pianto, ho amato, sono stato amato, sono cresciuto, sono stato felice ed infelice nello stesso tempo. E sono morto e vissuto tante volte. Una volta, una giornalista mi ha chiesto qual era il libro che mi era piaciuto più di tutti. Mi è stato difficile rispondere, perché i libri sono un po’ come i figli: si amano tutti, perché tutti ti danno qualcosa. Alla fine ho detto che mi è piaciuto molto il libro "Il Signore degli anelli" perché molti prigionieri sono un po’ come i bambini. E per vivere meglio si immaginano di vivere in mezzo a boschi e palazzi incantati, fra meraviglie o incantesimi. Mi ha entusiasmato anche il libro "Il rosso e nero" di Stendhal perché mi ha insegnato che l’amore è fatto di amore. Poi ho citato il libro "Delitto e castigo" di Fëdor Michailovic Dostoevskij perché mi ha insegnato come si sconta la propria pena e che la vita è fatta di errore, se no non sarebbe vita. Infine, ho elencato i libri di Hermann Hesse, fra cui "Siddharta" e "Il Lupo della steppa", perché mi hanno insegnato che quello che penso io lo pensano anche gli altri… a parte forse voi. Signori Giudici, permettetemi di affermare che nei libri non ci sono dei nemici. Anzi, essi aiutano a frugare meglio dentro se stessi. Solo gli sciocchi hanno paura dei libri. Per la prossima volta che dovrete prendere delle importanti decisioni, vi consiglio di leggere prima un buon libro, come facevano i padri della nostra Carta Costituzionale che il carcere lo conoscevano bene, perché sotto il regime fascista vi hanno trascorso molti anni della loro vita. I libri sono stati la mia luce in tutti questi anni di buio, mi hanno anche aiutato a continuare a lottare e a stare al mondo perché, come scrive Elvio Fassone (ex magistrato e componente del Consiglio della magistratura, oltre che Senatore della Repubblica), nel suo libro "Fine pena: ora": "Certe volte una pagina, una frase, una parola smuove delle pietre pesanti sul nostro scantinato". Fin dall’inizio della mia lunga carcerazione ho iniziato a leggere, all’inizio con la testa e alla fine con il cuore. L’ho fatto prima per rimanere umano, dopo per sopravvivere, alla fine per vivere. Credetemi non è stato facile leggere in carcere quando ero sottoposto al regime di tortura del 41 bis o nei circuiti punitivi e d’isolamento, perché spesso, per ritorsione, mi impedivano persino di avere libri o una penna per scrivere. E in certi casi mi lasciavano il libro, ma mi levavano la copertina. Penso che ci dovrebbe essere una buona legge per "condannare" i detenuti a tenere più libri in cella e, forse, anche una norma per obbligare i giudici della Corte Costituzionale a leggere di più. Caltanissetta: detenuto egiziano di 30 anni si uccide in cella Comunicato Sappe, 1 marzo 2017 Il quarto suicidio di un detenuto in un carcere italiano in pochi giorni. Voleva tornare in patria. È un giovane detenuto straniero di 30 anni, di nazionalità egiziana, la quarta persona che si uccide, in pochi giorni, in un carcere italiano. Dopo le morti suicide nei tre penitenziari di Napoli Poggioreale, Bologna e Regina Coeli a Roma di altrettanti detenuti, è nella Casa Circondariale di Caltanissetta che questa notte è morto per impiccamento l’uomo. E il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe torna a denunciare la crescente tensione nelle carceri del Paese. Spiega Lillo Navarra, segretario nazionale per la Sicilia del Sappe: “L’uomo si è impiccato nella cella stanotte. Era arrivato a Caltanissetta dal carcere di S. Cataldo, dove si era reso protagonista di più eventi che avevano turbato l’ordine e la sicurezza interna. Proprio ieri gli era stata negata l’estradizione al suo Paese, ma non è accertato che questo possa avere attinenza con il grave gesto di cui si è reso responsabile. Sappiamo che ha lasciato un messaggio, ma è massimo il riserbo sui contenuti”. Aggiunge Donato Capece, segretario generale del Sappe: “Quattro detenuti suicidi tra le sbarre di altrettanti detenuti in una settimana sono il segno tangibile di come i problemi sociali e umani permangono nelle carceri del Paese, nonostante l’attenzione e la vigilanza del personale di Polizia Penitenziaria, spesso lasciato solo a gestire queste situazioni di emergenza. Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti. Per queste ragioni un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace sono misure utili non solo per i detenuti ma anche per l’intero istituto dove questi vengono implementati. È proprio in questo contesto che viene affrontato il problema della prevenzione del suicidio nel nostro Paese. Ma ciò non impedisce, purtroppo, che vi siano ristretti che scelgano liberamente di togliersi la vita durante la detenzione”. Il Sappe torna a evidenziare che il 31 gennaio scorso erano detenute in Italia 55.381 persone, tremila in più di quanti ve n’erano lo stesso giorno del 2016 (52.475). Dei presenti, il 34% (18.825) sono gli stranieri. “I detenuti tornano sensibilmente ad aumentare ed aumentano anche gli eventi critici. Di più. Da quando sono stati introdotti nelle carceri vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto sono decuplicati eventi gli eventi critici in carcere”, conclude Capece. “Se è vero che il 95% dei detenuti sta fuori dalle celle tra le 8 e le 10 ore al giorno, è altrettanto vero che non tutti sono impegnati in attività lavorative e che anzi trascorrono il giorno a non far nulla. Ed è grave che sia aumentano il numero degli eventi critici nelle carceri da quando sono stati introdotti vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto. Nell’anno 2016 ci sono infatti stati 39 suicidi di detenuti, 1.011 tentati suicidi, 8.586 atti di autolesionismo, 6.552 colluttazioni e 949 ferimenti”. Livorno: l’isola-carcere di Gorgona è una polveriera, pochi agenti, detenuti raddoppiati di David Evangelisti Il Fatto Quotidiano, 1 marzo 2017 I 26 agenti penitenziari devono infatti gestire un numero di prigionieri eccessivo senza contare che all’interno della stessa popolazione carceraria è aumentata la tensione perché non c’è abbastanza lavoro per tutti. "Per anni il penitenziario ha rappresentato l’esempio di un modo diverso di intendere la pena, un modello mirato al reinserimento sociale. La realtà di Gorgona ha senso solo se i detenuti possono lavorare", dice il garante dei diritti dei detenuti labronico. L’isola-carcere livornese di Gorgona rischia di diventare una polveriera. I 26 agenti penitenziari devono infatti gestire un numero di detenuti che negli ultimi mesi è quasi raddoppiato (i reclusi sono attualmente un centinaio), senza contare che all’interno della stessa popolazione carceraria è aumentata la tensione perché non c’è abbastanza lavoro per tutti. Continuano inoltre i casi di autolesionismo: soltanto nelle ultime settimane ne sono stati registrati cinque (lo scorso 22 febbraio un carcerato ha ingoiato una pila). Le difficoltà di collegamento rendono poi tutto più difficile: se il mare è molto mosso Gorgona rischia davvero di restare isolata per giorni. Ad accendere i riflettori sui problemi dell’isola è stato nei giorni scorsi il Tirreno. Il fattoquotidiano.it ha cercato di contattare la direttrice del carcere Santina Savoca ma il suo staff ha fatto sapere che la dottoressa preferisce non rilasciare dichiarazioni. Nessun commento anche dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Giuseppe Martone, che - come ci è stato riferito -"è in congedo". "15 agenti per 100 detenuti"- A spiegare la situazione sull’isola carcere è invece Pierangelo Campolattano della Fns-Cisl. "Negli ultimi mesi i detenuti sono raddoppiati, adesso sono un centinaio mentre gli agenti sono 26 - racconta il sindacalista della polizia penitenziaria - Il personale andato in pensione o trasferito non è stato rimpiazzato: dovremo essere almeno una quarantina. Considerando i turni di riposo, gli agenti quotidianamente in servizio sono una quindicina". Troppo pochi per gestire il "boom" di arrivi: "Una ventina di nuovi detenuti è giunta prima dell’estate da Livorno (l’ex sezione femminile della casa circondariale Le Sughere è in ristrutturazione, ndr) mentre un’altra trentina è arrivata da ogni parte d’Italia a fine 2016?. Perché tanti nuovi arrivi? "Santi