"In cella come su un assurdo taxi". Il Garante spiega il sovraffollamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 marzo 2017 I primi dati della relazione annuale al parlamento che l’authority per i detenuti presenterà martedì. Luci e ombre del sistema penitenziario italiano e dei centri di accoglienza e trattenimento dei migranti. Trend del sovraffollamento in crescita a partire dal 2016, capienza regolamentare che potrebbe essere aumentata attraverso un’opera di recupero e razionalizzazione, considerevole numero di atti di autolesionismo e tentati suicidi verificati nelle carceri italiane, carenza delle camere di sicurezza onde evitare le cosiddette "porte girevoli" che ingolfano gli istituti penitenziari, criticità nei centri di identificazione ed espulsione. Ma non mancano note positive come l’aumento del ricorso all’esecuzione penale esterna, compresa la "messa alla prova" per chi ha commesso reati minori. Questo alcuni dati della prima relazione annuale del Garante nazionale delle persone detenute, composto da Daniela de Robert, Emilia Rossi e Mauro Palma, che sarà presentata martedì alla Camera, anticipati dall’Ansa. Una relazione scaturita durante le sue diverse visite - come ha documentato il Dubbio - negli istituti penitenziari e nei centri per gli immigrati. Entrando più nel dettaglio, il Garante spiega che il numero dei detenuti nelle carceri italiane è andato diminuendo dal 2013 quando si raggiunse la soglia di 62.536, ma a partire dal 2016 questo trend si è modificato con un leggero aumento delle presenze: al 31 dicembre 2016 erano 54.632 e al 14 febbraio 2017 sono 55.713, con un incremento di oltre 1000 unità. Confrontando tali numeri, in particolar modo le presenze a fine gennaio 2016 e a fine gennaio 2017, si registra un aumento del 6,2%. "Si tratta di una campanello d’allarme da non sottovalutare, anche se forse in parte fisiologico", scrive l’Authority, presieduta da Mauro Palma. Oltre alle presenze, il Garante spiega che sono in aumento anche il numero degli ingressi nel carcere: nell’ultimo anno, dopo una fase di riduzione, sono passati da 45.823 nel 2015 a 47.342 nel 2016, con un aumento di 1.500 unità. Come ha più volte annotato nei suoi rapporti - l’ultimo quello della regione Liguria, l’aumento degli ingressi sono dovuti anche dalla la carenza di camere di sicurezza disponibili. Un problema che "riguarda tutte le forze di polizia e ha come conseguenza l’accompagnamento delle persone in carcere anche per periodi brevissimi, riattivando così il fenomeno delle "porte girevoli"". Nella relazione emergono anche i numeri sugli episodi autolesionistici e di tentati suicidi. Nel 2016 si sono verificati 8.540 casi di autolesione e 1.262 solo dall’inizio di quest’anno. I tentati suicidi sono stati 1.006 nel 2016 e 140 dall’inizio di questo mese. L’anno scorso si sono verificati 40 suicidi in carcere, a cui si aggiungono 12 casi solo quest’anno. Per quanto riguarda i Centri di identificazione ed espulsione, Mauro Palma spiega che "mediamente soltanto la metà dei cittadini stranieri irregolari che transitano nei Cie viene effettivamente rimpatriato", centri che presentano "problematicità strutturali e organizzative". Secondo il Garante, in mancanza di accordi con i Paesi terzi, rimane il dubbio che la percentuale dei rimpatri sul totale dei provvedimenti di espulsione possa aumentare in modo consistente. A differenza dei Cie, gli hotspot si sono invece rivelati "molto efficienti nella identificazione con percentuali che sfiorano il 95% delle persone transitate, ma in mancanza di una effettiva politica di relocation si sono trasformati spesso in impropri centri di temporanea accoglienza soprattutto di categorie vulnerabili come i minori, il cui numero è in continuo aumento". Sempre per quanto riguarda il sistema penitenziario, positivo invece il ricorso all’esecuzione penale esterna al carcere, con 34.827 detenuti che al 31 gennaio2017 scontano la pena al di fuori degli istituti. Considerevole aumento anche della cosiddetta "messa alla prova" per chi ha commesso reati minori, che consente di evitare la condanna accettando di sottoporsi a un programma di trattamento. I casi sono passati da solamente 2 nel giugno 2014, quando fu introdotta, a 6.557 nel 2015 e a 9.090 a fine 2016 Maternità tra le sbarre di Giovanna Pavesi letteradonna.it, 18 marzo 2017 I figli di donne detenute, spesso, crescono con loro in carcere. Una situazione molto delicata, che può ripercuotersi sui piccoli. Ne abbiamo parlato con alcuni professionisti del settore. L’avevano arrestata di lunedì. Aveva i capelli ondulati e lunghi, gli occhi verdi e ai piedi portava gli zoccoli con delle calze di spugna azzurre. Era già stata dentro, qualche anno prima, ma questa volta non era sola. La sua bambina, di appena due anni, aveva il diritto di restare con lei. Lo stabiliva la legge. Perché il reato, salvo sentenze del Tribunale dei minori, non pregiudica la genitorialità. Finiscono dentro per ogni tipo di reato. A volte non sanno nemmeno come siano arrivate in quel luogo. Dietro le sbarre portano ogni frammento del loro vissuto, comprese le loro storie al limite. Alcune hanno rubato. Altre sono state travolte da dinamiche criminali, forse, più grandi di loro. Molte erano consapevoli di ciò che facevano. Tutte, o quasi, hanno avuto vite complicate. Sono donne, spesso molto giovani, e sono madri. In carcere portano tutto, compresi i figli, che possono rimanere con loro dalla nascita fino al compimento del sesto anno di età. Con i loro bambini condividono spazi, giornate e regole. Sono piccolissimi nuclei familiari, costituiti da due o, al massimo, tre persone. La mamma e i suoi figli. Che la osservano crescere insieme a loro tra i rumori delle porte blindate e le perquisizioni continue. Si appartengono e consolidano un legame molto stretto. Gli esperti la chiamano simbiosi. Jasmina - Il ritratto di queste piccole famiglie l’ha fatto Rossella Schillaci nel suo documentario Ninna nanna prigioniera. Presentato al gLocal Film Festival, il 18 marzo sarà proiettato anche alla 24esima edizione di Sguardi Altrove International Film Festival, nella sezione Diritti Umani, Oggi. Il corto racconta la storia di Jasmina, giovane donna finita in carcere in custodia cautelare con i figli più piccoli, perché il maggiore vive fuori con la nonna. Bambini in carcere con le madri - In media, ogni anno, un esercito di circa 100 mila bambini supera le cancellate dei penitenziari per raggiungere i genitori. I più grandi frequentano le strutture per visitarli una volta alla settimana. I più piccoli, spesso, ci vivono insieme alle mamme. Secondo i dati dell’ispettorato del Ministero della Giustizia, aggiornati al 28 febbraio 2017, attualmente le madri detenute sarebbero 40 (16 italiane e 24 di origine straniera), mentre i piccoli 46 (18 bambini italiani e 28 stranieri). La legge N.62/2011, entrata in vigore a gennaio 2014, ha stabilito che le madri possono scontare, dove possibile, la pena con i loro figli fuori dalle carceri in luoghi protetti ma lontano dalle sbarre e dalle divise. Si tratta degli ICAM (Istituti a custodia attenuata per detenute madri) che però non sono dappertutto. Gli Icam - Il primo è nato a Milano, nel 2006, quando poteva accogliere solo mamme e bambini di età inferiore ai tre anni (limite consentito dalla legge in quel momento). Qui, gli agenti in servizio vestono sempre in borghese. Prima dell’apertura di questo istituto, le detenute erano recluse con i loro figli nel Nido presente presso la sezione Femminile del carcere di San Vittore. La struttura, che attualmente può accogliere 10 donne e 12 bambini, garantisce la presenza di un medico, di un infermiere e visite settimanali di uno psichiatra, uno psicologo e un pediatra. Dall’ICAM del capoluogo lombardo non ci sono stati episodi significativi di evasione: gli unici tentativi sono stati pochi e quando è accaduto le madri hanno cercato di portarsi via i propri figli. Oggi gli ICAM si trovano a Torino (per la Casa circondariale Lorusso e Cutugno), a Venezia (Giudecca) e a Cagliari. I bimbi devono "conoscere il mondo esterno" - "Essere madri è molto complicato: esserlo in carcere, mi creda, lo è molto di più", spiega Gioia Cesarini Passarelli, Presidente di "A Roma, insieme", che dal 1994 si occupa di donne detenute con figli al seguito. Nella Capitale l’ICAM, per ora, non esiste e l’obiettivo di questa associazione, che da più di 20 anni segue i bambini reclusi prima e dopo il carcere, cerca di eliminare i danni che quell’esperienza può aver provocato in questi piccoli. "I primi tre anni di vita del sono fondamentali per la crescita e la formazione di una persona. Passarli all’interno di una struttura carceraria, dove la libertà è limitata, è una condizione di costrizione che può danneggiare il bambino, come ci spiegano gli psicologi: i piccoli, in quei tre anni, devono sperimentare e imparare a conoscere il mondo esterno", continua Passarelli. Secondo la presidentessa, il rapporto che si crea tra madri e figli in quella circostanza è molto complicato: "C’è un taglio netto dei rapporti con il resto della famiglia, ammesso che ci sia. Si tratta di una situazione anomala che la mamma vive con profondi sensi di colpa e con rabbia. Allo stesso tempo, però, le detenute vedono in quel figlio l’unica cosa che gli appartiene ancora. Ciò che le anima è poter accudire i loro piccoli". Una giornata normale - Ogni sabato, dalle 9 alle 17, i volontari dell’associazione, con il permesso delle madri, che all’inizio si dimostrano molto reticenti, portano i piccoli fuori dalla struttura: "La sorpresa dei bambini, la prima volta che escono, è grande perché quello fuori è un mondo assolutamente sconosciuto. All’inizio piangono perché hanno paura di essere sottratti alle madri, ma dopo qualche uscita, invece, non vogliono più rientrare in carcere" racconta Passarelli. L’associazione romana si è accordata con il Municipio a cui fa riferimento il carcere di Rebibbia perché consenta agli asili nido del quartiere di ospitare un bambino detenuto: "Cerchiamo, in questo modo, di non ricreare un ghetto: i bambini hanno bisogno di confrontarsi con gli altri, di vivere una giornata normale, in una scuola normale, non essere isolati tra figli di donne nella stessa condizione", spiega Passarelli. Nessuna etichetta - A Milano, l’associazione C.I.A.O. Onlus, nata nel 1995, mette a disposizione tre alloggi per l’autonomia destinati a mamme detenute con i loro figli e si prende cura di loro, fornendo medicinali, cibo e visite mediche: "Loro non hanno nulla e noi provvediamo a loro", racconta Andrea Tollis, direttore della struttura "qui facciamo di tutto per rendere la vita dei bambini il migliore possibile, ma non sarà mai uguale a quella di un bimbo con la madre libera in esterno, perché si tratta di un contesto limitato e viziato da tanti aspetti che, nonostante si cerchi di attenuarli, non si possono del tutto eliminare". Il direttore, tracciando i profili delle detenute, spiega quanto la vita di queste donne le abbia messe alla prova in molte circostanze: "Non le etichettiamo in base al reato che hanno commesso, posso dire però che, nonostante tutto, dimostrano di avere competenze con i figli e fanno tutto il possibile per loro". Spesso, però, i bambini presentano forti difficoltà in termini psicologici: "Non è improbabile che si debba contattare il servizio di neuropsichiatria, un po’ per la loro storia pregressa, un po’ perché hanno dovuto condividere la detenzione con la madre", spiega Tollis. "Serve una nuova legge" - Le donne che vivono negli alloggi di C.I.A.O. Onlus presentano un livello di istruzione molto basso, se non addirittura nullo. A volte, non sanno scrivere nemmeno il loro nome, né lo sanno leggere: "Spesso straniere, hanno sviluppato un forte senso di sopravvivenza che mi colpisce: nonostante le complessità e le prove a cui sono state sottoposte, sanno cavarsela con i loro piccoli". Le ripercussioni sui bambini sono tante, perché crescere in un contesto detentivo influenza il loro futuro. "Il carcere non è una comunità