Tutti i detenuti con problemi psichici nelle Rems: torna la logica manicomiale degli Opg di Nerina Dirindin e Manuela Granaiola Quotidiano Sanità, 19 marzo 2017 Sgomento, amarezza e forte preoccupazione. È quanto proviamo oggi, dopo l’approvazione del ddl "giustizia" sul quale il Governo ha posto la fiducia. Si introduce infatti una scorciatoia a favore di chi fino ad oggi non ha fatto tutto il possibile per garantire le cure ai detenuti: la soluzione è rinviare tutti coloro che hanno (o si presume abbiano) problemi di disagio mentale nelle Rems, ovvero strutture dedicate solo ai malati di mente, col risultato di riprodurre la logica manicomiale del cd "doppio binario" Il d.d.l. approvato al Senato con la modifica del codice penale e di procedura penale sulla tutela della salute mentale in carcere che ora rischia di far fare un passo indietro al già faticoso processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Il comma 16 disciplina infatti il caso in cui "le sezioni degli istituti penitenziari … non siano idonee, di fatto, a garantire i trattamenti terapeutico - riabilitativi, … nel pieno rispetto dell’articolo 32 della Costituzione". Per tali casi, effettivamente ancora presenti in alcune (non tutte, per fortuna) realtà carcerarie, sarebbe stato necessario indicare misure, azioni, tempi e risorse per superare le inefficienze e per far rispettare il diritto alla cura. Cosa prevede invece il comma 16? Introduce una scorciatoia a favore di chi fino ad oggi non ha fatto tutto il possibile (più o meno colpevolmente) per garantire le cure ai detenuti: la soluzione è rinviare tutti coloro che hanno (o si presume abbiano) problemi di disagio mentale nelle Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), ovvero strutture dedicate solo ai malati di mente, col risultato di riprodurre la logica manicomiale del cd "doppio binario". Una soluzione che solo chi non conosce la complessità dei problemi può considerare efficace. Come si può pensare che sia meglio rinviare alle Rems una persona le cui condizioni di disagio mentale devono essere ancora accertate anziché sottoporla a valutazioni specialistiche da parte dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, sicuramente più efficaci e rapidi? Come si può pensare che far entrare una persona nel circuito delle misure di sicurezza, noto per i suoi gravi limiti, sia meglio che utilizzare i servizi sanitari ospedalieri, come peraltro già previsto dalla normativa e appena raccomandato anche dagli Stati Generali della Giustizia? Come si può pensare di farlo nell’interesse della persona detenuta e non per assolvere i responsabili degli inadempimenti o per facilitare chi considera tali pazienti solo delle seccature? Come si può pensare di farlo con l’attuale dotazione di Rems, già sature, senza temere una prossima moltiplicazione delle stesse, con conseguenti investimenti immobiliari e costi di gestione non marginali e comunque superiori alle soluzioni alternative? Non è così che si risolve il problema della salute mentale delle persone detenute. Bisogna al contrario lavorare con paziente determinazione per qualificare i programmi di tutela della salute mentale (e più in generale della salute) in carcere, per istituire in ogni istituto penitenziario e senza ulteriori ritardi le sezioni psichiatriche già previste dalla normativa, per sostenere concretamente i Dipartimenti di Salute Mentale (come chiede il mondo della psichiatria), per far rispettare i principi previsti dalla recente normativa che ha favorito - pur fra tante difficoltà - il superamento degli OPG. Bisognerebbe infine ripensare alcuni articoli del codice penale e del codice di procedura penale, compito che la Commissione Giustizia potrebbe svolgere egregiamente invece di accogliere soluzioni che rischiano di essere peggiorative per le persone malate. La soluzione prospettata cronicizza le carenze presenti in alcune realtà anziché operare al loro superamento. Per questo abbiamo chiesto al Governo che, in occasione della predisposizione dei decreti delegati, intervenga con decisione per evitare che ciò che si paventa nel comma 16 diventi regola generale, perché sia assicurata l’effettiva idoneità delle sezioni degli istituti penitenziari a garantire adeguati trattamenti fondati sui piani terapeutici individuali e perché si sostengano i Dipartimenti di Salute Mentale. Sovraffollamento delle carceri, situazione sempre più critica di Alfredo De Risio* lazio.tv, 19 marzo 2017 "Sovraffollamento carceri in continua crescita, a febbraio raggiunte le 56mila presenze con 548 detenuti in più rispetto alle presenze dello scorso gennaio: diciotto Regioni ospitano più detenuti di quanti ne possano contenere. Se continua con questo trend, a fine 2017 arriveremo a 62mila presenze. Per la prima volta in Italia vi possiamo mostrare i dati reali del sovraffollamento". È quanto emerge dal lavoro condotto dal prof arch. Alessandro de Rossi in qualità di presidente del Centro Studi della Commissione Diritti delle persone private della libertà della Lidu (Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo) che aggiunge: "I dati diffusi dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati al 28 febbraio indicano in 55.929 il totale delle presenze, i posti disponibili però non sono i 50.177 dichiarati, ma quasi cinquemila in meno, il che determina un indice di sovraffollamento reale del 123%, ben al di sopra dei calcoli del Ministro Orlando che diffonde un più ottimistico 111%. Si tratta di uno studio approfondito in collaborazione con il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE e l’Associazione Pianeta Carcere, che da tempo monitorano la situazione delle carceri italiane e diffondono dati e numeri sulla realtà detentiva." Il Centro Studi della Commissione LIDU afferma: "La differenza tra i due indici di sovraffollamento, quelli calcolati dalla LIDU e quelli diffusi dal Ministero della Giustizia su fonte DAP è dovuta dai posti non utilizzabili nelle carceri. Sono 4.909 i posti non disponibili nelle carceri. Vanno sottratti ai 50.177 pubblicati dal Ministero; posti detentivi in ristrutturazione, in riparazione oppure non agibili da anni che però il DAP continua a presentare nei suoi report statistici mensili. Quindi abbiamo 55.929 persone ristrette in 45.268 posti detentivi che determinano un affollamento del 123%". La regione più affollata è la Puglia con 3.286 detenuti per 2.183 posti realmente disponibili (affollamento del 151%). Segue la Lombardia: 8.037 detenuti presenti per 5.643 posti realmente disponibili (143% di affollamento). Terzo nella classifica il Molise: 343 detenuti per 252 posti realmente disponibili. Quarto il Friuli Venezia Giulia: 604 detenuti per 458 posti (132% di affollamento). Quinta la Liguria con 1.437 detenuti per 1103 posti 130% di affollamento. Nel Lazio, analogamente ad altre realtà del territorio nazionale, a fronte di 5235 posti, sono risultati presenti 6219 detenuti (affollamento del 127%), ponendo così in evidenza l’importanza di tornare a riflettere sull’irrisolta "questione penitenziaria", *Membro Commissione LIDU Una corsa a perdere con l’alibi del populismo di Tommaso Cerno L’Espresso, 19 marzo 2017 È ormai il capro espiatorio di una classe dirigente che non cambia. Anzi moltiplica simboli e sigle. Per fare i propri interessi. Solo che i cittadini se ne sono accorti. Fermiamoci finché siamo in tempo. Il ritornello ha stancato. Il populismo, trumpismo, lepenismo, grillismo, salvinismo è ormai la scusa ufficiale della politica in crisi. Il capro espiatorio. L’orco nero che viene di notte. Come se fosse uscito dal nulla. Vogliamo dirci che è troppo comodo? Vogliamo provare a guardare dentro i fenomeni autoritari, da Trump a Putin, da Erdogan alle destre xenofobe che si contendono l’Europa? Se lo facciamo appare chiaro che la risposta "è colpa del populismo" è banale. Anzi, lei sì populista. La verità - per un Occidente che ha sempre previsto tutto, sempre programmato tutto, sempre promesso tutto e mantenuto poco o nulla - è difficile da digerire. Come una diagnosi nefasta. Ma, allo stesso modo, è indispensabile affrontarla. E in tempo. Se si vuole avere una, anche solo una, speranza di guarigione. I sintomi ci sono tutti. Sul numero dell’Espresso in edicola da domenica 19 abbiamo intervistato Valéry Giscard d’Estaing. Federalista ed europeista convinto, è stato presidente della Repubblica francese e presidente della Convenzione europea. Forse l’uomo che più di tutti ha creduto che quel progetto economico potesse mutare in qualcosa di politico e potesse avere un futuro. Non è certo un populista. Forse è l’opposto esatto di ciò che oggi definiamo, erroneamente, con questo termine. Eppure le sue parole sono durissime. Lucide e senza sfumature. L’Unione europea, come l’abbiamo costruita, come è diventata, non piace. Non funziona. Sta fallendo. Anzi morendo. Al punto che è lui, il padre spirituale di quella Convenzione che fallì per il no di Francia e Olanda, a proporre di ricominciare. Da un’aggregazione politica più piccola e più coesa. Culturalmente ed economicamente. Significa ammettere di avere sbagliato. Per rimediare, serve stringere alleanze fra grandi Paesi e fra grandi famiglie politiche. E, con un progetto concreto, proporre ai popoli impoveriti e delusi una deviazione netta del viaggio. Invece a cosa assistiamo? In Italia più che mai, alla frantumazione dei partiti in correnti, alle scissioni di comodo, alle scissioni di partiti già scissi, fino alla moltiplicazione delle sigle e dei simboli in un caravanserraglio elettorale che è la cosa più lontana dalla richiesta dei cittadini e, soprattutto, è il cibo preferito del populismo che vorremmo ferire o sconfiggere. Noi ce ne stiamo qui a brontolare, a dire che Trump è un pazzo, a ripeterci che abbiamo ragione e chi vota per loro è solo un ignorante o un folle, e mentre lo diciamo sotto l’ombrello di un sistema proporzionale fuori dal tempo, il Palazzo pensa di fregare il popolo con qualche piroetta elettorale o qualche ghirigoro sulla scheda. È convinto di dominare con giochetti da Prima repubblica la grande sfida della democrazia, la crisi dei valori che sembravano immu tabili, l’avvento dell’autoritarismo che conquista chi non ha più nulla da perdere. Se non ci fermiamo in tempo perderemo. Perché stiamo facendo proprio quello che, là fuori, chiamano "interessi delle élite". Mentre dovremmo fare quelli del popolo. La sicurezza che fa paura alla sinistra di Biagio De Giovanni Il Mattino, 19 marzo 2017 Nel disordine del mondo, degli stati e delle città europee sta emergendo un nuovo tema con sempre maggior forza, quello del rapporto tra sicurezza e libertà. Le occasioni perché il tema si rinfocoli sono le più diverse, dagli atti di terrore sotto la cui minaccia vive l’Europa alle insicurezze crescenti che attraversano sia le periferie sia nel loro insieme gli agglomerati urbani. L’aggravarsi della crisi economica e sociale, le coesistenze mal governate di gruppi umani tra loro estranei, l’inasprirsi, incerte zone, della criminalità minuta o organizzata, segnalano i nuovi significati di incertezze sempre più presenti, di una insicurezza talvolta assillante che contribuisce perfino a un malessere del vivere. Il problema non è risolto dal richiamo a statistiche le quali, non di rado, mostrano che, alla fine, non sempre c’è corrispondenza tra le sensazioni che tanti cittadini vivono e l’effettivo aggravamento della situazione criminosa, per far l’esempio estremo. Ma in questione non sono le statistiche, ben altro ribolle nella pentola delle società, ed è anzitutto su questo che bisogna poggiare l’attenzione. Con una premessa che si avverte il bisogno di porre, quasi in epigrafe: il luogo comune è che chi invoca sicurezza è di destra, chi invoca libertà è di sinistra, stereotipi che, qualunque valore in se stessi possano avere come richiami a una generale tendenza culturale, restano lontani dallo stato attuale delle cose e dall’irrompere di nuovi problemi e sensibilità. Ora, ancora in premessa, vorrei porre una