Consolo, capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, vuol valorizzare l’esperienza dell’isola. Fino al momento sono però arrivati soltanto detenuti in più: adesso servono più agenti", spiega Campolattano. Preoccupato anche Andrea Morini, assessore del comune di Livorno con delega alla Gorgona: "Va risolto al più presto lo spread tra agenti e detenuti". "Tanti colleghi vorrebbero lavorare sull’isola". Il mancato rimpiazzo del personale - continua Campolattano - è legato all’accorpamento amministrativo del carcere di Gorgona con quello di Livorno: "Fino al 2013 - dice - un agente poteva chiedere di esser trasferito sull’isola per poter beneficiare di 4 punti aggiuntivi in graduatoria. Oggi Gorgona non è però più considerata sede autonoma dunque quel bonus non viene più riconosciuto. È un peccato, numerosi colleghi da molte parti d’Italia sarebbero disposti a lavorare sull’isola". "Poco lavoro, sale la tensione fra detenuti" -"Qui hanno fatto venire persone che non sono adatte per questo tipo di detenzione" ha evidenziato il sindacalista, ricordando che sull’isola venivano generalmente inviati detenuti ai quali era stata riconosciuta la buona condotta o con una pena lunga giunta quasi alla fine. La "vocazione" di Gorgona è poi sempre stata quella di permettere ai detenuti di lavorare (agricoltura, muratura, allevamento zootecnico) per favorire il loro reinserimento sociale: "I fondi sono però insufficienti per far lavorare tutti e questo crea malcontento, anche perché molti reclusi sono arrivati in Gorgona proprio con la speranza di lavorare". Il garante dei detenuti: "Gorgona è stata per anni un esempio" - "Gorgona ha rappresentato per tanti anni l’esempio di un modo diverso di intendere la pena, un modello mirato al reinserimento sociale. La realtà di Gorgona ha senso solo se i detenuti possono lavorare", dice invece Marco Solimano, garante dei diritti dei detenuti di Livorno. Il lavoro per tutti i detenuti però adesso non c’è: "E l’equilibrio si è rotto, generando tensioni". Solimano spera che la situazione possa migliorare presto: "I lavori di ristrutturazione a Livorno sono quasi ultimati, mi auguro che entro due mesi una parte dei detenuti venga riportata alle Sughere". Di idee per "valorizzare" ulteriormente l’isola ce ne sarebbero molte: "A Gorgona è stato realizzato un seminario nazionale dei magistrati di sorveglianza. Perché non fare dell’isola un vero e proprio centro convegnistico nazionale?". "Collegamenti difficoltosi" - Gorgona, frazione del comune di Livorno, è la più piccola (220 ettari, lunga 3 chilometri e larga 2) delle isole dell’Arcipelago toscano. I collegamenti non sono facili. La motonave Superba della Toscana Mini Crociere che per la maggior parte dei mesi garantisce il collegamento, al momento è ferma. "La convenzione con il comune - spiega Alice Colli di Toscana Mini Crociere - prevede almeno un collegamento settimanale per 10 mesi l’anno. A gennaio e febbraio la motonave è però ferma per il rimessaggio". "Fino a qualche anno fa potevamo contare anche sulla Toremar ma il servizio, che garantiva il 90% dei trasferimenti, è stato sospeso. Noi abbiamo a disposizione 4-5 motovedette, ma si tratta di mezzi con oltre 20 anni bisognosi di continui collaudi. In alcuni casi il mare troppo mosso non permette di effettuare il collegamento: in passato è capitato di restare isolati anche per sette giorni", racconta sempre il sindacalista Campolattano. Le motovedette degli agenti effettuano spesso una sorta di "servizio taxi" in favore dei familiari dei detenuti: "Ma quando il mare è troppo mosso non possiamo partire, col risultato che i familiari giunti da ogni parte d’Italia sono costretti a tornare indietro". Campobasso: reinserimento sociale dei detenuti, siglato il protocollo d’intesa di Emanuele Bracone termolionline.it, 1 marzo 2017 La Sea, Servizi e Ambiente SpA, e le case circondariali di Campobasso, Larino e Isernia hanno sottoscritto un protocollo d’intesa volto al reinserimento sociale dei detenuti, permettendo a questi ultimi di partecipare a titolo gratuito ad attività di pubblica utilità in favore della collettività, relativamente ai servizi gestiti dalla municipalizzata. I detenuti ai quali è rivolta l’iniziativa sono coloro che possono essere ammessi alle misure alternative alla detenzione o al lavoro esterno, secondo quanto disposto dall’articolo 21 della Legge sull’Ordinamento Penitenziario. Le attività di pubblica utilità, individuate dalle parti nel protocollo d’intesa, riguardano la pulizia e la manutenzione delle strade del territorio comunale di Campobasso, la raccolta dei rifiuti nel capoluogo di regione, la pulizia degli automezzi utilizzati dalla Sea e la manutenzione degli spazi esterni annessi al deposito. I lavori di pubblica utilità, che mirano al reinserimento sociale dei detenuti, hanno lo scopo di favorire, nelle persone che saranno coinvolte, all’acquisizione e al consolidamento dei valori socialmente condivisi, alla capacità di gestione del ruolo e dei compiti assegnati, di rispettare le regole di condotta nei rapporti sociali e di instaurare una rete di relazioni e alla capacità di acquisire e sviluppare nuove abilità e conoscenze. Sarà la direzione della casa circondariale a proporre alla Sea i detenuti che potranno beneficiare del progetto, che avrà la durata di dodici mesi per detenuto, per un totale di 24 ore di lavoro a settimana, con possibilità di rinnovo. Un tutor, indicato dal direttore generale della Sea, avrà il compito di organizzare l’attività quotidiana del detenuto, relazionando in merito all’esperienza della singola persona coinvolta all’iniziativa condivisa dalla Sea e dalle case circondariali di Campobasso, Larino e Isernia. Porto Azzurro (Li): i detenuti del carcere al lavoro per la città di Luigi Cignoni Il Tirreno, 1 marzo 2017 Portoferraio: convenzione tra Comune, Casa di reclusione e Cosimo de Medici. Quattro operatori impiegati nella piccola manutenzione 5 giorni a settimana. Quattro/cinque detenuti della casa di reclusione di Porto Azzurro saranno utilizzati, a partire da marzo, sul territorio portoferraiese, nelle opere di manutenzione del patrimonio storico-architettonico della città, nella sistemazione dell’arredo urbano e della portualità. È quanto si legge nel protocollo d’intesa che è stato siglato ieri mattina in municipio, dal sindaco Mario Ferrari, dal direttore del carcere Francesco D’Anselmo e dal presidente della Cosimo de Medici Vittorio Campidoglio, presenti anche il vicesindaco Roberto Marini e l’educatrice Giuseppina Canu. Da oggi, per una buona settimana, si avvieranno le pratiche burocratiche previste per la realizzazione del progetto. In questo caso, Portoferraio risulta essere il secondo paese sull’Isola (dopo Rio nell’Elba), che si avvarrà dell’impiego di personale detenuto in opere di manutenzione ambientale. Si parla, per il momento, di quattro o cinque soggetti. Che saranno impiegati per sei mesi, per cinque ore al giorno in 5 giorni alla settimana. "Con oggi - ha detto nel corso della presentazione Mario Ferrari - abbiamo dato inizio a un percorso che si prefigge il raggiungimento di due specifici obiettivi primari. Il primo riguarda il reinserimento del detenuto nella società dopo aver scontato la pena e renderlo quindi in grado di affrontare le sfide quotidiane. Il secondo invece riguarda le ricadute che ci potrebbero essere sulla città, attraverso il miglioramento dell’arredo urbano. Siamo molto ottimisti che si possano raggiungere risultati positivi". Il vicesindaco Roberto Marini ha poi spiegato: "Siamo arrivati oggi alla firma del disciplinare - ha aggiunto - dopo il lavoro che è stato espletato nel corso di un anno. Non ci si può improvvisare su simile proposte visti che sono tre i soggetti direttamente coinvolti. Il progetto è rivolto a ospiti dell’istituto penitenziario che si sono macchiati di un reato nei confronti della società. A loro è richiesto, come risarcimento, di essere impegnati in un’azione di risanamento del decoro urbano i". "Siamo grati agli amministratori del capoluogo elbano - ha infine concluso il direttore del carcere di Porto Azzurro Francesco D’Anselmo - per l’umanità e per la sensibilità dimostrata sottoscrivendo il disciplinare