per minori: è innanzitutto un luogo dove centrale è il detenuto, la pena e la sua condanna. Non il minore che segue la madre perché ha diritto a stare con lei", spiega Tollis. "Il diritto del bimbo di stare con la madre non è conciliabile con la permanenza in carcere: vorrei una nuova legge che garantisse ai piccoli di stare con la madre e che lei potesse scontare all’esterno la sua pena". Al carcere anche i bambini "si abituano" - "I bambini, il carcere, lo chiamano prigione. Perché è più semplice. Quando crescono, per loro, quel posto rappresenta un luogo dove stanno gli adulti che sbagliano", spiega Lia Sacerdote, presidente dell’Associazione Bambini Senza Sbarre, che si occupa, invece, di accompagnare i figli dei detenuti nel percorso di visita settimanale. "Al carcere ci si abitua, lo si subisce, ed è, di fatto, un adattamento a una situazione anormale: penso che non dovrebbero esserci più bambini detenuti nelle carceri, perché si tratta di una condizione di restrizione totale, sicuramente non adatta a dei piccoli che si affacciano alla vita. E non hanno nessuna colpa". Un percorso difficile - Il percorso delle vite delle madri detenute è faticoso. Prima, durante e dopo il carcere. Alcune lasciano lì il dolore della tratta. Altre la rabbia delle tante violenze subite. Scontata la pena, provano a rimettere insieme pezzi delle loro vite, ma non sempre ci riescono. Spesso vengono lasciate sole. O se ne vanno. Altre ritornano dietro le sbarre, perché ci sono ricascate. Questa volta, però, sole. Perché i figli sono diventati grandi. Nel decennio più sicuro la "gente" vive nel terrore di Simona Musco Il Dubbio, 18 marzo 2017 L’80% degli italiani è convinta che ci sia un’emergenza sicurezza. Ma i dati dicono altro. Lo stato d’animo degli italiani è chiaro: il Paese si sente poco sicuro. A raccontarlo è un sondaggio Ixè, presentato ad Agorà, secondo il quale il 79% degli intervistati percepisce un’emergenza sicurezza in Italia. Il 19%, invece, non ritiene ci sia nulla da temere. Il sondaggio è stato realizzato su un campione di 1.000 soggetti maggiorenni (su 9.239 contatti complessivi), di età superiore ai 18 anni. Un campione che racconta un punto di vista degli italiani sulla situazione del paese, ritenuta a rischio terrorismo e stretta nella morsa della criminalità organizzata. Ma i dati diffusi dal Viminale raccontano un’altra storia. Ne- gli ultimi anni i delitti sono infatti crollati. Se poi consideriamo un passato più remoto e arriviamo agli anni 90, ci accorgiamo che gli omicidi sono passati dagli oltre 1.000 del 1991, 1992 e 1993, ai 468 del 2016. E proprio nel 2016, secondo il ministero dell’interno, si è ridotto non solo il numero di omicidi, ma anche quello delle rapine, delle violenze sessuali, dei furti e delle estorsioni. Rispetto all’anno precedente i reati "generali" sono scesi del 16,2 per cento, passando da un milione e 347mila a un milione e 129mila. "Il nostro Paese può essere considerato sicuro", aveva evidenziato l’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano, analizzando i dati emersi dal Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica che si è tenuto stamani. "Gli investimenti per la sicurezza crescono, il contrasto alla criminalità organizzata ha ottenuto importanti risultati sia sul piano della cattura dei latitanti che del sequestro dei beni", aveva aggiunto. Sono stati ottantacinque gli estremisti per terrorismo islamico arrestati e 110 i foreign fighters monitorati. Secondo la relazione del Viminale pubblicata lo scorso 9 febbraio, "in Italia, nel corso degli ultimi anni (20082015), il totale generale dei delitti ha mostrato un trend altalenante, in quanto, alle flessioni del 2009 e 2010 ha fatto seguito un incremento nei tre anni successivi; il valore è nuovamente diminuito nel 2014 e nel 2015, anno, quest’ultimo, che ha fatto registrare un decremento del 4,47% rispetto a quello precedente". Gli omicidi volontari, che erano 249 nel primo semestre del 2015, nei primi sei mesi del 2016 sono scesi a 196 (21,3%), le violenze sessuali sono passate da 1982 a 1579. Oltre il 20 per cento in meno anche di rapine, passate da 1563 a 1200. Scese pure le estorsioni (4401 nel 2016 contro le 4937 del 2015), l’usura (167 contro 212), i furti (636mila contro 730mila). Netta diminuzione anche dei furti in abitazione (da 109mila a 90mila). Ciò, però, non ha influito sulla percezione del rischio criminalità in Italia. I dati Istat diffusi a dicembre scorso, infatti, raccontano che il 38,9% delle famiglie italiane indica il rischio di criminalità come un problema presente nella zona in cui abitano (30,0% nel 2014). Nel Lazio una famiglia su due percepisce tale rischio (50,0% delle famiglie), seguono Veneto (45,7%), Emilia- Romagna (45,5%) e Lombardia (44,3%); quest’ultima occupava la prima posizione nel 2014 con il 37,2%. La Campania si trova in quinta posizione, come nel 2014, ma la quota di famiglie è ben superiore (43,5% contro 33,3%). Le ragioni? Nonostante il calo dei reati, sono aumentati quelli più percepiti dai cittadini, come furti in casa, borseggi, scippi e così via. Insomma, la microcriminalità è socialmente più avvertita della macro-criminalità. E anche i media ci mettono lo zampino: giornali e talk show, negli ultimi anni, hanno enfatizzato l’allarme sulla sicurezza, distorcendo la realtà e alimentando una percezione distorta dell’insicurezza, sia dal punto di vista quantitativo sia per le cause che la originano. Legittima difesa, si accende il dibattito. Orlando: "no al fai-da-te come negli Stati Uniti" di Alessandra Gavazzi Gente, 18 marzo 2017 "Opporsi a un aggressore in casa propria non deve essere mai un reato", dice l’avvocato Bongiorno. Ma il senatore Manconi: "è inaccettabile non indagare sull’omicidio di una persona". Mario Cattaneo, 67 anni, titolare dell’Osteria Dei Amis, mostra ferita e lividi sul braccio, frutto della colluttazione con il ladro che avrebbe poi ucciso con un colpo che, dice, è partito per sbaglio. "Ho tre nipoti che dormivano lì accanto, ho pensato a difenderli". Sotto, il sopralluogo dei carabinieri. Un rumore sordo nella notte, il sonno che si interrompe di colpo, il terrore dell’irruzione dei ladri. "Avevo tre nipotini che dormivano in casa. Ho pensato a loro". Mario Cattaneo, lodigiano, professione oste, imbraccia il fucile da caccia. Non può sapere che il bottino di quell’intrusione nel suo ristorante, accanto alla sua casa, alla fine ammonterà a 60 euro e a poche stecche di sigarette. Niente in confronto al bilancio finale di quella notte violenta: la morte di Petre Ungureanu, uno dei rapinatori. Raggiunto, dice l’autopsia, da un proiettile alla spalla esploso a distanza ravvicinata mentre fuggiva. "Abbiamo lottato, stavo cadendo, il colpo è partito per sbaglio", si difende Cattaneo. "Quello che è accaduto non è così chiaro come sembra", ha ribattuto però il procuratore capo di Lodi Domenico Chiaro. "Dalle prime ricostruzioni sembra che non stessero entrando i banditi, ma che sia stato lui ad andare a cercarli con il fucile caricato. La legittima difesa ha limiti, non c’è licenza di uccidere". L’inchiesta è solo all’inizio anche perché l’accusa contro Cattaneo è quella, pesantissima, di omicidio volontario. Ma al di là di quanto accaduto a Lodi, la vicenda anche umana dell’oste ha riaperto un eterno dibattito. All’interno del quale ritornano altri casi analoghi sui quali opinione pubblica e politica si sono divise. Come quello di Francesco Sicignano, subito accorso da Cattaneo a portare solidarietà. È lui il pensionato che nel 2015 a Vaprio d’Adda sparò a un rapinatore: per quella morte, fu lo stesso pm di Milano Antonio Pastore a chiedere l’archiviazione dopo un’indagine lunga mesi. "Serve una nuova legge", ha detto poi ai giornalisti Sicignano, che nel frattempo si è esposto anche politicamente candidandosi alle elezioni per il Comune di Milano nelle liste di Forza Italia. Serve davvero una nuova norma? "Con il "fai da te" lo Stato si delegittima e questo non è un be- ne", ha detto il ministro della Giustizia Andrea Orlando. "La sicurezza non può essere delegata ai privati". "La difesa è sempre legittima", ribatte il governatore della Lombardia Roberto Maroni. "Spero in un ravvedimento della procura nel prosieguo dell’indagine e spero che l’oste non venga neanche sottoposto a procedimento penale". Due fronti opposti. "Sono dell’opinione che la legge vada bene così com’è perché, come è giusto, affida al magistrato la responsabilità di valutare se, nell’attuare il principio di legittima difesa, si sia incorsi o meno in un eccesso", spiega a Gente il senatore del Pd Luigi Manconi, conosciuto da sempre per le sue battaglie di garantismo. Di opinione perfettamente contraria è l’avvocato penalista Giulia Bongiorno. "Questa legge è preistorica e inaccettabile. È stata elaborata quando i nuclei familiari erano composti da molti soggetti in grado di opporre resistenza a un possibile aggressore, mentre ora spesso siamo di fronte a famiglie composte anche solo da due persone. Persone dalle quali si pretende, prima di reagire, una sorta di indagine per capire se il pericolo costituito dal ladro è imminente e se esistono modalità poco offensive per bloccarlo". L’avvocato punta il dito anche sulla sicurezza. "Rispetto a qualche anno fa è peggiorata e la percezione che si ha è di un totale abbandono da parte dello Stato che non solo non fa nulla per difendere il cittadino, ma gli impedisce persino di difender- si da solo. Così l’aggredito che si oppone finisce sul banco degli imputati, il malvivente tra amnistie e "svuota carceri" sa di non rischiare nulla". La soluzione, secondo la penalista con un passato da deputato per Alleanza nazionale, è radicale. "Se un soggetto entra in casa altrui per rubare o violentare implicitamente accetta il rischio di essere ucciso. Chi vive in quell’abitazione deve avere il diritto di aprire il fuoco. Se il diritto di reazione fosse legge avrebbe tra l’altro in automatico un effetto deterrente". In altri Paesi, per giustificare la difesa della vittima è sufficiente lo stato di ansia o paura. "Certo. Non si tratta di abbassare la pena per chi uccide il ladro, ma di evitare che esista un reato per chi reagisce contro un aggressore a casa propria", conclude l’avvocato. Il punto sul quale si sofferma Manconi, ma con una visione contraria. "In presenza di una persona uccisa non si può neanche immaginare che non vengano condotte indagini", argomenta il senatore. "Sarebbe una pretesa primitiva e pre-moderna. La morte non naturale di una persona rompe l’ordine delle cose e obbliga a indagare sulle circostanze in cui è avvenuta. Se è stata una disgrazia si indaga, il responsabile di quella morte purtroppo andrà indagato per poi essere prosciolto, archiviato, assolto. Ma mai preventivamente assolto. Non esiste in alcuno Stato contemporaneo. Persino dittatoriale, figuriamoci democratico". L’apologia di reato e la libertà di parola di Sarantis Thanopulos Il Manifesto, 18 marzo 2017 Se l’Italia fosse ancora un paese di "diritto", nel senso nobile del termine, uno come Matteo Salvini non dovrebbe essere a piede libero. Invece, va indisturbato in giro a lanciare provocazioni sempre più gravi, in virtù della "libertà di parola", che applicata al suo caso diventa un guscio vuoto. Un ristoratore a Lodi ha reagito a un tentativo di furto nel suo locale, sparando ai ladri e uccidendone uno, colpito alle spalle. Dopo una colluttazione, i ladri stavano abbandonando la loro impresa criminale. L’avvocato dell’uccisore, indagato per omicidio volontario, gli ha consigliato, con prudenza che sa di giurisprudenza, di dichiararsi costernato per l’accaduto. Atto propedeutico a definire non intenzionale l’atto omicida, a riferirlo alla particolarità del suo stato emotivo: lo shock per l’aggressione ai suoi beni avrebbe interferito con la sua valutazione della situazione offuscandola. Il legale ha cercato di circoscrivere la difesa del suo cliente nell’ambito delle possibilità consentite dalla legge: l’omicidio preterintenzionale e l’eccesso di legittima difesa. Ai