affermazione che nel tempo si è progressivamente perduta di vista: la sicurezza è il primo diritto di ognuno, viene prima di ogni altro diritto, assicurare la conservazione della vita e il suo agevole movimento furono il contenuto del primo "contratto" che, alle soglie dell’età moderna, si stabilì tra lo Stato e i suoi, allora, sudditi. Dicevo: non è solo questione di statistiche. Le nuove insicurezze non sempre passano attraverso quella griglia, per dir così quantitativa, giacché esse nascono e si elaborano in contesti e avvenimenti diversi, nella caduta delle aggregazioni sociali e culturali, nell’accentuarsi della solitudine d’ognuno, nella crisi dei recinti protettivi divaria natura, personali e associativi, famigliari e politico-sociali, entro i quali il senso della sicurezza guadagnava punti e si assestava. La lotta all’insicurezza prende dunque una nuova centralità, riguardando la vita d’ogni giorno e cose più profonde e immanenti nella situazione che si disegna nel mondo. Altro che patrimonio di una parte politica! Chi se ne sentisse lontano si collocherebbe fuori dai caratteri della odierna condizione umana. Temi di grande profondità e temi minuti si accavallano, così, l’uno sull’altro, complicando il significato della parola "sicurezza" che va dal problema nuovo dei confini esterni dell’Unione europea, ai temi di convivenza urbana, alla difesa da un comportamento caotico e irragionevole che si espande, in una situazione dove diminuisce il collante culturale come il nucleo che tiene insieme una società. Siamo circondati da comportamenti irragionevoli e incolti: imbrattare i monumenti alterandone il carattere non è più scorribanda casuale di ragazzini, ma fa quasi parte di una volontà "professionale" di disprezzo del passato, fino a volerlo rendere irriconoscibile, e anche questo gioca con il senso della insicurezza, con un impoverimento delle strutture mentali entro il quale essa prospera, e bisogna intervenire con la necessaria durezza, non è questione di decoro urbano, ma di difesa della cultura. E poi il mescolamento di tutto, e di tutti, che una civiltà deve promuovere, ma deve anche saper governare, sia con i necessari processi di integrazione di chi viene da lontano sia con processi educativi e scolastici per tutti. Ma la situazione è carente, e l’insicurezza si tocca con mano, nell’ allentamento dei vincoli comportamentali, nel malessere dei rapporti personali, in un permissivismo che vorrebbe somigliare a un accompagnamento virtuoso della libertà, e di fatto diventa una accondiscendenza all’arbitrio e una facilitazione al consolidamento di rapporti di potere nascosti. E avviene l’inevitabile, che quando il governo di una democrazia comprende (inizia a comprendere) la necessità di intervenire, come è avvenuto in Italia qualche giorno fa, nel tentativo di porre qualche limite ad arbitrii dilaganti, dietro i quali, in certe realtà, si muovono poteri nascosti che così arricchiscono le loro casse e il loro dominio; quando il governo interviene nel tentativo di mettere un po’ d’ordine anche alla invasività dell’accattonaggio, beninteso senza gravi misure repressive; ecco comparire subito la voce critica e solenne - spesso la voce di chi vive tra grandi e sorvegliate sicurezze - per dire, ecco è la fine della democrazia, il razzismo, il fascismo, la xenofobia hanno toccato i vertici delle istituzioni. E quando chi prende certe decisioni di governo osa chiamarsi "democratico", non fosse altro perché "democratico" si chiama il partito che quel governo forma, allora apriti cielo, questo non conta niente, neanche consiglia un atteggiamento appena più prudente, pure critico ma dialogante, minimamente problematico. Che quel provvedimento possa aprire un nuovo capitolo nel combattere l’insicurezza, dando più voce ai sindaci, con parte dei quali il provvedimento stesso è stato scritto, non vale, ecco che voci solenni, di varia origine, si ergono a giudici universali, di ultima istanza. No, tutto è brutto, tutto da buttar via, questa la lezione impartita, con stile tonante, da Roberto Saviano, ieri, sulle colonne di "Repubblica". Ora vedremo, quando le cose si assesteranno, i progressi, le decisioni da modificare, da approfondire. Ma non è possibile che il nostro sia un Paese dove se qualcuno osa spostare qualcosa nel pantano che ancora ci circonda, osa mettere mano a un problema impegnando in esso governo e parlamento, tutto deve essere azzerato, nulla si deve muovere, tutti fermi, tutti contenti così. Il tema però travalica la questione della sicurezza cui la riflessione è dedicata, e tocca lo stato dell’Italia. Mi fermo qui, perciò, c’è già abbastanza su cui riflettere. Magistrati e politica. Fermare le porte girevoli per le toghe di Carlo Nordio Il Messaggero, 19 marzo 2017 È necessario, come recita il Vangelo, che gli scandali avvengano? Sì, talvolta è proprio necessario. Perché solo gli scandali fanno emergere situazioni che, nella generale pigrizia riflessiva, si sviluppano e si consolidano fino a diventare malattie mortali. Questo accade quando i diritti dei cittadini non sono oggetto di un’aggressione violenta, ma di un deterioramento progressivo e insidioso: cosicché, alla fine, si affievoliscono e muoiono in silenzio. La separazione dei poteri è uno dei cardini della democrazia parlamentare. Eppure, mentre tutti riterrebbero inconcepibile che un senatore o un ministro volesse fare il giudice, abbiamo sempre accettato che un giudice diventasse ministro o senatore: e, cosa ancor più bizzarra che, cessata la carica, potesse, e possa, riprendersi tranquillamente la toga. È un esempio di come ci dimentichiamo, quasi senza pensarci, delle più elementari regole di convivenza civile. Ora apprendiamo, con parziale sollievo, che domani il Pd porterà in aula un disegno di legge che dovrebbe disciplinare questo andirivieni dei magistrati. Il sollievo è parziale, perché il progetto non esclude del tutto questo insano viavai. Per di più interviene dopo la vicenda Minzolini, e non è mai bene che una legge sia associata, a torto o a ragione, a una vicenda individuale. Incidentalmente, aggiungo che ho sentito una nota giornalista affermare che l’avvocato del senatore avrebbe potuto ricusare il suo giudice e che, non facendolo, lo aveva accettato, ancorché avesse militato in un partito avversario. E questa è un’altra dimostrazione del dilettantismo con cui si affrontano questi problemi: perché le ipotesi di ricusazione sono tassative, e tra queste non rientra la pregressa carica politica del giudicante. Ma torniamo al problema di fondo. Le ragioni che dovrebbero escludere l’ingresso delle toghe in politica, più ancora che formali sono sostanziali, e riguardano soprattutto i magistrati che hanno acquisito notorietà, e magari prestigio e stima, conducendo inchieste che hanno coinvolto politici. Primo, perché questa precedente attività si presta a una rilettura a dir poco maliziosa: quel giudice si è dato da fare per procurarsi una poltrona. Secondo, perché altera in modo sleale le posizioni di partenza: un magistrato fotografato, intervistato e omaggiato dalla stampa e dalla Tv parte avvantaggiato rispetto a un fedele e sconosciuto militante di partito. Terzo, perché è quantomeno poco elegante ambire al posto di un signore che magari il magistrato ha inquisito o condannato. Queste ragioni si ripresentano, moltiplicate, per il percorso inverso, quando cioè il giudice pretende di rientrare nelle sue funzioni dopo aver fatto politica attiva. Nessuno dubita, e ci mancherebbe altro, che sia condizionato da pregiudizi ostili verso eventuali imputati di idee opposte. Può anche darsi il contrario: che, per eliminare ogni eventuale retro-pensiero, il giudice si imponga un eccesso di scrupoli e decida in modo troppo indulgente. Ed è proprio questo il punto: che indipendentemente dall’esito del giudizio, il fatto che un ex politico giudichi un politico in carica è una vera e propria mostruosità logica e civile. Per questo auspichiamo che il provvedimento che andrà in discussione domani sia più coraggioso, ed escluda totalmente questa giostra. Solo per farci ricordare che esiste ancora il principio della separazione dei poteri. Prima, appunto che ce ne dimentichiamo. E prima che, dimenticandocene, lo perdiamo per mancato esercizio e per desuetudine. Toghe in politica, se i paletti non bastano di Giovanni Verde Il Mattino, 19 marzo 2017 La nuova legge non scongiura il rischio dello strapotere dei pm. Mentre infuria la tempesta per un’ennesima indagine giudiziaria che coinvolge politici e rappresentanti di istituzioni, professioni e Università, il Parlamento, con il parere favorevole del Governo, si appresta a varare una legge che fissa nuovi limiti all’entrata dei magistrati in politica e alloro rientro nelle funzioni giudiziarie. A fine mandato, il magistrato potrà esercitare le funzioni di consigliere presso la Cassazione o come sostituto presso la Procura generale della stessa Corte o come consigliere presso una Corte d’appello di un distretto al quale non appartenga la zona in cui è stato eletto E (udite, udite!) egli non potrà per tre anni ricoprire incarichi direttivi o semi-direttivi e dovrà esercitare soltanto funzioni collegiali. È una legge che, come accade di frequente in materia di giustizia, nasce sull’onda di un’occasione specifica: questa volta del caso di un magistrato, che, tornato all’esercizio delle funzioni dopo l’esperienza di parlamentare, ha giudicato e condannato, in un collegio, un suo ex collega al Parlamento. Di conseguenza, viene interpretata come indice di un nuovo e diverso atteggiamento del Partito democratico e, quindi, in generale della politica (eccezion fatta, è ovvio, per il M5S) nei confronti dei magistrati. Peraltro, lo sarebbe, se essa fosse in contraddizione con le posizioni dell’Anm. Non mi risulta che l’associazione dei magistrati sia contraria. Anzi. Vi è nella magistratura una forte tendenza a porre limiti e divieti assai più rigorosi, quali sarebbero quelli per i quali il magistrato entrato a fare politica dovrebbe abbandonare la toga quanto meno allorquando l’esercizio dell’attività politica si prolunghi per un tempo così lungo da non consentire che il diritto a conservare il posto si trasformi in insopportabile privilegio (una sorta di assicurazione per chi, come il governatore della Puglia, vuole restare sereno). Poiché è difficile pensare che l’esercizio delle funzioni in Cassazione sia meno rilevante e prestigioso dell’esercizio delle funzioni di merito, è da ritenere che la scelta del legislatore sia dettata dalla convinzione che il magistrato di cassazione può fare meno male o recare minor danno. E se così fosse, non sarebbe una bella cosa. Così come non è edificante che si pongano divieti (quali quello di non esercitare per tre anni funzioni di rilievo) che hanno il vago sapore della sanzione. Ma si tratta di osservazioni tecniche che, nel mondo approssimativo in cui viviamo, hanno scarsa importanza. Mettiamole da canto. Il punto vero è che si tratta di un’ennesima legge che si guarda bene dall’affrontare il cuore del problema, che non è di sicuro quello (ovvero è soltanto in minima parte quello) dei non molti magistrati (quasi tutti, è emblematico, pubblici ministeri) che si sono lanciati nella mischia della competizione politica. Il cuore del problema riguarda, oramai, non più e non solo il rapporto tra politica e magistratura, ma quello ben più ampio ed indefinito tra società civile e magistratura. Un difficile rapporto che trova il suo punto di collisione, più delicato e più pericoloso, sul terreno del processo penale. Da tempo ripeto che occorre una riflessione coraggiosa (perché dell’avere coraggio si tratta) sulla posizione del pubblico ministero nel nostro Paese. I più coraggiosi ritengono che sia necessaria la separazione delle carriere. Se, tuttavia, lo "status" dei pubblici ministeri rimanesse quello attuale, il rimedio sarebbe peggiore del male. Avremmo un corpo ancora più autoreferenziale ed incontrollabile di quello attuale. La separazione delle carriere ha un senso