Il Ministro Orlando: impegno per un utilizzo più limitato della carcerazione di Claudia Di Lorenzi Città Nuova, 17 marzo 2017 Il guardasigilli parla delle misure allo studio del governo per ridurre il numero di detenuti in attesa di sentenza definitiva e il sovraffollamento delle carceri. "Bisogna vigilare sulla piena attuazione della normativa che prevede un limitato utilizzo della custodia cautelare, bisogna lavorare per avere rapidamente dei nuovi braccialetti elettronici per i quali il ministero degli Interni ha bandito una gara di cui si attende l’esito, e poi bisogna fare in modo tale che si realizzino dei centri nei quali la custodia cautelare per chi non ha residenza (parlo dei domiciliari) possa essere espletata, perché oggi spesso il magistrato non è in grado di dare i domiciliari, semplicemente perché il detenuto non ha domicilio. Queste sono le tre cose sulle quali stiamo lavorando e mi auguro che diano dei risultati". Così il ministro per la Giustizia Andrea Orlando illustra gli interventi allo studio del Governo per sanare una delle storture del sistema giudiziario italiano: l’elevato numero di detenuti in carcere in attesa di sentenza definitiva. Secondo il Rapporto sulle carceri in Europa, presentato nei giorni scorsi dal Consiglio d’Europa, l’Italia è fra i Paesi con la percentuale più alta, pari al 34,2% su una media di 25,4%. Peggio di noi fanno solo Danimarca (36,3%) e Albania (39,2%), anche se - continua il ministro - un lieve miglioramento c’è stato: "Devo dire che è vero che la percentuale è diminuita di pochissimo in questi tre anni, ma è diminuita su numeri assoluti che sono scesi significativamente. Quindi anche il numero dei detenuti in attesa di primo giudizio in termini assoluti è diminuito in modo consistente". Intervenendo, l’altro ieri, alla Camera di Commercio di Roma, alla presentazione dei risultati di uno studio sull’applicazione degli strumenti finanziari "Pay by Result" al mondo delle carceri, per l’innovazione dei programmi di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, promosso da Human Foundation con la Fondazione Sviluppo e Crescita, il ministro ha ammesso che la situazione è ancora problematica anche sul fronte del sovraffollamento delle carceri: "un fenomeno che è ricorrente e che si ripropone", perché "non accennano ad attenuarsi le politiche, anche a livello europeo, a forte impronta securitaria. Secondo me andrebbero cambiate quelle politiche", ma al momento il problema va gestito "avendo due leve: quella del carcere e quella dell’esecuzione esterna rispetto al carcere". Tra l’altro, ha aggiunto, "l’esecuzione penale esterna ha una capacità di abbattimento dei tassi di recidiva molto significativa" e l’applicazione di strumenti alternativi alla pena carceraria nell’ambito del sistema penitenziario minorile "abbiamo visto che ha prodotto elementi molto positivi". E siccome "è conveniente per la società avere un sistema di esecuzione della pena che abbassi significativamente i tassi di recidiva, se c’è questa convenienza si tratta di vedere quali sono gli elementi che sono in grado di produrre questi effetti". Parlando dell’impegno per la trasparenza e verificabilità del funzionamento delle diverse strutture del ministero della Giustizia, il guardasigilli ha ricordato che il lavoro è "iniziato sotto la spinta di una vicenda drammatica, che era il rischio di una condanna del nostro Paese per violazione dei diritti dell’uomo, sulla base di una sentenza della Corte di Strasburgo. E il primo viaggio che ho fatto a Strasburgo cercava di rassicurare la Corte dicendo che renderemo progressivamente verificabile il risanamento dei diversi penitenziari. L’applicativo sul numero dei detenuti e sul numero dei metri quadri (delle celle) nasceva da questo". Quindi ha spiegato "Oggi ognuno può andare a vedere come funziona ogni singolo istituto, qual è esattamente il numero dei detenuti, quali attività si svolgono in quel carcere, il numero della polizia penitenziaria". Inoltre "per la prima volta abbiamo una mappa dell’andamento della giustizia civile del Paese, e potrete andare sul sito del ministero della Giustizia e valutare le performance tribunale per tribunale (…). Un terzo dei tribunali italiani sono al di sotto della media europea e non c’è un nesso di causa-effetto tra performance e numero di dipendenti e magistrati. Tra i peggiori dieci tribunali che ho visitato, sette sono a pieno organico. È un modo per mettere la PA davanti allo specchio". Anche la valutazione dell’operato dei magistrati - ha aggiunto - sarà legata a criteri più oggettivi. Infine, il ministro ha sottolineato la coincidenza dell’approvazione - proprio ieri - da parte del Senato, della riforma del processo penale, che in tema di carceri prevede maggiori benefici per i detenuti con buona condotta, agevolazioni e tutele per le detenute madri, più opportunità di lavoro retribuito nel corso della detenzione e maggiore assistenza psichiatrica ai detenuti malati, l’esercizio dei diritti civili in carcere, l’integrazione dei detenuti stranieri, il rispetto del pluralismo e della libertà di culto religioso. Nel testo anche modifiche della prescrizione e una stretta sulle intercettazioni e maggiori pene per diversi reati, fra cui il voto di scambio. Il testo passa ora alla Camera per l’approvazione definitiva. Le misure che riguardano l’ordinamento penitenziario sono valutate con favore anche da chi contesta la riforma. "Funzioni, ti pago", così ti reinserisco il detenuto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 marzo 2017 Il Ministro Orlando: "bisogna passare da un carcere di tipo fordista, che per casi diversi prevede trattamenti uguali, a uno che individualizzi il trattamento". lo studio è stato realizzato da Human foundation e Fondazione sviluppo e crescita Crt. L’alto tasso di recidiva dei detenuti una volta usciti dal carcere - sette su dieci ritornano a delinquere - è uno dei principali fallimenti del sistema penitenziario. Uno dei motivi è la mancanza dei programmi di reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute, la causa principale è la poca disponibilità economica messa a disposizione dalle casse dello Stato. A far fronte a questo problema è nato un progetto che propone un nuovo modello finanziario che collega l’investimento ai risultati sociali ottenuti. Questo studio di fattibilità si chiama "L’applicazione di strumenti pay by result per l’innovazione dei programmi di reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute" ed è stato presentato mercoledì scorso, presso la sale del Consiglio della Camera di Commercio di Roma, alla presenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando, dalla presidente di Human Foundation Giovanna Melandri e dal Segretario di Fondazione Sviluppo e Crescita Crt Massimo Lapucci. Lo studio è stato realizzato da Human Foundation e Fondazione Sviluppo e Crescita Crt, con l’apporto del Politecnico di Milano, dell’Università di Perugia e di Kpmg, con il supporto del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e la fattiva collaborazione della direzione dell’Istituto Lorusso e Cutugno di Torino. L’idea nasce dalla crescente riduzione di risorse pubbliche per investimenti finalizzati alla sperimentazione di servizi di welfare innovativi. Per sopperire a queste mancanze il settore privato, collaborando con la Pubblica amministrazione, può offrire un prezioso contributo ai processi di applicazione di nuove politiche per l’inclusione. La ricerca intende illustrare questa nuova modalità di collaborazione pubblico-privato nel settore delle politiche per il reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute. Il gruppo di lavoro, coordinato da Human Foundation, ha articolato una riflessione sulla coerenza e sulla fattibilità di un’iniziativa "Pay by Result" (PbR), finalizzata alla sperimentazione di un programma innovativo che favorisca il reinserimento dei detenuti. Alla base di questi strumenti, vi è l’idea di promuovere la sperimentazione di progetti altamente innovativi, orientati a generare benefici misurabili a vantaggio di una determinata popolazione target, ai quali possa essere associato un preciso valore finanziario, approssimato in termini di risparmi futuri rispetto agli attuali livelli di spesa per l’erogazione dei servizi: se la persona detenuta, al termine del percorso trattamentale e detentivo, non farà ritorno nel circuito carcerario, la Pubblica amministrazione vedrà benefici in termini di risparmi ri- spetto a costi diretti. Quali sono questi risparmi? Gli eventuali minor numero di pasti da erogare, così come la riduzione delle spese legate a garantire le misure di sicurezza nell’istituto. Vi sono, poi, benefici indiretti: la comunità godrà di un abbassamento del tasso di criminalità, sino ad arrivare ad un maggiore gettito fiscale laddove il detenuto venga impiegato stabilmente. Solo nel caso in cui questi risultati siano effettivamente raggiunti e verificati da una terza parte indipendente, allora la Pubblica amministrazione ripagherà gli investitori privati che, di fatto, hanno anticipato il finanziamento per testare l’efficacia del progetto, riducendo per lo Stato il rischio d’investimento e l’inefficace dispendio dei contributi fiscali dei cittadini. Il ministro Andrea Orlando, durante la presentazione, ha evidenziato che ci sia l’esigenza di: "passare da un carcere di tipo fordista, che per casi diversi prevede trattamenti uguali, a un carcere che invece individualizzi il trattamento e offra opportunità concrete di reinserimento. Solo un sistema che assicuri il reinserimento sociale può infatti garantire la sicurezza pubblica. Auspico pertanto che a questo studio faccia seguito la sperimentazione pilota, da cui partire per rinnovare l’intero sistema penitenziario del nostro Paese. Il modello virtuoso presentato oggi può inoltre contaminare positivamente altri ambiti del welfare pubblico". Orlando non a caso parla di investimenti anche negli altri ambiti. Ad esempio, in Israele, la Social Finance Israel e la Rothschild Cesarea Foundation hanno emesso il primo social impact bond per ridurre la dispersione scolastica e incoraggiare la scelta verso studi di informatica. In Francia, in Germania e in Olanda l’intervento ha come obiettivo l’aumento della frequenza scolastica di ragazzi nati in contesti disagiati. Anche la Presidente di Human Foundation, Giovanna Melandri si è detta "convinta che questa sia la strada giusta per poter sperimentare servizi sociali fondamentali e innovativi, realizzando nuovi modelli applicabili in tutto il terzo settore. A Human Foundation da tempo studiamo e proponiamo l’utilizzo di modelli finanziari che collegano l’investimento ai risultati sociali ottenuti (pay for result), grazie ai quali è possibile la collaborazione tra pubblico e privato secondo criteri di trasparenza e una maggiore efficienza dell’offerta ai cittadini. Sarebbe davvero un grande fatto se si cominciasse a sperimentare questo "social impact bond" per le politiche di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti". Il Segretario Generale della Fondazione Sviluppo e Crescita Crt e Vice Presidente di Social Impact Agenda per l’Italia Massimo Lapucci ha sottolineato che "l’impact investing, anche grazie ad innovativi strumenti finanziari come i Social Impact Bond, è in grado di coniugare risparmi di spesa pubblica, tangibili risultati sociali e realistiche prospettive di ritorno dei capitali investiti nel tempo". Un’alleanza pubblico-privato per reinserire i detenuti di Claudia Di Lorenzi Città Nuova, 17 marzo 2017 Il progetto mira ad applicare il Pay by Result, uno strumento finanziario ancora poco noto in Italia, ma diffuso all’estero, alle carceri, per migliorarne l’organizzazione e le condizioni dei detenuti. Si chiama Pay by Result e in parole povere significa "pagamento a risultato ottenuto": è uno strumento finanziario, ancora poco noto in Italia, ma che ha riscosso all’estero un successo interessante, che consente grandi risparmi e coordinamento fra attori diversi, mettendo in sinergia pubblica amministrazione e privati. Human Foundation e Fondazione Sviluppo e Crescita Crt hanno pensato di applicarlo al mondo del terzo settore, ed in particolare all’universo delle carceri, con un progetto sperimentale finalizzato al reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute, alla loro autonomia e all’abbassamento della recidiva. L’iniziativa, realizzata con l’apporto del Politecnico di Milano, dell’Università di Perugia e di Kpmg, con il supporto del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e la collaborazione dell’Istituto Lorusso e Cutugno di Torino, è stata presentata ieri alla Camera di Commercio di Roma, alla presenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando, che, sottolineando la coincidenza dell’approvazione - ieri - da parte del Senato, della riforma penale, ha ricordato l’impegno del Governo per arginare il problema del sovraffollamento carcerario e del numero elevato di detenuti in attesa di sentenza definitiva. "Lo spunto per questo lavoro - hanno spiegato quindi i promotori - parte dalla crescente limitatezza di risorse pubbliche per investimenti finalizzati alla sperimentazione di servizi di welfare innovativi. Per sopperire alla scarsezza di risorse per l’innovazione sociale, il settore privato, collaborando con la Pubblica Amministrazione, può offrire un prezioso contributo ai processi di applicazione di nuove politiche per l’inclusione". La presidente di Human Foundation, Giovanna Melandri si è detta "convinta che questa sia la strada giusta per poter sperimentare servizi sociali fondamentali e innovativi, realizzando nuovi modelli applicabili in tutto il terzo settore. Da tempo studiamo e proponiamo l’utilizzo di modelli finanziari che collegano l’investimento ai risultati sociali ottenuti (pay for result), grazie ai quali è possibile la collaborazione tra pubblico e privato secondo criteri di trasparenza e una maggiore efficienza dell’offerta ai cittadini". Rispetto al funzionamento dello strumento finanziario Francesco Mento, direttore di Human Foundation, ha spiegato: "Secondo il modello Pay by Result, vengono mobilitate risorse private che arrivano all’inizio e sostengono l’implementazione dell’intervento durante gli anni necessari ad erogare i servizi e valutarne l’efficacia, per cui si tratta di interventi pluriennali. Poi se l’intervento ha raggiunto i suoi obiettivi, attraverso un valutatore indipendente che va a certificare quei risultati, l’amministrazione pubblica restituisce agli investitori privati, quindi ex-post, il capitale che hanno investito con un piccolo rendimento laddove l’accordo lo preveda". E se l’intervento non raggiunge il suo obiettivo "ci sono esperienze diverse a seconda dell’approccio che viene utilizzato: fondi di garanzia che tutelano gli