giudici la responsabilità di stabilire la definizione del reato e la pena giusta. Matteo Salvini, che della legge se ne sbatte allegramente -visto che gli è, altrettanto allegramente, concesso- è di un altro avviso. Per lui la giustizia si amministra in piazza nei suoi comizi. Uccidere un ladro disarmato, che non costituisce un pericolo per la nostra vita, è, secondo il codice penale leghista, "legittima difesa". Un’impresa encomiabile, non un atto legalmente punibile. Le affermazioni di Salvini (che si è fatto fotografare trionfante con il ristoratore dopo l’omicidio) non sono un’interpretazione palesemente fallace della legge: si costituiscono come apologia di reato, rappresentano un’istigazione all’omicidio indiscriminato, a una pena di morte amministrata personalmente nei confronti di chi minaccia la nostra proprietà privata. Solo se si tratta di un immigrato, questo va da sé. Se l’Italia fosse ancora un paese di "diritto", nel senso nobile del termine, come ci compiacciamo pensare, uno come il capo della Lega non dovrebbe essere a piede libero. Invece, va indisturbato in giro a lanciare provocazioni sempre più gravi, in virtù della "libertà di parola", che applicata al suo caso diventa un guscio vuoto. Le parole in libertà mirate a creare un stato emotivo di massa che agisce come forza prevaricatrice, creando sopraffazione, nulla hanno in comune con la libertà d’espressione. Sono strumenti di manipolazione che minano l’ordinamento democratico e dovrebbero essere sanzionati con tutto il rigore necessario. Di tutte le cose che giacciono sotto il cielo, la cosa più pericolosa è la stupidità umana. È di natura emotiva, non si misura con il Q.I. Insegue l’ottundimento del sentimento d’incertezza e abolisce le variazioni dell’esperienza. Il suo obiettivo è la stabilità psichica in se stessa, la semplificazione assoluta del vivere. Il realismo ne è la vittima più illustre. Rivendicare il diritto di difesa personale con le armi, serve solo a affermare il potere del più spregiudicato, che capita essere il più pazzo. Pensare di poter fermare il processo di globalizzazione alle soglie delle proprie case, invece di cercare di governarlo, serve solo a farsi travolgere. La coltivazione di stupidità non rientra nella libertà d’espressione perché sfocia inevitabilmente nell’attacco ai diritti umani fondamentali (la differenza, la parità e la fraternità). Fa parte della stupidità umana pensare che le consultazioni elettorali e persino i sondaggi d’opinione possano contraddire i diritti fondamentali, come se il traffico su un ponte potesse fare a meno dei pilastri che lo sorreggono. È viltà verso la stupidità umana rifugiarsi nello spirito di tolleranza: un modo sicuro per esserne sommersi. Combatterla -prima che diventi tsunami- è previdenza (meglio della divina provvidenza). Procuratori e Csm pressano Minniti: "Via l’obbligo di svelare le indagini" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 18 marzo 2017 Incontro a Palazzo dei Marescialli con i capi degli uffici: sono tutti con Spataro. Il Ministro verrà invitato dal plenum a correggere la norma che costringe la polizia giudiziaria a informare le scale gerarchiche sugli sviluppi delle inchieste giudiziarie. La prima delle due giornate di consultazioni al Csm con i capi delle Procure, coordinata dalla settima commissione presieduta dal togato Claudio Galoppi, doveva essere dedicata alla raccolta di osservazioni e proposte in vista dell’emanazione della nuova circolare sugli uffici inquirenti. Obiettivo: come organizzare al meglio il lavoro al fine di corregge l’eccesso di gerarchizzazione al momento esistente. Tema centrale invece è stato il decreto legislativo 177 del 2016 che obbliga le forze di polizia a inoltrare le informative di reato alla propria scala gerarchica "indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale" in materia di segreto d’indagine. La ratio della norma, inserita all’interno del provvedimento con cui il governo ha disposto lo scioglimento del Corpo forestale dello Stato e il suo assorbimento nell’Arma dei Carabinieri, sarebbe quella di "evitare duplicazioni e sovrapposizioni" nelle conduzione delle indagini. Ma la misura ha sollevato fin da subito molte critiche e perplessità. Il primo a intervenire è stato il Procuratore di Torino Armando Spataro che sul punto ha emanato lo scorso febbraio una direttiva indirizzata a tutti i vertici delle Forze di polizia della provincia di Torino. La premessa di Spataro è che non tutti i componenti delle forze di polizia sono ufficiali e agenti di polizia giudiziaria. Lo sono fino al grado di colonnello per i corpi militari, primo dirigente per quelli ad ordinamento civile. La logica del legislatore dell’epoca era quella di "sottrarre" al controllo della magistratura il Questore e il Generale dei Carabinieri. Attualmente, per restare all’Arma, i comandi periferici informano la propria scala gerarchica attenendosi a quanto indicato in una pubblicazione dal titolo "Guida per le segnalazioni", dove ogni comunicazione deve sempre attenersi agli obblighi previsti dal codice di proceduta penale. La previsione del coordinamento investigativo, poi, è attuata dal pubblico ministero ai sensi dell’articolo 327 del codice di rito. Entrambe le disposizioni sarebbero, dunque, superate dall’articolo 18 del decreto legislativo dell’anno scorso. Proprio per cercare di correggere questi aspetti, i sostituti dovranno indicare al procuratore Spataro quali sono le indagini che non dovrebbero essere comunicate alla scala gerarchica. In caso non sia possibile aderire alla richiesta di preservare il segreto investigativo da parte delle Forze di polizia, Spataro ha già previsto nella circolare che presenterà ricorso per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato. La circolare ha avuto l’avallo di tutti i 26 procuratori distrettuali che hanno partecipato al primo incontro. Il prossimo è fissato per il 24 marzo. Il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini ha spiegato che il nodo sarà discusso in un successivo plenum in cui interverrà anche il ministro dell’Interno Marco Minniti. Roberti (Procuratore Antimafia): "i magistrati in politica non tornino indietro" agensir.it, 18 marzo 2017 "Non ho nulla contro i magistrati che scelgono di passare in politica, ma dovrebbero non tornare più nell’attività giurisdizionale una volta finita la vita politica, tornando nel settore pubblico e nella pubblica amministrazione, con ruoli diversi da quelli di giudice o pubblico ministero". Lo ha detto il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, in un’intervista a "Soul", il programma-intervista di Tv2000 condotto da Monica Mondo in onda sabato 18 marzo alle ore 12.15 e alle 20.45 in occasione anche della Giornata per le vittime della mafia che si celebra il 21 marzo. "Non scenderei mai in politica - ha rivelato Roberti - non ho mai pensato a farlo. Ho molto rispetto per la politica, è la più nobile delle attività umane quando è volta al bene comune e dei cittadini. Quando ha interessi personali, di gruppo o di lobby, invece, è la più bassa. La gente ha questa percezione, ma ho conosciuto tanti esponenti politici che sono persone veramente intenzionate a ben operare nell’interesse dei cittadini. Spesso prevalgono le logiche dei partiti, di gruppo, di appartenenza o quelle mafiose. Questo inquina la vita politica, come quella civile, l’economia e il mondo delle professioni. Bisogna combattere contro tutto questo". "Bisogna distinguere caso per caso - ha sottolineato Roberti - le situazioni di sovrapposizione tra legge e giustizia. I magistrati hanno giurato fedeltà alla Costituzione: siamo chiamati a tutelare i diritti di tutti i cittadini che è l’essenza dell’attività giurisdizionale. I magistrati non si sostituiscono al legislatore, ma cercano di raccogliere la domanda di giustizia che proviene dai cittadini. Credo che in un rapporto di reciproca e leale collaborazione i magistrati devono anche dare indicazioni al legislatore, quando non interviene a dovere prima, senza fare qualcosa di creativo ma in una interpretazione estensiva non spinta da ideologie". Caso Ilaria Alpi, mamma Luciana: "giustizia incapace, mi arrendo" La Repubblica, 18 marzo 2017 "Ho deciso di astenermi d’ora in avanti dal frequentare uffici giudiziari, ma vigilerò contro ogni altro tentativo di occultamento", dice la madre della giornalista uccisa in Somalia nel 1994 insieme al collega Miran Hrovatin. Ventitre anni dopo la morte di sua figlia, Luciana Alpi dice basta: rinuncia, getta la spugna, distrutta dal muro sollevato sull’omicidio di sua figlia Ilaria, la giornalista uccisa in Somalia il 20 marzo del 1994. "Ho deciso di astenermi d’ora in avanti dal frequentare uffici giudiziari e dal promuovere nuove iniziative. Non verrà però meno la mia vigilanza contro ogni altro tentativo di occultamento", dice. Non è solo il "dolore", a fermarla, ma anche "l’umiliazione di formali ossequi". È una rinuncia, ma è anche e soprattutto una denuncia: "Con il cuore pieno di amarezza, come cittadina e come madre - dice Luciana Alpi alla vigilia della ricorrenza del ventitreesimo anniversario dell’omicidio di sua figlia - ho dovuto assistere alla prova di incapacità data, senza vergogna, per ben ventitré anni dalla Giustizia italiana e dai suoi responsabili, davanti alla spietata esecuzione di Ilaria e del suo collega Miran Hrovatin". "Al dolore - continua Luciana - si è aggiunta l’umiliazione di formali ossequi da parte di chi ha operato sistematicamente per occultare la verità e i proventi di traffici illeciti. Da ultimo, dopo la sentenza della Corte d’Appello di Perugia mi ero illusa che i nuovi elementi di prova inducessero la Procura della Repubblica ad agire tempestivamente per evitare nuovi depistaggi e occultamenti". Un’illusione, appunto: "Non posso tollerare ulteriormente - prosegue la madre della giornalista assassinata - il tormento di un’attesa che non mi è consentita né dall’età né dalla salute. Per questo motivo ho deciso di astenermi d’ora in avanti dal frequentare uffici giudiziari e dal promuovere nuove iniziative". Le diverse solitudini dell’Italia senza giustizia di Pierangelo Sapegno La Stampa, 18 marzo 2017 Non esiste una sola solitudine, questa è la verità. Mentre Luciana Alpi, la mamma di Ilaria, la giornalista trucidata 23 anni fa in Somalia, dichiara di aver deciso "di astenermi d’ora in avanti dal frequentare uffici giudiziari", dopo aver assistito per alle prove di incapacità della Giustizia, nello stesso giorno Paolo Bolognesi, presidente delle famiglie delle vittime del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, annuncia di aver appena presentato "l’atto di opposizione alla richiesta di archiviazione dell’indagine sui mandanti alla strage di Bologna". I quattro pm dell’inchiesta avevano fatto sapere che non c’era possibilità di trovare i responsabili più in alto degli esecutori. "Non ci arrendiamo e continueremo a combattere", dice Bolognesi. Di fronte alla stessa rinuncia, due reazioni opposte. Ma perché si tratta di due solitudini profondamente diverse. Nella lingua inglese la parola solitudine ha due versioni: si dice solitude per esprimere la scelta di essere soli, e loneliness per significare una condizione sofferta e non scelta. Il nostro vocabolario è sbagliato, perché davvero la solitudine può essere una condanna o una conquista. Bolognesi e gli altri familiari sono stati costretti a sceglierla e sono riusciti a farlo anche grazie alla forza del gruppo, che li ha resi meno soli soltanto in apparenza. La solitudine non è fatta di numeri. Perché molto peggio di essere soli è stare con persone che ti fanno sentire soli. Benché sconfitti da anni interminabili di depistaggi e inchieste corrose, i familiari hanno trovato la forza di continuare a combattere nella loro disperazione. Ma hanno potuto farlo. La mamma di Ilaria Alpi no. La solitudine è molto più dolorosa quando ti accorgi di non contare niente per nessuno. E forse nelle sue parole così dolenti c’è proprio questa consapevolezza: "Al dolore si è aggiunta l’umiliazione