soltanto se si ponga fine alla completa assimilazione del pubblico ministero al giudice, ricordando che, secondo l’art. 107, ultimo comma Costituzione, "il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario". Il che vuole dire che il legislatore ordinario ha (avrebbe) da formulare una disciplina specifica che tenga conto della diversità delle funzioni, perché nessuno può dire che agire equivale a giudicare. Esemplifico. Quando, di recente, è stata cambiata la legge sulla responsabilità del magistrato (un cambiamento di facciata e che, tuttavia, ha fatto gridare "al lupo, al lupo!" ai giustizialisti sempre in agguato) si è toccato il fondo dell’idiozia e dell’ipocrisia. Ipocrisia, perché si è detto che eravamo obbligati a modificare la legge dalla Cedu, la Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo (e non era vero, perché in realtà la legge nasceva da una reazione dei politici contro la magistratura). Idiozia, perché la Cedu aveva parlato di inadeguatezza della disciplina riguardo ai giudici, che il giudice europeo è ben lontano dall’assimilare ai pubblici ministeri (là dove i nostri rappresentanti hanno perpetualo l’assimilazione). Lascio da parte qualsiasi rilievo sulla nuova legge. Mi limito a sottolineare che la sua approvazione sarebbe stata l’occasione per separare la responsabilità di chi giudica da quella di chi agisce (quest’ultima dovrebbe essere, per rispetto della Costituzione che vuole tutti eguali di fronte alla legge, non diversa da quella di un qualsiasi professionista). Orrore. Come si fa ad equiparare il pubblico ministero a un professionista, là dove egli ha l’obbligo dell’esercizio dell’azione penale? È questo lo scudo protettivo che consente ai pubblici ministeri di agire senza osservare, molto spesso, la necessaria prudenza e moderazione. Come si fa - si obietta - a pretendere una responsabilità di questo magistrato che, poverino, è costretto a promuovere l’azione penale nel momento in cui ha una qualsiasi notizia di reato ed è costretto a tanto perché ha da rispettare il principio di eguaglianza? È qui che si annida l’equivoco, perché obbligo di promuovere l’azione non equivale a libertà di investigare (spesso con intercettazioni a strascico, che non riguardano fatti specifici, ma - come dire? - modi di essere della persona o prassi comportamentali) e libertà di investigare, in un mondo nel quale è possibile che tutti siano spiati, significa trasformare, senza accorgersene, lo Stato, che si vorrebbe democratico, in uno Stato di polizia, governato da chi non può e non deve rispondere ad alcuno. Il Parlamento e i politici, ma prima ancora il popolo italiano dovrebbero cominciare a porsi il problema: con serenità, ma - come ho detto - con il necessario coraggio. I penalisti: giudici e pm, carriere separate. Raccolta di firme per una legge costituzionale di Adolfo Pappalardo Il Mattino, 19 marzo 2017 Il centrodestra ne fece uno dei suoi cavalli di battaglia alle politiche del 2001, poi i quesiti referendari proposti dai radicali. Senza contare come anche la sinistra ci ha pensato ma senza aver mai il coraggio di lavorarci. Come per dire che sulla separazione delle carriere dei magistrati, riforma vagheggiata e mai portata a casa, non c’è mai stato un vero colore politico. Tra partiti spaccati (più quelli di centrosinistra a dir la verità) e magistrati divisi. Ora si riparte. Ma dal basso. Con una raccolta frane per la separazione delle carriere nella magistratura promossa dall’unione delle Camere penali italiane, la cui presentazione è avvenuta ieri durante un incontro a Salerno. Poi, dal prossimo 4 maggio, con la mobilitazione di tutte le Camere penali, s’avvia la campagna di raccolta firme per la separazione delle carriere nella magistratura promossa dai penalisti. E questa volta senza dargli un colore politico. E, anzi, viene rimandato tutto al sito appena creato dove chiunque potrà firmare (separazionedellecarriere.it). Se ne è discusso al teatro Verdi dove, sul palco, c’erano i vertici del comitato promotore e Alessandro Barbano direttore del Mattino e il direttore de Il Tempo, Gian Marco Chiocci facendo notare come spesso i giornali si sono appiattiti su alcune indagini. "Intercettazioni risibili a base di inchieste che troppo spesso - nota Barbano - si sono dimostrate fragili. Troppo". E occorre, quindi, ripartire da una legge sulla separazione delle carriere evitando di dargli un colore politico ma anzi trasversale, "E il passo necessario per ottenere, finalmente, un giudice equidistante ed effettivamente terzo tra chi accusa e chi difende. Il principio del giusto processo, inserito in Costituzione anche grazie all’impegno trentennale delle Camere penali, non potrà mai essere funzionante senza partire, prima, dalla separazione delle carriere. Salerno rappresenterà, da questo punto di vista, il primo appuntamento di una lunga campagna che coinvolgerà tutto il territorio nazionale con personalità della avvocatura, della magistratura, della politica e della società civile", spiega Anna Chiusano, vicepresidente del comitato promotore (che vede al suo interno, tra gli altri, Beniamino Migliucci in veste di presidente del comitato e dell’Ucpi e i past president Ucpi Gaetano Pecorella e Oreste Dominioni). "La proposta di separare le carriere tra giudici e pm - spiega Beniamino Migliucci, presidente dell’unione delle Camere penali - serve per dare completa applicazione all’articolo 111 della Costituzione che regola il giusto processo. Il giudice, secondo la nonna costituzionale, oltre ad essere imparziale, deve essere anche terzo, e cioè, distinto da chi accusa e da chi difende. Solo questo garantisce l’imparzialità della decisione e rende effettivi gli altri principi della parità delle parti e del contraddittorio. Senza separazione delle carriere ogni riforma perde di significato". Riforma non semplice se l’iter non è mai arrivato al punto. Si avvicinò solo la riforma Castelli nel 2002 ma dopo due anni di dibattito parlamentare l’allora inquilino del Colle Carlo Azeglio Ciampi si rifiutò di fumare la legge per alcuni profili di incostituzionalità come l’introduzione di una politica giudiziaria guidata dal ministro. "Conosco le difficoltà dell’azione ma sono fiducioso che arriveremo alla meta perché penso che ora i cittadini stiano capendo l’importanza del tema e al quale sono legati tanti altri e non ci spaventa avere quasi tutti contro. La battaglia che come Unione abbiamo intrapreso non è contro i magistrati perché ogni singolo magistrato deve essere indipendente rispetto agli altri magistrati e sono convinto che in tanti accetteranno di discutere con noi", conclude Minicucci. Mentre Oreste Dominioni, penalista professore università di Milano fa notare come "siano poi alla fine i magistrati a organizzare la politica giudiziaria: sono loro a guidare tutti gli uffici del ministero tenendo prigioniero, di fatto, il Guardasigilli". Qualche cautela in più sull’avviso di garanzia di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 19 marzo 2017 La questione è stata posta di recente da Stefano Graziano, il presidente del Pd campano che ha provato sulla pelle la tagliola di un’accusa infondata. Ma potrebbe riguardare tanti altri, come magari Raffaella Paita, trasformata in "Lady Alluvione" a due mesi dalle elezioni e assolta (in primo grado) per il disastro della Liguria. Il riflesso, nei momenti di crisi, è sempre uguale da venticinque anni: impugnare la giustizia come una clava. E la parte più contundente di questa clava - perché di utilizzo più facile e immediato, senza neppure attendere l’iter processuale - è l’avviso (l’informazione) di garanzia. C’è dunque qualcosa di sommario nel liquidare, come accade troppo spesso, con una scrollatina di spalle l’esigenza di garantirne la segretezza. Garantirla, sì: perché parliamo comunque di un atto che, a tutela dell’indagato, dovrebbe già essere fisiologicamente riservato. Sappiamo bene che non va così. La questione è stata posta di recente da Stefano Graziano, il presidente del Pd campano che ha provato sulla pelle la tagliola di un’accusa ingiusta e di una notevole grancassa mediatica. Ma potrebbe riguardare tanti altri, come magari Raffaella Paita, trasformata in "Lady Alluvione" da un avviso a due mesi dalle elezioni e assolta (in primo grado) per il disastro della Liguria. Materia urticante, che persino un sottosegretario alla Giustizia attento alla dignità delle persone come Gennaro Migliore ha maneggiato con qualche disagio alla convention del Lingotto. E, tuttavia, quanto sia necessario affrontarla è dimostrato, per paradosso, proprio da certa pubblicistica giustizialista quando argomenta come, se dal 1992 in poi gli avvisi di garanzia fossero rimasti segreti, i politici della Prima Repubblica sarebbero restati ancora a lungo in sella, non disarcionati dal voto degli italiani. A un ragionamento siffatto si potrebbe obiettare che Sergio Moroni e Renato Amorese, per dire due nomi, sarebbero ancora vivi, non ritenendo la loro reputazione così devastata da scegliere il suicidio. Ma questo sarebbe un espediente emotivo. In realtà l’approccio "giacobino" teorizza la patologia dell’istituto anziché la sua fisiologia, sostenendo che tale patologia è servita a fare piazza pulita di Tangentopoli(cosa peraltro smentita dai 25 anni successivi, segnati da una corruzione diversa ma più pervasiva): non più, dunque, un istituto giuridico a tutela dell’indagato ma un congegno politico, buono per emettere anzitempo un verdetto elettorale. Quanto scivoloso sia questo approccio hanno avuto modo di scoprirlo persino i grillini, convertiti a un codice interno meno forcaiolo in tempi assai sospetti: proprio all’addensarsi delle nubi sulla sindaca Raggi; di colpo l’avviso di garanzia non è più stato stigma d’infamia, tranne ridiventarlo quando tocca ad altri. La soluzione, ovviamente, non può stare nel bavaglio alla stampa. Chi scrive s’è trovato a pubblicare su questo giornale l’avviso di garanzia (in realtà un invito a comparire) forse più famoso, quello del 1994 a Silvio Berlusconi, allora premier in carica: e pensa tuttora che un giornalista non possa tenersi una notizia nel cassetto, pena il rischio di trasformarsi in ambiguo depositario di informazioni riservate. Berlusconi alla fine fu assolto per quell’accusa (tangenti alla Finanza, in parte prescritte in appello) e certamente la scelta di tempo, nel recapitargli l’atto giudiziario mentre a Napoli presiedeva una conferenza mondiale sulla criminalità, fu assai infelice. Ma i giornalisti sono il dito, non la luna, sulla cui faccia nascosta fluttuano le figure più diverse. Ai tempi "ruggenti" di Mani pulite erano sovente gli avvocati a gareggiare nell’accompagnare i clienti "avvisati" dai pm per poi farli passare in sala stampa con un rito un po’ mediatico e un po’ catartico che oggi ci parrebbe demenziale. Negli anni successivi, la battaglia tra berlusconiani e antiberlusconiani, col suo carico di polemiche sulla tempistica dei provvedimenti e la "giustizia a orologeria", ha trascinato nell’agone la magistratura. Che tra i suoi mille meriti ha almeno un difetto: l’incapacità di autoregolare seriamente l’ingresso dei suoi esponenti in politica e soprattutto il loro ritorno alla toga dopo la politica; un viavai che finisce per seminare ombre magari ingiuste, come dimostra la battaglia di queste ore attorno alla (mancata) decadenza di Augusto Minzolini in Senato per effetto di una sentenza d’appello cui ha contribuito un avversario politico di Minzolini stesso. Parole di buonsenso in proposito vengono, anche di recente, da Gherardo Colombo, simbolo saggio di Mani pulite: il magistrato non deve solo essere imparziale ma "apparire" tale. Formalismi? Tutt’altro. In uno Stato di diritto la forma è sostanza: e non sarebbe male cominciare dall’inizio. Un avviso di garanzia che resti (davvero) riservato libererebbe per primo il pubblico ministero: infine di nuovo tecnico della giustizia e non più sacerdote di un’ordalia politica. Vittime di mafia, la lista infinita in un Paese stanco degli eroi di Agnese