sull’impiego di detenuti, tema dell’inserimento del detenuto nella società. Elemento fondamentale del carcere è quello educativo, mirato a restituire alla società cittadini consapevoli. Siamo felici di poter collaborare con il Comune di Portoferraio". Latina: per il nuovo carcere incontro a Roma tra Sindaco e Ministro della Giustizia ilcaffe.tv, 1 marzo 2017 Completamento della Procura e il nuovo Carcere di Latina. Questi i temi al centro dell’incontro tra il Sindaco di Latina Damiano Coletta, accompagnato dal senatore Claudio Moscardelli, e il Ministro della Giustizia Andrea Orlando. La cittadella della giustizia è una chimera che viene inseguita da decenni, con l’immobile ormai deteriorato. Sono stati spesi 8 milioni di euro, finanziamento dell’allora Ministro della Giustizia Piero Fassino. "Occorreva una soluzione diversa dalla faraonica cittadella giudiziaria, visto che le risorse non bastavano neppure per terminare il solo edificio della Procura - spiega il Senatore Moscardelli. Avevo già presentato lo scorso anno interrogazione al Ministro. Inoltre, il carcere di Latina è vecchio e posto in pieno centro. Occorre un nuovo carcere e fuori città liberando l’area per un polmone verde al servizio del quartiere. Il Ministro Orlando è stato molto disponibile e consapevole della necessità di un intervento urgente per terminare la Procura. Avendo predisposto un piano di interventi per l’edilizia penitenziaria, ha espresso una volontà positiva e l’esistenza delle condizioni necessarie per dotare Latina di una nuova struttura. Sono molto fiducioso circa la disponibilità del Ministro: solleciteremo costantemente il Governo per concretizzare queste esigenze". Nola (Na): per il giudice "la facoltà di non rispondere ostacola la giustizia" di Simona Musco Il Dubbio, 1 marzo 2017 La teste, durante la testimonianza, fa emergere elementi a suo carico. Le viene nominato un difensore d’ufficio e lei decide di avvalersi della facoltà di non rispondere ma, secondo il presidente del collegio A del Tribunale di Nola, in questo modo "si ostacola la giustizia". Il fatto ha provocato la protesta degli avvocati e delle Camere Penali. "State ostacolando il corso della giustizia". Sono state più o meno queste le parole pronunciate dal presidente del Collegio A del tribunale di Nola l’ 8 febbraio, quando la teste di un processo per i falsi diplomi si è avvalsa della facoltà di non rispondere. La donna, nel corso della sua testimonianza, aveva fatto emergere elementi di sua correità e per questo i difensori degli imputati hanno sollecitato il tribunale a sospendere il processo e ad avvertire la testimone della facoltà di nominare un difensore. Una volta nominato il difensore d’ufficio, la donna ha deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere, provocando però la reazione del giudice che - secondo la ricostruzione delle Camere Penali di Nola - censurava la decisione ritenendola un modo di ostacolare il corso della giustizia. A quel punto è scattata la rivolta degli degli avvocati che, svestita la toga, hanno lasciato per qualche minuto l’aula. Un atteggiamento sintomo "di una cultura autoritaria della giurisdizione, contraria alla acquisizioni di progresso e di civiltà giuridica stabilizzatesi negli Stati costituzionali della seconda metà del secolo scorso e nelle Carte internazionali e sovranazionali di garanzia", hanno denunciato i legali, che ora vogliono andare avanti nella propria battaglia. La protesta è stata sintetizzata in una delibera della giunta della Camera Penale datata 20 febbraio, nella quale l’atteggiamento del presidente è stato etichettato come "lesivo del diritto di autodifesa del testimone e dei principi del giusto processo". La Camera Penale, presieduta da Vittorio Corcione, ha ora acquisito i file audio e il verbale della seduta, che confermano "senza ombra di dubbio" quanto denunciato dagli avvocati che hanno preso parte al processo quel giorno. "Da parte nostra era necessaria una presa di posizione di fronte ad una violazione delle regole del diritto - ha spiegato al Dubbio il legale -. Nei prossimi giorni verrà convocata un’assemblea durante la quale prenderemo delle decisioni". L’assemblea, secondo quanto emerge tra gli avvocati coinvolti nel processo, potrebbe coincidere con la prossima udienza, prevista per il 14 marzo, giornata per la quale potrebbe quindi essere proclamata l’astensione, così come già avvenuto nel 2010, quando i legali dello stesso foro hanno lamentato la "violazione del diritto di difesa". Gli avvocati, nel frattempo, sono in stato d’agitazione, in attesa che l’Anm prenda una posizione. Ma la risposta, al momento, non è ancora arrivata, un silenzio che i legali non sono disposti ad accettare, denunciando atteggiamenti lesivi del diritto all’autodifesa. "Le garanzie non sono orpelli apparenti", commentano. "La funzione primaria del processo penale - si legge nella delibera - è la tutela dell’innocente. In questa prospettiva, i diritti dell’accusato trovano una tutela privilegiata rispetto all’interesse punitivo dello Stato, come si ricava dalla presunzione d’innocenza e dalla correlata regola della prova di colpevolezza dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Di conseguenza, l’accertamento della verità nel processo penale non rappresenta un’operazione svincolata da limiti, ma, anzi, trova legittimazione nel rapporto di conformità alle regole poste a presidio dei diritti di libertà di tutti coloro che partecipano al processo. Le garanzie penali e processuali lungi dal configurarsi quali vuoti e sterili formalismi, ritenuti responsabili delle derive di ineffettività del sistema di repressione dei reati - sono invece l’espressione più alta dei diritti fondamentali della persona ed assumono il ruolo di limite rispetto alle liturgie della verità inscenate nel theatrum poenale e dalla macchina sanzionatoria". Per tale motivo, l’atteggiamento del presidente - poi mitigato dai giudici a latere, che hanno mediato con gli avvocati facendo riprendere il processo dopo circa 15 minuti, è stato avvertito come un tradimento della "sacralità" dei principi "della imparzialità e della terzietà" che il giudice dovrebbe incarnare. Lecce: delegazione Radicale visita il carcere "a breve reparto di osservazione psichiatrica" emilioquintieri.com, 1 marzo 2017 Denunciato sovraffollamento e carenza di personale penitenziario. Nei giorni scorsi, una Delegazione del Movimento Radicali Italiani, composta da Emilio Enzo Quintieri e Valentina Anna Moretti, ha fatto una visita ispettiva alla Casa Circondariale di Lecce, autorizzata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. Siamo stati ricevuti dal Direttore Rita Russo e dal Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria Commissario Riccardo Secci - dicono gli esponenti radicali Quintieri e Moretti - che ringraziamo per la loro calorosa accoglienza e per la preziosa collaborazione fornita durante tutta la visita all’Istituto. Gli esiti della visita sono stati comunicati al Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo, al Provveditore Regionale della Puglia Carmelo Cantone, al Magistrato di Sorveglianza di Lecce ed al Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti presso il Ministero della Giustizia Mauro Palma. A Borgo San Nicola, al momento della visita, erano presenti 916 detenuti (837 uomini e 79 donne), 169 dei quali stranieri (prevalentemente albanesi, rumeni, ucraini e nigeriani) con le seguenti posizioni giuridiche: 189 giudicabili, 109 appellanti, 69 ricorrenti, 549 definitivi di cui 17 ergastolani. 