investitori, una perdita del capitale, il ritorno del solo capitale (senza rendimento) o la perdita totale del capitale". Ma il carattere innovativo del modello riguarda anche l’aspetto metodologico: "è nella collaborazione di attori molto diversi - continua Mento - che hanno mobilitato le loro competenze, che sono specifiche rispetto ai temi dello studio, e da questo punto di vista è stato molto interessante. Rispetto al modello le soluzioni che abbiamo prefigurato di individualizzazione dell’intervento, di gestione e presa in carico attraverso un case-manager, di erogazione di una pluralità di servizi che vanno a rispondere ai bisogni specifici degli utenti rappresenta sicuramente una innovazione sia nei processi di presa in carico che nella erogazione dei servizi". Proprio l’individualizzazione dell’intervento, calibrato sul singolo detenuto, rappresenta un valore aggiunto: "il case-manager ha il compito di selezionare il beneficiario, progetta con il detenuto l’intervento e lo accompagna durante il percorso, coordinando i soggetti coinvolti nell’erogazione dei servizi. Lavora in sinergia con gli educatori, con i servizi del territorio e con le organizzazioni del Terzo settore coinvolte". I detenuti beneficiari degli interventi vengono scelti secondo tre profili specifici: con scarso capitale sociale e personale; con scarso capitale sociale e personale ma con risorse personali e attitudine al cambiamento; con una rete sociale su cui poter fare affidamento e con risorse personali. Tra le attività proposte compaiono counseling psicologico, attività sportive e culturali, attività terapeutiche, percorsi formativi di base e professionali, laboratori motivazionali e di supporto per l’avvio di impresa, attività di mediazione fra il detenuto e la famiglia, costruzione di reti di accoglienza. Al riguardo, il Ministro Andrea Orlando ha sottolineato quanto "sia necessario passare da un carcere di tipo fordista, che per casi diversi prevede trattamenti uguali, ad un carcere che invece individualizzi il trattamento e offra opportunità concrete di reinserimento. Solo un sistema che assicuri il reinserimento sociale può infatti garantire la sicurezza pubblica". Il guardasigilli ha quindi auspicato che allo studio "faccia seguito la sperimentazione pilota, da cui partire per rinnovare l’intero sistema penitenziario del nostro Paese", osservando anche che il modello presentato "può inoltre contaminare positivamente altri ambiti del welfare pubblico". Uno dei benefici più rilevanti derivanti dall’adozione di questo modello - ha ricordato infine Giovanna Melandri - consiste infatti nella ottimizzazione della spesa pubblica, che è indirizzata solo verso i progetti e le iniziative di provata efficacia. È la misurabilità dei risultati ottenuti secondo parametri predefiniti che rende l’approccio rigoroso. "L’impact investing - ha evidenziato Massimo Lapucci, Segretario Generale di Crt - anche grazie ad innovativi strumenti finanziari, è in grado di coniugare risparmi di spesa pubblica, tangibili risultati sociali e realistiche prospettive di ritorno dei capitali investiti nel tempo". "Alla base di questi strumenti - spiega una nota diffusa dal gruppo - vi è l’idea di promuovere la sperimentazione di progetti altamente innovativi, orientati a generare benefici misurabili a vantaggio di una determinata popolazione target, ai quali possa essere associato un preciso valore finanziario, approssimato in termini di risparmi futuri rispetto agli attuali livelli di spesa per l’erogazione dei servizi". Nel concreto "se la persona detenuta, al termine del percorso trattamentale e detentivo, non farà ritorno nel circuito carcerario, la Pubblica Amministrazione vedrà benefici in termini di risparmi rispetto a costi diretti. Pensiamo, ad esempio, all’eventuale minor numero di pasti da erogare, così come alla riduzione delle spese legate a garantire le misure di sicurezza nell’istituto. Vi sono, poi, benefici indiretti: la comunità godrà di un abbassamento del tasso di criminalità, sino ad arrivare ad un maggiore gettito fiscale laddove il detenuto venga impiegato stabilmente". Riforma giustizia. Associazioni in allarme: "Rischio di nuovi manicomi giudiziari" di Giovanni Augello Redattore Sociale, 17 marzo 2017 Il testo approvato oggi al Senato con 156 voti favorevoli, 121 contrari e 1 astenuto aggrava le previsioni del comitato StopOpg per il futuro delle Rems, che "rischiano di diventare a tutti gli effetti i nuovi Opg". Cecconi: "Grave responsabilità del ministro Orlando". Torna lo spettro degli Ospedali psichiatrici giudiziari in Italia. A pochi giorni dall’annuncio della chiusura degli stessi, come voluto dalla riforma che ne ha decretato il superamento, la riforma della giustizia penale approvata questa mattina al Senato allarma associazioni, sindacati e organizzazioni non governative che in questi anni si sono battute per la chiusura di quella che è stata definita una "vergogna nazionale". Il testo incriminato, inizialmente, era l’articolo 12 comma 1 lettera d del disegno di legge n. 2067 sulla Giustizia, ma con il maxiemendamento su cui il governo ha posto la fiducia le cose non sono cambiate, anzi sembrano peggiorate. E ora che il testo ora ha avuto l’ok del Senato con 156 voti favorevoli, 121 contrari e 1 astenuto, sembra ancor più difficile intervenire su quello che il portavoce del comitato nazionale StopOpg, Stefano Cecconi, definisce "un pasticcio": Secondo il comitato nazionale StopOpg, che riunisce associazioni, enti e sindacati, con l’approvazione del testo "viene ripristinata la vecchia normativa disponendo il ricovero nelle Residenze per le misure di sicurezza (Rems) come se fossero i vecchi Opg. Se non si rimedia, saranno inviati nelle strutture regionali, già sature, i detenuti con sopravvenuta infermità mentale e addirittura quelli in osservazione psichiatrica. A pochi giorni dalla chiusura dei vecchi Opg, così le Rems rischiano di diventare a tutti gli effetti i nuovi Opg". Per Cecconi, però, si rischia di peggiorare la situazione. "Il testo allarga addirittura quello che era l’ordinamento prima della riforma sugli Opg, è incredibile - spiega. Mentre prima l’ordinamento prevedeva che in Opg ci stessero le persone con sopravvenuta malattia mentale, cioè gli ex art. 148 del codice penale, e le persone in osservazione psichiatrica, nel testo invece si parla genericamente di disagio psichico. Un vero pasticcio e c’è una grave responsabilità del ministro Orlando. Gravissimo che non sia intervenuto". La questione è delicata. Il tema, infatti, è quello della salute mentale in carcere e del futuro stesso delle Rems, appena nate e già a rischio affollamento per via delle misure di sicurezza provvisorie disposte dalla magistratura e non ancora eseguite a causa del numero chiuso delle strutture. Le nuove disposizioni andrebbero così ad aggravare un problema che ancora oggi non trova soluzioni. "Il problema è che siccome nelle carceri le persone stanno male e non hanno diritto all’accesso alle cure si pensa di risolvere questo diritto negato creando un vero e proprio casino - spiega Cecconi -: scaricando il peso su strutture residuali e transitorie. Non è questa la soluzione che ci voleva per garantire il diritto alle cure delle persone detenute, anche perché bisogna privilegiare le misure alternative. In questo modo, invece, si sostituisce un contenitore con un altro. Se non si trova subito un rimedio, quel che si vuol far passare come una soluzione umana verso i detenuti in realtà peggiorerà la situazione dei detenuti e quella delle Rems". Dal ministro della Giustizia e da quello della Salute, Beatrice Lorenzin, intanto non sono arrivati segnali incoraggianti e ora il comitato chiede di essere ascoltato per evitare di fare passi indietro. "Chiediamo che il ministro Orlando fermi le macchine e discuta con noi e con gli esperti su come evitare che il decreto legislativo faccia un disastro - continua Cecconi -. Il governo ha messo la fiducia sul testo e ormai verrà approvato, quindi ora le strade sono due: o il governo riesce a presentare in altra sede un provvedimento che risolve la questione oppure nel momento in cui decide di affrontare il decreto deve discutere la cosa per trovare un’altra soluzione e occorre trovarla. Sarebbe una beffa a pochi giorni dalla chiusura degli Opg". Processo penale, la prescrizione "allunga" i tempi di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2017 Il testo di riforma del processo penale votato dal Senato modifica in modo significativo il codice penale e quello di procedura penale. La versione approvata da palazzo Madama prevede: i) un aumento "della metà", in caso di atto interruttivo, del tempo necessario a prescrivere i reati di corruzione, induzione indebita e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, maltrattamenti e reati sessuali di diversa natura in danno di minori; ii) l’inserimento tra le cause interruttive della prescrizione dell’interrogatorio reso alla polizia giudiziaria su delega del Pm; iii) un’estensione dei casi di sospensione della prescrizione oggi previsti dall’articolo 159 comma 1 del codice penale; iv) un "congelamento" della prescrizione in caso di sentenza di condanna. Quest’ultima è la novità più rilevante. La natura dell’intervento è sostanziale, dato che è stato collocato nel comma II dell’articolo 159 : il divieto di applicazione retroattiva è una conseguenza inevitabile, ed è stato sancito espressamente dal Senato. Il congelamento opera "per un tempo non superiore a un anno e sei mesi": inizia con il deposito della motivazione della sentenza di primo grado e cessa con la pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo. Identico il termine tra il deposito della sentenza di condanna in appello e il dispositivo della sentenza della Cassazione. Le cause di sospensione (articolo 159 comma 1) possono concorrere con il congelamento della prescrizione previsto dal comma successivo. Se però la sentenza del grado successivo proscioglie l’imputato, oppure annulla la sentenza o ne dichiara la nullità, il periodo di congelamento della prescrizione viene decurtato. Il testo votato dal Senato prevede che il Governo emani, entro 3 mesi, dei decreti legislativi nelle seguenti aree: i) tutela della riservatezza delle conversazioni (in particolare tra difensore e assistito); ii) semplificazione dell’impiego delle intercettazioni delle conversazioni telefoniche e telematiche per i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la Pa; iii) disciplina delle intercettazioni di comunicazioni o conversazioni tra presenti con il captatore informatico ("trojan"). La delega impone al Governo una serie di cautele per assicurare la riservatezza delle conversazioni intercettate, telematiche o telefoniche, soprattutto se riguardano persone terze al procedimento, contengono dati sensibili, o sono penalmente irrilevanti. È previsto un delitto punito con pena non superiore a 4 anni di carcere per chi diffonde, per danneggiare la reputazione o l’immagine altrui, riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni svolte in sua presenza ed effettuate fraudolentemente. Non c’è reato se le registrazioni sono utilizzate per esercitare il diritto di difesa o di cronaca. Un argomento "caldo" è quello del trojan. Lo scorso luglio le sezioni unite della Cassazione (sentenza 26889), ne hanno sancito una legittimità piuttosto estesa. La novella pone alcuni paletti: possibilità di usare il trojan nei luoghi di privata dimora solo se si stia svolgendo attività criminosa, controllo rigoroso del giudice sull’indispensabilità del ricorso a tale mezzo di ricerca della prova, utilizzo di tale mezzo di prova solo se un’associazione criminale ha finalità di terrorismo o criminalità organizzata, gestione da remoto ad opera della polizia giudiziaria, verbalizzazione analitica delle operazioni. Cautele minime per arginare "voraci" acquisizioni di dati personali con troppa facilità. Ddl penale: perché mettere la fiducia è stato un grave errore del governo di Raffaele Minieri* e Michele Capano** Il Dubbio, 17 marzo 2017 Non è in discussione, e da parte Radicale lo denunciamo da decenni, che la Giustizia italiana in generale, quella penale in particolare, si trovi in una crisi profonda. Crisi sotto il profilo delle inefficienze e dei ritardi conseguenti, con buona pace del principio della "ragionevole durata del processo", che sembra messo nella Carta costituzionale (lo abbiamo fatto nel 1999) appunto perché ne sia fatto strame con più gusto. Crisi sotto il profilo del dilagare, anche in questa legislatura, del populismo penale che vede nel reato e nella sanzione l’unica risposta all’insicurezza dei cittadini, alimentata (o indotta) da mezzi di informazioni in larga parte rispondenti agli stimoli dell’emotività. Per questa via, l’urgenza di riforme dell’ordinamento penale e processuale è dinanzi agli occhi della classe dirigente e del Parlamento; e tuttavia la decisione del Governo di porre la questione di fiducia per ottenere il voto favorevole del Parlamento sul disegno di legge in materia penale è oggi da considerarsi una scelta errata, per ragioni di metodo e di merito. Sul primo versante, occorre ricordare che la Costituzione, nel prevedere il principio di riserva di legge in materia penale, ha voluto evitare che i diritti e le garanzie dei cittadini, profondamente coinvolti dagli interventi in materia penale (cioè in materia di libertà della persona) venissero compressi senza un adeguato confronto tra le varie forze politiche. Questa esigenza "costituzionale" e ordinamentale non può essere subordinata alla necessità (presunta) di portare a casa una riforma qual che sia il suo contenuto, o peggio al ricatto della fine anticipata della legislatura che dovrebbe - nel voto dei parlamentari - fare premio sulle critiche al testo di legge, o peggio ancora rappresentare un volano per le primarie del Partito democratico in cui è impegnato il Ministro della giustizia Orlando. Sul secondo versante, quello del "merito", il disegno di legge intitolato "modifiche al codice penale ed al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole del processo" appare orientato ad obiettivi del tutto incompatibili con le "pretese" e gli "annunci" con i quali si presenta. Sebbene il disegno di legge contenga anche interessanti novità, il giudizio complessivo da formularsi è nettamente negativo. In primo luogo la sospensione dei termini prescrizionali dopo il deposito delle motivazioni di primo e secondo grado si scontra con l’evidenza di decisioni prese con grave e colpevole ritardo. Sul punto bisogna sempre ricordare che l’Italia è uno dei Paesi più sanzionati per l’eccessiva durata dei processi. Tale scelta renderà ancora più lenta la definizione del processo e non offre alcuna risposta alle statistiche che ci ricordano che la maggior parte