Moro La Stampa, 19 marzo 2017 Parlando di mafie si parla sempre di due cose, ben diverse tra loro, ma inscindibilmente unite: delle nefandezze compiute dalle cosche e delle loro vittime. Dopodomani, il 21, in 4.000 luoghi d’Italia l’associazione Libera (libera.it) ricorderà le persone innocenti uccise dalle mafie, ribadendo la volontà di tanti, tra cui moltissimi giovani, di non dimenticare e di lavorare per la legalità. Tantissime e differenti tra loro le iniziative che si svolgeranno; quella centrale a Locri, preceduta il 19, sempre a Locri, da un incontro tra il Presidente Mattarella e i familiari delle vittime. Al centro di ogni iniziativa la lettura dei nomi di coloro che, innocenti, sono stati uccisi dalle mafie dal 1893 ad oggi. Libera lo fa da 22 anni, ma ora la Giornata è entrata, con un voto del Parlamento, nel calendario ufficiale della memoria della Repubblica Italiana. Non so se l’avete mai ascoltata, ma la lettura dei nomi sembra non finire mai. Le storie sono tante e tremende. La volontà di ricordare tutti encomiabile e commovente. C’è chi è morto perché si trovava nel posto sbagliato nel momento sbagliato e chi perché faceva bene il suo lavoro; c’è chi non cedeva ai ricatti, chi diceva a voce alta la verità, chi, nel momento cruciale di una vita normale, ha scelto di fare la cosa scomoda e giusta. Tra questi protagonisti del desiderio di civiltà e di giustizia, alcuni notissimi, altri meno, Rai Storia ha deciso di proporci nella sera del 21 marzo all’interno del ciclo "Diario Civile" il documentario "Seduto su una polveriera - Storia di Marcello Torre", avvocato, sindaco di Pagani nel salernitano, ucciso dalla camorra di Cutolo perché impediva che la criminalità mettesse le mani sui soldi della ricostruzione dopo il terremoto del 1980. Le vittime delle mafie sono singole persone, ma, come sottolineano sempre in Calabria, sono anche intere comunità e territori, feriti dalla violenza, dalla prevaricazione e dalla privazione della libertà di vivere e di svilupparsi secondo le proprie vocazioni naturali e di sperare cose buone. In quei contesti non è facile vivere, e fare cose normali, come adempiere il proprio dovere, denunciare illeciti o amministrare la cosa pubblica in maniera corretta diventa un atto di eroismo che può trasformare una vita ordinata in un inferno. Magari c’è bisogno dell’attenzione di ognuno di noi. Siamo stanchi di eroi. Giustizia, ai 6mila collaboratori più tutele Il Mattino, 19 marzo 2017 In Italia sono 78 i testimoni di giustizia e 1.277 i collaboratori di giustizia, di cui 515 in libertà, 478 beneficiari delle misure alternative alla detenzione e 284 ristretti in istituti penitenziari. Se a questi si aggiungono anche i rispettivi nuclei familiari, si arriva a quota 6.525 persone da proteggere su tutto il territorio nazionale. Polizia Moderna nell’inchiesta "Invisibili" punta i riflettori sull’attività del Servizio centrale di protezione sulle speciali misure di protezione a testimoni e collaboratori di giustizia che impegna circa 800 operatori provenienti da Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza e, in misura minore, anche dall’Amministrazione civile dell’Interno e dalla Polizia Penitenziaria. Nell’editoriale, a firma Annalisa Bucchieri, si dice che il ddl in esame al Parlamento migliorerebbe il sistema di protezione, rendendo equi i benefici ai testimoni di giustizia che decidono di rimanere nella propria terra rifiutando un’identità di copertura. "La nuova legge prevede una serie di misure in grado di migliorare il sistema", assicura il sottosegretario all’Interno, Filippo Bubbico. Misura antimafia per proteggere donna da violenza domestica La Repubblica, 19 marzo 2017 La norma applicata per la prima volta a carico di un uomo condannato per maltrattamenti nei confronti della moglie e prossimo alla scarcerazione. Applicata per la prima volta e con urgenza una misura di prevenzione, prevista dal Codice antimafia per le persone pericolose, per proteggere una donna vittima di violenza domestica. Il provvedimento è innovativo anche perché emesso al di fuori del procedimento penale. È stata la Procura di Tivoli, guidata dal procuratore Francesco Menditto, a chiedere e ottenere la misura di prevenzione del divieto di soggiorno nei Comuni frequentati dalla donna a carico del marito condannato per maltrattamenti nei suoi confronti e prossimo alla scarcerazione avendo scontato la pena. Terrorizzata, temendo di ripiombare nell’inferno di violenze, andate avanti per anni e consumate anche davanti ai figli minori e interrotte solo dall’arresto e dalla detenzione del marito, la donna si è rivolta alla Procura che, dopo aver svolto in giornata gli accertamenti, ha valutato che la vittima sarebbe stata esposta a gravi pericoli con il ritorno in libertà del coniuge. I magistrati hanno verificato che l’uomo in carcere ha continuato ad avere comportamenti violenti, accumulando provvedimenti disciplinari, senza aver intrapreso alcun percorso di rieducazione. Nell’assenza di disposizioni a tutela immediata della vittima, non consentite dal codice di procedura penale né dalla legislazione ordinaria, la Procura di Tivoli ha ritenuto di utilizzare la normativa prevista dal c.d. Codice antimafia (d.lgs. n. 159/2011). In particolare, l’applicazione provvisoria e urgente della misura di prevenzione. Il 14 marzo è stata, perciò, immediatamente avanzata la richiesta in considerazione della spiccata pericolosità dell’uomo (art. 9, comma 2, d.lgs. n. 159/2011). Guglielmo Muntoni, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Roma, la stessa che si occupa dei provvedimenti patrimoniali del caso "Mafia capitale", il giorno dopo ha accolto la richiesta. L’uomo, la cui scarcerazione è prevista per domani, sarà sottoposto subito alla misura e, in caso di inosservanza (e dunque di ingresso in uno dei Comuni frequentati dalla donna), potrà essere arrestato per violazione di una specifica norma del Codice antimafia. Se non ci fosse stata questa iniziativa sarebbe tornato libero senza alcun vincolo o possibilità di serio controllo a tutela della donna. I magistrati si sono mossi in questa direzione per dare effettività alla tutela, come richiesto anche dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo che ha recentemente condannato l’Italia per non avere agito con sufficiente rapidità per proteggere le vittime di violenza domestica. I francobolli sono "bene demaniale", la sentenza che trasforma la filatelia in reato di Francesco Grignetti La Stampa, 19 marzo 2017 Il tribunale di Torino: la corrispondenza tra enti pubblici e privati dal 1840 va archiviata o distrutta. Avere quei francobolli presuppone un atto illecito. Case d’asta, rivenditori, collezionisti di francobolli e di corrispondenza in generale, lungi dall’essere considerati inoffensivi amatori di antiche carte, sono tutti potenziali briganti. Così almeno secondo una recentissima sentenza del tribunale di Torino, depositata in cancelleria il 22 febbraio a cura del giudice Roberto Arata, che ha condannato un commerciante di francobolli di Rivoli. La sentenza ha fissato un principio apparentemente astruso, ma rivoluzionario per chiunque maneggi pezzi di corrispondenza tra un privato e un ente pubblico, dal 1840 a oggi: "La procedura di scarto non legittima la libera commercializzazione dei beni "scartati", ma al contrario i documenti "scartati" all’esito della procedura devono essere distrutti". Il principio è davvero rivoluzionario perché il tribunale stabilisce un assioma che può mettere in ginocchio l’intero commercio filatelico, circa 120 milioni di euro all’anno di fatturato, e soprattutto gettare nello sconforto migliaia di appassionati: secondo il tribunale, tutti i documenti che nel corso del tempo siano stati indirizzati a un ente pubblico sono bene demaniale storico e appartengono allo Stato, perciò il loro posto è negli archivi pubblici; se sono stati "scartati" per le ordinarie procedure di spoglio, vanno distrutti. Ergo, se sono nelle mani di un privato non può che essere per via di un atto illecito. Chi ne faccia commercio, è un ricettatore. Chi li acquisti, commette quantomeno "acquisto incauto". A questo punto qualunque busta porti l’indirizzo di un Comune, di una Provincia, di una Prefettura, persino di un Priorato o di una parrocchia è sospetta. E siccome nel corso dell’Ottocento erano soprattutto gli ecclesiastici a scrivere perché erano tra i pochi ad essere acculturati, molta parte delle buste che vengono vendute nelle aste italiane con i relativi francobolli sono teoricamente fuorilegge. Il gran problema delle collezioni filateliche discende da un Decreto legislativo del 2004, che ha stabilito il principio che i documenti indirizzati a un ente pubblico - Stato, regioni, enti territoriali, enti o istituti pubblici, persone giuridiche private senza fine di lucro, enti ecclesiastici, compresi Stati ed enti dell’Italia preunitaria - sono "beni culturali inalienabili". Ne erano discesi molti dubbi interpretativi, che il ministero dei Beni culturali riteneva di aver sciolto nell’ottobre 2013 con una circolare della Direzione generale per gli Archivi. La circolare stabilisce alcuni elementi di buon senso. Primo, le semplici buste, quelle che portano l’agognato francobollo e l’annullo, non possono essere considerati documenti meritevoli di tutela, a differenza del documento che contenevano; non se ne può presumere "in via generale l’appartenenza al demanio pubblico". Secondo, può essere considerata la "demanialità intrinseca" soltanto per quei documenti che dovevano essere necessariamente conservati, tipo atti legislativi, provvedimenti giurisprudenziali, contratti; per tutti gli altri, prima di definirli "di necessaria appartenenza pubblica", occorre una prova che siano stati sottratti ad un archivio. E invece no. Il tribunale di Torino ha rovesciato il ragionamento: tutti questi documenti appartenevano a un ente pubblico, perciò se sono sul mercato privato occorre una pezza d’appoggio, ossia il documento di "spoglio" che certifica il non-trafugamento. "L’esistenza delle procedure di "sdemanializzazione" non può, di per sé, essere invocata a decisiva giustificazione del possesso in capo ai privati... per effetto di una sorta di presunzione d’avvenuto scarto". Se il privato non è in grado di esibire la pezza d’appoggio, "deve concludersi che il documento è stato illecitamente sottratto". Quanto alle buste, il giudice afferma che "la questione dell’inquadramento giuridico è particolarmente controversa... non può prescindere da una specifica e mirata analisi di ciascun singolo documento". Al commerciante di Rivoli è stato sequestrato l’intero stock in deposito. E ora sta ai carabinieri del Nucleo Tutela patrimonio culturale di identificarli uno per uno e stabilire in quale archivio vadano collocati. Due evasioni in 24 ore. I sindacati di Polizia: "i tagli hanno smantellato la sicurezza" La Repubblica, 19 marzo 2017 In fuga dal carcere di Alessandria un albanese con fine pena nel 2024 e a Frosinone si dilegua un camorrista recluso nell’ala di Alta sicurezza. "Subito un confronto col ministro della Giustizia". "A Frosinone è evaso un detenuto ristretto ad Alta Sicurezza, quindi pericoloso, mentre un altro che era con lui è caduto dal muro di cinta ed è grave in ospedale", denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Ora bisogna catturare l’evaso, un boss della camorra appartenente al clan Belforte - informa il comunicato del sindacato, ma contiamo ogni giorno gravi eventi critici nelle carceri italiane, episodi che vengono incomprensibilmente sottovalutati dall’amministrazione penitenziaria". "Quel che è successo è gravissimo anche perché da mesi denunciamo, inascoltati, la grave carenza organica di Polizia Penitenziaria del carcere: sul muro di cinta non si sono più neppure le sentinelle di controllo e ci sono altre criticità, a cominciare anche da una evidentemente discutibile organizzazione generale dei servizi del personale". Capece è netto nella denuncia: "Il sistema delle carceri non regge più, è