721 detenuti appartengono al Circuito della Media Sicurezza, 167 a quello dell’Alta Sicurezza (166 As3 e 1 As2), 3 sono Collaboratori di Giustizia, 7 semiliberi e 18 lavoranti all’esterno ex Art. 21 O.P. Durante la visita è stato accertato che tra i 916 detenuti, vi sono 59 tossicodipendenti, 370 affetti da epatite C e 70 con patologie psichiatriche. La capienza regolamentare dichiarata è di 617 posti mentre, in realtà, a causa della temporanea chiusura di alcune Sezioni per lavori di ristrutturazione (per un totale di circa 80 posti), si riduce a 537 posti con un esubero di 379 detenuti ed un tasso di sovraffollamento superiore al 150%. Secondo il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, invece, i "posti regolamentari attuali non disponibili" sarebbero solo 32. Sul punto, la Delegazione Radicale, ha chiesto che gli vengano fornite delucidazioni. Tutti i locali e gli spazi visitati si presentavano in buono stato di conservazione e di pulizia e, per quanto riguarda i locali destinati alle attività trattamentali, anche sufficientemente attrezzati. Per cui, gli standard di vivibilità appaiono abbastanza soddisfacenti per i recenti lavori di ristrutturazione e per l’applicazione del modello operativo della sorveglianza dinamica che ha sostituito la tradizionale "custodia chiusa" nella quasi totalità dell’Istituto (esclusa al momento solo l’Alta Sicurezza maschile). Non mancano comunque le criticità. Alcune Sezioni, infatti, si presentano dal punto di vista strutturale molto degradate ed in particolare modo i locali doccia che continuano ad essere in comune, all’esterno delle camere, in violazione di quanto prevede la normativa penitenziaria vigente. I Radicali hanno sollecitato l’Amministrazione di voler provvedere in tempi ragionevoli alla risoluzione delle criticità strutturali evidenziate mediante opportuni lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria. È stato riscontrato che gli spazi per la socialità dei detenuti esistenti nelle Sezioni, sono prevalentemente vuote, prive di arredi ed attrezzature ricreative. Diversi detenuti, particolarmente quelli del Circuito As, hanno lamentato l’assenza di locali all’interno delle Sezioni per lo svolgimento di attività sportiva e l’inutilizzabilità (o la ridottissima fruibilità) dell’unico campo sportivo utilizzabile poiché l’altro è da tempo fuori uso. La Delegazione ha invitato l’Amministrazione a provvedere ad una migliore sistemazione delle salette socialità, a valutare la possibilità di riconvertire alcune camere per allestire una piccola Palestra in ogni Sezione e di procedere alla ristrutturazione del campo sportivo allo stato inutilizzato, anche facendo ricorso ai finanziamenti della Cassa delle Ammende, ricorrendone i presupposti. È stata, altresì, sollecitata l’attivazione del servizio dei colloqui a distanza dei detenuti con i familiari via Skype, dell’invio e della ricezione della corrispondenza tramite posta elettronica e l’allestimento di un punto di accesso internet, esclusivamente per collegarsi ad una lista di siti verificati, nelle sale destinate alle attività trattamentali. Per quanto concerne gli "eventi critici" quest’anno si sono verificati già 10 atti di autolesionismo, 16 scioperi della fame, 4 tentati suicidi, 13 reati contro Pubblici Ufficiali e 4 aggressioni. Nel 2016 erano stati 168 gli atti di autolesionismo, 171 scioperi della fame, 31 tentati suicidi, 1 suicidio, 149 reati contro Pubblici Ufficiali e 61 aggressioni. Quanto al Corpo di Polizia Penitenziaria, la Delegazione dei Radicali Italiani, ha riscontrato che a fronte di una pianta organica di 719 unità (4 Commissari, 55 Ispettori, 82 Sovrintendenti e 578 Agenti/Assistenti) il personale amministrato risulta essere di 601 unità (4 Commissari, 38 Ispettori, 29 Sovrintendenti e 530 Agenti/Assistenti), 78 delle quali addette al Nucleo Traduzioni e Piantonamenti (nel 2016 circa 5 mila le traduzioni effettuate). C’è da segnalare che l’età anagrafica e di servizio del personale di Polizia Penitenziaria è molto elevata. Solo il 6% del personale ha meno di 17 anni di servizio mentre il 62% del personale ha tra i 17 ed i 26 anni di servizio ed il restante 32% del personale va dai 27 ai 35 anni di servizio, con un’età media altissima. La Delegazione è stata resa edotta che nel 2017 andranno in pensione circa 80 Poliziotti ed altre unità saranno esonerate dal servizio dalla Commissione Medica Ospedaliera competente (proprio nei giorni scorsi pare che siano state già dispensate dal servizio circa 6 unità). È indubbio che la prossima apertura del Reparto di Osservazione Psichiatrica, prevista per il prossimo 26 aprile 2017, comporterà un sovraccarico di lavoro per il personale del Corpo di Polizia Penitenziaria, certamente non più umanamente sostenibile, con gravi ripercussioni anche per la gestione ed il trattamento della popolazione detenuta, poiché è noto che la carenza di personale di Polizia Penitenziaria rende difficilmente attuabili tutte le numerose attività trattamentali previste e programmate nel Progetto di Istituto. In considerazione delle gravi criticità rappresentate, la Delegazione Radicale, ha chiesto al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di intervenire tempestivamente non solo per salvaguardare il benessere psicofisico del personale di Polizia Penitenziaria, ma anche per scongiurare la inevitabile compromissione dei diritti fondamentali dei detenuti a causa della carenza del personale medesimo. Nei prossimi mesi, hanno concluso gli esponenti radicali Quintieri e Moretti, torneremo nuovamente alla Casa Circondariale di Lecce per una ulteriore visita di monitoraggio. Livorno: rinnovo dell’incarico di Garante dei detenuti a Marco Solimano gonews.it, 1 marzo 2017 "Nessuna vendetta, ma noi non abbiamo mai avuto, come altri, una seconda possibilità nella vita". È il commento con il quale la presidente della Associazione Memoria, che raccoglie le famiglie delle vittime del terrorismo tra le forze dell’ordine ed i magistrati, Mariella Dionisi, si è espressa contro il rinnovo dell’incarico di garante dei detenuti di Livorno a Marco Solimano, ex di Prima linea. Il consiglio comunale di Livorno ha espresso la maggioranza delle preferenze per Solimano, che ricopre l’incarico da alcuni anni: sarà poi il sindaco a decidere a chi affidare l’incarico tra i più votati. "Credo - ha detto Mariella Donisi, vedova dell’agente Fausto Dionisi ucciso durante un tentativo di evasione dal carcere fiorentino delle Murate nel 1978 - che ci debba essere il buongusto da parte sua nel farsi da parte ed il buongusto di chi siede in Consiglio comunale di non proporlo". Napoli: per la prima volta i detenuti di Poggioreale (con le famiglie) in un museo, al Mann di Francesca Leva ilnapolista.it, 1 marzo 2017 La visita organizzata dal Mann, dal carcere e dal Napolista. La moglie di un detenuto: "La prossima volta speriamo che duri di più. E speriamo che ci sarà una prossima volta". Per la prima volta i detenuti di Poggioreale (con le famiglie) in un museo, al Mann. Dopo mesi di lavoro e preparazione da parte del Museo Archeologico, dell’Istituto penitenziario e del Napolista, si è riusciti ad organizzare un doppio appuntamento per i detenuti del carcere di Poggioreale. Il 21 febbraio il direttore del Mann Paolo Giulierini, accompagnato da Daniela Savy, è stato a Poggioreale per una lezione introduttiva per presentare il museo. Questa mattina invece undici detenuti, accompagnati dalle famiglie, hanno partecipato a una visita guidata tra le statue della Collezione Farnese, gli affreschi pompeiani e le mummie della sezione Egizia. Un esperimento ristretto ovviamente, appena undici su circa duemila. Una goccia nell’oceano direbbe qualcuno, senza conoscere le difficoltà burocratiche e logistiche che esistono nell’organizzare un’attività culturale al di fuori delle mura del carcere. A volerla dire tutta, questa al Mann è stata in assoluto la prima volta a Napoli, forse in Campania. Un primo passo speriamo per realizzare appuntamenti fissi da inserire nel programma di recupero e reinserimento sociale dei detenuti, come ha commentato il magistrato di sorveglianza Monica Amirante che ha partecipato alla mattinata al Mann "Questo è il nostro ruolo, il magistrato di sorveglianza è come un genitore. Non deve e non può abbandonare un detenuto, ma deve dargli la possibilità di conoscere le diverse realtà che ci sono, restituirgli la dignità. Oggi erano orgogliosi di aver portato qui le proprie famiglie e questo è importante per il ritorno ad una vita sociale. È un’esperienza che darà loro il modo di saggiare un modo di vivere diverso, ma non possiamo vantarci di aver fatto nulla di eccezionale, anzi siamo addirittura in ritardo e dovremmo chiederci perché non l’abbiamo fatto prima. Queste cose dovrebbero essere la base". Si è spaziato dal Vesuvio alle catacombe di San