di formali ossequi da parte di chi ha operato sistematicamente per occultare la verità e i proventi di traffici illeciti. Non posso tollerare ancora il tormento di un’attesa che non mi è consentita né dall’età né dalla salute". Non è la rinuncia alla verità. Ma la sua sconfitta. Ci sono solitudini che contengono tutte le solitudini vissute e tutte le sconfitte accumulate negli archivi della nostra sofferenza. Se non possiamo fermarci nell’indistinto crepuscolo che non conosce vittorie e sconfitte, se l’esistenza ci ha portato a questo bivio, forse non ci resta altro da fare. Perché abbiamo incontrato la peggiore delle solitudini. Diceva Robin Williams: "Pensavo che la cosa peggiore nella vita fosse restare solo. No, non lo è. Ho scoperto che la cosa peggiore è quella di finire con persone che ti fanno sentire veramente solo". Perché non prendiamo ad esempio il sistema carcerario svedese? di Raffaele Gaetano Crisileo (Avvocato) Cronache di Napoli, 18 marzo 2017 Mentre nel nostro Paese le carceri scoppiano ed i diritti dei detenuti sono duramente messi alla prova per mancanza di spazio nelle carceri, la Svezia, da vari decenni, ha adottato un sistema punitivo, riducendo al massimo la pena detentiva ed ampliando le forme alternative. Entrando in una prigione svedese potreste anche non accorgervi di essere in un istituto di pena. Specie nelle fasi avanzate della detenzione vedrete detenuti che escono per recarsi a lavoro o per studiare, indossando i propri vestiti. Alcune celle somigliano più a stanze di campus universitari con televisori a schermo piatto, cellulari e mini-frigo. Niente impenetrabili barriere, né condizioni punitive inflitte al solo scopo di rispondere al bisogno di giustizia delle vittime. Non fosse per le sbarre - ma anche quelle non sempre ci sono - sembrerebbe più la stanza di uno studente che una cella vuota. In tale contesto, il legislatore svedese, contrariamente al nostro, ha privilegiato le forme di pene alternative alla detenzione, ritenendo il carcere l’ultima spiaggia e la estrema ratio. In buona sostanza il trattamento della pena, nell’ordinamento svedese, è progressivo e, quindi, man mano essa va a scomparire, soprattutto quando il detenuto dimostra, in modo chiaro ed inequivocabile, di avere la volontà di inserirsi nel tessuto sociale. In Svezia vi sono istituti carcerari chiusi ed istituti aperti. In quelli aperti manca una legge autoritaria e viene lasciato ampio spazio di libertà per recuperare il cittadino condannato. Abbiamo detto che il sistema punitivo svedese è progressivo e pensate che sono addirittura gli stessi carcerati che controllano, durante la notte, se tutto procede secondo regolamento, mentre il personale dell’istituto arriva al mattino per il proprio lavoro. In altri istituti, completamente aperti, i detenuti lavorano in libertà e trascorrono all’interno solo il tempo libero e la notte, mentre per il week end si recano a casa dalle proprie famiglie. Ovviamente è il Giudice che stabilisce dove un detenuto deve essere ospitato. In buona sostanza se la condanna supera i tre mesi di carcere, almeno la prima parte di essa viene espiata in un istituto chiuso. Successivamente, quando il detenuto dimostra di avere un comportamento responsabile viene spostato in una struttura aperta. In definitivo il trattamento rieducativo viene effettuato sulla base dei risultati raggiunti. Pensate che in Svezia è previsto un istituto carcerario ogni cinquanta detenuti ed un personale, nell’istituto stesso, con un rapporto di 2 a 1: per ogni due detenuti, vi è un operatore. Il detenuto, nel tempo libero, insieme al trattamento di reinserimento, svolge un lavoro retribuito. E, alla fine, abbiamo quasi un sogno che in Svezia si realizza: quando il detenuto ha finito di espiare la pena viene affidato ai sindacati che lo aiutano ad inserirlo nel mondo del lavoro. Ecco perché il termine evasione, in Svezia, è desueto e il sistema scandinavo, in tema di statistiche, non supera il 20% di reclusi che hanno tentato di evadere da un istituto di pena. Non ci permettiamo di fare il raffronto con i nostri dati o addirittura con quelli di tentato suicidio o di suicidio dovuto al malessere dei detenuti nelle carceri italiane che soffrono per tanti motivi, ma anche per il problema del sovraffollamento nelle celle. Non c’è stato nessun bisogno di indulto in Svezia, né di misure d’emergenza per sfoltire i detenuti. Mentre l’Italia, su tale problematica, è in stato di forte impasse per l’affollamento in cella, la Svezia attua una politica di recupero e di reinserimento sociale. La giustizia svedese invia sempre meno persone in galera, nonostante la criminalità sia piuttosto in aumento, concentrandosi essenzialmente sul braccialetto elettronico e la libertà vigilata. "Ecco perché, secondo noi, l’Italia dovrebbe emulare la Svezia dove il motto del sistema carcerario scandinavo - leggevo su un’autorevole rivista - è da circa cinquanta anni "non gestiamo delle punizioni": concetto difficilmente importabile nel nostro sistema dove vi è ancora l’amministrazione penitenziaria". Da ultimo dobbiamo segnalare che la Svezia ha lentamente smesso di spendere denaro nell’edilizia carceraria, investendoli in progetti di recupero dove quel governo, per fini educativi, ha inserito tanta gente che ha sbagliato. " Del resto - si chiedeva l’autore di quell’articolo di cui purtroppo non ricordo il nome - che senso riparatorio può mai avere per la società la reclusione d’uno spacciatore di droga o d’un rapinatore? " Concetto, questo, che condividiamo in pieno. Quindi occorre, in definitiva, un sistema detentivo che si fondi essenzialmente sulla riabilitazione e sul reinserimento sociale. É il modello svedese che, numeri alla mano, dimostra che senza indulti o svuota carceri si può risolvere il problema di reiterazione del reato, una volta che il detenuto si uscito dal carcere. È quanto accade in Svezia, dove il numero dei detenuti diminuisce. Pensate che a novembre scorso la Svezia ha deciso di chiudere quattro istituti perché il numero dei carcerati è sceso dell’1 per cento annuo. Ed allora se la criminalità esiste, deve esistere non solo la certezza della pena, ma anche il reinserimento del carcerato altrimenti il problema carcere si ripeterà all’infinito. Gran parte - come avviene in Svezia - dovranno fare anche le associazioni di volontariato, formate da ex-detenuti, che devono mettere a disposizione un’efficace rete di supporto per chi entra o esce dal carcere, provvedendo non solo a una costante supervisione, ma garantendo programmi di trattamento. Ecco la ricetta vincente svedese. E perché non la adottiamo anche in Italia? Verona: boom di adesioni alla giustizia di comunità volontariatoggi.info, 18 marzo 2017 Nel giugno 2011 la prima convenzione tra il Csv, Centro Servizio per il Volontariato e il Tribunale di Verona che permetteva la possibilità da parte dell’imputato di commutare la pena detentiva in ore di lavoro socialmente utile. Un progetto sperimentale, 11 realtà accoglienti per un totale complessivo di 14 posti, destinato in pochi anni a segnare un vero e proprio boom di richieste. Nel 2016, gli enti accoglienti sono stati 53 tra cui 34 Organizzazioni di Volontariato, 2 cooperative, 15 enti non profit, una fondazione e un’impresa sociale. Un dato più che raddoppiato rispetto al 2015. Le persone che durante lo scorso anno hanno iniziato la propria attività socialmente utile sono state poco meno di 200: 197. Le ore di servizio svolte da gennaio a dicembre hanno sfiorato quota 12mila assestandosi a 11.443. Si tratta di una media di oltre 30 ore al giorno, festivi compresi, svolti in vari ambiti del Terzo settore; dal socio-sanitario e assistenziale alla tutela dell’ambiente, dal culturale e ambientale alla protezione civile e alla cooperazione internazionale. Molteplici sono state anche le attività svolte nelle associazioni che hanno spaziato dal supporto a disabili e anziani a servizi di manutenzione, giardinaggio, pulizie e mensa ma non solo. Le persone impiegate nei Lavori di pubblica utilità, Messa alla prova e Attività volontaria in alternativa alla detenzione - questi i tre ambiti in cui si articola la Giustizia di comunità - si sono occupate di trasporto di anziani e disabili, lavoro di segreteria, aggiornamento sito web, inserimento dati su supporti informatici, laboratori creativi e manuali. La testimonianza - Tra le 197 persone che hanno iniziato nel 2016 il proprio percorso di Giustizia di Comunità anche Gianfranco, classe 1962, consulente, che ha svolto Lavori di pubblica utilità in un’associazione di volontariato che offre servizi di accoglienza e di ascolto per le giovani sole e vittime di violenza o semplicemente un appoggio materiale e morale a tutte le donne in difficoltà che gravitano sul territorio. "È stato molto positivo avere questa possibilità: un’esperienza formativa che mi ha lasciato molto più di quanto avrebbe lasciato una semplice pena inflitta, anche solo pecuniaria. In associazione, ho svolto più che altro lavori di piccola manutenzione della struttura che ospita queste donne ma ho comunque avuto la preziosa possibilità di capire concretamente le problematiche sociali, conoscere le realtà di volontariato che si fanno carico di dare risposte adeguate ai bisogni sociali. Decisamente più utile dello scontare e subire una pena in modo passivo", racconta Gianfranco. Un iter virtuoso, dunque, non solo per le persone che scelgono questa modalità solidale per regolare i propri sospesi con la legge ma anche per le stesse realtà solidali che possono contare su questi nuovi "volontari". Eppure non sempre semplice. "Da quando il Csv ha stipulato la prima convenzione con il Tribunale di Verona, circa 6 anni fa, questo ambito si è molto ampliato e le richieste hanno registrato un iter crescente", spiega Chiara Tommasini, presidente del Csv. "Dati molto positivi ma che comportano, data la delicatezza del tema e il giusto rigore con cui deve essere trattato, un grosso lavoro che quotidianamente portiamo avanti con impegno, mettendo la competenza dei nostri consulenti a servizio delle Organizzazioni di volontariato" Alessandria: telecamere guaste in carcere, detenuto ne approfitta e scappa La Repubblica, 18 marzo 2017 L’evaso è un cittadino albanese di 35 anni con "fine pena" nel 2024: stava facendo le pulizie accanto al muro di cinta. Il sindacato Sappe: "Fuga annunciata, colpa del regime di vigilanza attenuata". Un detenuto di origine albanese di 35 anni è evaso dal carcere San Michele di Alessandria, dove era detenuto in regime di semilibertà con "fine pena" nel 2024. È successo stamattina: secondo una prima ricostruzione l’uomo avrebbe approfittato di un problema tecnico alle telecamere della videosorveglianza poste lungo la recinzione mentre effettuava alcuni lavori di pulizia nell’area tra il muro di cinta e il parcheggio davanti al carcere. Immediate le ricerche delle forze dell’ordine, che hanno allestito posti di controllo in tutta la provincia e diramato la foto segnaletica dell’uomo, che ha numerosi reati alle spalle. "Questa ennesima evasione da un carcere è sintomatica dello smantellamento delle misure di sicurezza delle carceri italiane, avvenuta con l’introduzione della vigilanza dinamica e del regime penitenziario aperto" denuncia Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe: "Anche in questo caso - spiega Capece - l’evaso, un cittadino albanese con fine pena 2024, era addetto alle pulizie dei locali ed è stato sicuramente favorito dal fatto di avere un controllo più attenuato. Ma chi lo ha ritenuto affidabile e quindi idoneo al lavoro? Da quando c’è la vigilanza dinamica, che riduce la presenza dei poliziotti nelle sezioni detentive a favore di un regime penitenziario aperto, ossia i detenuti fuori dalle celle per più ore, la situazione è allarmante. Ora bisogna catturare l’evaso, ma contiamo ogni giorno gravi eventi critici nelle carceri italiane, episodi che vengono incomprensibilmente sottovalutati dall’amministrazione penitenziaria. Ogni 9 giorni un detenuto si uccide in cella mentre ogni 24 ore