farraginoso, e le evasioni - le due in meno di 24 ore, ad Alessandria e Frosinone - ne sono la più evidente dimostrazione. Sono state tolte, ovunque, le sentinelle della Polizia Penitenziaria sulle mura di cinta delle carceri, e questo è gravissimo. I vertici dell’Amministrazione Penitenziaria hanno smantellato le politiche di sicurezza delle carceri preferendo una vigilanza dinamica e il regime penitenziario aperto, con detenuti fuori dalle celle per almeno 8 ore al giorno con controlli sporadici e occasionali. Mancano Agenti di Polizia Penitenziaria e queste sono le conseguenze. E coloro che hanno la responsabilità di guidare l’Amministrazione Penitenziaria si dovrebbe dimettere dopo tutti questi fallimenti". Duro anche Angelo Urso, segretario generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria: "Ci risiamo! Pochi giorni fa avevo lanciato l’ennesimo grido d’allarme valutando gli eventi critici verificatisi negli istituti penitenziari dell’anno 2016. Operazione analoga ha fatto ieri il Garante Nazionale dei detenuti. Nei giorni scorsi anche il Consiglio d’Europa ha evidenziato un pericoloso trend di crescita con il record di detenuti per reati connessi alle droghe. Tutto questo dovrebbe imporre urgenti ed efficaci interventi finalizzati a rivedere e se mai ripensare l’organizzazione intramuraria, implementare le strumentazione tecnologiche, rafforzare gli organici della Polizia penitenziaria. Continuando così è uno stillicidio sia per la certezza del diritto, che si realizza anche mediante la certezza della pena, sia per le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria che ogni giorno pagano il prezzo più alto dell’inefficienza delle istituzioni". "Chiediamo al ministro della Giustizia - conclude Urso - di aprire un tavolo di confronto a 360 gradi su queste questioni già da mercoledì 22, in occasione dell’incontro programmato per la sottoscrizione dell’Accordo sul Contratto d’Amministrazione, che peraltro la Uil non sottoscriverà". Campania: il "sistema" e la presunzione di innocenza di Paolo Macry Corriere del Mezzogiorno, 19 marzo 2017 Napoli torna al centro della scena. E questa volta non per la pretesa (a mano armata) di tappare la bocca a un leader politico, ma per la rete corruttiva che avvolgerebbe tutta quanta una metropoli di tre milioni di abitanti. Difficile dire cosa sia peggio per lo spirito pubblico della città. Sta di fatto che finiscono ai domiciliari (o alla sbarra), oltre al solito drappello di politici e amministratori pubblici, alcuni pezzi pregiati della società locale: dodici professori universitari, il presidente della Fondazione Banco di Napoli, la direttrice di una soprintendenza archeologica, l’ex-presidente dell’Ordine degli Architetti, eccetera. E, per quanto le imputazioni siano diversificate, la cosa viene presentata con toni allarmistici. La corruzione sarebbe un "sistema" di appalti truccati organizzato da sindaci, politici, professionisti e accademici. Dietro il quale, scrive Il Fatto Quotidiano a caratteri cubitali, stanno "le mani della camorra". Come dire: dal clan Zagaria all’Università Federico II, dai Casalesi al Dipartimento di Progettazione Architettonica. Eppure, di fronte all’enormità del quadro disegnato dall’accusa, le reazioni sono apparse contenute, se non reticenti. I media hanno evitato di sbattere in prima pagina i presunti mostri accademici, preferendo concentrarsi sui politici. Le autorità del maggiore ateneo napoletano sono rimaste in silenzio. Intellettuali usualmente loquaci si sono mostrati assai cauti. Non c’è stato il prevedibile dibattito tra innocentisti e colpevolisti, che pure infuria in città a ogni piè sospinto. Forse perché l’ipotesi di un coinvolgimento dell’Università nella rete della camorra è talmente estrema da non essere presa sul serio. O, al contrario, perché l’accademia appare così screditata, che anche le accuse più infamanti finiscono per non destare alcuno scandalo. O anche (peggio ancora) perché gli atenei non sono percepiti come strategici. Dopotutto, giorni fa, quando a finire agli arresti erano stati il direttore dell’Asl Napoli 1 e un primario del Pascale, la risposta della corporazione medica, della Regione Campania e dello stesso ministro della Sanità non si era fatta attendere. Non è stato così per la retata degli accademici. Neppure ci si è troppo affannati a capire se quei dodici professori siano finiti agli arresti perché esiste un pericolo di fuga, di reiterazione del reato, di inquinamento delle prove. O perché una misura estrema come la privazione cautelare della libertà è ormai diventata routine. Quel che si coglie, nei silenzi e nelle cautele, è una sorta di disorientamento. Come se si volesse rimuovere la pesantezza delle accuse formulate dalla Direzione Distrettuale Antimafia. L’ipotesi cioè che l’Universitas studiorum sia finita all’inferno, laddove piccole corruzioni s’intreccerebbero, anello dopo anello, con le grandi reti criminali. Uno scenario che dovrebbe apparire, anche sul piano psicologico, insopportabile. Tanto più insopportabile per i colleghi degli inquisiti, cioè per gli accademici napoletani. Viene il sospetto che l’opinione pubblica "colta" finisca per attestarsi su un giustizialismo sconsolato, che nelle inchieste giudiziarie vede confermata la percezione di una corruttela onnipresente. O che all’opposto, ritenendo poco credibile la magistratura, non dia più peso alle sue accuse. Un’alternativa evidentemente pericolosa. Rispetto al quale esisterebbe pure una terza strada: la presunzione di innocenza. Basterebbe convincersi che è diritto inviolabile di ogni indagato essere considerato innocente fino a prova contraria. Bisognerebbe ricordare che, per la sua stessa funzione, la magistratura inquirente ha un approccio colpevolistico, che questo è solo un versante della giustizia, essendovene un secondo, decisivo, il quale si esplica attraverso la magistratura giudicante e nei diversi gradi di processo. Considerazioni fin troppo ovvie, che tuttavia sembrano poco introiettate da un’opinione pubblica in balia di populismi giustizialisti, processi mediatici o soltanto scetticismo. Nasce qui il peso ideologico che ha assunto nel nostro Paese la coppia giustizialismo-garantismo. Il primo finendo per essere un’arma impropria della lotta politica. Il secondo, l’espressione di una generica sfiducia verso un organo dello Stato. Dalla trappola, nell’attesa di una riforma della giustizia, non c’è modo di uscire se non recuperando la cultura dell’innocenza. Calabria: chiede il Garante dei detenuti, Ruffa al 20° giorno di sciopero della fame cn24tv.it, 19 marzo 2017 Continua con quattro giorni di digiuno alla settimana, di cui uno anche di sciopero della sete, la battaglia di Rocco Ruffa, militante del Partito Radicale Nonviolento, che chiede che venga almeno discussa dal Consiglio Regionale una legge per l’istituzione del garante regionale dei detenuti. "Per l’approvazione o quantomeno per la sua discussione - afferma lo stesso Ruffa - continuerò a digiunare, alimentando con la mia fame e la mia sete, che è fame e sete di giustizia e di rispetto dei diritti umani, il dialogo con il presidente Nicola Irto". Il militante specifica che dal 10 Febbraio scorso ha intrapreso la protesta che, anche se non continuativamente, lo vede oggi al 20° giorno di sciopero della fame e al 3° di sciopero della sete. "Non molliamo - dice - affinché la proposta di legge numero 34/10 del 2015 per istituire la figura del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale venga quantomeno discussa. La Calabria - aggiunge Ruffa - è una delle poche regioni che non ha ancora provveduto all’istituzione di questo organo di garanzia, indipendente e che, dal 2015 ad oggi, l’urgenza, quella urgenza alla quale facevano riferimento gli stessi proponenti, non è affatto cessata ma, anzi, si è aggravata: carenza di educatori, carenza di lavoro e di attività trattamentali, croniche carenze di agenti, e il sovraffollamento continuano ad esserci e ad aggravarsi". Varese: Radicali e presidente del Consiglio cittadino in visita al carcere varesenews.it, 19 marzo 2017 Malerbo e Gregori hanno insieme ai radicali hanno fatto visita ad alcuni detenuti. Stefano Malerba, Presidente del Consiglio Comunale di Varese, Mauro Gregori, consigliere comunale della lista "Lista Davide Galimberti" insieme a Gianni Rubagotti e Diego Mazzola, iscritti al Partito Radicale Nonviolento transpartito transnazionale, sono stati in visti oggi, sabato 18 marzo, alla Casa circondariale di Varese. "Come radicali abbiamo ringraziato chi, fra i 20.000 detenuti che hanno digiunato per la marcia per l’Amnistia del novembre scorso, è recluso qui anche in previsione della marcia di Pasqua - ha dichiarato Rubagotti. Il Partito Radicale, se non raggiungiamo 3000 iscritti entro quest’anno, chiude e queste iniziative non saranno più possibili. Spetta ai varesini e agli italiani decidere se impedirlo. Un pensiero particolare inoltre va agli agenti penitenziari di cui abbiamo visitato gli alloggi: manca anche solo una lavatrice, ce ne è una rotta, le divise e le scarpe sono vecchie e consumate. Lo stato dovrebbe rispettare di più i suoi servitori, anche quelli che fanno funzionare le carceri". Dopo l’assemblea nazionale degli iscritti del 25 marzo alla sede della Uil in via Campanini 5 a Milano i radicali continueranno le loro visite nelle carceri lombarde. Napoli: il convegno "Quale giustizia? Gli studenti incontrano il mondo del carcere" agensir.it, 19 marzo 2017 Organizzato, il 22 marzo, nell’auditorium salesiano "Salvo D’Acquisto", dal Laboratorio didattico degli insegnanti di religione nelle scuole secondarie della diocesi di Napoli, al termine di un’articolata attività didattica sviluppata in diversi istituti e licei di Napoli e provincia, che ha visto il coinvolgimento di oltre duemila studenti e ha posto al centro della loro attenzione la complessa realtà del pianeta carcere: dei detenuti, delle loro famiglie, delle vittime, degli addetti ai lavori, del volontariato. L’incontro con le persone detenute e con chi sta loro accanto, come i cappellani nelle carceri e i volontari dentro e fuori i penitenziari, è stato posto al centro del percorso didattico e formativo proposto agli studenti. È per questo motivo che le scuole hanno organizzato visite a centri per detenuti, come la casa di accoglienza per persone agli arresti domiciliari "Liberi di volare Onlus" della pastorale carceraria di Napoli, e incontri e convegni nelle diverse scuole. Al convegno, i primi a prendere la parola saranno gli studenti presenti, in rappresentanza della propria scuola, con un prodotto realizzato sul tema, come "saggio" dell’intero lavoro realizzato. Gli studenti, dopo aver presentato i propri lavori, dialogheranno e si confronteranno con funzionari dell’istituzione penitenziaria di Poggioreale, con don Franco Esposito, cappellano a Poggioreale e responsabile della pastorale carceraria della Chiesa di Napoli, e con una persona detenuta in regime di semilibertà. Porterà il suo saluto don Francesco Rinaldi, direttore della pastorale scolastica a Napoli. L’iniziativa si colloca nel quadro degli accordi intercorsi tra Miur e Caritas italiana, sottoscritti con il protocollo d’intesa del 30 aprile 2014, finalizzato a promuovere "l’Educazione alla pace, alla mondialità, al dialogo, alla legalità e alla corresponsabilità attraverso la valorizzazione del volontariato e della solidarietà sociale". Portoferraio (Li): parte "Cooking for freedom", studenti a scuola con i detenuti Il Tirreno, 19 marzo 2017 Sei studenti dell’Istituto alberghiero di Concia di Terra, diretto da Enzo Giorgio Fazio, sono protagonisti di un’azione particolarmente innovativa e di valore: faranno scuola insieme a 9 detenuti in semilibertà della casa di reclusione di Porto Azzurro. Un piano coraggioso, nell’ambito del progetto Erasmus Plus, dell’Unione Europea, chiamato "Cooking for freedom", che è una iniziativa socioculturale del valore totale di investimento, pari a circa 100 mila euro. Portogallo, Turchia, Lituania ed