delle prescrizioni avvengono durante la fase delle indagini preliminari, cioè ben prima che l’attività dei difensori venga posta in essere. Inoltre si deve considerare che la lunghezza dei processi lede i diritti di tutti soggetti coinvolti, in particolare delle parti offese. In secondo luogo è grave e censurabile l’inutile inasprimento delle pene per furto, per rapina e per estorsione. Si tratta di una scelta assolutamente assurda in considerazione dell’ampia forbice edittale che già tali fattispecie mettevano a disposizione del Giudice, arrivandosi anche a prevedere pena pari a 20 di reclusione. Ancora una volta, in questa legislatura da parte governativa si cede alle spinte populiste e "securitarie" avallate dai "professionisti della piazza" (mentre è nella serenità delle aule e con l’ ausilio della razionalità delle norme che dovrebbero celebrarsi i processi). Egualmente criticabile è la patente lesione delle garanzie difensive in sede processuale. L’obiettivo di velocizzare il grado d’appello non può passare attraverso un’estensione discrezionale delle dichiarazioni d’inammissibilità degli atti d’appello e nella semplificazione delle motivazioni delle sentenze. Con una scelta del genere si rischia di eliminare di fatto un grado di giudizio, subordinando i diritti di libertà dei cittadini ad esigenze di velocità decisionale. Ma soprattutto si continua a pensare di risolvere il nodo della durata del processo attraverso la mortificazione del processo stesso, piuttosto che attraverso il potenziamento del numero di operatori, l’efficienza e l’organizzazione degli uffici. In quarto luogo, come bene ha sottolineato l’Unione delle Camere Penali nel proclamare l’astensione dalle udienze dei penalisti italiani dal 20 al 24 marzo per rispondere alla decisione di apporre la "fiducia", la proposta estensione del "processo a distanza" ai processi penali con detenuti introduce in modo stabile un modello estraneo ed antitetico alla natura democratica e liberale del rito accusatorio, in manifesta contraddizione con i principi costituzionali e convenzionali del giusto ed equo processo ed in accoglimento delle proposte più becere e superficiali avanzate dalla parte culturalmente meno avvertita della magistratura. Altre sono le riforme che occorrono, e il dibattito nel Paese è utile a produrle. Una nuova stagione di dibattito per una "Giustizia Giusta": a partire dai temi del superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale e della separazione delle carriere (merito rimanete riportati campo da una proposta dell’Unione delle camere penali). Su questo terreno continuerà l’impegno di Radicali Italiani nei prossimi mesi e anni. *Direzione Radicali Italiani **Tesoriere Radicali Italiani "La riforma è inaccettabile", avvocati penalisti in sciopero dal 20 al 24 marzo di Vittorio Proietti forexinfo.it, 17 marzo 2017 Lo sciopero degli avvocati italiani indetto per marzo 2017 provocherà l’astensione dalle udienze, poiché la Riforma del Processo Penale è stata giudicata inaccettabile. I processi tra i giorni 20 e 24 marzo saranno rinviati, i professionisti non rinunciano alla mobilitazione. Gli avvocati penalisti non ammettono le nuove proposte della Riforma, in particolare la presenza virtuale dell’imputato al processo, oltre che l’allungamento dei tempi di prescrizione. Tuttavia, questi non sarebbero gli unici motivi scatenanti. L’astensione dalle udienze è patrocinata dall’Unione delle Camere Penali ed è stata comunicata con delibera ufficiale nella settimana passata. Ciò non ha impedito al Governo di incassare la fiducia in Senato, che a conti fatti ha dimostrato di ignorare le contestazioni degli avvocati. Vediamo quali sono i motivi dello sciopero e cosa prevede la Riforma del Processo Penale. Lo sciopero avrà inizio il 20 marzo e causerà l’astensione dalle udienze degli avvocati fino a venerdì 24, imponendo 5 giorni di stop all’attività giudiziaria. La Riforma del Processo Penale è stata giudicata inaccettabile dai professionisti del diritto e sembra che ciò non venga considerato. L’astensione dalle udienze non sembra far paura al Governo, che prosegue l’iter di approvazione della Riforma. Oltre al taglio delle intercettazioni, risultano indigesti anche gli aggravi di pena per chi compie voto di scambio, rapine ed estorsioni. Gli avvocati italiani, tuttavia, non sembrano interessati agli inasprimenti delle pene, quanto all’allungamento dei tempi di giudizio: sospendendo i termini di prescrizione per 18 mesi dopo il I e II grado, i processi diverrebbero più lunghi e dispendiosi per lo stato e per tutti gli imputati. Sciopero degli avvocati 2017: la riforma è inaccettabile per tutti Lo sciopero degli avvocati con l’astensione dalle udienze sembra il modo più efficace per contestare la Riforma, giudicata inaccettabile anche per altre proposte poco giudiziose. Gli aggravi di pena, infatti, non sembrano efficaci come deterrente e ciò rende tendenzialmente populista l’iniziativa. Gli avvocati penalisti, inoltre, giudicano inaccettabili le udienze con imputati in videoconferenza, per cui fisicamente assenti al processo. Il diritto ad un equo e giusto processo non può essere cancellato in nome dell’efficienza produttiva, ciò andrebbe anche contro la Costituzione. La fiducia incassata in Senato dalla Riforma del Ministro Orlando, inoltre, è stata interpretata come un giro di vite, poiché non è stato lasciato spazio alla discussione. Non ci resta che attendere la reazione allo sciopero degli avvocati, sperando in sviluppi positivi. Paletti alle toghe in politica: candidabili solo "fuori sede" di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2017 Regole chiare per le toghe in politica. O almeno per la loro candidabilità ed eleggibilità prima e per il ricollocamento poi. Le commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera - previa intensa nella maggioranza - hanno concluso l’esame di un disegno di legge che lunedì sarà in Aula per la discussione generale. Nessun impatto immediato sul caso Emiliano, per il quale vale piuttosto il divieto che l’ordinamento giudiziario pone alla partecipazione dei magistrati alla vita dei partiti. Semmai la legge fosse approvata - siamo alla seconda lettura dopo il sì del Senato ma il testo è cambiato molto e dovrà tornare a Palazzo Madama - al presidente della Regione Puglia e candidato alla guida del Pd si potrebbero applicare le misure sul ritorno in servizio. Il ddl prevede un divieto di candidabilità per tutti i magistrati (ordinari, amministrativi, contabili, militari) che nei 5 anni precedenti l’accettazione della candidatura hanno prestato servizio in uffici giudiziari con competenza sulla circoscrizione elettorale o sulla provincia, a seconda della carica per cui la toga ha deciso di correre (deputato o senatore, parlamentare europeo, presidente o consigliere regionale, sindaco o consigliere, ma anche consigliere circoscrizionale e assessore). L’interessato dovrà presentare una dichiarazione di non essere in condizione di incandidabilità, soggetta ad accertamento alla presentazione delle liste. L’aspettativa, con il collocamento fuori ruolo, è obbligatoria per tutto il periodo del mandato elettivo e per l’assunzione dell’incarico di Presidente del Consiglio, di ministro, di viceministro e sottosegretario e di assessore. Articolato il ricollocamento. Se il magistrato non è stato eletto potrà essere ricollocato nel ruolo di provenienza. Ma nei 2 anni successivi non potrà svolgere le funzioni inquirenti e comunque essere assegnato a un ufficio con competenza sulla circoscrizione elettorale o sul distretto di Corte d’appello se si tratta di elezioni locali. I magistrati eletti al Parlamento nazionale o europeo, al termine del mandato - se non "pensionabili" -, potranno essere collocati come consiglieri di Cassazione o alla procura generale della stessa oppure in un distretto di Corte d’appello diverso da quello della circoscrizione in cui sono stati eletti, con divieto per 3 anni di ricoprire incarichi direttivi o semi-direttivi e, in ogni caso, con il vincolo di esercitare per 3 anni solo le funzioni giudicanti collegiali. Altrimenti potranno anche scegliere l’inquadramento nell’avvocatura dello Stato o in un ruolo amministrativo del ministero della Giustizia o, infine, il collocamento a riposo. Un intervento sulla materia è stato sollecitato più volte, anche dal Csm, dopo che le accuse di politicizzazione della magistratura sono diventate quotidiane. Nel 2008 la Consulta (sentenza n. 25), nel respingere la questione di legittimità della disposizione dell’ordinamento giudiziario che qualifica come illecito disciplinare l’iscrizione o partecipazione sistematica del magistrato a partiti politici, ha chiarito che sono possibili limitazioni all’elettorato passivo purché circoscritte. Gherardo Colombo: "prima di fare politica io lascerei la toga o addio credibilità" di Liana Milella La Repubblica, 17 marzo 2017 L’ex Pm di Mani pulite: chi ha avuto visibilità rischia di non essere imparziale. E sul caso di Emiliano dice: "Diritto di candidarsi è inviolabile ma sono ragionevoli norme su tempi e luoghi". "La Costituzione garantisce a un magistrato di candidarsi e di rientrare poi nell’ordine giudiziario. Io, per quel che riguarda me, se mai avessi deciso di entrare in politica, prima di candidarmi mi sarei dimesso dalla magistratura". Gherardo Colombo, il pm di Mani pulite che dieci anni fa ha lasciato la toga convinto che sia più utile educare i giovani alla legalità spiegando loro che c’è scritto nella Costituzione, parla con Repubblica delle nuove regole su toghe e politica. E dice che sarebbe opportuno differenziare le nuove regole che riguardano chi ha acquistato visibilità per le indagini fatte e chi no. Alla Camera, lunedì, andrà in aula il ddl che detta un codice di comportamento sui tanti casi Emiliano di questi anni. Secondo lei una toga è libera di correre in politica come gli altri cittadini o deve rispettare dei netti limiti? "Anche in questo caso dobbiamo partire dalla Costituzione. Leggendola si capisce bene che non possono essere stabiliti limiti alla eleggibilità dei magistrati perché l’articolo 51 è chiaro: "Tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge". La legge, quindi, non può introdurre condizioni che rendano il loro diritto a candidarsi discriminato rispetto a quello degli altri. Credo che non confliggerebbe con la Costituzione una norma che stabilisse che un magistrato non può candidarsi nel distretto in cui ha esercitato le sue funzioni se non dopo un periodo di una certa consistenza. Non credo che sarebbe coerente con la Carta una misura che imponesse analogo distacco temporale per candidarsi altrove". Però l’articolo 98 dice anche che la legge può mettere paletti per l’iscrizione dei magistrati ai partiti politici. E proprio questo è l’oggetto dello scontro nel caso di Emiliano. "Il diritto di elettorato passivo, cioè la possibilità di essere eletti, e il diritto di iscriversi a un partito sono cose diverse". Giusto oggi, nella discussione su Minzolini, lui ha polemizzato su un magistrato che era nel suo collegio d’appello ed era stato eletto nel Pd. Ritiene che il giudizio fosse prevenuto politicamente. "La mia opinione per quel che riguarda il rientro in magistratura è che sarebbe legittimo prevedere delle limitazioni riguardanti il luogo di esercizio della professione, o anche di altro genere, purché siano effettivamente indirizzate a garantire la percezione dell’indipendenza di chi rientra in servizio, e non a penalizzare quest’ultimo". Scusi, ma regole troppo stringenti sulla candidatura e poi sull’uscita non finiscono per disincentivare di fatto la possibilità e la stessa voglia di candidarsi dei magistrati? "Secondo me si potrebbe pensare all’introduzione di discipline articolate, che tengano conto della funzione svolta (e che svolgerà) chi intende candidarsi". Sta dicendo che non possono valere le stesse regole per una toga famosa, tipo Ingroia per intenderci, e una meno nota? "Faccio un esempio: il giudice civile che si occupa di esecuzioni immobiliari e che, come generalmente succede in quella materia, non ha dovuto trattare casi clamorosi, non vedo perché debba subire per legge limitazioni alla sua candidabilità e al suo rientro in magistratura nella stessa funzione. Ben diverso invece il caso di un magistrato penale o civile che si sia dovuto occupare di questioni che abbiano assunto una particolare notorietà e che abbiano in qualche modo coinvolto degli aspetti in stretta relazione con l’amministrazione della cosa pubblica. In questo caso, più che indicare regole valide per tutti, potrei dire quale sarebbe la mia regola". Sì, e quale sarebbe la strategia elettorale di Colombo? "Se avessi mai deciso di entrare in politica avrei lasciato passare un tempo consistente, per esempio tre anni, tra la fine della mia attività di pm e il momento del sì alla candidatura. Per me poi la scelta sarebbe stata irreversibile. Una volta che avessi scelto di candidarmi alle elezioni automaticamente avrei deciso di dimettermi dalla magistratura. Questa è una scelta personale, perché invece la Costituzione garantisce la candidabilità e quindi anche la possibilità di rientrare pur senza impedire che le modalità possano essere articolate". Non è una previsione troppo drastica? "Dal mio punto di vista, chi diventa particolarmente noto per aver svolto delle funzioni nell’ambito giudiziario che hanno avuto attinenza con fatti commessi da amministratori della cosa pubblica, se si candida per un partito e poi torna a svolgere la professione, rischia di apparire non sufficientemente indipendente e imparziale per poterla svolgere correttamente. Non uso a caso la parola "apparire", perché la questione non è tanto quella se sia legittimo dubitare che chi ha svolto funzioni politiche svolga poi quelle giudiziarie con imparzialità e indipendenza. Bensì quella della credibilità dell’istituzione che è condizionata da quel che appare all’esterno". Iscrizione a un partito politico. L’ordinamento giudiziario lo esclude per i magistrati e la Consulta lo conferma. Ma le stesse regole possono valere sia per i magistrati in ruolo che per quelli in aspettativa? "Sotto il profilo della percezione dell’opinione pubblica non ci si accorge nemmeno se una persona che è iscritta al gruppo parlamentare di un partito vota sempre in sintonia con quel partito, sia iscritta o no al partito medesimo. Voglio dire che è privilegiare un aspetto formale rispetto a quello sostanziale in entrambe le ipotesi". Francesca Scopelliti: "in Italia ci sono quattro milioni di persone accusate ingiustamente" di Claudio Laugeri La Stampa, 17 marzo 2017 La vedova di Enzo Tortora a Torino per presentare il libro "Lettere a Francesca" agli studenti del liceo classico D’Azeglio. "L’accusato deve essere giudicato, ma il processo deve avere