ci sono in media 23 atti di autolesionismo e 3 suicidi in cella sventati dalle donne e dagli uomini del corpo di polizia penitenziaria. Il quale ha carenze di organico pari ad oltre 7.000 agenti. Solo nel 2016 abbiamo contato 6 evasioni da istituti penitenziari e 23 da detenuti ammessi a lavorare all’esterno. L’evasione dal carcere di Alessandria ha responsabilità ben precise: cercate i colletti bianchi". Una giornata molto difficile quella di oggi per le carceri piemontesi: a Vercelli un agente di polizia penitenziaria è stato ferito da un recluso italiano. Ricostruisce i fatti Vicente Santilli, segretario piemontese del Sappe: "Un detenutosi è reso protagonista di un’aggressione vile e assurda. Prima, in mattinata, ha offeso gli agenti che gli avevano perquisito la cella, evidentemente pensando di vivere in un albergo, poi ha avuto un’altra discussione con un altro agente che ha in seguito colpito con un calcio. Ferito anche un altro collega, intervenuto nei concitati momenti. Non è possibile andare avanti così. I detenuti che si comportano in questa maniera violenta devono essere puniti a livello disciplinare e denunciati con tutte le aggravanti del caso". Fermo (Ap): l’ex detenuto "l’etichetta non si cancella". Il carcere punta sulla pet therapy di Raffaele Vitali laprovinciadifermo.com, 18 marzo 2017 Emozionati, timidi, ma carichi. Si son seduti dalla parte dei relatori e hanno raccontato la loro storia a duecento ragazzi. Eduardo e Stefano. Due storie diverse unite da un solo terribile filo, finalmente spezzato: il carcere. Oggi sono due cittadini liberi, hanno scontato la loro pena e si sono confrontati con gli studenti del Montani di Fermo. "Ho contato ogni ora dei quattro anni che ho passato in galera. Anni in cui ho perso tutto. L’etichetta resta, non è facile cancellarla, anche per chi non c’entra nulla, come mio figlio" sottolinea Eduardo. "È stata durissima, è una maglia che non ti togli mai. Sono stato fortunato che mentre stavo in carcere la mia famiglia ha mandato avanti l’azienda e questo mi ha permesso di ripartire" prosegue Stefano. Sono stati uno dei momenti più toccanti della mattinata pensata per parlare di giustizia, declinata dalla referente del Tavolo alla Legalità della provincia in tanti modi: "Verità, regole, punizione, libertà, privazione, responsabilità. Tutto è giustizia, anche quello che ti porta in carcere dove si espiano gli errori". Giusto parlarne a scuola, "il luogo della conoscenza. E se uno conosce è più facile che resti livero, di certo potrà scegliere" ribadisce la preside Bonanni. Con gli ex detenuti, protagonista della mattinata è stata la direttrice del carcere di Fermo, Eleonora Consoli. Ci sta provando in ogni modo a far uscire i detenuti dalle alte e sicure mura del carcere: "Incontrare le scuole è un momento importante. Serve a formare cittadini consapevoli, ma serve anche ai detenuti, o ex, per superare la loro situazione. È un modo per renderli consapevoli del loro ruolo". Non è così scontato che vogliano parlare: "Molto - prosegue la direttrice - dipende da loro. Devono voler essere coinvolti. Ma i frutti poi chi partecipa li coglie, son più pronti a recuperare una vita normale una volta usciti". La Consoli parla con in mano l’ultimo numero de L’altra chiave, il giornale realizzato dai detenuti nella redazione guidata dalla giornalista Angelica Malvatani. In quelle pagine si raccontano, riflettono sui problemi dentro e fuori dalle mura, scrivono poesie, ma soprattutto si confrontano e allargano le menti. Dopo anni difficili Fermo è tornata a numeri umani: "Sono una sessantina i detenuti, una quantità gestibile. A questo aggiungiamo i semi liberi e gli articoli 21, ovvero chi torna in carcere solo per dormire". Più che un aumento di lavoro, una diversa gestione, con la direttrice, assieme allo staff rieducativo, chiamata a scegliere chi può entrare nel percorso di recupero. "Un sistema che funziona, come dimostrano i due detenuti che lavorano con il Comune di Fermo. Parliamo di misure alternative che non accorciano la pena, ma la alleggeriscono e anticipano una futura normalità nella gestione dei tempi". Certo, qualche figura in più come personale farebbe comodo, ma il Ministero della Difesa da tempo ha bloccato le assunzioni. Manca ancora qualcosa però per fare del carcere di Fermo una struttura efficiente: "Servono spazi esterni. Ora stiamo valutando un progetto di recupero di alcune aree. Vorremmo usarle per numerose attività, inclusa la pet therapy che funziona molto bene dove applicata". Tutto questo è il carcere di Fermo, un luogo a pochi passi dal Montani che gli alunni hanno potuto conoscere meglio, superando anche qualche pregiudizio. "Giornate come questa permettono di aumentare la capacità di distinguere il bene dal male, anche questo deve insegnare la scuola" conclude la preside Margherita Bonanni. Napoli: papà detenuti, nel carcere di Poggioreale spazi per incontrare i figli internapoli.it, 18 marzo 2017 Quattro corner dedicati ai colloqui dei detenuti con i loro figli presso la Casa circondariale di Poggioreale. Il progetto è stato realizzato dal Soroptimist Napoli Vesuvius nell’ambito del progetto nazionale sui diritti dei minori. Obiettivo dell’iniziativa è quello "di rendere accoglienti i luoghi dove si svolgono i colloqui tra i genitori reclusi e le loro famiglie con figli minori". I quattro corner dedicati, sottolinea una nota, "sono stati resi accoglienti e colorati, per favorire un clima disteso e rassicurante in cui i bambini potranno sentirsi i benvenuti e avranno la possibilità di trascorrere con i genitori detenuti momenti di serenità". Tale progetto "è frutto di una collaborazione tra il direttore della casa circondariale Antonio Fullone, il personale e i detenuti stessi che hanno aiutato ad allestire le stanze e con il contributo finanziario dell’associazione Alpha Lawyers". Roma: a Regina Coeli "Il Muro della Terra", martedì 21 marzo i detenuti leggono poesie di Simone Ricci newsgo.it, 18 marzo 2017 L’Associazione Culturale Ideando e il Club Roma Tiber Soroptimist International d’Italia hanno promosso un evento molto interessante per diffondere e valorizzare la poesia. Il prossimo 21 marzo sarà appunto la "Giornata Mondiale della Poesia", istituita dall’Unesco nel 1999 e celebrata per la prima volta l’anno successivo. L’obiettivo è quello di promuovere il dialogo e la comprensione tra culture diverse, oltre alla comunicazione e alla pace. L’evento è stato gentilmente concesso dalla Casa Circondariale di Regina Coeli e si chiama "Il Muro della Terra". Si tratta di una lettura di poesie del ‘900 italiano, anche da parte di giovani detenuti, all’interno del carcere. L’organizzazione è stata curata da Soroptimist nella persona della presidentessa Maria Grazia Di Filippo, mentre il responsabile scientifico è il professor Gennaro Colangelo. L’associazione culturale Ideando patrocinerà l’evento: l’appuntamento è previsto per le 15 di martedì 21 marzo 2015 presso la Casa Circondariale a via della Lungara 29. Nuoro: la moda sfila sulla passerella del carcere di Pier Luigi Piredda La Nuova Sardegna, 18 marzo 2017 A Badu e Carros "Si vive una volta sola", un incontro sui disturbi alimentari che ha fatto evadere i detenuti con la mente. Hanno applaudito, hanno fischiato, hanno fatto il tifo, hanno sorriso e gioito. Ma soprattutto hanno vissuto. I detenuti del carcere di Badu ‘e Carros hanno vissuto una giornata diversa, che gli ha fatto dimenticare per qualche di avere intorno un muro altissimo, le sbarre alle finestre e un agente in divisa che ogni giorno chiude le porte delle camere e si porta via le chiavi lasciando all’interno nella più cupa solitudine chi un giorno ha sbagliato e ora sta pagando il conto con la privazione della libertà. Detenuti. Persone che per un pomeriggio hanno riassaporato momenti di felicità dimenticata e chissà quante volte sognata. Un paio d’ore di gioia e spensieratezza prima di ritornare al solito triste quotidiano rituale del carcere. Grazie a un’iniziativa dell’associazione "Si vive una volta sola" di Nuoro che ha portato a Badu e Carros esperti di alimentazione e di psicologia, ma soprattutto ha organizzato una sfilata di moda con protagonisti alcuni detenuti e improvvisate modelle dell’associazione che ha raccolto applausi e tifo da stadio. Una manifestazione che ha stupito anche gli addetti ai lavori, a cominciare dalla direttrice Silvia Pesante, passando per il garante dei detenuti Gianfranco Oppo, il cappellano e gli agenti penitenziari che hanno condiviso con i detenuti le stesse emozioni. Commoventi gli applausi, gli ululati e i fischi che hanno accolto Mario, James, Marcello, Luigi e gli altri detenuti che si sono prestati a fare i modelli e hanno sfilato su una passerella improvvisata: un tappetto colorato con intorno tanti palloncini. Gli uomini con capi di Armani e altri stilisti famosi, messi a disposizione dal negozio "Sotgiu store" e "Dadea" di Nuoro. Le modelle, invece, con indosso abiti realizzati innanzitutto nel laboratorio di sartoria "Nero Luce" che opera all’interno del carcere femminile di Rebibbia e altri capi messi a disposizione dagli atelier "Malupier" di Orosei, "Giovanna Corraine" di Nuoro e "Lia Zedde" di Nuoro e preparate per la sfilata dall’acconciatrice Sara Zucca e dalle estetiste Alessia Secci e Caterina Soro di Orosei. Ma prima del momento di festa, era stato approfondito l’argomento al centro dell’iniziativa: i disturbi alimentari e il disagio psicologico in carcere. A organizzare l’evento è stata l’associazione "Si vive una volta sola" di Nuoro presieduta da Sara Gungui, che ha coordinato la manifestazione con la collaborazione di Francesco Guccini, ex assessore comunale e da sempre molto vicino ai problemi dei più deboli. "Siamo soddisfatti al limite della commozione - hanno spiegato Guccini e Gungui al termine della serata -. Abbiamo una vita sola e dobbiamo viverla al meglio. Questo ha voluto essere un messaggio di speranza. L’associazione è impegnata su temi delicati, dando voce e coinvolgendo gli ultimi attraverso campagne di sensibilizzazione che mettono in luce problemi spesso nascosti". A cominciare dai disturbi legati all’alimentazione. "Anoressia e bulimia sono malattie silenziose, invisibili se non per gli effetti che si insinuano nei labirinti della mente e azzerano la volontà minando il fisico fino a distruggerlo - hanno continuato Guccini e Gungui. E in carcere la psiche subisce pressioni legate alla prigionia e alla solitudine e quindi il terreno è più fertile per quei fattori che scatenano i disturbi alimentari. Se l’anoressia uccide silenziosa - hanno concluso Sara Gungui e Francesco Guccini - la miglior cura è la solidarietà e il dialogo". Su questi argomenti si sono soffermate le psicologhe Maria Rita Bellu e Rosalba Cicalò del Serd di Nuoro. Poi, Renato Pischedda e Silvio Comida hanno dato il via alla festa, aperta dalle canzoni del cantante nuorese Antonello Delogu e conclusa tra gli applausi e gli abbracci. Il carcere per un giorno luogo di gioia e di speranza. Cinema. "Angelo" diventa il simbolo del ritorno nella società dei detenuti minori itenovas.com, 18 marzo 2017 Un film e un progetto per aiutare i giovani che si trovano nella comunità ad entrare nel mondo del lavoro, oggi la presentazione a Roma. Non è solo questione di essere buoni, recuperare alla società i detenuti conviene anche in termini economici e di sicurezza. Lo dicono tutti gli indicatori, oltre alla Costituzione italiana, ed ora partendo da un film prodotto dalla Rai un progetto vuole favorire l’ingresso nel mondo del lavoro dei minorenni che si trovano privati della libertà per i reati commessi. Ci prova Alveare per il Cinema, che ha girato "Angelo, una storia vera", pellicola partita da una serie web, che racconta la vicenda di un giovane ospite della comunità ministeriale di Lecce, sottoposto alla misura della "Messa alla prova", percorso di reinserimento nella società che in caso positivo si conclude con l’estinzione del reato. L’obiettivo è portare i tanti Angelo d’Italia sui banchi di scuola o nel mondo