Gennaro, dagli affreschi pompeiani al calendario del calcio Napoli, per raccontare il museo e le sue ricchezze. Una giornata intensa che non ha lasciato indifferenti relatori e pubblico, nonostante la spudorata ammissione del direttore del Mann circa la sua fede rossonera e la rivelazione che il sangue di San Gennaro non si sciolse il Milan vinse 3-2 sul Napoli. "Un’esperienza unica - ha commentato lo stesso Giulierini concludendo - toccante a livello personale, ci si spoglia del proprio ruolo e ci sentiamo tutti uomini capendo che abbiamo tutti bisogno di un aiuto reciproco. Speriamo di poter far nascere altre forme di collaborazione. Lo scopo del Mann è quello di creare connessioni con la città e voi siete cittadini, vorremmo scambiarci delle esperienze per crescere tutti insieme. Questo è un modo di fare cultura applicata al sociale e quindi realmente utile perché rivolta alle categorie che ne hanno bisogno". Risate, chiacchiere, ma anche tante domande e curiosità che hanno letteralmente travolto le guide messe a disposizione del Museo Archeologico. "Interessati e partecipi - racconta Annamaria - alcuni erano interessati al valore monetario delle opere, altri agli aspetti relativi alla vita quotidiana dei romani. Mi hanno chiesto se avevano il bagno a casa. Qualcuno ha tirato fuori i ricordi di scuola. Spesso portiamo in giro gruppi che non seguono e parlano al telefono, invece loro hanno fatto proprio il racconto anche se parlavamo di realtà così lontane" Una piccola folla ad animare i corridoi vuoti del Mann nel suo giorno di chiusura al pubblico. Bambini che correvano tra le statue, visi curiosi, sorrisi timidi, occhi spalancati. Molto più di una visita guidata, molto più di una giornata di libera uscita. "Credo che sia stato molto importante per loro poter andare a vedere la propria città insieme alle famiglie come se fossero liberi - ha commentato la garante per i diritti dei detenuti Adriana Tocco - Sono molto contenta perché anche se non capiranno tutto, si rendono conto che c’è un’altra realtà oltre il loro quartiere. Sono momenti importanti per preparare il reintegro". "Ho portato tutti e tre i miei figli - racconta Vincenzo - per fargli vedere che abbiamo tante cose belle a Napoli che noi non conosciamo. Personalmente sono anche curioso di vedere le statue a cui si è ispirato il calendario dei giocatori del Napoli". Emanuel 15 giorni appena, non ha mostrato interesse per il museo, ma è venuto per conoscere zio Cristian, tra i detenuti in visita. "Se non avessi avuto quest’occasione lo avrei conosciuto solo a Pasqua, quando sarei potuto uscire per la licenza". Perché anche chi può usufruire delle uscite premio non può farlo sempre e non quando vuole. 45 giorni all’anno preferibilmente distribuiti con le festività. Un concetto estraneo a noi che siamo padroni del nostro tempo e delle nostre scelte. Marianna è venuta da Orta di Atella con i suoi 4 figli, è partita presto per passare a prendere Giovanni a Poggioreale ed essere puntuale qui alle 10.30. È entusiasta, non vorrebbe andarsene "La prossima volta speriamo che duri di più. E speriamo che ci sia una prossima volta". La Spezia: l’Assessore Erba in visita al carcere "luogo di umanità e di riscatto sociale" Gazzetta della Spezia, 1 marzo 2017 L’Assessore ha visitato il penitenziario di Villa Andreino insieme alla direttrice Maria Cristina Bigi. "Non ero mai stato dentro un carcere, l’esperienza mi ha consegnato elementi di riflessione che ritengo importanti - ha affermato Erba - Dall’esterno non è facile capire quale sia il mondo dietro le sbarre. Un silenzio innaturale riempie i lunghi corridoi della struttura, gli sguardi dei detenuti sono piegati da una condizione pesante, espulsi, si spera temporaneamente, dalla società in attesa di potervi rientrare. C’è un grande senso di umanità da parte del personale che vi lavora all’interno: docenti che tengono lezioni di francese, di storia, di italiano e matematica ai detenuti più volenterosi e psichiatri che forniscono assistenza ai detenuti più fragili. La quotidianità è portata avanti a cavallo tra l’applicazione della legge e il buon senso dettato dalla consapevolezza, quale? La consapevolezza che la detenzione è una forma riabilitativa, non punitiva. Questo lo sa bene la Dott.ssa Bigi, direttrice del penitenziario, che porta avanti la struttura con grande dedizione e umanità". "Villa Andreino - prosegue l’Assessore - è un carcere cresciuto molto negli anni: il laboratorio del penitenziario oggi produce lavoro e forma delle professionalità che potranno trovare spazio nella società. Prima dicevo, luogo di umanità; i colori della stanza accoglienza lo dimostrano. I figli dei detenuti durante la visita trovano un luogo colorato con disegni alle pareti, libri e fumetti con i quali intrattenersi con la propria madre o il proprio padre durante la visita. "Tutto è concepito per non lasciare un brutto ricordo, il carcere non è la fine, è lo step per ripartire", mi è stato detto durante la visita e lo condivido. Ho guardato negli occhi i detenuti che erano a lezione, chi stava lavorando, chi aspettava il colloquio con lo psichiatra. E mi ha colpito un punto, tanti di questi uomini, per lo più giovani, chiamavano la direttrice "Dottoressa, le devo parlare, dottoressa ho bisogno di dirle delle cose", questo rappresenta più di ogni altra cosa il lavoro che si sta facendo, l’umanità seppur nella fermezza. Villa Andreino è un piccolo cosmo in città, ha le sue regole, i suoi progetti e le sue esigenze. Ed è qua che mi vorrei soffermare. La visita l’ho fatta per portare una proposta che mi è stata suggerita: un corso da pizzaioli per i detenuti del carcere. Ho avuto una risposta immediata, una disponibilità che mi fa capire quanto le Istituzioni possano fare. Andremo avanti con questa proposta e nelle prossime settimane ci incontreremo con la Direttrice Bigi per definire il cammino da fare insieme. Là dentro, a Villa Andreino, si respira umanità. Le Istituzioni devono coordinare la propria attività con i penitenziari. Il carcere non è un pianeta a parte. In quei luoghi si decide il ruolo che avranno in futuro queste persone ed è responsabilità della politica dare un’altra possibilità, dare gli strumenti necessari per costruire un riscatto. I dati ci dicono che la netta maggioranza dei detenuti che lavorano e che hanno un percorso di formazione professionale durante la detenzione difficilmente ritornano in carcere. Il tempo della condanna non è un tempo perso, non è una punizione fine a se stessa: la condanna è, per funzione, una condizione che può tradursi in riscatto, alle Istituzioni spetta il compito di difendere questo principio". Torino: "Liberamensa", il ristorante del carcere è davvero per buongustai di Sarah Martinenghi La Repubblica, 1 marzo 2017 La prenotazione è d’obbligo. Ma qui non basta dire "Rossi per quattro". Bisogna aggiungere anche luogo e data di nascita. E all’ingresso il proprio documento d’identità, in cambio di un pass, sarà trattenuto per tutta la durata della cena. Si varca così il cancello grigio del carcere delle Vallette per sedersi al ristorante Liberamensa: 30 euro menù fisso, cibo e vino di qualità, aperto al pubblico ma solo il venerdì e il sabato sera. C’è un tavolo a cui siede un magistrato della procura, a un altro sei studenti di giurisprudenza. In centro una lunga tavolata ospita gli avvocati della Camera penale, e alle loro spalle quattro pensionati residenti del quartiere. Ed è un successo. Quasi duemila coperti in quattro mesi: il ristorante del carcere, in cui lavorano 17 detenuti, piace. La voce si è sparsa, è arrivata agli studenti, ma anche ai cittadini che non hanno mai avuto alcun problema con la giustizia, incuriositi da un progetto che funziona, è eticamente corretto, fa sentire bene. Il menù è ricercato. Battuta al coltello ai profumi liguri come antipasto. Tiepida di carciofi con pistacchi e scaglie di pecorino. Raviolotto radicchio e speck su fonduta di parmigiano, porro croccante e paprika. Stracotto di vitello con purea di zucca e cristalli di liquirizia, di secondo. E per dolce un semifreddo, sfere di nocciola. Le bevande sono escluse. Il direttivo della camera penale Vittorio Chiusano ha scelto il