regole giuste?". A chiederlo è l’avvocato Roberto Trinchero, presidente della Camera penale torinese, davanti alla platea degli studenti di cinque classi del ginnasio del Liceo Classico "Massimo d’Azeglio". Occasione per l’incontro nell’aula magna della scuola è la presentazione del libro "Lettere a Francesca", la storia dell’errore giudiziario che ha travolto l’esistenza del giornalista Enzo Tortora e della sua vedova, Francesca Scopelliti, arrivata nell’istituto per portare la propria testimonianza. "In Italia, ci sono 4 milioni di persone che sono state accusate ingiustamente. E per loro, lo Stato, tutti noi, abbiamo pagato risarcimenti per 640 milioni di euro", spiega l’avvocato Anna Chiusano, figlia di Vittorio, al quale è stata intitolata la Camera penale torinese. Dopo l’introduzione dell’insegnante (e avvocato) Maria Giovanna Musone e dell’avvocato Arianna Corcelli, i colleghi Trinchero e Chiusano hanno dipinto una quadro della Giustizia com’è e di come dovrebbe essere. A partire dalla domanda chiave: "Pensate che una persona quando viene accusata sia già colpevole?". La risposta dei ragazzi è un "No" timido, pronunciato a bassa voce, come se fosse una convinzione intima, ma senza riscontro nella realtà. "Lettere a Francesca" parla di questo. È la storia dell’errore giudiziario diventato l’emblema della "malagiustizia". Ma ce ne sono altri. E si rivolge ai ragazzi: "Solo voi potrete prendere lezione da questa vergogna per porre rimedi. Non ho fiducia nell’attuale gestione della politica, della giustizia e dell’informazione. La Giustizia non è una materia da usare come una clava per battaglie politiche". I relatori parlano di presunzione d’innocenza, di giusto processo, "concetti importanti, che i giovani devono comprendere". Poche domande, ma partecipate. Ludovico, 17 anni, della Ve, ha ancora in mente l’immagine raccontata da Francesca di Enzo che esce dalla caserma con i ferri ai polsi, mitragliato dai flash dei fotografi e seguito dalle telecamere delle tv. Parte con un’affermazione: "Non bisogna dare ai media quello che vogliono, fare vedere che sei afflitto, non bisogna abbassare la testa, ma fare come Dante e Virgilio nell’Inferno. Non badare a loro, ma guarda e passa". Poi, l’insegnante lo aiuta a formulare la domanda: "Può un giornalista aiutare quando c’è un errore giudiziario". Il compagno di classe Marco, 16 anni, la butta in socio-politica: "È possibile distinguere tra criminalità organizzata e criminalità di Stato?". E ancora: "C’è un abuso di campagne di sensibilizzazione, possono essere utili anche se rivolte a persone senza strumenti culturali? Perché sovente, molti diventano "buonisti", ma non sviluppano una cultura della legalità". Già. Ma il senso dell’incontro è tutto nel botta e risposta tra Sofia, 15 anni, V D, e Francesca Scopelliti: "Ha mai dubitato dell’innocenza di Tortora?", "No, mai, nemmeno per un attimo". Non solo per amore. Ma perché così deve essere. Intestazioni fittizie nella confisca di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2017 Sezioni unite - Sentenza 16 marzo 2017 n. 12621. La confisca dei beni del soggetto socialmente pericoloso può riguardare, dopo la sua morte, sia i beni acquisiti per successione ereditaria sia quelli intestati in maniera fittizia o trasferiti a terzi. Le Sezioni unite (sentenza 12621) chiariscono la portata dell’articolo 18 del codice antimafia (Dlgs 159/2011) che regola l’"applicazione delle misure patrimoniali dopo la morte del preposto". I giudici privilegiano un’interpretazione a "largo raggio" della norma considerando confiscabili anche i beni che devono considerarsi nella disponibilità indiretta del soggetto pericoloso in virtù di "finti" trasferimenti fatti in vita. Una lettura che rispetta l’obiettivo del Codice antimafia: evitare che l’illecita disponibilità dei beni del mafioso o dell’appartenente alla criminalità organizzata prosegua a qualunque titolo. Per questo la confisca deve riguardare anche eventuali "signorie di fatto" da parte dei successori a titolo universale o particolare e di terzi interessati. Il secondo nodo che le Sezioni unite hanno sciolto riguardava la necessità o meno che la confisca del bene del terzo sia accompagnata dalla dichiarazione di nullità degli atti di disposizione negoziale, attraverso i quali si sono realizzati i passaggi di mano "di facciata". Anche in questo caso le Sezioni unite sgombrano il tavolo dall’equivoco che la dichiarazione sia pregiudiziale. Il presupposto per la confisca è l’accertamento giudiziale della fittizietà del trasferimento o dell’intestazione. La dichiarazione di nullità delle relative disposizioni è, di fatto, una conseguenza del risultato dell’indagine e scatta contestualmente alla confisca. E l’inosservanza dell’obbligo di dichiarazione da parte del giudice non è un vizio rilevante ma solo un’omissione, rimediabile con la procedura prevista per l’errore materiale. L’ultima precisazione è sulle presunzioni di fittizietà che vanno riferite esclusivamente agli atti realizzati "dal soggetto portatore di pericolosità e non riguardano anche gli atti dei suoi successori". Chi dichiara che alla guida c’era un altro rischia una condanna per falso di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2017 Corte di cassazione, sentenza 16 marzo 2017, n 12779. Il "trucco della nonna" per salvare la patente dalla decurtazione dei punti e dalla sospensione dopo aver preso una multa è più rischioso di quel che si può pensare: se l’agente che ha accertato l’infrazione è scrupoloso, dichiarare che alla guida c’era una persona diversa dall’effettivo responsabile della violazione può costare una condanna per falso ideologico, che prevede una pena fino a due anni. E, almeno in alcune circostanze, non si può beneficiare della non punibilità per tenuità del fatto. Stesso rischio quando gli agenti indagano sulla dichiarazione resa. L’occasione per ricordarlo viene dalla sentenza 12779/2017, depositata oggi dalla Quinta sezione penale della Cassazione. La Corte ha confermato la condanna per la proprietaria di una vettura che - ricevuto a casa un verbale per uso vietato del telefono cellulare alla guida - aveva risposto all’invito a indicare le generalità del conducente (per decurtargli i cinque punti previsti dal Codice della strada) dichiarando che, al momento dell’infrazione, al volante si trovava il padre. Una delle tante possibili versioni del diffuso "trucco della nonna", che consiste nell’indicare come trasgressore una persona che ha la patente ma non la usa o comunque guida poco. Nel caso deciso dai giudici, il trucco non era riuscito perché il vigile che ha rilevato l’illecito è stato tanto scrupoloso da annotare (e riportare nel verbale) il sesso del conducente e la dichiarazione della proprietaria del veicolo era evidentemente stata esaminata dallo stesso agente. Lo stesso può accadere quando l’infrazione è stata fotografata o filmata (come accade con gli apparecchi di rilevazione automatica, per esempio della velocità o del passaggio col rosso, quando funzionano in modalità "da remoto", cioè senza essere presidiati da agenti). Nella maggior parte dei casi, i verbali delle infrazioni rilevate direttamente dagli agenti non sono così precisi e le immagini riprese dagli apparecchi automatici non sono esaminate con attenzione (anche perché non di rado non consentono una visione sufficiente dell’abitacolo). Ma non sempre è così: a volte scattano controlli supplementari. Puo accadere quando: - non c’è una gran mole di materiale da verificare; - quando l’infrazione è particolarmente grave; - quando (e se) ci si accorge il veicolo viene colto spesso a violare il Codice della strada o se si riconosce personalmente il guidatore (come nei centri più piccoli); - quando la dichiarazione delle generalità del conducente è palesemente poco attendibile (per esempio, se si attribuisce a un anziano una velocità elevatissima alla guida di una moto). Nel caso deciso dalla Cassazione, è stato riconosciuto pieno valore a quanto l’agente ha dichiarato (prima sul verbale dell’infrazione e poi davanti al giudice) di aver visto, nonostante il sesso di una persona sia tra i dati di difficile interpretazione a distanza, che quindi si prestano ad argomentare che c’è stato un errore di rilevazione (tanto che non di rado si soprassiede a rilevare la violazione, proprio per non aprire un contenzioso di esito incerto). Inoltre, secondo la Corte, si rientra nel reato di falsità ideologica commessa da privato (articolo 483 del Codice penale), perché esso si configura quando "la dichiarazione del privato sia trasfusa in un atto pubblico destinato a provare la verità dei fatti, il che avviene quando la legge obblighi il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti al documento nel quale la dichiarazione è inserita dal pubblico ufficiale ricevente". Il caso di specie rientra in questa situazione, perché la dichiarazione ha l’effetto di "individuare il soggetto destinatario della sanzione amministrativa concludendo correttamente il relativo procedimento". Questo principio era stato già affermato nel caso della falsa dichiarazione di smarrimento della patente quando si chiede il rilascio di un duplicato (sentenza 17381/2016), ora ritenuto analogo a quello dell’indicazione non veritiera del conducente. Infine, la Cassazione ha confermato la sentenza di secondo grado anche nella parte in cui non applica la non punibilità per tenuità del fatto. Non solo perché l’imputata aveva precedenti penali, ma anche perché aveva mostrato "sfrontatezza" quando le è stata contestata la falsa dichiarazione che aveva reso. "Ti faccio piangere" integra la minaccia anche se alla frase non seguono i fatti di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2017 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 16 marzo 2017 n 12756. "Il mio scopo nella vita è farti piangere" integra sempre e comunque il reato di minaccia. Questo a prescindere se poi chi ha proferito la frase faccia seguire o meno un comportamento in linea con quanto dichiarato. A chiarirlo la Cassazione con la sentenza n. 12756/2017. La Corte, si è trovata a decidere su una situazione di conflittualità che era sfociata con la frase richiamata e che il Tribunale di Genova - con la sentenza del 16 ottobre 2015 - aveva confermato la decisione di primo grado che aveva condannato l’imputato alla pena di giustizia e al risarcimento dei danni della parte civile, avendolo ritenuto responsabile del reato previsto dall’articolo 612 del codice penale. Contro la decisone è stato proposto ricorso in Cassazione. Il ricorso in Cassazione - L’imputato ha negato l’addebito e, in particolare, di avere pronunciato le minacce ponendo a fondamento della decisione le affermazioni della persona offesa, che aveva riferito vagamente in ordine all’episodio, senza indicare il contesto nel quale si sarebbe verificato. Il ricorrente, peraltro, ha evidenziato come la sentenza appellata non avesse preso in esame il significato delle fotografie e il tenore dei messaggi acquisiti dai quali emergeva il clima sereno e aveva trascurato di valutare il clima di esasperata conflittualità che aveva condotto all’archiviazione di altro procedimento scaturito da una delle querele proposte dall’imputato nei confronti della persona offesa. I Supremi giudici hanno respinto l’appello sulla base di testimonianze che effettivamente riconoscevano la pronuncia da parte dell’imputato della frase. Per quanto riguarda, invece, la gravità della frase pronunciata è stato chiarito che elemento essenziale del reato è la limitazione della libertà psichica mediante la prospettazione del pericolo che un male ingiusto possa essere cagionato alla vittima, senza che sia necessario che uno stato di intimidazione si verifichi concretamente in quest’ultima, essendo sufficiente la sola attitudine della condotta a intimorire e invece risulta irrilevante l’indeterminatezza del male minacciato, purché questo sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente. Niente particolare tenuità del fatto - In seconda battuta, in base a quanto disposto dall’articolo 34, comma 3 del Dlgs 274/2000, dopo l’esercizio dell’azione penale, la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata solo quando, oltre all’imputato, anche la persona offesa non si oppone. Circostanza che nel caso concreto non si è verificata dal momento che la persona offesa una volta costituitasi parte civile, ha formulato richieste risarcitorie. Inevitabile quindi la condanna per il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di legittimità, che in relazione all’attività svolta, vengono liquidate in 1500 euro. Il nuovo garantismo targato pd Svolta o opportunismo? di Francesco Damato Il Dubbio, 17 marzo 2017 Il caso Lotti e il voto su Minzolini mostrano un cambio di atteggiamento. Nel passato Renzi non è stato altrettanto attento cavalcando il giustizialismo. "Questo Paese, per responsabilità diffuse anche della nostra parte politica, ha troppo spesso consentito alle polemiche giudiziarie di sostituirsi alla politica". Sono parole del ministro dello sport Luca Lotti nell’aula di Palazzo Madama, prima che l’assemblea, condividendo la sua difesa, bocciasse l’altra sera a larghissima maggioranza, con 161 no, 52 sì, 2 astensioni e un centinaio di assenze non certo casuali, la mozione di sfiducia "individuale" presentata dai grillini e illustrata con durezza da Taverna, intesa come senatrice del movimento 5 stelle. Secondo la quale sarebbe politicamente imperdonabile per un esponente del governo trovarsi indagato per violazione del segreto d’ufficio, o istruttorio, per quanto negata dall’interessato in un lungo interrogatorio da lui stesso richiesto, non appena informato dell’avviso di garanzia a mezzo stampa, in particolare dal Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio. E da chi sennò? Il passaggio del discorso di Lotti che ho selezionato per voi è brevissimo, ma preciso e abbastanza autocritico, lodevolmente e onestamente autocritico, anche se forse non così esplicito come si aspettava Piero Sansonetti. Che ieri si chiedeva qui, sul Dubbio, cosa aspettasse ancora Matteo Renzi per non ammettere l’errore di avere in qualche modo partecipato nel 2013 al linciaggio politico - parole mie - della ministra della Giustizia dell’allora governo di Enrico Letta, Annamaria Cancellieri. Della quale i giustizialisti di un tanto al chilo avevano reclamato le dimissioni per avere osato telefonare ad un’amica, disgraziatamente - per lei - convivente di Salvatore Ligresti, appena finito agli arresti domiciliari, interessandosi poi delle precarie condizioni di salute e del relativo trattamento di Giulia Ligresti, detenuta. Un interessamento analogo ad altri da lei effettuati al Ministero e passato indenne all’esame di un magistrato insospettabile per severità: l’allora capo della