del lavoro, e per farlo si chiede l’aiuto delle istituzioni pubbliche e dei privati: alla presentazione di Roma saranno sullo stesso palco il sottosegretario alla Giustizia, Gennaro Migliore, e il rettore della scuola Campus Etoile Academy di Tuscania, Rossano Boscolo, che ha offerto una borsa di studio ai ragazzi che seguono percorsi simili a quello raccontato nel film. Nell’aula magna dello storico istituto Galileo Galilei della capitale, oltre a vedere il film su Angelo stasera si parla proprio di questo: il sottosegretario Migliore rivendica i risultati dei governi di questi anni ricordando che "il carcere passa per essere un tema che porta poco consenso, ma in questa legislatura stiamo provando a sfidare il tabù e l’ex premier Matteo Renzi è stato il primo Presidente del Consiglio a recarsi in visita ad un carcere, quello di Padova" e aggiunge che un elemento per cambiare mentalità è "proprio la messa alla prova raccontata in questo docufilm. Da quando sono in carica, il numero delle persone sottoposte a misure alternative alla detenzione è passato da 22-23mila a 41mila, con una grande ricaduta anche in termini di sicurezza". Più pene alternative, quindi, ma anche un sistema della giustizia minorile che, racconta il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, tende "a privilegiare interventi di servizio sociale ed educativi nell’area penale esterna, ritenuti più consoni al processo educativo e di recupero". Un’impostazione "da sostenere e incentivare con particolare attenzione al processo di inserimento nel mondo del lavoro, anche mediante progetti come questo". La prima impresa ad aderire è stata la Campus Etoile Academy di Tuscania, il cui rettore Rossano Boscolo ricorda che "Imparare un mestiere è l’unica arma di riscatto sociale per i tanti giovani ex detenuti" e la scuola farà quindi "la sua parte", offrendo "a uno degli ex detenuti della comunità ministeriale di Lecce un ingente borsa di studio affinché possa intraprendere un percorso di alta formazione e approcciarsi a testa alta alla professione del cuoco". Il tutto è sintetizzato dal fondatore di Alveare (e ideatore del progetto), Paolo Bianchini, secondo cui "quando a fine pena quel cancello si apre davanti al giovane, lui conosce una sola strada, quella che lo ha portato oltre quelle sbarre. Impediamo la recidività, accompagnandolo verso l’altra strada, quella della legalità". Una soluzione che conviene anche in termini economici, visto che oggi lo stato spende in totale oltre 8 milioni di euro al giorno per il mantenimento di tutti coloro che si trovano in carcere, e recuperando alla scuola e al lavoro i più giovani questa cifra può essere sicuramente abbattuta. Tutto come da Costituzione, peraltro, visto che l’articolo 27, comma 3, recita: "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Per il consenso, contro i disperati di Roberto Saviano La Repubblica, 18 marzo 2017 Decreto sicurezza, in nome del decoro non si può criminalizzare anche chi sta ai margini. Ma Davvero il Pd ha permesso che un decreto del genere potesse essere realizzato? La risposta è una sola: sì, il Pd l’ha permesso e promosso. Il decreto Minniti sulla sicurezza urbana, considerato da questo governo cosa di "straordinaria necessità e urgenza", ha toni razzisti e classisti. Per descriverlo in breve: i sindaci, per ripulire i centri storici delle città, avranno il potere di allontanare chiunque venga considerato "indecoroso", non occorrerà che sia indagato o che abbia commesso un reato. Il sindaco potrà così chiedere che venga applicato a queste persone un "mini Daspo urbano". Daspo, perché in Italia tutto è calcio e tifo, anche la politica. Si usa l’espressione Daspo perché il tifoso può essere allontanato dallo stadio o costretto alla firma in questura il giorno della partita, in base anche a una segnalazione, non necessariamente è una condanna. Stiamo assistendo alla criminalizzazione dell’uomo anche quando per fame rovista in un cassonetto della spazzatura per prendere ciò che altri hanno buttato via. Potrà essere allontanato in linea di principio chi non veste, a insindacabile giudizio del sindaco e dei vigili urbani, "decorosamente"? Le creste punk sono decorose o indecorose? La moralità di un comportamento da cosa sarà valutato? Se urlo ubriaco per strada commetto reato, quindi abbiamo strumenti di intervento. Se spaccio verrò arrestato. Se mi denudo ci sono già strumenti per intervenire. Se vendo merce contraffatta, commetto reato. Se occupo suolo pubblico, sarò multato. E allora? Questo decreto che parla esplicitamente di sindaci che possono allontanare in nome del decoro, quiete pubblica e moralità a cosa si riferisce? Mi rispondo da solo, come mi risponderebbero i sostenitori di questa aberrazione: ma non essere demagogo, sarà il buon senso a determinare il grado di "indecorosità" a cui il sindaco farà fronte. Davvero? Se divenisse sindaco Salvini, ci troveremmo a veder allontanata ogni sorta di umanità che al nostro serve per sfogare il bugiardo "prima gli italiani" o qualsiasi altra propaganda razzista. Dare discrezionalità al potere significa generare ingiustizie. Arrivare a questa scorciatoia perché la legge è troppo lenta significa dire meglio un’ingiustizia veloce che una giustizia lenta. La ragione dovrebbe invece continuare a pretendere una giustizia veloce. Maroni da ministro degli Interni aveva spinto per far nascere sindaci-sceriffi, ora Minniti arma questa possibilità con questo decreto. Dietro le parole - che pronunciate nel contesto del decreto risuonano vetustissime e da catechesi - di decoro e moralità si nasconde ben altro. Spogliamole della veste tecnica e sapete cosa rimane? Rimane un sotto-testo che risuonerebbe così: è dato al sindaco la possibilità di allontanare immigrati e disperati nell’immediato cosi che possano massimizzare il consenso dall’operazione. Domandiamoci ora quale sarà il risultato di questo decreto vergognoso: centri storici magari ripuliti velocemente dai clochard e dagli immigrati e periferie ghetto. Il provvedimento prevede che il questore, su segnalazione anche del sindaco, potrà allontanare dal centro gli indesiderati per un massimo di sei mesi. È un regalo che viene fatto ai primi cittadini per raccogliere consenso sull’odio e la paura. Sindaci che non hanno più strumenti economici e sociali per portare avanti progetti, che non hanno altri strumenti. Allontanare non significa risolvere ma nascondere. Contrastare questo decreto non significa vedere il centro storico colmo di accattoni, accettare il barbonismo, invitare a riunioni di lavoratori ubriachi della domenica che occupano gli spazi della bellezza, significa obbligare ad affrontare le ragioni del disagio non a perseguitare il disagio. Significa non ammettere scuse e scorciatoie. Abbiamo già gli strumenti per contrastare i reati, questo decreto a cosa serve? Questo decreto è solo una grande scusa per ramazzare di volta in volta chi si vuole, autorizzare ad un ingiustizia enorme i sindaci e trascurare l’origine dei problemi. Il sindaco Nardella di Firenze dichiara alla radio che il decreto Minniti va bene. È consapevole il sindaco Nardella che la strategia dei parcheggiatori abusivi è tutta completamente gestita dai clan? Se per gioco si camuffasse e cercasse di fare il parcheggiatore non troverebbe come nemico il nuovo sindaco sceriffo ma le famiglie che controllano quegli spazi. I venditori abusivi hanno aggredito nell’indignazione della rete l’inviato di Striscia la notizia Luca Abete: la loro merce è tutta gestita dai clan, i loro stipendi miserabili vengono dai clan, della loro merce devono rispondere ai clan. E come si risponde? Allontaniamo quelli non graditi ai sindaci. Velocemente, per massimizzare il loro consenso. Lavoro, integrazione, sviluppo sono energie in un paese al collasso e allora si occhieggia alla disperazione del più cupo razzismo. Il Movimento 5 stelle cosa fa? Si è astenuto. Astenuto perché il decreto sarebbe "una scatola vuota senza fondi né risorse, e molto probabilmente rimarrà lettera morta". E se non rimanesse lettera morta? Non sarebbe stato più dignitoso un minoritario (230 favorevoli e 56 contrari) ma umano No? L’astensione e il silenzio hanno tutto il sapore della complicità. Con questo decreto il Pd si mette fuori la storia che lo voleva figlio del riformismo italiano. Cosa aveva reso la sinistra italiana di Kuliscioff e Turati, di Rosselli e Calamandrei un punto di riferimento internazionale? La capacità di coniugare riforma sociale con libertà, senso del reale con l’aspirazione di cambiamento. Non il povero ma la povertà era il problema, non il criminale ma il crimine, non il ricco ma privilegio erano il problema. Non di disagio allontanato ma di disagio affrontato. Non città fatte di centro pulito e mondezza spazzata in periferia. Ma il contrario, il centro cuore di una città la cui periferia diventa sua espansione, avanguardia. Idee che non ci sono più e senza idee non c’è più vita ma solo un investimento sul capitale in queste ore più facile da raccogliere: la paura. Decreto sicurezza. Minniti respinge le polemiche: "Non è una legge di destra" di Carlo Bonini La Repubblica, 18 marzo 2017 "Norme di libertà, le abbiamo scritte insieme ai sindaci". L’irritazione del ministro dell’Interno: Chi parla di sindaci sceriffi non ha letto quel testo. Vogliamo contrastare il crimine, non i clochard". Il ministro dell’Interno Marco Minniti è un calabrese allergico ai tartufismi. Va dritto. "Quindi il decreto sulla sicurezza urbana sarebbe una legge di destra... Straordinario... Forse perché qualcuno non l’ha letto". E capovolge la prospettiva. "Allora qualcuno mi risponda: è di destra una legge che sottrae la definizione delle politiche della sicurezza nelle nostre città alla competenza esclusiva degli apparati, trasformando la sicurezza in bene comune e chiamando alla sua cogestione i rappresentanti liberamente eletti dal popolo, vale a dire i sindaci? È di destra un decreto che, per la prima volta nella storia repubblicana, risponde a una legittima richiesta di sicurezza con il solo strumento amministrativo, senza aumentare le pene o introdurre nuovi reati? È di destra un provvedimento che è stato scritto a quattro mani con l’Anci, con sindaci italiani che vanno da Zedda a Nardella, da Decaro a Sala?". Come per il protagonista del celebre film del regista russo Nikita Sergeevic Mikhalkov, "Amico tra i nemici, Nemico tra gli amici", nel destino di Minniti c’è un ricorrente paradosso che racconta molto della Sinistra italiana, della scarsa dimestichezza di una sua parte quando si tratta di mettere mano, conciliandoli, a diritti cruciali e apparentemente confliggenti come "sicurezza" e "libertà". E anche per questo, forse, proprio quell’accusa di essere padre di una "legge di destra", insieme all’obiezione, opposta, di molti sindaci che avrebbero voluto strumenti penalmente più penetranti (come l’obbligo di arresto in caso di recidiva dopo il Daspo), convince Minniti di essere sulla strada giusta. "L’unica percorribile, perché in grado di declinare le politiche della sicurezza in chiave moderna, democratica, e inclusiva. Dunque rinunciando a declinarla solamente come ordine pubblico. La dico semplice: perché una piazza sia sicura la notte, è necessario che sia presidiata da una macchina della polizia, non c’è dubbio. Ma anche che quella piazza sia illuminata e resa agibile da politiche sociali di inclusione, oltre che di decoro urbano. Ecco, il mio decreto sulla sicurezza è questa cosa qui". Ci sarebbe anche bisogno, se si parla di sicurezza, che gli apparati siano trasparenti e responsabili - va aggiunto - come pure il decreto nella sua versione originaria indicava, introducendo, con un emendamento, il codice identificativo per i reparti impegnati nell’ordine pubblico. Emendamento poi ritirato. "Solo per ragioni tecniche - dice Minniti - Perché quella norma, per ragioni di procedibilità, come accaduto ad un’analoga iniziativa dei Cinque Stelle in commissione, non poteva appunto essere oggetto di un emendamento. Quindi, rassicuro tutti. Introdurrò