Italia hanno aderito all’esperienza di alternanza scuola lavoro ed anche al reinserimento di qualità dei reclusi nella società. Il piano è stato presentato ieri al Brignetti e Fazio ha aperto la conferenza dicendo: "Abbiamo a cuore questo corso di cucina, è un arricchimento dell’azione formativa tesa ad una forte professionalità ed anche alla solidarietà. Esiste un feeling forte con il direttore della struttura di forte San Giacomo, Francesco D’Anselmo e quindi c’è perfetta sintonia educativa". Guido Ricci, dell’associazione Beniamino, psicologo, ha illustrato con delle slide le caratteristiche, evidenziando che durerà l’ impegno fino al 2018 e punterà ai valori di formazione lavoro e rapporti umani. La referente del progetto, la professoressa Daniela Cirino, ha informato che le lezioni si terranno, fino ad ottobre, presso l’istituto e l’enoteca della Fortezza, formando una classe di 7 studenti e un’altra di 8, miste, con ragazzi del Brignetti e reclusi. "Ai ragazzi dell’alberghiero saranno dati crediti formativi - ha detto - e ai detenuti tale formazione potrà portare al futuro inserimento nel mondo del lavoro locale. Nel 2018 tali gruppi affronteranno anche degli stage di 100 ore e poi gran finale con i corsisti impegnati a preparare un grande pranzo a Pianosa". Analoghi concetti li ha espressi la presidente dell’associazione Antigone, Chiara Babetto, evidenziando il fatto che le attività formative predisposte, create al di fuori del reclusorio, a contatto con mondo reale, risultano di certo molto più qualificanti, rispetto alla formazione interna al Forte San Giacomo. Carlo Eugeni di Slow Food, altro partner del piano, ha toccato il tasto dell’importanza di una reale accoglienza, da parte di ristoranti e alberghi di questo impegno. "Per questo ci adopereremo al massimo, dobbiamo volere tutti un vero reinserimento nel mondo del lavoro di chi a suo tempo ha sbagliato". Presente anche Giuseppina Canu, responsabile degli educatori del carcere, che ha fatto notare come i 9 giovani scelti sono art. 21. Destinati cioè, dopo selezioni, al lavoro esterno alla casa di reclusione. Laura Berti, assessore alla politiche giovanili del Comune mediceo ha preso contatti con i referenti per dare il massimo sostegno al piano. I ragazzi di sala della docente Sarappa, hanno offerto ai convenuti un ricco buffet finale. "Il sangue non si lava", di Fabrizio Capecelatro ilquaderno.it, 19 marzo 2017 "Il sangue non si lava - Il clan dei casalesi raccontato da Domenico Bidognetti", un romanzo verità su oltre 20 anni di storia criminale italiana, sarà presentato a Benevento. Il romanzo sarà presentato al Mondadori Point di Benevento (presso il Centro Commerciale Buonvento), venerdì 21 marzo alle ore 18.00, alla presenza del Procuratore Aggiunto di Benevento Giovanni Conzo e del giornalista del Mattino Claudio Coluzzi. Dal traffico illecito di rifiuti all’omicidio di Don Peppe Diana, attraverso la storia del clan dei casalesi, sono questi alcuni degli argomenti svelati dal collaboratore di giustizia Domenico Bidognetti al giornalista Fabrizio Capecelatro, che li ha raccolti in un romanzo verità su oltre 20 anni di storia criminale italiana: "Il sangue non si lava". Sullo sfondo della ricostruzione dei più famosi fatti di cronaca, che in quegli anni portarono il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama a definire il clan dei Casalesi la quarta organizzazione mondiale più pericolosa al mondo, la sua storia personale e soprattutto la sua scelta di collaborare con la giustizia. Una collaborazione definita "preziosa e decisiva" dal Magistrato Giovanni Conzo, in prima linea nel contrasto alla criminalità organizzata, nella prefazione al libro. Una collaborazione sofferta e dolorosa, tanto da portare Don Luigi Ciotti, Presidente di Libera, a dichiarare pubblicamente: "Credo che questa comunità debba ringraziare dal profondo del suo cuore Mimì Bidognetti, figlio di Umberto, che è stato ucciso perché Mimì ha trovato la forza, il coraggio di collaborare con la giustizia". E, dopo aver testimoniato in Tribunale l’organizzazione e la ferocia del clan dei Casalesi, ora Domenico Bidognetti decide di portare la sua esperienza fuori dalla aule giudiziarie. Nel libro "Il sangue non si lava" (AB Editore) ripercorre la storia del clan dei casalesi sin dalla sua nascita sulla carcassa del clan Bardellino, ricostruisce le dinamiche del traffico illecito di rifiuti e di tutti gli altri affari in cui il clan era coinvolto. Racconta, dalla posizione privilegiata che può avere soltanto chi è stato ai vertici dell’organizzazione criminale, i più importanti omicidi, compreso quello di Don Peppe Diana, le più sanguinose guerre di camorra e le più note stragi, come quella di "San Gennaro" a Castel Volturno. Tratteggia, infine, i profili dei più noti boss della camorra napoletana e della mafia casertana, descrivendone caratteristiche che può rivelare solo chi li ha conosciuti personalmente. "Questi racconti, senza questo libro, sarebbero rimasti chiusi negli archivi dei palazzi di giustizia e invece ora possono diventare di monito per chiunque", conclude il magistrato anticamorra Giovanni Conzo. Domenico Bidognetti è stato prima uno dei più spietati killer e, poi, uno dei più` importanti boss del clan dei casalesi. Soprannominato o Bruttaccione, è stato battezzato "uomo d’onore" a soli 25 anni, ma ha poi tradito - almeno secondo le logiche dei casalesi - quel giuramento nel 2007, quando ha deciso di collaborare con la giustizia, dopo 7 anni di carcere duro al regime di 41bis. È quindi diventato il più importante testimone interno dell’organizzazione criminale, tanto che nel 2008 fu ucciso il padre per tentare di fermare la sua collaborazione. Ancora oggi testimonia in Tribunale contro i suoi ex alleati e affiliati. Nato e cresciuto a Milano, Fabrizio Capecelatro è napoletano di origini e "di spirito". Giornalista, attualmente lavora per il quotidiano online "NanoPress.it" e cura la rubrica "La mafia è Donna" sul magazine femminile "PourFemme.it". "Il sangue non si lava" è il suo terzo libro: sulla camorra ha scritto "Lo Spallone - Io, Ciro Mazzarella, re del contrabbando", edito da Mursia nel 2013. Organizza corsi di sensibilizzazione verso il fenomeno criminale presso la "Società Umanitaria" di Milano e cura la rubrica "Terre dei fuochi" per AB Editore. La figlia del giudice Guido Galli contro il libro di chi lo uccise di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 19 marzo 2017 Ripubblicate le memorie dell’ex leader di Prima linea Segio. "Inconcepibile". Nel 2005 uscì il libro, poi arrivò il film interpretato da attori belli e famosi, e adesso la nuova edizione del volume "ampliata di contributi". Con l’obiettivo di "raccontare ai giovani perché anni fa altri giovani decisero di imbracciare le armi, uccidere e rimanere uccisi o finire per decenni in prigione, nelle carceri di massima sicurezza dove si praticava la tortura e la violenza". È bastato l’annuncio della ristampa e di una presentazione sabato prossimo a Milano, con la partecipazione di un ex terrorista e un ex tangentista, per riaccendere la polemica su Miccia corta, una storia di Prima linea, scritto da Sergio Segio che di quella banda armata fu il "comandante Sirio", responsabile di ferimenti e omicidi. Compreso quello del giudice Guido Galli, ammazzato il 19 marzo 1980 all’università di Milano. Precisamente 37 anni fa. Alessandra Galli, la seconda figlia del magistrato, all’epoca aveva vent’anni e studiava Legge; oggi è giudice come suo padre, e continua a essere inquieta: "Trovo inconcepibile che in una società che ha avuto un passato così traumatico, ci si preoccupi di rievocarlo illustrando ai ragazzi i principi e le motivazioni che l’hanno provocato; tanto più in un contesto generale di grande scontento e disagio come quello attuale". Così dice Alessandra Galli riunita con la madre e i fratelli sulla tomba del papà, tra le montagne della Val Brembana. Quello che contesta, spiega, non è il diritto di parola degli ex terroristi, ma un approccio che "rischia di essere giustificazionista e mistificatorio, trasformandosi in un messaggio ambiguo verso le nuove generazioni". È un’accusa che - a fronte di tanti altri scritti di ex terroristi - ha riguardato più spesso proprio Segio; il quale non ha mai negato il rispetto dovuto alle vittime, rivendicando però il diritto a spiegare le ragioni delle scelte sbagliate di quarant’anni fa, perché "non siamo nati con la pistola in mano". Un atteggiamento esplicitato dalle parole stampate in un altro suo libro dedicati "a tutti i figli dei nostri compagni, perché crescendo e cominciando a sapere e a capire, non gli venga mai meno la certezza che i loro genitori sono state persone buone e leali, che hanno lottato, con errori gravi, ma anche con generosità e coraggio, per un mondo migliore e più giusto". Parole suonate offensive per i familiari di persone note e meno note ammazzate senza aver ingaggiato alcuna guerra, a differenza dei terroristi uccisi. Lo scrissero proprio la moglie e le figlie di Galli in un lettera aperta agli assassini del magistrato "che non avrebbe mai voluto essere un eroe, ma solo continuare a lavorare nell’anonimato, umilmente e onestamente come ha sempre fatto". Anche per via di questo atteggiamento oggi la giudice Galli si preoccupa per una pubblicazione, dichiaratamente rivolta ai giovani, "ad opera di personaggi che ripropongono messaggi del loro vissuto senza una critica seria delle scelte fatte in passato". È un dibattito che ciclicamente riapre ferite mai rimarginate, e difficilmente troverà una composizione. Perché sullo sfondo c’è sempre il timore del "cattivo esempio" che può reclutare nuovi seguaci. È già successo ventidue anni dopo l’omicidio di Guido Galli, quando i suoi assassini erano tornati liberi dopo aver scontato le pene, e nuovi terroristi che volevano rifondare non Prima linea ma le Brigate rosse uccisero a Bologna il professor Marco Biagi, che progettava la riforma del mercato del lavoro. Era il 2002, un altro 19 marzo. Quindici anni fa I migranti seviziati in Libia: "È lui il nostro aguzzino" di Alfredo Marsala Il Manifesto, 19 marzo 2017 Le testimonianze agghiaccianti raccolte dalla polizia di cinque africani scampati alle torture. E a Lampedusa è quasi linciaggio. Una delle torture peggiori si consumava dentro una stanza squallida in diretta al telefono: padri, madri e mogli costretti ad ascoltare le grida di dolore dei propri cari mentre supplicavano di mandare i soldi ai trafficanti di uomini che intanto colpivano la vittima, facendola urlare fino allo sfinimento, lasciando segni indelebili nel corpo e soprattutto nell’anima. "Ogni volta che dovevo telefonare a casa, lui mi legava e mi faceva sdraiare per terra con i piedi in sospensione e cosi, immobilizzato, mi colpiva ripetutamente e violentemente con un tubo di gomma in tutte le parti del corpo e in special modo nelle piante dei piedi tanto da rendermi poi impossibile camminare". A raccontare l’orrore delle sevizie all’interno dei campi di prigionia in Libia dove i migranti rimangono per mesi in attesa di salire nei barconi in partenza nel canale di Sicilia sono cinque africani, le cui testimonianze hanno consentito agli agenti della squadra mobile di Agrigento di arrestare un ghanese di vent’anni, Eric Ackom Sam, accusato di associazione per delinquere finalizzata alla tratta, sequestro di persona, violenza sessuale, omicidio aggravato e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Sbarcato il 5 marzo a Lampedusa, il ghanese è arrestato dopo che alcune delle vittime delle torture subite in Libia lo hanno riconosciuto, accusandolo di essere l’uomo che li avrebbe seviziati prima di imbarcarsi nel viaggio in mare ed essere poi soccorsi e condotti a Lampedusa. I poliziotti hanno bloccato il ghanese sottraendolo a un vero e proprio linciaggio che si stava consumando nel centro di accoglienza dell’isola delle Pelage. Le testimonianze raccolta dagli investigatori, coordinati dalla Procura di Palermo, sono agghiaccianti: "Spesso collegava