Procura di Torino Gian Carlo Caselli. Ma il linciaggio, o quasi, della Cancellieri, peraltro prefetto della Repubblica, non è il solo al quale è capitato di partecipare a Renzi nella purtroppo lunga fase del suo garantismo discontinuo, selezionato. Alla Cancellieri hanno poi fatto compagnia, per non andare più indietro di lei, ministri come Nunzia De Girolamo, Maurizio Lupi e Federica Guidi, non trattenuti, anzi incoraggiati alle dimissioni da Renzi, senza che fossero stati neppure scomodati, o non ancora, da un avviso di garanzia. Il segretario uscente e, credo, rientrante del Pd purtroppo ha avuto il vizietto di inseguire, anziché contrastare, il grillismo sulla strada già pericolosa di suo dell’antipolitica, ma che unita al giustizialismo diventa mortalmente tossica per la democrazia. Anche nella sfortunata campagna referendaria sulla sua impegnativa riforma costituzionale l’allora presidente del Consiglio, inutilmente trattenuto o addirittura ammonito dagli autorevoli amici Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, decantò l’anno scorso più che la maggiore efficienza voluta per le istituzioni, i minori costi garantiti dalla riduzione del Senato ad un dopolavoro, o quasi, di cento "soltanto" fra consiglieri regionali e sindaci, tutti senza indennità. Ancora di recente, prima di rassegnarsi, a quanto sembra, all’epilogo ordinario della legislatura, Renzi si è spinto ad auspicare le elezioni anticipate per evitare che i parlamentari di prima nomina maturassero in ottobre il diritto al cosiddetto vitalizio. Neppure i grillini, peraltro tutti di prima nomina in Parlamento, si erano spinti a tanto. A quel punto Napolitano è proprio sbottato con una dichiarazione liquidatrice della questione, attribuendo le elezioni prima della scadenza ordinaria ad un Paese addirittura anormale, pur avendovi dovuto ricorre anche lui, dal Quirinale, nel 2008. La svolta garantista ravvisabile nell’intervento del ministro Lotti al Senato, dove peraltro il fedelissimo di Renzi, in assenza di Paolo Gentiloni, trattenuto altrove da impegni internazionali, ha potuto parlare dalla postazione del premier, circondato solidalmente da 15 colleghi di governo, in uno scenario quindi che da solo rappresentava l’autorete dei grillini, è stata completata dalla successiva dichiarazione di voto del capogruppo del Pd Luigi Zanda. Che ha posto il problema di riesaminare l’espediente della mozione di sfiducia "individuale", cui ricorrono sempre più di frequente i giustizialisti di turno proprio per mescolare prevalentemente vicende giudiziarie e politiche. Nei primi quattro dei cinque anni di questa disgraziata legislatura ne sono state presentate e votate, fra Camera e Senato, ben 36, ha rilevato Zanda. Non contemplata dalla Costituzione, che prevede mozioni di fiducia o sfiducia solo al governo, nella sua collegialità, la mozione "individuale" fu inventata nel 1995 dal Pds- ex Pci, e bislaccamente ammessa dall’allora presidente del Senato Carlo Scognamiglio, forzista dissidente, per deporre il ministro della Giustizia, e magistrato in pensione, Filippo Mancuso. Che tentò inutilmente di resistervi con un ricorso alla Corte Costituzionale respinto con una celerità degna di miglior causa. La colpa del super garantista Mancuso, scaricato rapidamente dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, che pur ne aveva voluto la nomina a guardasigilli, e dal presidente del Consiglio Lamberto Dini, era stata di avere mandato gli ispettori ministeriali al tribunale di Milano, fra le proteste della locale Procura. Si era gridato alla profanazione di un santuario. Tra il discorso del ministro Lotti e le dichiarazioni di voto di Zanda è auspicabile che il Pd, rimasto anche dopo la scissione il maggiore partito della sinistra, o di centrosinistra, come ha preferito definirlo qualche giorno fa a Porta a Porta il ministro Maurizio Martina, vice segretario unico e in pectore di Renzi una volta tornato al Nazareno, abbia svoltato davvero in direzione garantista, senza lasciarsi più tentare dalla prima, dannata occasione di usare la scorciatoia giudiziaria nella lotta politica. O senza lasciarsi intimidire dai soliti malintenzionati, come sta accadendo mentre scrivo con le proteste dei grillini contro il voto libero di coscienza, come lo ha giustamente definito Zanda, espresso da alcuni parlamentari del gruppo a favore del senatore forzista, ed ex direttore del Tg 1, Augusto Minzolini. Di cui la competente giunta di Palazzo Madama aveva chiesto la decadenza da parlamentare, in applicazione retroattiva della famosa e controversa legge Severino, dopo una condanna definitiva per peculato emessa con una sentenza che alla maggioranza del Senato è apparsa fatta apposta per lui, su misura. E quindi rifiutata. Non si era mai visto, francamente, un peculato per spese di albergo e di ristorante di un direttore di testata della Rai contestato dopo che l’interessato aveva pagato di tasca sua all’azienda le spese contestategli, peraltro contraddittoriamente, dall’amministrazione dell’azienda. E dopo che un giudice, non il suo commercialista o quello della Rai, aveva disposto la restituzione dell’intera cifra al giornalista perché non dovuta. Questo reclamato dai grillini, e che si spera non sia più scambiato per tale da una sinistra degna del nome che porta, non è uno Stato di diritto ma un mostro. Se il Pd di cui Renzi sta tentando di riconquistare la guida non dissiperà anche questa occasione e renderà quindi definitiva la svolta garantista, avrà realizzato la più grande e vera riforma di cui ha bisogno l’Italia, restituendo alla politica il primato che le spetta. E al quale tante volte la stessa politica ha rinunciato volontariamente e dannatamente, perché Piero Sansonetti non ha torto quando scrive che i magistrati hanno spesso ottenuto più spazio di quanto non avessero voluto o cercato. L’Italia risponde alle Nazioni Unite. Ma sulla tortura che non è ancora reato mente di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 17 marzo 2017 La scorsa settimana sono stata a Ginevra, dove era il turno dell’Italia a venire esaminata dal Comitato diritti umani delle Nazioni Unite, l’organismo deputato a valutare il rispetto da parte degli Stati del Patto sui diritti civili e politici del 1966. Ogni circa quattro anni (ma l’Italia era in ritardo….), ciascuno Stato viene invitato a presentare un rapporto nel quale spiega come ha affrontato i problemi individuati dal Comitato nei quattro anni precedenti. Il rapporto viene discusso in una seduta pubblica con il governo del Paese interessato. Le organizzazioni della società civile possono proporre le loro osservazioni sulle questioni trattate dal rapporto governativo. A Ginevra ho portato il punto di vista di Antigone per le tematiche legate alla giustizia penale. Ho raccontato che dopo la condanna del 2013 da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo all’Italia per i trattamenti degradanti dovuti al sovraffollamento delle carceri, il governo aveva preso provvedimenti per diminuire il numero dei detenuti. Tuttavia, appena il Consiglio d’Europa ha distolto lo sguardo, il numero ha ripreso ad aumentare e in carcere si è cominciato nuovamente a stare peggio. Ho raccontato che il disegno di legge per rendere la tortura un reato è di nuovo fermo in Parlamento e molto probabilmente anche questa legislatura finirà con un nulla di fatto. Ho anche raccontato, uscendo dai "nostri" temi, che nell’estate del 2016, 48 persone provenienti dal Darfur richiedenti asilo politico nel nostro Paese sono state rimandate in Sudan senza troppi complimenti, poiché l’Italia sostiene che il presidente sudanese al-Bashir sia un buon interlocutore con il quale stipulare patti per il rimpatrio, nonostante su di lui penda un mandato di arresto della Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità. Ho poi assistito alla seduta pubblica e alle risposte che il governo italiano ha fornito all’Human Rights Committee. Alcune di esse sono state ragionevoli e veritiere: ad esempio è stato detto che la differenza tra il numero dei posti in carcere e il numero di persone recluse è oggi inferiore rispetto ad alcuni anni fa, riconoscendo tuttavia che le carceri sono ancora sovraffollate e che è necessario non interrompere gli sforzi per risolvere il problema. Inoltre è stata sottolineata l’importanza di aver finalmente istituito un meccanismo indipendente di controllo di tutti i luoghi di privazione della libertà. Infine, il governo italiano ha ammesso che i detenuti stranieri sono sovra-rappresentati in carcere anche a causa della difficoltà di accesso a misure alternative alla detenzione. Altre risposte sono state del tutto non condivisibili. Il governo italiano ha difeso gli accordi bilaterali per i rimpatri da stipularsi anche con Paesi che sappiamo non garantire il rispetto dei diritti umani fondamentali. Ha difeso il sistema degli hotspot, che ha invece dato ampia prova di forzare le procedure di identificazione verso decisioni molto semplificate su chi ha diritto di asilo e chi no, rischiando ampiamente di basare tali decisioni su protocolli automatici che mai arrivano a considerare il caso individuale. La delegazione italiana ha anche difeso l’indipendenza dell’Unar, l’Ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali negando quel che è sotto gli occhi di chiunque, vale a dire la sua dipendenza dal governo, che tra le altre cose può rimuoverne il direttore a piacimento. Altre risposte ancora hanno avuto il sapore della presa in giro, della falsità o della esplicita farsa. Quando il Comitato ha chiesto conto del fatto che l’Italia non si sia ancora dotata di un’istituzione nazionale indipendente sui diritti umani secondo i cosiddetti Principi di Parigi del 1991, il governo ha risposto che c’è attualmente una grande discussione attorno al tema. Un membro del Comitato ha seccamente ribattuto che è dal 2006 che l’Italia sostiene di portare avanti questa grande discussione e che nel 2010 affermò testualmente che un disegno di legge in tal senso sarebbe stato approvato entro un mese o due. Inoltre il Comitato ha chiesto perché la tortura in Italia non costituisca ancora reato e quali sono le resistenze ad approvare la relativa legge. Una rappresentante del ministero della Giustizia ha borbottato qualcosa sul fatto che il tema è molto importante per l’Italia soprattutto dopo il G8 di Genova, ma non ha saputo dire altro. Un altro rappresentante del medesimo dicastero ha sostenuto che l’Italia ha da poco introdotto la pena alternativa della detenzione domiciliare. Si tratta molto semplicemente di un’affermazione falsa. Da vari decenni, la detenzione domiciliare è solo una misura in cui parte della pena carceraria può essere convertita. Nel 2014 il Parlamento delegò il governo a introdurre la detenzione domiciliare come pena principale, ma lo stesso governo fece scadere i tempi della delega. La farsa è stata esplicitamente rappresentata quando il Comitato ha chiesto conto di quanto denunciato da un rapporto di Amnesty International: negli hotspot c’è stato uso di violenza nei confronti di chi rifiuta di farsi prendere le impronte digitali. Il rapporto, nonché il membro del Comitato che ha posto la domanda, intendeva ovviamente sostenere che chi si rifiuta di farsi identificare potrebbe subire maltrattamenti volti a fargli cambiare idea. Davanti a un’aula attonita, la rappresentante del ministero dell’Interno ha risposto che la denuncia di Amnesty International va respinta al mittente poiché internamente contraddittoria: se infatti si spinge con troppa forza il dito sul foglio di carta l’impronta non viene bene e dunque gli addetti all’identificazione non possono che agire sempre con grande delicatezza. Forlì: una casa per i detenuti nella piccola Malmissole, il progetto fa discutere di Riccardo Fantini Il Resto del Carlino, 17 marzo 2017 Assemblea coi residenti, presente anche il vescovo. L’idea di progettare una Casa della Speranza all’interno della comunità di Malmissole sbocciò circa una anno fa durante il Giubileo, quando Papa Francesco chiese "un’opera di misericordia concreta in ogni diocesi". Lo ha raccontato don Nino Nicotra, il parroco di Malmissole e il primo a prendere la parola mercoledì sera davanti a una platea di quasi un centinaio di persone, in un incontro in parrocchia a cui ha partecipato anche il vescovo monsignor Lino Pizzi. Prima di entrare nel dettaglio della struttura che verrà ("È un idea molto forte" risponderà più avanti con fermezza a un ragazzo che domandava se ci fossero ancora margini per bloccare il progetto), don Nino ha provato a raccogliere la platea - in larghissima parte contraria all’iniziativa - intorno al nome di don Dario Ciani, il fondatore della Comunità di Sadurano e parroco del carcere, scomparso nel luglio del 2015, che proprio a Roncadello e Malmissole trascorse gli ultimi anni della propria vita: "Ci ha raccontato tante volte la sua testimonianza di accoglienza agli ultimi. Noi siamo molto piccoli in confronto a lui, ma proviamo a portare avanti i suoi ideali". Per realizzare la Casa della Speranza all’interno dei locali della canonica - in parte da ristrutturare, soprattutto il primo piano - si sono raccolti più attori: la Diocesi, l’associazione Papa Giovanni XXIII, la Caritas Diocesana, il parroco del carcere don Enzo Zannoni e naturalmente l’Unità pastorale, che non si limita alla sola parrocchia di Malmissole, ma comprende le quattro limitrofe. Il percorso per la realizzazione e poi il funzionamento della Casa della Speranza è già tracciato, a partire dalla costituzione di un’Associazione temporanea di Scopo. Nella bozza di accordo la Papa Giovanni si assume la responsabilità della gestione della struttura, con presenze fisse di volontari, e la rendicontazione amministrativa. Alla Diocesi spetterebbe invece l’impegno di recuperare i fondi necessari alla ristrutturazione degli spazi oltre a un monitoraggio settimanale, mentre l’Unità pastorale concederebbe l’uso gratuito dei locali e seguirebbe direttamente i lavori, suscitando al contempo la partecipazione di volontari. Ne serviranno, a pieno regime, tra i 20 e i 25. Il numero di ospiti non è stato chiarito nel dettaglio ma dovrebbero tra i 10 e i 12. "Auspico un pregiudizio positivo - ha detto don Nino -, questa non dovrà essere un’isola e io per primo mi impegno a venire a viverci". All’interno della Casa della Speranza saranno ospitate - per un anno, un anno e mezzo ciascuna - persone in esecuzione penale, cioè carcerati, che abbiano ottenuto l’ok dal magistrato di sorveglianza per trascorrere fuori l’ultima fase della loro pena (in genere tre-quattro anni), naturalmente all’interno di percorsi rigidi e controllati. "Non si tratterà di colpevoli di pedofilia o appartenenti ad associazioni mafiose - ha spiegato Meo Barberis della Papa Giovanni, ma di quella larga