l’identificativo di reparto per le forze dell’ordine impegnate nell’ordine pubblico. E non perché di sinistra. Ma perché, banalmente, è giusto e così si fa in altri grandi e importanti Paesi europei". Negli argomenti di Minniti, è l’irritazione profonda anche per un secondo, "strumentale" argomento. Che in quelle norme si nascondano, insieme, "classismo", da un lato, e condiscendenza per le pulsioni d’ordine di qualche sindaco sceriffo. "Questa idea che il decreto serva ai sindaci per ripulire i centri storici delle città, confinando i marginali ancora più ai bordi, significa semplicemente non aver letto quel decreto. Il sindaco non ha nessun potere di disporre il daspo, vale a dire l’allontanamento amministrativo di un soggetto da una determinata area della città, perché quel potere è e resta dei questori. Il sindaco ha solo il potere di segnalare le aree urbane su cui concentrare gli sforzi di controllo del territorio. Inoltre, l’obiettivo di questo strumento non saranno i clochard o chi rovista in un cassonetto della spazzatura, ma, per dirne una, qualche spacciatore seduto davanti a una scuola o una discoteca, o magari un writer cui sarà chiesto di ripulire un bene comune che ha imbrattato". Ancora una volta, dunque, un capovolgimento degli argomenti. "Classista non è il decreto. Classista è il modello da cui questo decreto divorzia. Quello che abbiamo avuto sin qui. Un modello di sicurezza che la garantisce solo a quei soggetti forti che sono in grado di assicurarsela privatamente o che hanno la forza per negoziarla politicamente. Insisto: cosa c’è di più democratico di Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica presieduti da un prefetto e un sindaco che, insieme, definiscono le strategie per il controllo e la sicurezza del territorio? Si dirà: ma se il sindaco è di destra? Sempre un sindaco è. E, soprattutto, è un sindaco liberamente eletto dal popolo". C’è infine un paradosso. Che da Sinistra - "quasi per autocertificazione", osserva sarcastico il ministro - venga contestato un modello che, ribaltando il rapporto tra il centro e la periferia, "devolve ai rappresentanti delle comunità la sicurezza dei luoghi che, solo le comunità, più di chiunque altro, conoscono e sono dunque in grado di proteggere al meglio". Un modello che, per altro, rende il prezzo della inevitabile compressione delle libertà di fronte alla minaccia, quale essa sia, terroristica piuttosto che del crimine organizzato, più tollerabile. Proprio perché condiviso. "Lo ripeto - si appassiona Minniti - io, scrivendo il decreto insieme ai sindaci non avevo in testa il clochard o l’ambulante immigrato. Io avevo in testa non solo quello che è successo a Berlino in dicembre quando si è visto cosa può accadere se non si protegge adeguatamente un mercatino rionale. Avevo in testa quello che ho ascoltato da molti sindaci del nostro Mezzogiorno quando mi spiegavano che l’infiltrazione della criminalità organizzata nel tessuto urbano passa anche per i parcheggiatori abusivi. Avevo in testa il bene comune. Lo chiamano destra? Io dico che è l’Italia, vista dal mio punto di vista, quello della sinistra riformista. Chi dice che rinuncia alla libertà per la sicurezza è un cattivo maestro. Sicurezza è libertà. Non c’è nessun posto sicuro se non è garantita la libertà di frequentarlo. Non c’è nessuna libertà se non viene garantita la sicurezza del libero andare". "C’era una volta l’uguaglianza. Ora c’è solo la sete di sangue" di Bernard-Henry Lévy Il Dubbio, 18 marzo 2017 Nell’egualitarismo di oggi non c’è nient’altro che una folla, vicina al punto di massima potenza, che spinge per un’uguaglianza non già degli interessi, bensì della pochezza, dell’insipienza e delle corruzioni private. Il filosofo Francese Bernard Henry Lévy ha scritto un articolo nel quale analizza come la politica si stia trasformando da fenomeno che riguarda la lotta tra gli interessi e le idee in un fenomeno molto simile al tifo calcistico. Con tutta la violenza gratuita, specialmente nei linguaggi, che caratterizza il tifo calcistico. L’articolo, tradotto da Rita Baldassarre, è stato pubblicato ieri dal "Corriere della Sera". È un articolo che parla di Francia, ma si adatta perfettamente alla situazione e al clima politico italiani. Perciò ne ripubblichiamo ampi stralci. "In realtà, il gioco al massacro è cominciato a sinistra, con Hollande tradito dai suoi". "Ma è negli schieramenti di destra che l’ecatombe raggiunge il suo culmine. Eliminazione dell’ex presidente Sarkozy. Messo in disparte il presidente virtuale Juppé, che l’opinione pubblica aveva consacrato e che si scopre, questo lunedì mattina, clamorosamente più grande di se stesso. E davanti al vincitore, François Fillon, votato da quattro milioni di elettori alle primarie, lo spettacolo delle pecore che alzano la testa e minacciano di estromettere anche lui dal gioco". (...) E poi, certo, i magistrati che agiscono in conformità al loro ruolo quando indagano su una storia di impieghi fittizi, ma ai quali val la pena di ricordare, senza peraltro portare offesa, che benché giudici, essi restano uomini, e sotto l’ermellino - chissà - provano anch’essi passioni e rancori ordinari; che detengono un potere notevole, il quale ha sempre - come ogni potere - la tendenza ad arrivare fino in fondo; e che si sono trasformati, per questa ragione, in protagonisti a tutti gli effetti di una campagna dalla quale, come insegna Montesquieu, devono tenersi scrupolosamente alla larga". "Ciò detto, il peggio siamo ancora noi, ognuna e ognuno di noi, a causa di questo nuovo e strano rapporto con la politica che le circostanze fanno emergere e che riassumo in tre tratti salienti". (...) "Un tempo la lettura del quotidiano era la preghiera mattutina del filosofo. Oggi invece è la lettura di quel giornale a nutrire, ogni settimana, l’insaziabile voglia di scherno dell’elettore. Ah, la febbre di derisione che ci prende quando riusciamo a cogliere nuove nefandezze nei nostri candidati e nei nostri eletti! La golosità sfrenata nel trangugiare la nostra dose settimanale di corruzione, marciume ed esalazioni fetide! E la sorda delusione, il gusto insipido di ogni cosa, quando, si dà il caso, si scopre che i sospetti sono infondati". Ma quando ci divertiamo a questo modo, quando godiamo e ci inebriamo a tal punto di queste "storie", non sarebbe meglio ricordare, come fa Mallarmé in L’azzurro, che le nostre aspirazioni ad altro non conducono se non a un "lugubre sbadigliare verso un trapasso oscuro"? "Punto due. Lo spettacolo. E a mo di giudizio, ecco i commenti instancabili e frivoli sulle infinite peripezie del gioco elettorale. E questo dal giorno in cui le reti televisive si sono messe a commentare lo sport ininterrottamente, quasi si trattasse di politica. Adesso, invece, si commenta la politica come se si trattasse di sport: la cronaca della partita è diventata paradigma della narrazione nazionale; nel nostro paese elogiato da Marx come nazione politica per eccellenza, la politica diventa una sottospecie del calcio, con i suoi giocatori, arbitri, sostenitori, selezionatori e cannonieri…". "Con grande naturalezza, infatti, nei momenti più travagliati del caso Fillon, i cacicchi repubblicani e i loro allenatori fantasma, a dispetto della differenza di sensibilità e di programmi, si sono rivolti al "numero 2" che, come nel calcio, aspettava in panchina. I fedelissimi di Fillon gli riconoscono forse altro merito, oltre alla sua "resistenza", alla sua capacità di "incassare", e all’immagine che ha dato di sé quando, gettato a terra, si è rialzato come al termine di un’ordalia incompiuta?" (...) "E infine, terzo punto, l’uguaglianza, la più nobile delle passioni, che ha creduto nel sogno di plasmare un corpo sociale e di dare dignità alla politica. Sono d’accordo con Jean- Claude Milner, nel suo Rileggere la rivoluzione (Verdier), quando opponendosi ad Anatole France di Gli dei hanno sete afferma che, lungi dall’offrire semplicemente al popolo il suo litro di sangue quotidiano, Robespierre tentò anche di arginare, a modo suo, la brama di vendetta del popolo, e di salvare quel che poteva delle gerarchie repubblicane. Nulla di tutto questo nell’egualitarismo di oggi. Nient’altro che una folla, sempre più vicina al suo punto di massima potenza, che spinge per un’uguaglianza non già degli interessi, bensì della pochezza, dell’insipienza e delle corruzioni private. E tra i figli decomposti dei Lumi, tra gli eredi zombi di Rousseau in bilico tra vessazione, accecamento e disperazione, ecco un’uguaglianza che non è più un ideale, bensì spudoratezza, una specie di cappa scura, un alone di risentimento e di odio a cui si aggrappa la nostra lingua comune, come a una boa nella deriva. Altro disastro. Altro sconcerto. Dall’uguaglianza redentrice a questo egualitarismo lagnoso, abbiamo percorso tutto l’arco delle possibilità che accompagnano il corpo sociale dalla vita alla morte. Perché di questo si tratta. Non di crisi, e nemmeno di una "strana campagna elettorale", bensì di una strana sconfitta che muove i suoi ultimi passi. Non l’albero singolo di tale e tanta scelleratezza, ma la foresta fittissima di parole indistinte, e pertanto folli, a forza di degradazione. E in agguato, accompagnato dalle Eumenidi - che non deve sorprendere scoprirle sinonimo tanto di giustizia quanto di furia vendicatrice - si profila già un volto ben preciso, come, nelle antiche tragedie, l’avanzare ineluttabile di un destino funesto". L’illusione della diga contro i partiti xenofobi di Fabrizio Tonello Il Manifesto, 18 marzo 2017 Terrorismo, immigrazione, paura del futuro, risentimento nei confronti delle élite continuano a dominare la politica e aprono la strada a spostamenti politici impensabili fino a pochi anno fa. Da Berlino a Madrid, da Parigi a Roma, il voto olandese è stato accolto da esagerati sospiri di sollievo. I titoli-fotocopia dei giornali italiani dell’altro ieri sembravano annunciare il miracolo: Corriere della sera: "Olanda, l’onda populista frena" (Wilders ha infatti guadagnato 5 seggi). La Stampa: "Olanda, diga contro i populisti" (il primo ministro uscente Rutte, che ha perso 8 seggi). Ma le grandi sconfitte sono le forze di centrosinistra: il partito laburista ha ottenuto il 5,7% dei voti ed è passato da 38 a 9 seggi, una disfatta storica certo non compensata dal buon risultato dei rosso-verdi, saliti da 4 a 14 seggi. Però "L’Olanda non cede al populismo" (Repubblica). In realtà, come scriveva ieri questo giornale, l’argine olandese è assai fragile, se non altro perché i numeri sono impietosi: l’unica maggioranza possibile sembra essere una di centrodestra (l’aggiunta di laburisti o verdi non sarebbe necessaria a liberali e cristiano democratici per arrivare a quota 76, la metà più uno dei deputati). Nelle "partite" elettorali di quest’anno l’Olanda non era certo la più importante e sarei prudente nell’affermare che i risultati di mercoledì sono "il segno di un limite, una soglia che le destre nazionaliste e xenofobe non sono in grado di valicare" (Bascetta, il manifesto di ieri). Wilders ha preso il 13% dei voti, Marine Le Pen è accreditata del 26,5% nei sondaggi sulle intenzioni di voto in Francia il 23 aprile. Certo, le previsioni sono che al ballottaggio vinca il candidato dell’establishment, l’ex banchiere Emmanuel Macron ma, dopo Trump, qualcuno ha molta fiducia nei pronostici? A questo aggiungerei che il candidato neonazista austriaco alle presidenziali del 2016 ha ottenuto il 46,2% al ballottaggio del dicembre scorso (socialisti e popolari avevano dovuto cedere il passo a verdi e neonazisti già al primo turno). In realtà, le forze politiche tradizionali europee sono state triturate dal neoliberismo e affidano le loro speranze di sopravvivenza a patetici slogan come il "fare diga contro i populisti". Destra e sinistra insieme, non per alleviare la sofferenza sociale, invertire le rovinose politiche dell’ultimo decennio, o cercare di risolvere i problemi: no, per sopravvivere incrostate alle istituzioni. È una strategia sensata? In Italia, l’abbraccio del Pd prima con