degli elettrodi alla mia lingua per farmi scaricare addosso la corrente elettrica" racconta un africano; "porto ancora addosso i segni delle violenze fisiche subite, in particolare delle ustioni dovute a dell’acqua bollente che mi veniva versata addosso", riferisce un altro dei testimoni. Un nigeriano di 21 anni si sfoga con i poliziotti: "Ricordo le torture subite da tutti i miei carcerieri e, in maniera particolare, quelle che mi furono inflitte dal ghanese ‘Fantì, quello che, in maniera spregiudicata e imperterrita, picchiava più degli altri carcerieri". E riferisce di avere assistito "ad analoghe torture pote da Fanti ad altri migranti". "Ho visto trattamenti anche peggiori, come le torture esplicitate mediante utilizzo di cavi alimentati con la corrente elettrica - si legge nell’informativa della polizia - Tale trattamento, però, veniva riservato ai migranti ritenuti ribelli". La violenza in alcuni casi sarebbe sfociata nell’omicidio. "Durante la mia permanenza - rivela il nigeriano - ho sentito che l’uomo che si faceva chiamare "Rambo" ha ucciso un migrante. So che mio cugino e altri hanno provato a scappare e che sono stati ripresi e ridotti in fin di vita, a causa delle sevizie cui sono stati sottoposti. Temo che anche lui sia stato ucciso". A volte i carcerieri usavano anche le armi per mettere paura ai prigionieri: "Sparavano in aria per farci intimorire", raccontano. Un altro testimone, anche lui nigeriano e vittima di ‘Fantì, sentito dai pubblici ministeri Gery Ferrara e Giorgia Spiri coordinati dal procuratore capo Francesco Lo Voi, racconta della casa-ghetto: "Eravamo in mezzo al deserto, era una grande struttura, recintata con dei grossi e alti muri in pietra, che era costantemente vigilata da diverse persone, di varie etnie, armati di fucili e pistole". E parlando di Fanti, l’arrestato, racconta: "Era uno che spesso, in modo sistematico picchiava e torturava noi migranti. Fanti era membro di questa organizzazione di trafficanti al cui vertice c’era Alì, il libico". Anche lui ha dovuto pagare per essere rilasciato e proseguire la sua rotta verso l’Italia. "Ogni giorno telefonavano alla mia famiglia - dice agli investigatori - e mentre avanzavano a mio fratello le loro richieste estorsive, consistenti nella richiesta di denaro, mi torturavano e mi seviziavano, in maniera tale da fargli sentire le mie urla strazianti. Dopo cinque mesi di lunga prigionia e sistematiche violenze, mio fratello gli fece avere 200 mila cfa (la moneta locale), anche se loro ne avevano chiesto 300 mila. Gli investigatori, per alcuni reati consumati interamente all’estero, hanno potuto procedere sulla base di una richiesta del ministro della Giustizia. Riferendosi ai testimoni, il capo della mobile di Agrigento, Giovanni Minardi, parla di "lezione di non omertà". "Una lezione - dice il poliziotto - che deve essere d’esempio per gli agrigentini, molto spesso restii a collaborare". I migranti, in Libia, venivano tenuti rinchiusi in quattro container: tre per uomini e uno per donne e bambini. Circa 800 le persone prigioniere. Quella per i profughi avrebbe dovuto essere una "tappa intermedia" prima del viaggio verso le coste italiane. In realtà i migranti venivano sequestrati. E così sarebbero rimasti fino a quando non pagavano, dopo avere versato i soldi del viaggio, il prezzo per la loro liberazione. E per farli pagare venivano torturati, seviziati e sottoposti a stupri di gruppo. Quei profughi diventati pusher e le colpe dell’assistenzialismo di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 19 marzo 2017 In Italia abbiamo un modello di accoglienza assistenzialista, che non ha niente da invidiare sul fronte del primo soccorso, ma è un vero disastro in tema di integrazione. Nelle decine di centri di accoglienza che ho girato in tutta Italia ho visto tantissimi richiedenti asilo bighellonare nei corridoi. Non sono svogliati, non tutti: è l’inefficacia del nostro sistema di accoglienza che trasforma i profughi in larve. Tanti migranti vorrebbero lavorare, ma trovare un lavoro resta per loro un’utopia. Ed è facile che, per racimolare qualche spicciolo, finiscano per entrare nella spirale del lavoro nero o, peggio ancora, nelle maglie dell’illegalità. E nel frattempo magari, coordinati dalle cooperative che gestiscono l’accoglienza, svolgono quei lavori di pubblica utilità al servizio dei Comuni: siepi da tagliare, giardini da rastrellare, muri da verniciare. Certamente un importante servizio sul fronte dell’integrazione, ma che nel lungo periodo evidenzia tutta la sua sterilità e non garantisce autonomia ai profughi. E pensare che tutte queste braccia, vigorose e volenterose, costituirebbero una risorsa preziosissima per la nostra economia. Non è buonismo, è utilitarismo. A tal fine, con l’entrata in vigore del decreto legislativo 142 dell’agosto 2015, il Governo ha varato una nuova normativa che permette ai richiedenti asilo di svolgere attività lavorativa retribuita, cosa fino ad allora impossibile per legge. Eppure questa normativa non viene sfruttata, e sono pochissimi i profughi che effettivamente lavorano. Colpa innanzitutto dei tempi biblici della nostra giustizia: i profughi devono attendere fino a due anni per avere risposta alle loro domande di asilo politico. Nel frattempo, pensano molti di loro, perché dovrei lavorare se poi rischio di essere espulso? Tanto vale far soldi in attività illegali, tanto se mi arrestano, mi rimettono in libertà dopo due giorni. Questione di impunità, ma non solo. La responsabilità è soprattutto del nostro sistema di accoglienza, che delega la professionalizzazione dei migranti al caso, al presunto spirito solidale delle cooperative sociali che gestiscono i centri di accoglienza. Trentacinque euro al giorno per ciascun migrante nelle casse di queste associazioni. In cambio, lezioni di italiano e corsi di formazione (facoltativi). In Germania, che nel 2015 ha accolto un milione di migranti, è diverso: i migranti hanno l’obbligo di frequenza nei corsi di lingua, cultura e legislazione tedesca, che si tengono quasi tutti i giorni, con tanto di verifiche di apprendimento. E poi, anche in Germania, lavori di pubblica utilità, ma con piccole somme di denaro in cambio delle mansioni svolte. In Italia invece no, quando lavorano lo fanno gratis e i corsi professionali ci sono una tantum. Così è difficile invogliare e responsabilizzare i profughi. Non stupiamoci se poi li ritroviamo per le strade o nelle vigne. Certo è, va detto, che non ci può essere alcuna giustificazione sociale alla delinquenza: quando qualcuno commette un reato, ne deve rispondere personalmente. Ma è altrettanto vero che, con tutti i soldi intascati dalle cooperative (circa 150 milioni nell’ultimo anno soltanto a quelle toscane), si potrebbe e si dovrebbe fare di più. Non basta l’assistenzialismo. Dovremmo essere capaci di sfruttare questa grande occasione: sul nostro Paese abbiamo quasi 200 mila profughi che implorano di lavorare (12 mila in Toscana), ma rischiano di diventare "straccioni". Tocca allo Stato razionalizzare e ottimizzare i fondi, affinché i profughi diventino una risorsa, invece che una minaccia. Le strade per cogliere questa opportunità esistono, basterebbe avere il coraggio di percorrerle. Frans Timmermans: "un patto Roma-Berlino per l’emergenza profughi" di Maurizio Molinari La Stampa, 19 marzo 2017 Il vicepresidente Ue a una settimana dal summit in Italia: "Le più velocità aiutano i Paesi a restare insieme". Frans Timmermans, primo vicepresidente della Commissione Ue, olandese e socialista, ha affrontato i maggiori temi del dibattito europeo in un forum con Maurizio Molinari, Marco Zatterin, Francesca Sforza e Fabio Martini. Presidente Timmermans, il voto olandese è una lezione per l’Europa? "Mi ha sorpreso vedere che i commenti internazionali sul voto abbiano messo l’Europa al centro della campagna perché in realtà non c’è mai entrata. Nessuno ne ha parlato. È stata una vigilia senza temi ed è diventata una vera campagna elettorale solo quando si è acceso il conflitto con la Turchia. Non ho mai creduto che Wilders potesse vincere le elezioni. È come se la gente dicesse: "È un bene che Wilders ci sia, ma Wilders al governo no"". Nessun messaggio in vista delle elezioni in Francia e Germania? I populisti sono contro l’Ue. "Una cosa è chiara, che il populismo di destra non ha vinto. E il fatto che Wilders abbia perso è importante, perché sosteneva l’uscita dall’euro. Detto questo, dobbiamo porci una questione identitaria. È la ragione per cui noi socialisti abbiamo perso - una sconfitta mai vista prima -: siamo partiti dall’idea di essere il ponte fra diversi gruppi, diverse etnie, mentre la gente ha scelto all’interno del suo stesso gruppo. Abbiamo avuto persino un partito dei musulmani, che prima votavano per noi. Occorre un dibattito nelle nostre società sulla nostra identità: dobbiamo chiederci chi siamo e dove andiamo". E per i partiti socialisti europei? "La malattia dei socialisti è quella di creare conflitti all’interno del partito. Anche nel mio Paese, il problema è stata la competizione interna che ha logorato l’efficacia politica. I socialisti devono pensare di più alla gente, meno al partito. Il partito è uno strumento, va ben organizzato. In questa campagna elettorale nessun partito ha parlato della gente, dei problemi della società, non delle coalizioni, delle alleanze, dei personalismi". La dichiarazione per i 60 anni dei Trattati potrebbe essere sottoscritta da tutti i leader o dalle sole istituzioni europee. Come la vede? Ci dovrebbe essere un riferimento esplicito alle cooperazioni rafforzate o no? "Non conosco i progetti dell’Italia su questo, ma - dopo il dibattito al Consiglio Europeo, come a Malta e Bratislava - è chiaro che sulle grandi questioni i Ventisette sono d’accordo, Polonia compresa. L’obiettivo è andare tutti nella stessa direzione, anche se non alla stessa velocità. La Romania e la Bulgaria ad esempio l’hanno presa male, ma il progetto della Commissione non è di creare due Europe. Perché il fatto di non procedere con lo stesso passo non esclude che la direzione resti la stessa". Francia, Germania e Italia vorrebbero citare esplicitamente le diverse velocità. Le ritiene essenziali per la sopravvivenza dell’Ue? "Credo che l’idea di Merkel, Gentiloni, Hollande, e Rajoy sia che se non facciamo un’Europa a diverse velocità, potrebbero sorgere delle alternative all’Europa. Discutere di diverse velocità è come dire "vogliamo restare insieme". È paradossale, ma è giusto. Se non ci diamo questa possibilità - già utilizzata con l’euro o Schengen - il rischio di spaccatura dell’Europa crescerà, non il contrario". Sui migranti Merkel ha parlato di solidarietà, ma come tradurre le parole in fatti comprensibili per i cittadini? "Nelle nostre società e fra gli Stati c’è grande sfiducia: i ricchi non si fidano dei poveri e viceversa, gli olandesi non si fidano dei turchi, la Germania non ha fiducia che l’Italia faccia il suo lavoro con i migranti, l’Italia non crede che la Germania dimostri la solidarietà necessaria". Qual è la soluzione? "Nella storia dell’Ue, ogni passo in avanti è stato sempre sulla base di un accordo franco-tedesco. Ecco, sono convinto che sulla questione migratoria abbiamo bisogno di un approccio analogo, ma con un accordo Berlino-Roma: se Italia e Germania saranno in grado di trovare soluzioni comuni, il resto dell’Unione le seguirà". Come se lo immagina? "Col ministro Minniti, l’Italia sta facendo un ottimo lavoro, e sono certo che se continuerà su questa strada la Germania le sarà vicina su Libia e Tunisia. Dimostrare alla popolazione europea che un accordo fra Stati su questa questione è possibile, significherebbe oltretutto creare un sentimento più pro-europeo. Questa possibilità c’è. Del resto l’Italia ha un ruolo da giocare che va oltre le sue personalità politiche, come quando ha detto che i minori non accompagnati non saranno rispediti indietro. È una posizione scomoda, ma che fa dell’Italia un’autorità morale all’interno dell’Ue". In Italia c’è molta