fascia di persone che hanno bisogno solo di ricevere la possibilità di un’occasione educativa". Barberis ha messo sul tavolo i numeri delle recidive: "Sono del 70% per chi sconta tutta la pena in carcere, del 20-25% per chi può utilizzare misure alternative (servizi sociali, arresti domiciliari) e del 10% nelle realtà che prevedono un percorso educativo. Si tratta di un grande valore, umano e religioso". Ha cercato di spiegarlo ai residenti anche il direttore della Caritas di Forlì Sauro Bandi, ricordando che "a San Mercuriale fino a qualche tempo fa era ospitata una persona in esecuzione penale esterna. Non sarebbe una novità questa struttura e vedrebbe coinvolta tutta la realtà diocesana di Forlì e Bertinoro". Un’occasione insomma per "risvegliare e sollecitare le coscienze", ha sottolineato don Nino. Basterà a convincere i residenti? Roma: Padre Gaetano, Cappellano dell’Ipm "così salviamo i giovani detenuti" di Loredana Suma interris.it, 17 marzo 2017 Una storia che viene da lontano quella di Padre Gaetano Greco e dei suoi ragazzi "difficili", adolescenti o poco più che sono ospiti della comunità Amigò. Sono una ventina in tutto, alcuni provengono dal carcere minorile di Roma, altri hanno storie che sembrano incredibili, ma loro lo chiamano "Padre" non solo perché si tratta di un sacerdote, ma perché per alcuni di loro rappresenta l’unica figura familiare. La sua vocazione nasce grazie a Padre Pio, a cui, a 7 anni, confessa il suo desiderio di farsi prete e dal quale ottiene l’approvazione. Passano gli anni e Gaetano entra nell’ordine dei Terziari Cappuccini dell’Addolorata che hanno un carisma molto specifico: si occupano dei giovani detenuti. Dopo la Sardegna e la Toscana approda a Roma, al carcere di Casal del Marmo. Inizia un percorso destinato a cambiare non solo la sua vita, ma anche quella di molti ragazzi. Padre Greco, il carcere è un luogo difficile per un adulto, figuriamoci per dei ragazzi... "Non dovrebbero esistere luoghi di pena per i giovani, è un fallimento per tutti: famiglia, scuola, società in genere. È l’ultimo stadio per quelli che vengono dichiarati irrecuperabili dopo aver tentato altre strade". Chi sono i ragazzi di Casal del Marmo? "Emulatori. Sono bulli, si credono onnipotenti, non hanno rispetto per la vita! Quando arrivano hanno l’aria da capetti, un atteggiamento che mantengono sia prima di entrare che durante la permanenza. Sono sprezzanti, credono di essere qualcuno, in particolare quelli che il carcere già lo conoscono, sono i veterani, i maestri. Un ragazzo durante una rapina aveva ucciso un’anziana e aveva minimizzato l’accaduto. Nella sua arroganza pensava di tornare a casa nel giro di due giorni. Fu il padre a dirgli che poteva togliersi quell’aria da grandeur, che era diventato un assassino e il suo posto non era certo a casa. In quel caso l’autorevolezza paterna lo ridimensionò brutalmente. Invece chi arriva la prima volta è terrorizzato, crolla". Come si arriva alla condanna, cosa spinge così in fondo? "Si arriva al carcere perché la violenza e il disagio sono notevolmente aumentati, c’è di tutto: si va dai reati come il furto e la rapina a mano armata allo spaccio di droga e agli omicidi. In particolare furto e spaccio sono i delitti più comuni perché producono subito soldi e quando un adolescente acquisisce uno spazio di autogestione non è più controllabile. Ovviamente per lui diventa sempre più raggiungibile il traguardo economico, fino a quando non varca le soglie del carcere, ma spesso non serve perché molti recidivano". Cosa è cambiato da quando lei ha cominciato a fare il cappellano nel penitenziario minorile? "Tutto. Nel 1981 andavano in carcere i ragazzi colti in flagranza di reato, erano un centinaio a Roma. Nel 1984 la legge 448 ha modificato l’idea della pena, sono state aperte le prime comunità di recupero e quindi ora al centro c’è l’adolescente. Durante il giorno sono occupati in tante attività molto distraenti, il che è giusto, ma prima in carcere era possibile un cammino di fede. Ricordo un ragazzo molto difficile finito lì dentro tre volte che alla fine veniva a Messa. Si faceva adorazione eucaristica, si proponeva una cammino di fede vero, concreto. Un sedicenne decise di fare la prima comunione, fu un traguardo immenso, significava che voleva cambiare vita. Oggi non è più così semplice raggiungere questi cambiamenti". Cioè? "Attualmente sono aumentati gli stranieri, ciò significa che è molto più difficile proporre una verità alternativa alla violenza. Anche se devo dire che, nonostante siano islamici e ortodossi, quando si parla in generale di Dio qualcuno si mostra interessato. Quello che conta è dare testimonianza, proporre la via del cuore. Questi ragazzi non conoscono la parola amore, ma solo soldi, potere e indifferenza. Se si volesse potremmo anche suggerire di chiamare l’Imam o un prete ortodosso, ma nessuno si spende per farlo. Tanta pedagogia laica, ma poco cuore". Chi ricorda in particolare? "Tanti, anzi tantissimi. Alcuni ospiti della mia comunità si sono sposati e hanno avuto figli, alla fine hanno fatto una scelta opposta a quella che pensavano destinata a loro. Ricordo un ragazzo che all’epoca dell’omicidio aveva solo 14 anni. La madre lo aveva indotto a uccidere la compagna del padre, all’inizio non si rendeva conto della gravità, ma con il tempo era in preda a rimorsi terribili, un fardello enorme per tutta la vita. Un altro ragazzino oggi diciottenne sferrò un pugno a uno straniero, perché al padre dava fastidio che cantasse. Quindi una triste storia di razzismo, oggi è ancora sconvolto, ha bisogno di perdono. Assistiamo a una escalation di dolore e di violenza. Però sono anche convinto che si può scegliere dopo aver sbagliato e bisogna insistere, farlo capire, io non mi arrendo". Chi sono gli ospiti della comunità Amigò? Albanesi adolescenti immigrati, africani arrivati con i barconi, alcuni che provengono dal Carcere di Casal del Marmo e altri dal nord Africa. Si cerca di dargli un futuro. Soprattutto ai minori non accompagnati che tra l’altro non hanno commesso alcun reato e che il tribunale ci dà in affidamento; per chi invece viene dal penale la disposizione è molto restrittiva perché sono messi in prova, vengono impiegati in attività di volontariato e recupero sociale. Per chi lo desidera è possibile studiare, ma se infrangono le disposizioni ritornano in carcere. Sono diversi tra loro e non si integrano facilmente. Noi ce la mettiamo tutta, ma dipende molto dalla loro volontà, purtroppo ci sono anche i fallimenti. Ricorda una storia che si è conclusa positivamente? "Quella di un ragazzo albanese incensurato, minore non accompagnato, quindi completamente solo, affidato alla nostra comunità. Studiò e l’aiutammo a trovare un lavoro. Mise da parte i soldi e adesso ha un’azienda agricola in Albania. Se si vuole con tutte le proprie forze ce la si può fare". Napoli: convegno "Quale giustizia? Gli studenti incontrano il mondo del carcere" chiesadinapoli.it, 17 marzo 2017 "Quale giustizia? Gli studenti incontrano il mondo del carcere" è il titolo del convegno, organizzato dal Laboratorio didattico degli insegnanti di religione nelle scuole secondarie della diocesi, al termine di un’articolata attività didattica sviluppata in diversi istituti e licei di Napoli e provincia, che ha visto il coinvolgimento di oltre duemila studenti e ha posto al centro della loro attenzione la complessa e drammatica realtà del pianeta carcere: dei detenuti, delle loro famiglie, delle vittime, degli addetti ai lavori, del volontariato. L’incontro con le persone detenute e con chi sta loro accanto, come i cappellani nelle carceri e i volontari dentro e fuori i penitenziari, è stato posto al centro del percorso didattico e formativo proposto agli studenti. È per questo motivo che le scuole hanno organizzato visite a centri per detenuti, come la casa di accoglienza per persone agli arresti domiciliari "Liberi di volare Onlus" della pastorale carceraria di Napoli, e incontri e convegni nelle diverse scuole. Al convegno, i primi a prendere la parola saranno gli studenti presenti, in rappresentanza della propria scuola, con un prodotto realizzato sul tema, come "saggio" dell’intero lavoro realizzato. Ci sarà chi canterà un testo scritto e musicato dalla propria classe sul tema, o semplicemente chi canterà canzoni note e si esibirà in coreografie; chi renderà conto di una piccola indagine, fatta tra i propri compagni di scuola, su come si guarda ai "detenuti" e su ciò che di solito si pensa di loro. Ci sarà, poi, chi presenterà attraverso un video o altri prodotti digitali il proprio punto di vista sul tema, o chi renderà conto di incontri e interviste fatte a persone impegnate in questi ambiti, e, ancora, chi racconterà, attraverso immagini, parole, suoni, storie di persone con esperienze drammatiche di carcere alle spalle. Gli studenti degli Istituti comprensivi Capuozzo (Na), Casanova-Costantinopoli (Na) e G. Falcone (Volla), dell’I.T.I. G. Ferraris (Na), dell’I.T. Torrente (Casoria) e dei Licei Artistico (Na), De Bottis (Torre del Greco), R. Caccioppoli (Na), V. Emanuele (Na), I. Kant (Melito), G. Mazzini (Na), J. Sannazaro (Na) e P. Villari (Na), dopo aver presentato i propri lavori, dialogheranno e si confronteranno con funzionari dell’istituzione penitenziaria di Poggioreale, con don Franco Esposito, cappellano a Poggioreale e responsabile della pastorale carceraria della chiesa di Napoli, e con una persona detenuta in regime di semilibertà. Porterà il suo saluto don Francesco Rinaldi, direttore della pastorale scolastica a Napoli. Sono state invitate e sono attese per un loro intervento la dr. Luisa Franzese, direttore USR Campania, e la dr. Anna Maria Di Nocera, Ufficio Aggiornamento e Formazione USR Campania. L’iniziativa si colloca nel quadro degli accordi intercorsi tra MIUR e Caritas italiana, sottoscritti con il protocollo d’intesa del 30 aprile 2014, finalizzato a promuovere l’Educazione alla pace, alla mondialità, al dialogo, alla legalità e alla corresponsabilità attraverso la valorizzazione del volontariato e della solidarietà sociale. Napoli, Auditorium Salesiano "Salvo D’Acquisto", Via Morghen, 58 22 marzo 2017, ore 10 Benevento: educazione alla legalità, il progetto Libera Rete al Liceo Artistico ilquaderno.it, 17 marzo 2017 Continua il confronto tra studenti beneventani e giovani detenuti sul tema della legalità e del rispetto delle regole. Domani 17 marzo il percorso di presentazione del progetto Libera Rete negli Istituti Superiori di Benevento fa tappa al Liceo Artistico. I ragazzi incontreranno i giovani detenuti che hanno partecipato al percorso di inserimento lavorativo promosso all’interno del progetto. Alle scuole aderenti sarà chiesto di dar vita ad una produzione multimediale sul tema. Il miglior lavoro sarà premiato con la donazione di materiale didattico alla scuola. Libera Rete si concluderà a giugno 2017 e mira ad inserire nel mondo del lavoro 30 giovani tra i 16 e i 35 anni che scontano pene dentro e fuori il carcere. I partecipanti hanno appreso lo smontaggio e il recupero dei materiali provenienti da strumenti elettronici. Libera Rete è promosso dalla cooperativa sociale Social Lab 76 in partenariato con l’Ufficio esecuzione penali Esterne di Benevento e Istituto Penitenziale Minorile di Airola. Il progetto è finanziato nell’ambito del Piano Azione Coesione "Giovani no profit" dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale. Le borse lavoro sono state finanziate dalla Fondazione Charlemagne. La fase finale di presentazione alle scuole è patrocinata da Asia Benevento SpA. Napoli: oggi a Secondigliano con l’Ass. La Mansarda incontro con gli autori di libri linkabile.it, 17 marzo 2017 Oggi, 17 marzo, presso il carcere di Secondigliano, alle ore 14,30, proseguiranno gli incontri tra detenuti e scrittori previsti dal progetto "La lettura libera", portato avanti dall’Associazione "La Mansarda" di Samuele Ciambriello. L’iniziativa è stata accolta con entusiasmo sia dai detenuti che dalla dirigenza della casa circondariale, come testimoniano le parole della vicedirettrice Claudia Nannola, responsabile del reparto Adriatico presso cui hanno luogo gli incontri: "Questi momenti […] stanno avendo il grande pregio di provare a restituire autodeterminazione alle persone detenute e soggettività, dando loro l’opportunità di ascoltare un punto di vista, ma anche dare voce ad un loro pensiero possa essere riconosciuto per quello che è e non giudicato. Continuità ed affidabilità rappresentano, dunque, due prerogative indispensabili per un percorso di dignità ed, in questo senso, libertà." Gli autori presenti venerdì saranno due: Paolo Tricoli e Massimo Balsamo. Tricoli, originario di Napoli, pur non vivendo più nella sua città da diversi anni, non l’ha mai dimenticata ed è proprio qui che ha ambientato il suo romanzo giallo "Informazioni sulla vita e sulla morte del povero Vincenzo". Il secondo autore, Massimo Balsamo, è un ex detenuto attualmente in affidamento in prova ai servizi sociali. Negli anni trascorsi in carcere ha trovato nel teatro e nella scrittura la sua nuova strada, e nel suo libro "Il fantasma con il passamontagna" racconta la storia della prima parte della sua vita. All’incontro sarà presente Padre Gianfranco Pasquariello del convento di Montercovino Rovella, a cui è stato affidato il Balsamo. Entrambi i libri sono stati presentati e regalati ai detenuti nelle scorse settimane, nel corso degli incontri settimanali che il presidente Samuele Ciambriello e le volontarie hanno con un gruppo detenuti dell’Alta Sicurezza e durante i quali oltre ai libri vengono presentati anche dei cortometraggi, spunto di riflessioni e brevi dibattiti. Scopo dell’iniziativa è infatti dare la possibilità ai detenuti di arricchirsi e ritrovarsi, mediante le riflessioni scaturite dalla lettura di un buon libro, dalla visione di un cortometraggio e ancora di più dal confronto con gli autori, ai quali hanno la possibilità di rivolgere le proprie domande e osservazioni, diventando protagonisti del progetto e non semplici destinatari dello stesso. Firenze: "Proteggimi", partite perdute e desideri repressi dei detenuti-attori di Laura Montanari La Repubblica, 17 marzo 2017 "Io sento il mondo violento, carico di rabbia". E appena prima, sull’attimo della creazione: "C’è tutto questo dolore del parto, travaglio per ore e poi la mia opera nasce come una bambina che piange". Lingue che si mescolano come una geografia che ha perso i confini: italiano, inglese, cinese, brasiliano, romeno. Ciascun attore porta qualcosa del sé originale, qualcosa della sua vita. Seconda scena: entra un travestito, "Deseo, picchiato a sangue da un cliente". Liberamente tratto dai testi di Tennessee Williams, drammaturgo, poeta e scrittore americano, lo spettacolo in programma questa sera (alle ore 21) al