ristorante Liberamensa "per supportare l’importanza dell’ attività lavorativa per i detenuti finalizzata alla loro rieducazione ed al loro inserimento nel mondo del lavoro - commenta il presidente Roberto Trinchero. Questo consente ai detenuti di ricoprire una funzione positiva di sostegno alla famiglia di origine e alla società in genere, divenendo uno strumento incisivo di reinserimento nella società e di riduzione della recidivanza. La Cooperativa Ecosol che già dal 2005 nel carcere si occupava del confezionamento dei pasti per i detenuti ed aveva assunto, con "veri" posti di lavoro 22 detenuti, ha recentemente aperto in accordo con la direzione il ristorante, libero al pubblico, in un luogo sicuramente particolare, aumentando sia il numero dei posti di lavoro per altri 17 detenuti impegnati, sia l’utilizzo delle loro produzioni interne di pane, pasta fresca, dolci, zafferano ed erbe aromatiche. Gran bella serata, ottimo cibo, servizio eccellente" Napoli: Striano ai detenuti "anche la prigionia può essere una strada verso la libertà" linkabile.it, 1 marzo 2017 Il 23 aprile 1616 moriva il drammaturgo e poeta inglese Shakespeare. Nel libro "La tempesta di Sasà", (ed. Chiarelettere) lo scrittore, attore, ex detenuto Salvatore Striano racconta il carcere e l’incontro con il teatro. Nel pomeriggio di ieri, nell’ambito dell’iniziativa "Liberi di pensare" promossa dalla mia associazione La Mansarda l’autore è entrato nel carcere di Poggioreale per incontrare i detenuti dei padiglioni Avellino (alta sicurezza) e quelli del Firenze (primari). Lo scrittore ha subito evidenziato come il teatro sia diventato un aiuto straordinario, imprevisto e cusuale per cambiare la sua vita. Dalla vicenda dei piccoli aspiranti camorristi, tra sangue, pistole, cocaina, all’esperienza rivelatrice e liberatoria del carcere. Nel carcere di Rebibbia si compie la magia, è cambiato il suo destino. Nel libro mostra come la letteratura, nel suo caso in particolare i romanzi di Shakespeare, il teatro di Eduardo De Filippo hanno rappresentato lo spiraglio di luce necessario per combattere la monotonia del carcere, la rassegnazione alla vita illegale. L’autore ha ascoltato le domande dei detenuti, alcune storie, qualche puntualizzazione sulla vita carceraria, fatta di cicatrici e solitudine. "Benvenuta prigionia, giacché ti reputo una strada verso la libertà" è stato il motivo conduttore del dibattito. La lucida ed appassionata determinazione della sua testimonianza hanno fatto ritrovare un briciolo di speranza anche a chi aveva tra i presenti un sorriso amaro. Gli incontri settimanali delle nostre volontarie aiutano a ritrovarsi, la lettura di libri, i film-terapy sono momenti che arricchiscono per ritrovare una strada in una direzione ostinata e contraria. Ho ringraziato Salvatore Striano, il dono di una gentilezza che si fa testimonianza, che ho conosciuto nella mia comunità il Ponte di Nisida nel lontano 1988. All’incontro erano presenti anche il direttore di Poggioreale Antonio Fullone, il presidente della cooperativa Aleph Service Luca Sorrentino, la vicedirettrice Chiara Masi e gli educatori Ercole Formisano e Federica Tondo. Migranti. Il Garante nazionale dei detenuti monitora i rimpatri da Caltanissetta e Torino Giornale di Sicilia, 1 marzo 2017 Il Garante Nazionale per i detenuti e le persone private della libertà, come organismo di monitoraggio dei rimpatri forzati, ha seguito un’operazione congiunta di rimpatrio di 33 cittadini nigeriani espulsi dall’Italia e trattenuti presso i Cie di Caltanissetta e Torino. L’operazione, coordinata e finanziata dall’Agenzia europea Frontex, è stata organizzata dall’Italia quale paese promotore e ha visto la partecipazione di Germania (con sette cittadini nigeriani da rimpatriare) e Belgio (con tre persone da rimpatriare). Il giorno della partenza tre donne nigeriane che dovevano essere rimpatriate sono rimaste a terra in quanto la stessa Autorità responsabile del rimpatrio ha verificato che le rispettive richieste di protezione internazionale erano ancora aperte. Un’altra donna invece era ancora nei termini legali per presentare appello e ha provvisto la mattina stessa. Particolarmente accurata la fase di controllo della salute delle persone da rimpatriare a seguito di segnalazioni di problemi di carattere sanitario. Quattro componenti dell’Ufficio del Garante, divisi in due squadre hanno monitorato la procedura fin dalla partenza dai diversi Cie in cui erano detenuti i migranti: la prima ha assistito alle procedure di controllo presso il Cie di Roma (dove sono state condotte con un pullman le persone da rimpatriare provenienti da Torino), la seconda ha monitorato il volo charter nazionale Palermo-Roma con cui sono state trasferite a Fiumicino le persone trattenute a Caltanissetta e il charter internazionale Roma-Lagos-Roma. Mentre il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Piemonte ha verificato, in accordo con il Garante Nazionale, le operazioni preliminari alla partenza effettuate presso il Cie di Torino la sera del 22 febbraio. Al Garante Nazionale è affidato il compito, in base alla normativa nazionale e internazionale, nonché alla direttiva 115 del 2008 della Commissione europea, di effettuare il monitoraggio sui rimpatri forzati di cittadini stranieri espulsi dal territorio italiano per verificare che le condizioni e le procedure del rimpatrio siano rispettose dei diritti fondamentali. Nelle prossime settimane un rapporto dettagliato sul monitoraggio verrà inviato dal Garante Nazionale al Ministero dell’Interno e all’Agenzia europea Frontex. Migranti. Quegli 800 mila giovani nati in Italia ma senza diritti di Luigi Manconi e Valentina Brinis Il Manifesto, 1 marzo 2017 Ius soli. Una legge ragionevolissima come quella sulla cittadinanza continua a incontrare resistenze sotterranee, ostilità sottili, opposizioni sordide o rifiuti melliflui. La legislatura sta per compiere il suo quarto anno di vita e sulla legge in materia di cittadinanza tutto tace, o quasi. Il testo di cui tanti chiedono la discussione, è stato licenziato dalla Camera il 13 ottobre 2015 e da quel momento è bloccato al Senato, alla Commissione Affari costituzionali. Ieri,, 28 febbraio, ancora una volta sono scese in piazza le persone straniere e non, interessate all’argomento, e che da anni promuovono manifestazioni, sit-in, flash mob; e inviano cartoline alle più alte cariche dello Stato per chiedere che la riforma venga infine approvata. Da quel mese di marzo del 2013 (inizio della Legislatura), sono stati presentati alla Camera e al Senato diciotto disegni di legge di riforma dell’attuale normativa, la 91 del 1992, perché non è più adeguata alla società attuale e alla sua composizione. Quando era stata approvata, un quarto di secolo fa, gli stranieri presenti in Italia non raggiungevano il milione, cifra che oggi risulta quintuplicata. La scarsa lungimiranza di quella normativa consiste, tra l’altro, nell’aver sottovalutato il ritmo di crescita della popolazione immigrata e il suo mutamento interno. Se inizialmente gli stranieri presenti in Italia erano per lo più uomini soli venuti per lavorare, con il passare degli anni questi ultimi sono stati raggiunti dalle loro famiglie o, una famiglia, l’hanno formata in Italia. Sono nati dei figli che a loro volta hanno avuto dei figli e si è posto un problema, tutt’ora irrisolto: come fare ad accogliere questi nuovi residenti nella maniera più degna, tale da riconoscere loro diritti e poter richiedere loro doveri? Come fare per accoglierli a pieno titolo nel nostro sistema di cittadinanza? Come ottenere che, a quel sentimento di appartenenza all’Italia presente in tantissimi di loro, corrisponda un adeguato status giuridico? La legge 91 del 1992 prevede solo un’esile possibilità di riconoscimento dello ius soli. Ovvero un brevissimo periodo di tempo (appena dodici mesi dopo il compimento del diciottesimo anno di età) nel quale è consentito presentare la domanda di cittadinanza. Ma anche questa opportunità, in realtà, è precaria perché l’informazione relativa è scarsamente diffusa e, in ogni caso, non è semplice accedervi. Di conseguenza, anche gli appena maggiorenni si troveranno a dover osservare prescrizioni