insofferenza nei confronti dei migranti e si attribuisce la colpa all’Europa. Lei cosa risponde? "Adesso abbiamo la possibilità di fare un grande programma sulla Libia - ne ho parlato qui a Roma col ministro Minniti - e l’Italia ha su questo una conoscenza unica e strategica. Se siamo in grado di fare passi avanti sulla Libia, avremo dei risultati che potremmo anche mostrare alla popolazione. Capisco le paure dei sindaci, ma se guardiamo come stavano le cose un anno fa, oggi la situazione è molto migliorata". Crede nella strategia di fermare i flussi di profughi in Africa, in Libia, al confine tra la Libia e il Niger? "Sì. È la strategia giusta. Non è facile, richiederà tempo, ma non c’è alternativa. Dobbiamo stipulare accordi con questi Paesi che vanno oltre la migrazione, perché se non ci sono sviluppo e investimenti, questi Paesi non saranno in grado di gestire il problema migratorio. Esiste però una diversità di interessi tra l’Europa dell’Est e del Sud. In molti si chiedono se l’allargamento sia stato positivo o no per l’Unione. "Immaginiamo per un momento che la Polonia o l’Ungheria non fossero nell’Ue. Con il Putin di oggi, l’instabilità sarebbe nel cuore dell’Europa. Abbiamo pagato un prezzo per la nostra stabilità, ma è stato un giusto prezzo, anche se ci rende la vita più complicata. Forse questa è la prima volta da centinaia di anni che le frontiere della Polonia non sono oggetto di dibattito geopolitico: prima, quando la Russia era forte la frontiera della Polonia si spostava di 300 km a Ovest, e quando invece era forte la Germania si spostava a 300 km a Est. Oggi quando la premier polacca Szydlo mi dice "noi siamo un Paese indipendente, non vogliamo interferenze", io le rispondo: "Se siete un Paese indipendente, dovete dire grazie anche l’Unione Europea". Che idea si è fatto sull’approccio di Putin all’Europa? "Nel solco della tradizione geostrategica della Russia, vuole un’Europa debole. Anche Trump vuole un’Europa debole. Per questo Putin dà il suo sostegno ai nazionalismi di destra. Non è una scelta ideologica quella dei russi, ma strategica, perché loro hanno visto che la frontiera dell’Occidente arrivare sotto i loro confini. Nella loro logica è comprensibile, ma certo, se siamo divisi, Putin avrà la possibilità di farci giocare l’uno contro l’altro". Qual è la politica che l’Ue sta portando avanti con la Russia in questa fase? "Paradossalmente se siamo uniti siamo più liberi di avere un dialogo aperto con la Russia. Russia e Turchia sono e restano nostri vicini, quindi abbiamo bisogno di cooperazione e dialogo, ma da una posizione forte". Marine Le Pen dice: "Se io vinco, la Francia uscirà da Ue e Nato". L’Unione può sopravvivere senza la Francia? "No. L’Ue senza Francia o senza Germania è impossibile, non ha senso. Nel voto francese è in gioco il nostro futuro di Unione". Cos’ha pensato quando Erdogan ha chiamato gli olandesi "nazisti"? "È una cosa che fa male, perché i turchi non hanno vissuto la Seconda guerra mondiale, forse non hanno capito la gravità della parola. Noi abbiamo sofferto tantissimo per la guerra: Rotterdam è stata rasa al suolo dai nazisti, più di 100 mila olandesi sono stati deportati nei lager e non sono tornati. Per noi è un’affermazione inaccettabile". Droghe. I nuovi schiavi dell’eroina: "così il buco a 15 euro ha rovinato le nostre vite" di Niccolò Zancan La Stampa, 19 marzo 2017 Nella stanza della "Narcotici Anonimi" le sedie sono messe in cerchio: chi arriva racconta la propria storia agli altri e, tutti assieme, si recita una preghiera che chiede la forza di cambiare la propria vita. Il secondo a prendere la parola è un ragazzo pallido, che muove i piedi in continuazione. "Sono Marco, tossicodipendente. Arrivo dall’ospedale dove hanno operato mia madre. È uscita dalla sala operatoria oggi pomeriggio alle cinque. Quando ho visto che le hanno attaccato il siringone di morfina, mi sono reso conto che ero in fissa. Ho fatto la battuta: "Quasi quasi ne prendo un po’ anche io". E lei, appena sveglia: "Per carità: mi hai fatto il regalo di smettere". "Ma io non ce l’ho mai avuto mezzo metro di siringa! E così, sono andato a fare quattro passi fuori. Dovevo camminare. Quella siringa era la cosa più tranquilla che riuscivo ad immaginare dentro all’ospedale. Continuavo a pensarci. Mi sentivo in colpa. In tutta la settimana non ho ricevuto neanche un messaggio. In questi momenti difficili, una volta c’era lo spacciatore. Andavo a cercare la sostanza e piangevo. Ora è uguale con le relazioni, con le donne. Il dolore non passa anche se sono pulito". Milano, quartiere San Siro. Un campo da calcetto illuminato. Nel sotterraneo della parrocchia di via Stratico, c’è un corridoio con due stanze. La prima è quella per il ritrovo dei mangiatori compulsivi, la seconda: "Narcotici Anonimi". Trenta sedie in circolo nelle viscere della città, i muri che tremano a ogni passaggio della metropolitana, mentre va in scena il dolore che tutti avevamo rimosso. Il fenomeno - L’eroina è tornata. Da tre anni consecutivi il consumo è in aumento. Secondo lo studio (2016) dell’Istituto di fisiologia clinica del Cnr, il 4% degli studenti italiani fra 15 e 19 anni ha sperimentato la cocaina e l’1% ha assunto eroina. Quasi la metà di chi la prova, ne fa un uso frequente. "Sono Monica, ho 24 anni. Ho problemi con le sostanze. Sono finita in galera. Sono fuori dal 15 gennaio e voglio rimanere pulita. Il pericolo è cedere. È un attimo. Voglio iscrivermi ancora all’Università. Ho progetti per una casa. Ho appena preso la patente". Monica è l’unica nuova del gruppo, stasera. Ci sono un elettricista, un mercatale, un manager, un bancario, due impiegati, una commessa e molti altri ancora. Tutti parlano anche per convincere Monica a restare. "Ciao, sono Alessandro, tossicodipendente. Benvenuta! È una bella cosa vedere qualcuno che entra da quella porta per cercare di darsi una possibilità". Monica ha scarpe da ginnastica Adidas, un giubbotto nero aperto. A un certo punto si alza e scappa fuori. Lo hanno fatto altri, prima di lei. Magari per fumare o per bere un sorso d’aranciata. Non è facile restare in questa stanza. Ma ecco che Monica torna dentro, si siede allo stesso posto mentre è il turno di un uomo con i capelli rasati a zero. "Ciao, sono Dario, tossicodipendente. Mi sono fatto per 23 anni di sostanze pesanti, ho visto qualsiasi depravazione, ho distrutto case, bruciato soldi, chiuso relazioni, ho provato comunità, cliniche, psichiatri, e nonostante questo non mi sono mai fermato. Qui dentro ho trovato per la prima volta la libertà dall’ossessione. Oggi sono ventisei mesi di pulizia. Se non è un miracolo questo…". Applaudono tutti, anche Monica. Le vittime - Solo nell’ultima settimana italiana, un uomo di 55 anni è morto di overdose alla stazione di Ladispoli. Una ragazza di 19 anni è stata trovata senza vita sul letto di un appartamento di Marciano della Chiana in Toscana. Un ventenne è stato arrestato a Correggio mentre spacciava dosi di eroina in un liceo. E si potrebbe continuare. "È un fenomeno che per dimensioni sembrava appartenere al passato", dice don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele. È stato uno dei primi ad occuparsene, stando sulla strada. "Fra gli Anni 70 e la prima metà dei 90, in Italia 50 mila persone sono morte per droga, aids, epatiti. Una strage. Le nuove generazioni sembravano aver sostituito l’eroina con droghe meno letali: ecstasy, anfetamine, cocaina. Ma l’eroina è tornata. Spesso i ragazzi la sniffano o la fumano per compensare angoscia e paranoia. Ma c’è anche il consumo a se stante, quello che ha reintrodotto le vecchie e più pericolose modalità di assunzione. Il buco, insomma". Il parco vicino alla stazione di Rogoredo è presidiato dall’esercito. Ogni giorno arrivavano centinaia di persone a comprare droga. L’eroina è tornata sul mercato a prezzi stracciati. Una dose può costare 15 euro. I pusher si fanno concorrenza. La relativa calma in Afghanistan, dopo anni di guerra, ha riaperto le rotta balcanica e quella più a Nord attraverso la Russia. "Sono i trafficanti a imporre le sostanze sul mercato" dice Roberta Pacifici, responsabile dell’osservatorio sulle droga dell’Istituto Superiore di Sanità. "Oggi molti nuovi assuntori non si rivolgono ai Sert. Spesso scopriamo la dipendenza dopo ricoveri in ospedale. Purtroppo la percezione di pericolosità dell’eroina è calata moltissimo". L’ultimo tentativo - Chi arriva in questa stanza della Narcotici Anonimi, una delle 4 aperte a Milano, una delle tantissime nel mondo, spesso lo fa come ultimo tentativo prima di darsi per vinto. In cerchio, recitano questa preghiera: "Signore, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare/ Il coraggio di cambiare quelle che posso/ La saggezza di conoscere le differenze". Non ci sono professori, medici o direttori. Solo loro, e questa sofferenza da condividere. "Ciao, mi chiamo Martina, sono pulita ma non riesco a cambiare il male che mi tormenta. Una persona mi ha chiesto al telefono: ma tu vuoi cambiare davvero? Dico la verità, voglio cambiare per non morire, ma sono stanca e ho molto paura di non farcela". Turchia. "Amico dei curdi": sindaco del Salernitano arrestato ed espulso huffingtonpost.it, 19 marzo 2017 "Volevano prendermi la fascia tricolore". Arrestato all’aeroporto di Istanbul, trattenuto per alcune ore e poi espulso. "Un’avventura allucinante" la definisce Massimiliano Voza, cardiochirurgo, Sindaco di Santomenna, piccolo comune del Salernitano, da sempre volontario al fianco dei curdi, oggi allontanato dal paese di Erdogan per motivi di "sicurezza nazionale". Voza, appena rientrato in Italia, racconta l’accaduto. "Ero da poco atterrato all’aeroporto e stavo chiedendo informazioni per il volo che mi avrebbe dovuto condurre a Dyarbakir in Kurdistan, dove ero stato invitato dall’HDP, il partito progressista filo curdo, per festeggiare il capodanno che coincide con l’inizio della primavera. Neppure il tempo di domandare e sono stato bloccato dalla polizia, che mi ha sequestrato il passaporto e i tre cellulari di cui dispongo: quello personale, quello che consente la mia reperibilità in ospedale e quello del Comune". Dopo il fermo da parte della polizia cominciano le lunghe ore di attesa in una stanza di sicurezza dell’aeroporto. "Chiedevo di contattare l’ambasciata, cercavo di far capire che il mio viaggio in Kurdistan era solo a scopo umanitario, ma nessuno mi dava ascolto. Hanno rovistato nella mia valigia e mi hanno chiesto cosa fosse quella fascia tricolore che avevo gelosamente custodito in borsa. Ma non c’è stato verso di far capire che ero un rappresentante del popolo italiano e non un terrorista o un sobillatore". In seguito Voza è stato trasferito in un altro stanzone dove vi erano altri passeggeri fermati dall’autorità di frontiera turca. "Ero con cittadini ceceni, kosovari, iracheni, egiziani, tutti di religione musulmana. E devo ringraziare proprio una di queste persone che aveva un telefono cellulare, grazie al quale ho scambiato messaggi con il mio avvocato di Eboli, Giuseppe Giarletta, che ha subito avvertito il senatore di Rifondazione Comunista, Giuseppe De Cristofaro, e la parlamentare europea Eleonora Forlenza, i quali hanno interpellato il consolato ad Istanbul". Stamane poi la fine dell’incubo con quel decreto di espulsione per "sicurezza nazionale" e l’imbarco sul primo volo per Roma. Il sindaco di Santomenna negli anni passati si è prodigato nelle attività di sostegno alle operazioni umanitarie. "Nell’agosto del 2005 a Kobane - dice - abbiamo realizzato il primo ambulatorio cardiologico pubblico. Una grande soddisfazione per me che faccio questo lavoro". Il comune di Santomenna inoltre "è stata la prima istituzione occidentale a riconoscere l’autorità di Kobane liberata dall’Isis". Voza è stanco, attende di riabbracciare familiari ed amici a Santomenna ma il suo pensiero va ancora una volta al popolo curdo. "Continuerò a fare tutto il possibile accanto al popolo curdo per la pace, i diritti umani e la lotta di resistenza contro l’Isis".