teatro Florida di Firenze si intitola "Proteggimi" ed è "liberamente indossato" da cinque detenuti- attori del carcere della Dogaia di Prato, da un semilibero, da un ex detenuto e da due attrici. La regia e i testi, ispirati soprattutto a "Un tram chiamato desiderio", sono firmati da Livia Gionfrida, che è anche una delle attrici sul palco. "Proteggimi" è uno spettacolo che parla in particolare di relazioni e perdita, dolore e amore. È un progetto è nato e cresciuto all’interno del carcere maschile di Prato dal Teatro Metropopolare che lì ha una residenza artistica da nove anni. "Proteggimi" va in scena per la prima volta a Firenze al Cantiere Florida (in via Pisana 111/r) e, come si affretta a dire la regista "grazie al direttore del carcere Vincenzo Tedeschi, ai magistrati e alla polizia". Ci sarà infatti una pattuglia di agenti al seguito degli attori detenuti. "In Proteggimi - spiega Livia Gionfrida - abbiamo tentato di essere con tutte le nostre bassezze, i fallimenti, i desideri repressi, il nostro feroce egoismo. Non volevo mettere in scena un dramma di Tennessee Williams eppure ero affascinata dal suo mondo, dal bisogno di amore che sembra percorrere tutta la sua opera. Così lo abbiamo studiato in carcere, ci siamo confrontati e ne abbiamo fatto una riscrittura". È nato, giorno dopo giorno, "Proteggimi" nelle stanze con le finestre sbarrate, dove le voci non si sentono quasi mai. Portarlo all’esterno è una sfida, un’avventura, un messaggio. "Leggendo Williams pensavo che sarebbe stato bello incontrarlo, volevo avvicinare personaggi crudi come Streetcar e fare due chiacchiere con il suo autore - prosegue la regista siciliana - e allora ho iniziato a immaginare uno spettacolo in cui il pubblico si poteva confrontare per il drammaturgo per farsi poi accompagnare come fosse un Virgilio fra le sue opere in una sorta di streetlife". Così ecco la ragazzina che cammina sui binari personaggi che non sanno come esprimere l’amore, altri che inseguono il desiderio, la perdita, la violenza di chi tenta di cambiare le proprie sorti sapendo che comunque vada la partita è persa. "I nostri personaggi - spiega ancora Livia Gionfrida (che sarà in scena insieme a Robert Da Ponte, Rodrigo Romagnoli, Ayoub El Mounim, Rossana Gay, Sofien Gozlan, Wu Kejan; Lorenz Marini, Luca Florin) - sono lanciati all’impazzata dentro una macchina che è quella del destino, che è vita e dunque anche morte inevitabile, una macchina che corre veloce e che forse... non sappiamo nemmeno guidare". La produzione di questo spettacolo è del teatro Metropopolare in collaborazione con il Metastasio di Prato e con il sostegno della Regione, Il teatro Metropopolare è un collettivo di artisti che da tempo ha creato nel carcere pratese della Dogaia un laboratorio permanente di ricerca e produzione che può contare anche su una sala attrezzata. Milano: 13 ergastolani di Opera protagonisti del musical "Il Figliol Prodigo" ekojournal.it, 17 marzo 2017 "Il Figliol Prodigo": è questo il titolo del Musical dei detenuti di alta sicurezza della casa di Reclusione di Milano Opera offerto a Papa Francesco per il Giubileo dei Carcerati e che andrà in scena - con ingresso gratuito - venerdì 17 marzo 2017, presso il Teatro Paccagnini di Castano Primo in occasione del 20° anniversario di costituzione della Fondazione Mantovani. La lettera di Papa Francesco - "Tutti noi facciamo sbagli nella vita, perché siamo peccatori. E tutti noi chiediamo perdono di questi sbagli e facciamo un cammino di reinserimento...".Questa la risposta del Papa alla lettera con cui i detenuti del carcere di Milano Opera hanno presentato a Papa Francesco il progetto del musical, appositamente pensato per il Giubileo della Misericordia. Gli attori - I protagonisti del Musical - promosso e patrocinato da Ministero della Giustizia e Organizzazione Giubilare e che è già andato in scena lo scorso novembre anche all’Ariston di Sanremo e presso il Teatro della Conciliazione a Roma- saranno infatti 13 detenuti pluriergastolani che, attraverso la musica e l’arte, hanno sperimentato la bellezza di una vita rinnovata, capace ancora di dare senso e pienezza anche in circostanze certamente difficili e dolorose. Il laboratorio di musical nel carcere - Il Laboratorio del Musical è un progetto di volontariato ideato e realizzato da Isabella Biffi, in arte Isabeau, cantautrice e regista che, da quasi dieci anni, grazie alla condivisione istituzionale del Direttore di Opera, Dottor Giacinto Siciliano, e alla collaborazione dell’Associazione Culturale Eventi di Valore, utilizza l’Arte e la Cultura, quali mezzi di rieducazione e "rivoluzione umana". Isabella Biffi non è nuova a sfide di questo genere. Dopo il successo dei " Dieci Mondi", "La Luna sulla Capitale", "L’Amore Vincerà", "Siddhartha", il nuovo Musical, " Il Figliol Prodigo, " è un invito a superare diffidenze e chiusure e a credere che si può cambiare, aiutando gli altri a cambiare. Un regalo per i 20 anni Fondazione Mantovani - "Il Musical" spettacolo "Il Figliol Prodigo" è l’evento che Fondazione Mantovani, in occasione del 20° anno della sua costituzione, offrirà a tutti gli amici ed operatori della Fondazione. Un appuntamento dall’alto valore sociale, dove si sperimenterà la centralità della persona ed i profondi cambiamenti che una vera solidarietà può generare. Sentimenti che da sempre guidano l’opera di Fondazione Mantovani. Per info fondazionemantovani.it. Contatti stampa: 335.5297492. Libri. "Reclusi. Il carcere raccontato alle donne e agli uomini liberi" di Piero Di Domenicoantonio L’Osservatore Romano, 17 marzo 2017 Il carcere fa paura. Meglio girarsi dall’altra parte e pensare che bastino quelle mura a separare e proteggere il mondo dei buoni da quello dei cattivi. Poi, in fin dei conti, chi cade in quel pozzo se l’è andata a cercare. Eppure il carcere è il luogo dove la società si gioca la propria credibilità morale. Dove si misura il limite tra giustizia e vendetta. E, forse, per capire meglio quello che sta fuori vale la pena conoscere e ascoltare l’umanità di chi sta dentro. A tentare di illuminare questa zona d’ombra della società, proponendo un percorso di conoscenza libero da luoghi comuni e da facili pregiudizi ideologici, arriva in questi giorni in libreria il saggio di Anna Paola Lacatena e Giovanni Lamarca, "Reclusi. Il carcere raccontato alle donne e agli uomini liberi" (Roma, Carocci, 2017, pagine 304, euro 28). Unendo la ricerca e l’esperienza sul campo di una sociologa, da anni impegnata sul fronte delle cosiddette devianze, e di un comandante della polizia penitenziaria, il libro ha il merito di colmare un vuoto nella pubblicistica sulla detenzione in Italia, offrendone una trattazione completa e sistemica. E soprattutto di stimolare un dialogo costruttivo tra scienze sociali, istituzioni penitenziarie e gli stessi detenuti. Dalle questioni giuridiche e organizzative a quelle riguardanti l’affettività, il lavoro, la pratica religiosa o la condizione della donna reclusa, ogni aspetto del sistema carcerario viene infatti presentato e approfondito lasciando che l’analisi scientifica sia in qualche modo commentata, corretta o supportata dalla voce e dall’emotività delle persone detenute. Volutamente, per evitare il rischio di una trattazione artificiosa, non sono state sollecitate testimonianze ma vengono pubblicate le istanze presentate negli ultimi dieci anni dai detenuti della casa circondariale di Taranto - la città dei due autori - ai responsabili del penitenziario. Sono le cosiddette "domandine", come viene spiegato nel glossario del carcere riportato in appendice insieme ad altre curiosità sulla vita ristretta, utilizzate a norma del regolamento per formulare richieste, esprimere lamentele e proteste o semplicemente per dire grazie. A spiegare il tema dell’istruzione interviene così un detenuto analfabeta che detta al compagno di cella la domanda con la quale chiede il permesso di frequentare la scuola del carcere: "per poter imparare e scrivere e leggere - spiega - così so che potrei avere un futuro davanti a me". Oppure in materia di affettività è la voce di un altro detenuto a chiarire fino a che punto il carcere possa far sgretolare i rapporti familiari: chiede solo di poter riavere la fede nuziale, che gli è stata tolta al momento dell’arresto, perché la moglie durante i colloqui si lamenta di non vedergliela al dito. Tante storie, talvolta particolarmente drammatiche quando si toccano problematiche come quella dell’autolesionismo o delle malattie psichiatriche, che mostrano però come insieme al dolore, alla rabbia, alla noia, dentro una cella ci possa essere spazio anche per un sorriso, per un desiderio autentico di ravvedimento. Una nostalgia di umanità che potrebbe e dovrebbe farsi consuetudine. Come viene messo in evidenza nella prefazione, firmata da Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, l’originalità di Reclusi sta proprio nella modalità con cui una tematica così complessa viene trattata. Nel mostrare che dialogare si può, pensando a un carcere modulato sull’uomo e non sul reato, rigettando l’idea dell’irrecuperabilità sociale, della restrizione perpetua e priva di possibilità di riscatto. D’altra parte, come documenta il libro, dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che nel 2013 ha condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante di persone detenute, si è cominciato a intervenire facendo fronte a evidenti e non più accettabili carenze strutturali. E nell’aprile del 2016 l’assemblea degli Stati generali dell’esecuzione penale, convocati dal ministro della Giustizia coinvolgendo anche il mondo del volontariato, ha auspicato che la risposta a patologie conclamate del sistema carcerario in Italia, come quella del sovraffollamento, possa servire da propulsore per la definizione di un modello di esecuzione della pena costituzionalmente ispirato e finalizzato alla rieducazione. Oltretutto proprio in questo ambito si collocano molteplici iniziative nel campo del lavoro e delle attività culturali che si stanno promuovendo a livello locale grazie alla generosità dei operatori e volontari. Una di queste prenderà avvio tra breve all’interno della casa circondariale di Taranto - alla quale saranno devoluti i proventi della vendita del libro - con il progetto "L’altra città". Un allestimento artistico e sensoriale, ideato dallo stesso comandante Lamarca e curato da un gruppo di detenute, aperto a quanti vorranno fare esperienza, sia pure simulata, di cosa significhi perdere la libertà. Raccontando storie e vissuti, illustrando norme e aspetti giuridici, creando connessioni tra il mondo dei liberi e quello dei reclusi, l’opera di Lacatena e Lamarca rappresenta quindi un’opportunità per conoscere i veri termini della questione carceraria. E per fissare, non solo sul piano teorico, i punti cruciali di una riforma, culturale prima ancora che legislativa, da molti auspicata e attesa. Ricordando che ogni detenuto recuperato alla legalità determina una ricaduta in termini di sicurezza per la società intera. Ma anche che non si può pensare di ridurre il fenomeno della reiterazione dei reati se anche il migliore dei sistemi detentivi non è accompagnato da un welfare efficace. È difficile immaginare nel breve periodo il passaggio da una prospettiva normativo-centrica, fatta esclusivamente di disposti, articoli e combinati, a un modello di esecuzione della pena all’altezza dell’articolo 27 della Costituzione. Tuttavia, con altrettanta chiarezza, risulta indifferibile il bisogno di farlo. A beneficio di chi sta dentro e di chi sta fuori del carcere. La strada è quella di un recupero dell’etica pubblica (l’uomo verso l’uomo) e della morale (l’uomo autentico) come indica Papa Francesco - più volte citato nel volume - quando invita ad andare oltre la prigione del proprio interesse passando dall’indifferenza che nega all’inclusione che riconosce. Primo sì al "decoro" securitario. Minniti trasforma i sindaci di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 marzo 2017 La Camera licenzia il ddl sulla sicurezza urbana. Mercoledì il testo arriva in Senato. Sparisce nella notte la norma per introdurre i codici sulle divise della polizia. Con 230 voti favorevoli (insieme alla maggioranza anche gli ex Pd del Movimento democratico e progressista) e 56 contrari (tra gli oppositori anche gli ex Sel del Mdp), la Camera ha licenziato ieri il ddl di conversione del "decreto Minniti" sulla sicurezza urbana. Il M5S si è astenuto ("È una scatola vuota senza fondi né risorse, e molto probabilmente rimarrà lettera morta", è la motivazione dei deputati pentastellati). Il provvedimento - che dovrà essere convertito in legge entro il 20 aprile in virtù della sua natura di "straordinaria necessità e urgenza" - passa ora al Senato, dove approderà mercoledì prossimo in Commissione Affari costituzionali. Se non subirà modifiche, i sindaci avranno a disposizione un potere di ordinanza finora riservato solo al questore (con persino qualche agevolazione in più) e un provvedimento di allontanamento, chiamato "mini Daspo urbano" perché ricorda quello usato negli stadi, per ripulire il centro storico delle città da chiunque (non occorre che abbia commesso un reato o che sia indagato) venga considerato "indecoroso". Che sia per la sua mera presenza (senza tetto o ambulanti) o per il comportamento (consumatori di droghe o alcolici, rovistatori di cassonetti, writers, o limitatori della "libera accessibilità e fruizione" di particolari luoghi). Inutile pensare di chiamare un avvocato: non è prevista alcuna possibilità di ricorso giurisdizionale. Almeno se non si reitera la condotta "antisociale", caso nel quale interviene il questore, che può ordinare veri e propri Daspo, di pochi giorni o fino a 2 anni a seconda della fedina penale. Perfino il Centro democratico, astenendosi, avverte: "Si rincorre l’illusione di poter liberare i centri cittadini da presenze ritenute moleste e contrarie al pubblico decoro senza distinguere i comportamenti illegittimi dalle forme di disagio sociale, e si finirà con il provocare solo una mobilità dai centri storici alle periferie". E dalla sperimentazione negli stadi proviene anche la "flagranza di reato differita" che, per effetto di un emendamento firmato Carfagna (Fi) e ammesso dal governo, si allarga ora a tutta la società e potrà essere usata per fermare o arrestare, sulla base delle videoregistrazioni, anche i manifestanti, che siano sportivi o politici, fuori dagli stadi o nelle piazze. A spiegarne le finalità è la stessa Mara Carfagna: "Una modifica necessaria (quella apportata all’art.10, ndr) per arginare, ma soprattutto per tentare di prevenire e scoraggiare, episodi come quelli che, ad esempio, si sono verificati a Napoli sabato 11 marzo". Tutto lascia pensare che l’emendamento Carfagna facesse parte di una sorta