Berlusconi e poi con i transfughi di Forza Italia ha portato alla scissione del partito, in Francia il fallimento della presidenza Hollande ha trascinato con sé il primo ministro Manuel Valls, distaccato nelle primarie per la candidatura alle presidenziali dall’ex ministro Benoît Hamon, ma in una situazione di frammentazione che si manifesta nella presenza anche dell’indipendente Jean-Luc Mélenchon e della trozkista Nathalie Arthaud. Quindi al ballottaggio arriveranno probabilmente il centrista Emmanuel Macron e la leader del Front National, Marine Le Pen. Per la prima volta nella storia dal 1958 entrambi i due raggruppamenti storici (gollisti-liberali da una parte e socialisti dall’altra) saranno assenti al secondo turno di voto. Più significativo ancora mi sembra il fatto che la Francia ha più del doppio della disoccupazione dell’Olanda, con intere regioni economicamente desertificate da decenni, e un problema con le popolazioni provenienti dalle sue ex colonie che non si limita all’immigrazione attuale ma si estende ai giovani di seconda e terza generazione cresciuti nelle periferie-ghetto, come i fratelli Kouachi, autori dell’attentato terroristico del 2015 contro il giornale Charlie-Hebdo. La triste fine della presidenza Hollande, con l’assurda minaccia di privare della nazionalità chi fosse coinvolto in atti di terrorismo e le sue leggi neoliberali sul lavoro (simili al Jobs Act di Matteo Renzi) mostra che i partiti di centro e di sinistra si sono adeguati a gran parte delle richieste dell’estrema destra xenofoba. Terrorismo, immigrazione, paura del futuro, risentimento nei confronti delle élite continuano a dominare la politica europea e aprono la strada a spostamenti politici impensabili fino a pochi anno fa. Del resto, questi fenomeni hanno origine nella stagnazione dei salari e nell’aumento vertiginoso della disuguaglianza, che hanno gettato la maggioranza dei cittadini nell’incertezza e nell’angoscia per una condizione esistenziale precaria, sempre a rischio di fallimento. La sensazione di non poter decidere nulla, di essere in balia di istituzioni senza volto, di non poter avere fiducia in nessuno, men che meno nei politici, sono gli ingredienti che gettano le classi medie impaurite tra le braccia di Trump e dei partiti xenofobi europei. Quando si voterà a Parigi, a Berlino e a Roma potrebbe succedere qualsiasi cosa. Russia. "Quelle urla dei torturati mi hanno indotto a restare qui" di Rosalba Castelletti La Repubblica, 18 marzo 2017 La testimonianza di Ildar Dadin, simbolo della lotta a Putin, non lascerà la Russia finché non cesseranno le torture nelle carceri. Lo ha confessato in un suo intervento sul The Moscow Times. Nel dicembre 2015, era diventato il primo russo condannato per aver preso parte a manifestazioni non autorizzate per una legge del 2014 che penalizza le ripetute violazioni alle norme anti-proteste. Ildar Dadin, diventato il simbolo della lotta a Putin, non lascerà la Russia finché non cesseranno le torture nelle carceri. "Avevo pensato di lasciare il Paese", ha confessato in un suo intervento sul The Moscow Times. "Ma quando ho sentito le urla delle persone torturate attorno a me, ho capito che restare in Russia era la cosa giusta da fare". "Il nuovo Magnitskj". Nel dicembre 2015, Dadin era diventato il primo russo condannato per aver preso parte a manifestazioni non autorizzate in base all’articolo 212.1, una controversa legge del 2014 che penalizza le ripetute violazioni della rigida legislazione anti-proteste. La condanna era a due anni e mezzo di prigione da scontare in un carcere siberiano. Dalla cella il dissidente aveva denunciato di essere stato più volte torturato, tanto da essere stato soprannominato "il nuovo Magnitskj", dal nome dell’avvocato russo che, arrestato nel 2008 per presunta frode fiscale, era morto in carcere perché, si diceva, pestato a sangue e lasciato privo di cure. Dopo le proteste della comunità internazionale, lo scorso mese la Corte suprema aveva però annullato la condanna e il 34enne era stato infine rilasciato il 26 febbraio. Pochi giorni dopo, sfidando le autorità, ha però tenuto una protesta di fronte al quartier generale delle autorità carcerarie russe per protestare contro le torture di cui è stato egli stesso testimone in Carelia. Le torture subite. "Ne ho sentito il bisogno per due ragioni", spiega oggi sul "The Moscow Times": "Primo, volevo che le autorità carcerarie licenziassero il responsabile del sistema di prigioni della Carelia e il capo della prigione dove sono stato detenuto io. Secondo, domandavo che garantissero la sicurezza di dieci persone detenute in quella prigione. So che sono state torturate. Voglio che vengano trasferite altrove". Nel pezzo sul giornale moscovita, Dadin poi denuncia le torture da lui subite a partire dallo scorso settembre: prima lo avrebbero esposto a temperature di decine di gradi sotto zero, poi - dopo che aveva iniziato lo sciopero della fame - gli avrebbero tenuto la testa dentro a un water mentre una decina di uomini lo picchiavano. "Non ti lasciano morire" Scrive ancora Danin: "Fanno sì che tu soffra costantemente. Non sai mai quando succederà di nuovo e ho spesso pensato al suicidio. Non solo ti picchiano, ma ti negano il diritto all’igiene di base. Quando ho chiesto uno spazzolino, hanno minacciato di stuprarmi. Non l’hanno fatto a me, ma sono sicuro lo abbiano fatto ad altri". L’oppositore racconta anche come sia passato dal pesare 75 chili a 55 a causa "del freddo, dello stress e del dolore fisico": "Non senti fa subito la fame, arriva dopo a causa della continua denutrizione". Ecco perché, conclude, "non posso convivere col pensiero di andarmene mentre altra gente soffre. La mia prima missione è combattere la tortura in Carelia". E infine lancia un "appello alla minoranza che vuole rendere questo Paese un posto migliore, dobbiamo unirci per combattere il male". Stati Uniti. I giudici della California: stop a detenzione di immigrati Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2017 Il giudice capo della Corte Suprema della California, Tani Cantil-Sakauye, ha scritto una lettera al ministro della Giustizia Jeff Sessions e al segretario per la sicurezza nazionale John Kelly, accusando le autorità federali per l’immigrazione di fare stalking nei tribunali locali. E ha chiesto di interrompere immediatamente la detenzione dei clandestini nei palazzi di giustizia dello Stato. "Le politiche sull’immigrazione, che comprendono lo stalking nei palazzi di giustizia per arrestare gli immigrati senza documenti, la maggioranza dei quali non costituiscono alcun rischio per la sicurezza pubblica, non sono né sicure né eque" ha affermato. "Non solo compromettono il fondamentale valore di equità - ha continuato il giudice - ma minano la capa- cità della magistratura di fornire parità di accesso alla giustizia". Nelle ultime settimane le autorità statali e locali di diversi Stati, tra cui Multnomah County, in Oregon, ed El Paso,in Texas, hanno criticato le "incursioni" da parte degli agenti dell’immigrazione all’interno dei tribunali. Ungheria. Richiedenti asilo detenuti durante l’esame delle domande di Mercede Riveria reggioprimapagina.com, 18 marzo 2017 Alle critiche di Amnesty e di altre organizzazioni simili, il ministro dell’Interno Sándor Pintér ha risposto che spesso i richiedenti asilo non rispettano le regole, non attendono la fine della procedura e si muovono a loro piacimento entro i confini di Schengen per raggiungere i paesi dell’Europa nord-occidentale. È stato inoltre eliminato il periodo massimo di detenzione di un richiedente asilo, che era di quattro settimane: ogni persona che intende chiedere asilo, quindi, rischia di essere trattenuta per mesi contro la sua volontà, cosa che secondo alcuni viola il diritto internazionale in materia di diritti umani e rifugiati. Già l’anno scorso l’Unhcr e Amnesty International avevano attaccato Budapest per le leggi sui migranti in contrasto con "i principi morali e i minimi standard" oltre che per "l’orribile trattamento e le violenze" subite dai profughi in Ungheria. Orban ha aggiunto che l’Ungheria può contare solo su se stessa per proteggersi. Il premier magiaro, Viktor Orban: "L’Ungheria è sotto l’assedio dei migranti, la tregua dei flussi è solo temporanea, dobbiamo proteggerci". Il testo dispone che i richiedenti asilo e i migranti fermati in qualsiasi punto del territorio nazionale vengano sottoposti a un regime di detenzione preventiva in campi predisposti ai confini con la Serbia e la Croazia. Nei giorni scorsi infatti, annunciando l’iniziativa normativa, Orban aveva specificato che si tratta di una "risposta ai recenti attacchi terroristici in Europa compiuti dai migranti". "In pratica i richiedenti asilo, bambini compresi, saranno detenuti anche per lunghi periodi in container in campi presso la frontiera circondati dal filo spinato". La nuova legge - spiega ancora l’Unhcr in un comunicato - contraddice gli impegni presi dall’Ungheria secondo gli accordi internazionali e anche secondo i trattati dell’Unione europea: "Avrà un impatto tremendo sia fisico sia psicologico su donne, bambini e uomini che già hanno sofferto moltissimo". È ormai nota da tempo la posizione del governo ungherese nei confronti di questo fenomeno che Orbán e i suoi collaboratori e sostenitori considerano negativo sotto tutti i punti di vista. Tunisia. Graziati 1433 detenuti per la Festa dell’Indipendenza Ansa, 18 marzo 2017 Il provvedimento del Presidente della Repubblica, Beji Caid Essebsi. La situazione critica del sovraffollamento delle carceri tunisine lunedì sarà in parte alleviata. Infatti saranno 1.433 i detenuti che otterranno la grazia lunedì 20 marzo per il 61esimo anniversario dell’Indipendenza tunisina. Il presidente della Repubblica, Beji Caid Essebsi, ha firmato infatti un provvedimento di grazia. L’atto di clemenza non riguarderà i responsabili di crimini gravi come terrorismo, traffico d’armi, spaccio di stupefacenti e omicidio volontario ma a beneficiarne saranno soprattutto i detenuti per reati legati al consumo di sostanze stupefacenti. Oltre al sovraffollamento nelle carceri tunisine ci sono condizioni igieniche precarie, mancanza di cure per i detenuti malati, una situazione spesso stata criticata da associazioni umanitarie internazionali. La maggior parte dei detenuti in Tunisia sono stati condannati per uso di sostanze stupefacenti, uso punito molto severamente dalla legge 52 del 1992. Una recente riunione del Consiglio di sicurezza nazionale, presieduto proprio da Essebsi, ha proposto di alleggerire le pene nei confronti dei semplici consumatori di droghe leggere cercando di evitare loro il carcere. Colombia. Proposto atto di clemenza verso i detenuti per visita papa Francesco agensir.it, 18 marzo 2017 Una sorte di "legge giubilare", che contenga un atto di clemenza verso i detenuti. È quanto propongono in questi giorni i partiti colombiani, in vista del viaggio di papa Francesco, anche se non mancano i rischi che tale proposta entri nel gioco delle strumentalizzazioni politiche. Il primo partito a porre la questione è stato il Centro democratico dell’ex presidente Álvaro Uribe Vélez, grande oppositore degli accordi di pace con le Farc e alla giustizia transizionale verso gli ex guerriglieri. La forza politica presenterà un progetto di legge che preveda sconti di pena e benefici per migliaia di detenuti nelle carceri colombiane che stanno scontando condanne per reati, secondo Uribe, "meno gravi rispetto a quelli commessi dal gruppo narcoterrorista". Una proposta è stata presentata ieri anche dal Partito sociale di unità nazionale ("Partito della U") del presidente Juan Manuel Santos, prevedendo la riduzione di un sesto della pena per i detenuti, esclusi i condannati per gravi reati, come gravi fatti di sangue, violenza sui minori, narcotraffico, corruzione. Se tale proposta venisse approvata, verrebbero messi in libertà circa 40mila detenuti. Simili provvedimenti furono già approvati in occasioni delle precedenti visite papali di Paolo VI (1968) e Giovanni Paolo II (1987).