e condizioni del tutto simili a quelle richieste agli adulti: la continuità della residenza anagrafica e del permesso di soggiorno. La riforma ora al Senato presenta un’importante novità: non solo la cittadinanza sarà ottenibile in tempi molto più brevi di quelli attuali ma la sua acquisizione potrà essere correlata alla frequentazione di un percorso scolastico (cosiddetto ius culturae). E non è un elemento da poco, se si considera l’elevato numero di studenti stranieri che frequentano le scuole italiane. L’impatto immediato della riforma sarebbe l’ottenimento della cittadinanza da parte di quasi 800mila adolescenti nati o che hanno intrapreso un percorso di studi in Italia. Persone che attualmente sono legate al permesso di soggiorno (di questi tempi è sinonimo di precarietà), e che sono esclusi dai diritti previsti per i cittadini, come quello di voto. Ovvero il diritto di scegliere da chi essere governati. Bisognerebbe chiedersi dunque a cosa condurrà la persistenza di questa esclusione. E allora: quante sono le probabilità che questa riforma della cittadinanza venga approvata? Difficile a dirsi. Tutti i provvedimenti che prevedono l’affermazione di nuovi diritti o la più efficace tutela di quelli già riconosciuti non riscuotono oggi grandi consensi all’interno della classe politica e delle aule parlamentari. Siamo a pochissime ore dalla più acuta e drammatica divaricazione tra sensibilità collettiva e decisione politica: è ciò che mostra lo scarto enorme tra l’interesse e l’affetto suscitati dal suicidio assistito di Fabiano Antoniani e il balbettare un po’ pavido di gran parte dei rappresentanti delle istituzioni. E così, una legge ragionevolissima, come quella sulla cittadinanza, destinata al riconoscimento di diritti elementari e, in ultima istanza, a elevare i livelli di sicurezza per tutti (proprio per tutti: italiani, futuri italiani e non italiani), continua a incontrare resistenze sotterranee, ostilità sottili, opposizioni sordide o rifiuti melliflui. Sullo sfondo quella bonomia xenofoba che fa tanto male senza darlo troppo a vedere. Bambini migranti, abusati in Libia e fantasmi in Europa di Chiara Cruciati Il Manifesto, 1 marzo 2017 Rapporto Unicef: 24mila migranti minorenni arrivati in Italia nel 2016, il 75% ha subito violenze. Nei centri-lager schiavizzati e ridotti alla fame. Onu: "I trafficanti stanno vincendo". Due buchi neri dove scompaiono i bambini migranti: prima in Libia, meta obbligata della fuga dall’Africa; dopo in Europa tra prostituzione e lavoro nero. È il calvario attraverso cui passano, da invisibili, decine di migliaia di minori diretti in territorio europeo. L’ultimo Rapporto Unicef, basato su interviste a 82 donne e 40 bambini, dà numeri scioccanti: 23.846 bambini sono arrivati in Italia lo scorso anno, il 90% non accompagnati; tre quarti ha subito violenze mentre si trovava in Libia, la metà abusi sessuali ripetuti; un terzo denuncia abusi da parte di "uomini in uniforme"; 23mila sono attualmente nel paese nordafricano in centri di detenzione, con 28mila donne; 8mila quelli che in Italia sono rimasti intrappolati nelle maglie della criminalità; 700 morti in mare. Numeri enormi ma sicuramente sottostimati: potrebbero essere tre volte tanto. E, una volta arrivati a destinazione, inizia un altro calvario: senza una protezione reale e continuativa, il rischio di finire nelle mani di altri trafficanti di uomini è altissimo. Prostituzione, piccola criminalità, spaccio, lavoro minorile. E l’utopia di una vita migliore che evapora. In Europa arrivano soli per tanti motivi, spiega la direttrice regionale di Unicef, Afshan Khan: perché sono orfani di guerra o di Ebola, perché hanno visto morire i genitori nella traversata del Mediterraneo o del deserto, perché mandati ad aprire la strada all’arrivo della famiglia. "Il mediterraneo centrale dal Nord Africa all’Europa è una delle tratte più letali e pericolose per bambini e donne - aggiunge Khan - È per lo più controllata da trafficanti, contrabbandieri". E da un giro d’affari di milioni di euro che spesso finanzia i gruppi jihadisti. Dall’Africa centrale, la prima tappa è la Libia, un non-Stato devastato dall’intervento Nato del 2011 e che oggi perpetua il modello di "gestione" dei migranti già attivo sotto Gheddafi e l’accordo bilaterale con l’Italia di Berlusconi: i bambini finiscono in uno dei 34 centri di detenzione per migranti identificati dall’agenzia Onu, dieci in più dei 24 governativi ufficiali, quasi tutti nel nord del paese. Ma è impossibile calcolare il vero numero di prigioni - specifica l’Unicef - gestite da milizie armate e non dal governo di unità di al-Sarraj che ha il controllo solo di una parte della Tripolitania. Restano lì per mesi, anni, abusati e a volte costretti a prostituirsi o a lavorare, prima di riuscire a raggiungere la costa: "Sono qui da nove mesi. Ci trattano come galline. Ci picchiano, non ci danno abbastanza acqua e cibo - la testimonianze di Jon, 14 anni, fuggito da solo dalla Nigeria e da Boko Haram e ancora detenuto in Libia - Tanta gente muore lì, per le malattie o il freddo". Nei giorni scorsi sul Guardian sono comparse le storie di ragazze nigeriane costrette a prostituirsi per pagare il resto del viaggio, i mille km che dividono il confine sud della Libia dalla costa. Molte di loro non riescono a pagare l’intero viaggio subito, ma contraggono debiti. È il sistema del pay as you go, paghi mentre vai: migliaia di dollari di debiti "coperti" con il proprio corpo, ad ogni checkpoint attraversato. Quei centri di detenzione, dopo gli accordi siglati dal governo italiano e da quello di Tripoli e applaudito dall’Unione Europea, in molti casi non sono un incubo del passato: con la guardia costiera libica investita del ruolo di cane da guardia (pattugliare la costa, bloccare i migranti, riportarli in Libia, deportarli in Africa), la probabilità di tornarci è elevata. Al contrario, è inesistente la possibilità per organismi internazionali di visitare i centri non ufficiali, in mano a signori della guerra, tribù armate, milizie. Off limits anche la metà dei centri del governo di Tripoli. E in quelli visionati mancano cibo, coperte, medicine, i migranti sono costretti in celle di due metri2 in cui vengono ammassate fino a 20 persone. "I contrabbandieri stanno vincendo - spiega la vice direttrice di Unicef, Justin Forsyth - Questo accade quando non ci sono alternative legali e sicure per chiedere asilo in Europa". Non solo Italia: se è difficile fare stime realistiche, ci si può rifare ai dati Europol del 2015 che parlavano di 10mila bambini migranti scomparsi, a quelli di Roma che calcolava 6.500 minori non rintracciabili nei primi 10 mesi del 2016 e a quelli di Berlino che ha perso le tracce di 9mila bambini. Dove finiscono? Nelle mani di altri mercanti di uomini. Droghe. Canne, il difficile mestiere di madre di Leopoldo Grosso Il Manifesto, 1 marzo 2017 Lo ripeteva sempre don Mario Picchi: "la tossicodipendenza, prima di diventare una problematica sanitaria e giuridica, costituisce una grande questione educativa". Erano gli anni della grande epidemia di eroina utilizzata per via endovenosa. Oggi, in tempi in cui il consumo di sostanze psicoattive, legali e illegali, prevale sulla dipendenza, paradossalmente, l’idea che chi fa uso di una qualche droga debba essere ascoltato, piuttosto che punito, fa ancora più fatica ad affermarsi. Prevalgono le scorciatoie, che delegano ai test dell’esame delle urine le risposte che i genitori non riescono ad avere dai propri figli. Prevalgono gli interventi spettacolari, che dimostrano all’intera popolazione di una città che la buona reputazione di una scuola viene ribadita con l’intervento dei cani poliziotto nelle aule per scovare qualche grammo di hashish e mettere alla berlina le pecore nere. Quando una madre viene casualmente a scoprire che il proprio figlio "spinella", è facile che sia calamitata in due direzioni, entrambe pericolose. Disinformata, allarmata, e in balìa della propaganda di coloro che lucrano elettoralmente sulla questione droghe facendone una ideologia che intenzionalmente ignora ogni evidenza scientifica, la madre può pensare che il proprio figlio sia già un "drogato" e non ci possa essere più altra soluzione se non la comunità terapeutica. Lo stereotipo di una narrazione pseudoscientifica, che fa perno sulla paura e la mancanza di conoscenze dei destinatari, prende il posto della realtà, che diventa più difficile da analizzare per via del conflitto e della contrapposizione quasi automatica che si crea con un figlio che non capisce la reazione sproporzionata del genitore e si sente irrimediabilmente giudicato. All’estremo opposto la reazione genitoriale può implicare una grave sottovalutazione del comportamento di consumo, minimizzando i fatti, giustificando in vario modo le scelte del figlio, non riuscendo a cogliere i rischi anche a fronte di elevati livelli d’uso accompagnati da stili di vita di progressivo disimpegno, rinunciatari e deresponsabilizzanti. Così facendo i genitori falliscono nell’essere d’aiuto ai loro ragazzi nel contenimento dei rischi, e degli eventuali danni causati da derive di periodi di consumo non controllato. Certo fa differenza se il consumo di cannabis è "socio-ricreativo", di gruppo e compatibile con le normali attività di tutti i giorni e l’assunzione delle relative responsabilità. Nella stragrande maggioranza delle situazioni il consumo non si rivela problematico, e cesserà nel giro di qualche anno. Ciò non significa che non incombano rischi anche in queste situazioni: per la salute (il fatto che non si conosce il tasso di principio attivo) e per la sicurezza (alla guida in stato alterato). È utile che il ruolo genitoriale si eserciti con modalità intelligenti: prendere le distanze dalla scelta di consumo; informare in maniera non allarmistica ma correttamente (ed in questo modo si è più credibili) sui rischi per la salute e la sicurezza (oltre che dei rischi relativi allo statuto di illiceità del consumo); mantenere un buon clima di comunicazione, in generale e sul tema specifico; cercare di monitorare l’uso e l’intero stile di vita del ragazzo, non abdicando a una funzione di controllo condotta con modalità rispettose e non invasive; accompagnarlo nella affermazione della sua autonomia fino alle scelte di reversibilità, che in genere, nelle situazioni di consumo non problematico, avvengono dai 21- 22 anni in poi, in concomitanza con lo sviluppo di altri interessi, il far fronte a nuovi impegni e il mutamento delle forme di divertimento e aggregazione. Stati Uniti. Trump-trade: dalle carceri s’involano azioni e obbligazioni di Marco Valsania Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2017 Il settore carcerario americano - privato e pubblico - si sta avvantaggiando delle crociate anti-crimine di Donald Trump e delle sue promesse di legge e ordine. Le azioni dei due maggiori gruppi for profit di centri di detenzione, CoreCivic e Geo Group, hanno visto i loro prezzi in Borsa raddoppiare dal giorno delle elezioni l’8 novembre ad oggi, all’indomani cioè del primo discorso di Trump al Congresso a Camere riunite. Sono, inoltre, vicini ai massimi delle ultime 52 settimane, in rialzo rispettivamente del 19% e del 68 per cento nel corso di un intero anno. La market cap di CoreCivic, che ha sede in Tennessee, un giro d’affari di 1,73 miliardi e strutture in 20 stati americani, sfiora i 3,7 miliardi; quella di Geo Group, con sede in Florida, 104 carceri su scala internazionale, 20.500 dipendenti e 2,2 miliardi di fatturato, supera i 4 miliardi. Non sono i soli titoli del settore a essere in rialzo. I bond delle autorità locali emessi per finanziare prigioni statali, dopo lunghi periodi di crisi e default per gli eccessi nello sviluppo dei centri di detenzione, sono tornati ad andare a ruba. Alcuni esempi, cortesia del Wall Street Journal, valgono più di tante parole: chi soltanto lo scorso dicembre avesse versato 7.650 dollari per comprare a prezzo stracciato titoli dal valore nominale di centomila dollari emessi dalla contea di Willacy in Texas per le proprie carceri, potrebbe rivenderli adesso intascando un profitto di ben 60.000 dollari. Altre due strutture texane - Jones e Maverick che assieme a Willacy vantano 140 milioni di dollari in bond in circolazione - appaiono in situazioni simili: nel caso di Jones i titoli del debito nei giorni scorsi sono risaliti a 60 centesimi per dollaro dai 12 centesimi di fine 2016, soltanto poco meno del balzo da 8 a 65 centesimi per dollaro messo a segno da Willacy. Maverick è tuttora in attesa di un paragonabile incremento. Turchia. Il suicidio di un ricercatore licenziato per una petizione di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 1 marzo 2017 Mehmet Fatih Tras, ricercatore in econometria all’Università di Cukurova, nella provincia meridionale di Adana, non aveva di certo pensato che la sua vita sarebbe precipitata per una firma. Eppure è stata proprio la sua adesione alla dichiarazione degli "Accademici per la pace" a fargli perdere il posto e portarlo al suicidio. "Un giovane ricercatore, il cui cuore batteva per la pace e per l’umanità si è tolto la vita" è il tweet postato il 26 febbraio dal sindacato degli insegnanti Egitim-Sen. L’uomo, che aveva 34 anni, era all’università di Cukurova dal 2010 dove lavorava come ricercatore in attesa di conseguire il dottorato era stato improvvisamente congedato lo scorso giugno. "Durante una riunione del consiglio di amministrazione della facoltà - ha spiegato lo stesso Fatih Tras in una lettera inviata per una borsa di studio all’estero -, che si è tenuta dopo l’attentato di Besiktas, un altro universitario Hasim Akca aveva sottolineato che la Turchia attraversava un periodo molto delicato e che il mio contratto doveva essere di nuovo esaminato. Akca mi ha accusato apertamente di essere un membro del Pkk (i separatisti curdi). L’episodio mi è stato raccontato da alcuni membri del consiglio di cui mi fido". A quel punto il ricercatore è stato licenziato e vani sono stati i suoi tentativi di trovare un altro lavoro. All’inizio le risposte degli atenei erano positive ma poi tutto si arenava. "Un mio amico universitario che mi aveva segnalato un posto all’università d’Artuklu a Mardin mi ha poi detto che non potevo essere assunto perché avevo firmato quella dichiarazione" ha raccontato Fatih Tras. Lo scorso gennaio, finalmente, l’assunzione all’università di Aydin a Istanbul nella facoltà di economia e finanza. Ma anche qui arriva l’amara sorpresa. "Dopo aver definito i corsi di cui mi sarei occupato stavo cercando di risolvere alcuni cose pratiche come l’apertura del conto in banca, il trasloco e la raccolta dei documenti quando l’università mi dice al telefono che il posto per il quale ero stato assunto non c’era più". Sono stati 1.128 i professori e ricercatori universitari che nel gennaio del 2016 firmarono la dichiarazione degli Accademici per la pace, chiedendo la fine delle ostilità tra esercito e Pkk nel sud-est a maggioranza curda, vennero accusati pubblicamente dal presidente Recep Tayyip Erdogan di "tradimento" della patria. Di questi, almeno 312 sono stati epurati dalle loro università con decreti dello stato d’emergenza, dichiarato dopo il fallito golpe del 15 luglio. Secondo il sindacato Egitim-Sen il caso di Mehmet Fatih non è affatto isolato. Purtroppo molti altri professionisti si sono tolti la vita dopo aver perso il lavoro con l’accusa di far parte del Pkk o di Feto, l’organizzazione che fa capo a Fethullah Gulen, accusato del golpe fallito. Tunisia. Portavoce amministrazione carceraria: numero detenuti sceso a 21.400 Nova, 1 marzo 2017 Il numero dei detenuti nelle carceri della Tunisia è diminuito del 14 per cento nel 2016. È quanto emerge dalle parole pronunciate oggi dal portavoce dell’amministrazione delle carceri e per la riabilitazione dei detenuti, Kais Soltani. Parlando all’emittente radiofonica locale "Shems Fm", Soltani ha detto che nelle carceri tunisine ci sono attualmente 21.400 detenuti, a fronte dei 25.000 dello scorso anno. Nel dicembre del 2016 la presidente dell’Associazione nazionale contro la tortura, Hamida Dridi, aveva definito "deplorevole" lo stato delle prigioni tunisine, denunciando un sovraffollamento delle carceri pari al 200 per cento della capacità massima. Tale situazione, secondo la Dridi, porterebbe inevitabilmente ad abusi e alla radicalizzazione dei detenuti.