di accordo tentato mercoledì sera: il governo lo ha accettato con qualche modifica e, di contro, le destre avrebbero chiuso un occhio sull’introduzione dei codici identificativi di reparto per le forze dell’ordine. Ma qualcosa deve essere andato storto perché ieri mattina l’emendamento governativo sui codici, che compariva nel fascicolo distribuito ai deputati (dunque era stato ritenuto ammissibile), è stato improvvisamente ritirato. Se n’è accorto Daniele Farina (SI) che, intervenendo, ha chiesto perché si fosse "dissolto nella notte": "Era di reparto, non individuale, e a rotazione - ha commentato Farina - ma era una misura dal sapore d’Europa. Unica luce nel buio medioevale del decreto Maroni-Minniti sulla sicurezza. La nuova maggioranza di scopo, Pd-Lega-M5S, ha lavorato nottetempo e il numero non c’è più. Ma capisco: tra Daspo urbano, flagranza differita per tutti, nuovo art. 75 bis sugli stupefacenti, quel numero nel decreto proprio non ci stava". L’Aula si infervora, e diventa subito un caso: il viceministro dell’Interno Bubbico parla di "mere ragioni tecniche" che hanno portato al ritiro, e annuncia che il governo reinserirà la norma al Senato. Ma FI avverte: "Daremo battaglia affinché non sia approvata". E la Lega spiega meglio: "Nessuno si era accorto - riferisce Nicola Molteni - che quella norma proposta penalizzava tra l’altro il singolo poliziotto che indossi caschi di altri reparti con una sanzione massima fino a 2500 euro". Alla fine però il governo ne esce soddisfatto. Il capogruppo del Pd Ettore Rosato, rivendicando anche i "maggiori controlli per prevenire le occupazioni arbitrarie di immobili", commenta su Facebook: "La sicurezza è un patrimonio della collettività e non la lasceremo alla demagogia violenta e alla destra chiacchierona". Come a dire: ci distinguiamo per l’efficienza, non per le idee. Sicurezza urbana: arresto in flagranza differita per violenze filmate durante manifestazioni di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2017 Passa alla Camera il decreto legge sulla sicurezza integrata. Il provvedimento, voluto dal ministro dell’Interno Marco Minniti insieme al decreto sull’immigrazione - all’esame, a sua volta, del Senato - ha avuto 230 sì, 56 no e 66 astenuti, compresi i deputati del M5S. Il testo proposto e approvato al Consiglio dei ministri dal titolare del Viminale, Marco Minniti, ha avuto alcune correzioni con l’iter a Montecitorio. È passato un emendamento di Forza Italia, con il parere favorevole del relatore, che prevede la possibilità dell’arresto in flagranza differita - per i soli reati in cui l’arresto è obbligatorio - se il reato con violenze alla persone o alle cose avviene nelle manifestazioni pubbliche ed è ripreso da telecamere e con immagini fotografiche; l’identificazione del reo deve avvenire non oltre il "tempo necessario" per arrivare alla identità del reo e comunque entro 48 ore dal fatto. È stato invece ritirato dal governo l’emendamento per introdurre il codice identificativo sulle divise della polizia. Il viceministro dell’Interno, Filippo Bubbico, ha assicurato che il testo è stato revocato "per mere questioni tecniche e sarà reintrodotto al Senato in questo provvedimento". L’emendamento prevedeva che "gli operatori delle forze di polizia impegnati in servizio di ordine pubblico, devono esporre un codice finalizzato a consentire l’identificazione durante il servizio di ordine pubblico in relazione al reparto di appartenenza". Bocciati invece gli emendamenti di Lega, Fi e M5S che miravano a trasformare in reato l’esercizio reiterato dell’attività di parcheggiatori abusivi, fino all’arresto: l’aula della Camera ha approvato un emendamento che amplia le sole sanzioni amministrative che passano da 100 a 3.500 euro; se si utilizzano dei minori le sanzioni possono essere raddoppiate. Tra non poche polemiche è stato ritirato l’emendamento delle commissioni che dava la possibilità agli enti locali di limitare la distribuzione sul territorio delle sale da gioco attraverso l’imposizione di distanze minime rispetto a luoghi sensibili come le scuole o altri luoghi abitualmente frequentati da minori. Bubbico tuttavia ha precisato:?"Confermo la volontà del governo di affrontare la questione" attraverso "una limitazione dell’accesso al gioco d’azzardo" anche per "garantire i soggetti più fragili ed esposti al fenomeno". Tra le altre novità del provvedimento, per i writer viene stabilito che se il reato è commesso su immobili, mezzi di trasporto pubblici o privati o monumenti il giudice può decidere di concedere la condizionale a patto che il writer ripulisca tutto. Si rafforzano anche i poteri del sindaco nell’emanare ordinanze in materia di divieto di vendita di alcolici ma anche interventi per situazioni di grave incuria del territorio, ambientale o di altra natura. Passa anche l’equo indennizzo per la polizia municipale così come il rimborso delle spese di degenza per causa di servizio. Il governo sceglie la strada del populismo penale di Claudio Paterniti Martello* Il Manifesto, 17 marzo 2017 Decreto sicurezza. Dietro il provvedimento, l’idea che la marginalità sociale presente nello spazio pubblico deturpi il "decoro". Il decreto Minniti, approvato ieri alla Camera e che di qui a breve sarà convertito in legge, propone un’idea di sicurezza secondo cui la marginalità sociale presente nello spazio pubblico deturpa il "decoro", disturba la "quiete pubblica" e attenta alla "moralità". Di conseguenza, contro elemosinanti, clochard, venditori abusivi e consimili si decide di abbattere una scure di sanzioni molto aspre. Il provvedimento rilancia lo spirito del decreto Maroni del 2008, quando in nome di una guerra senza quartiere ai marginali d’ogni risma si tirarono fuori i sindaci sceriffi. Come già all’epoca, si agisce con decreto, ritenendo che sussistano i requisiti di necessità e urgenza. Al contempo però, con una certa schizofrenia governativa, lo stesso ministro Minniti, rispondendo al question time della Camera, dichiarava ieri un calo del 9,4% dei reati nel corso dell’ultimo anno. Tuttavia, aggiungeva il ministro, la percezione di insicurezza è aumentata. È alla percezione, ovvero alla pancia del paese, che risponde questo decreto. Il governo volta così le spalle al garantismo e prende la strada del populismo penale. Come già per il decreto Maroni, è verosimile che la Corte Costituzionale dichiari illegittime numerose parti del provvedimento. Alcuni punti sono in effetti particolarmente critici: il potere dei sindaci, benché più contingentato di allora, appare ancora troppo ampio; e il cosiddetto Daspo cittadino prevede disuguaglianze nel trattamento. In sostanza il decreto dice, all’articolo 13, che il questore - il questore, si badi bene, e non il giudice - può vietare l’accesso a una serie di luoghi pubblici a chi negli ultimi tre anni è stato condannato, anche con sentenza non definitiva, per spaccio; e si sa che spaccio è una categoria giuridica che nella realtà comprende molti semplici consumatori. Qualora questo divieto fosse infranto, si potrebbero comminare multe che vanno dai 10 ai 40mila euro. Poi magari si verrà assolti in terzo grado, ma le sanzioni per essere andati laddove non si poteva e quando non si poteva resteranno sul groppone del malcapitato. Tutto ciò avviene a pochi giorni di distanza da una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, la sentenza Italia c. De Tommaso, che raccomanda al nostro paese di far uso un cauto delle cosiddette misure di prevenzione, essendo queste degli strumenti che limitano la libertà di movimento in assenza di un controllo giurisdizionale. Il governo invece, ne ha allargato il campo d’applicazione. Il decreto, fra le tante cose, prevede che vengano multati e allontanati anche coloro che impediscono la libera fruizione delle stazioni, ovvero barboni e senzatetto, che proprio nelle stazioni usano chiedere l’elemosina e ripararsi dalle intemperie, poiché lì circola tanta gente e si può racimolare qualche soldo in più. Per questi si prevedono multe dai 100 ai 300 euro, che com’è noto non verranno mai pagate. Laddove poi queste persone non ottemperino all’ordine dell’autorità, come farebbe un barbone cacciato dalla stazione il giorno prima e tornatoci quello dopo, secondo l’articolo 650 del codice penale potrebbero essere portate in carcere. Sulla scia di una cultura forcaiola propria della Lega, che infatti in commissione ha applaudito il decreto, il governo sembra mandare un messaggio alle forze dell’ordine, incoraggiandole ad adottare un approccio repressivo nei confronti di categorie già vulnerabili, ora anche indesiderabili. Pochi giorni fa l’associazione Antigone ha incontrato nel carcere di Regina Coeli un detenuto ghanese che prima di finire dietro le sbarre dormiva all’addiaccio, anzi sotto il tetto della stazione. Due agenti delle forze dell’ordine sono andati a dirgli di andar via, e di fronte al suo rifiuto hanno buttato la sua coperta nel cestino; coperta che il ragazzo in questione è andato a prendere, e che gli agenti hanno nuovamente buttato via. Fino a quando, alla quarta volta, il ragazzo è stato portato in carcere per resistenza a pubblico ufficiale. Ora, a nostro avviso, l’azione di chi sta al governo, e a volte si dice pure garantista e nemico dei populismi di ogni sorta, dovrebbe essere portatrice di messaggi d’altro tipo, e dar vita a provvedimenti motivati da ben altre urgenze, come ad esempio l’emergenza integrazione. *Associazione Antigone Migranti. Accordo Ue-Turchia, una macchia sulla coscienza collettiva dell’Europa di Riccardo Noury Corriere della Sera, 17 marzo 2017 Alla vigilia del primo anniversario dell’accordo tra Unione europea e Turchia, firmato il 18 marzo 2016 ed entrato in vigore due giorni dopo, Amnesty International ha parlato di "una vergognosa macchia sulla coscienza collettiva dell’Europa", che ha causato la sofferenza di migliaia di migranti e rifugiati. L’accordo, finalizzato al rinvio dei richiedenti asilo in Turchia e fondato sulla premessa che la Turchia sia un paese sicuro per loro, non ha raggiunto gli obiettivi che si era dato ma ha lasciato migliaia di persone in condizioni squallide e insalubri sulle isole della Grecia. Il 18 marzo dello scorso anno è stato, secondo l’organizzazione per i diritti umani che negli ultimi 12 mesi ha più volte chiesto l’annullamento dell’accordo, "un giorno nero nella storia della protezione dei rifugiati: un giorno in cui i leader europei hanno cercato di svincolarsi dai loro obblighi internazionali, incuranti del costo che ciò avrebbe comportato in termini di miseria umana". Da quel giorno, le isole greche di fronte alla Turchia sono state trasformate in campi di sosta e le coste europee da luogo di rifugio sono diventate luogo di pericolo. A un anno di distanza, migliaia di persone restano lì dove sono arrivate, bloccate in un limbo rischioso, disperato e apparentemente senza fine. Nella maggior parte dei casi, i richiedenti asilo non possono lasciare le isole greche. Sono fermi in luoghi sovraffollati e squallidi e a volte subiscono crimini d’odio. A Lesbo cinque rifugiati, tra cui un bambino, sono morti in circostanze fortemente legate a questa situazione. Sebbene i leader europei continuino a fingere che la Turchia è un paese sicuro (ignorando le denunce di rimpatri illegali in zone di guerra), finora i tribunali greci hanno bloccato il ritorno dei richiedenti asilo siriani in Turchia. Tuttavia, alcuni richiedenti asilo provenienti dalla Siria sono stati rinviati con la forza in Turchia in violazione del diritto internazionale, senza neanche avere accesso alla procedura d’asilo e senza poter contestare la decisione. Altri hanno fatto ritorno "volontariamente" in Turchia a causa delle misere condizioni in cui si trovavano sulle isole greche. Entro la fine del mese il massimo organo della giustizia amministrativa greca prenderà una decisione sul caso di un richiedente asilo siriano di 21 anni, detenuto illegalmente ormai da sei mesi, dopo che la sua richiesta d’asilo era stata giudicata inammissibile in quanto il tribunale di primo grado aveva ritenuto la Turchia "paese terzo sicuro". A seconda della sentenza del tribunale, attesa entro la fine di marzo, potrà essere immediatamente rimandato in Turchia. Il verdetto potrebbe costituire un precedente e aprire le porte a ulteriori rinvii. Invece di cercare di rimandare richiedenti asilo e rifugiati in Turchia, dove non ricevono effettiva protezione, Amnesty International ritiene che l’Unione europea dovrebbe collaborare con le autorità greche per trasferire urgentemente i richiedenti asilo sulla terraferma ed esaminare i loro casi. I governi europei dovrebbero metter loro a disposizione posti per la ricollocazione o ulteriori percorsi legali e sicuri per raggiungere altri paesi europei, ad esempio attraverso visti umanitari o riunificazioni familiari. Ma non è a questo che l’Unione europea sta pensando. Nonostante il suo palese fallimento e le evidenti violazioni del diritto internazionale, l’accordo con la Turchia viene spesso citato come un modello da replicare in accordi con altri paesi. E questa valutazione positiva tradisce il vero intento dell’accordo: niente a che fare con la protezione dei rifugiati e tutto a che fare col proposito di tenerli fuori dall’Europa. La Turchia, questa Turchia che non è un paese sicuro neanche per i suoi cittadini, all’Unione europea serve eccome. Migranti. Il Csm boccia la soppressione dell’appello di Carlo Lania Il Manifesto, 17 marzo 2017 La decisione di sopprimere un grado di giudizio nelle procedure di esame delle domande di asilo dei rifugiati contiene una "diffusa compressione delle garanzie del richiedente", tale da "far ritenere non adeguato il sistema disegnato dal legislatore". Il giudizio negativo riguarda uno dei punti più importanti del decreto Immigrazione varato nelle scorse settimane dal governo ed è inserito nel parere del Consiglio superiore della magistratura votato mercoledì sera dal plenum e inviato al ministro della Giustizia. Uno stop condiviso nei giorni scorsi anche dal primo presidente della Corte di cassazione Giovanni Canzio, che ha indicato nella soppressione dell’appello un "vulnus" al nostro sistema costituzionale perché si limita soprattutto la garanzia del contraddittorio nei confronti delle "persone più deboli" di cui sono in gioco "diritti fondamentali". La bocciatura alla misura proposta dal governo per velocizzare l’esame delle richieste di asilo arriva mentre le commissioni Affari costituzionali e Giustizia del Senato hanno cominciato l’esame degli oltre 500 emendamenti al decreto. Ieri sono stati giudicati inammissibili perché "estranei alla materia" quelli presentati da Sinistra italiana per chiedere l’abrogazione del reato di clandestinità, mentre la commissione Bilancio ha respinto la richiesta di aumentare da 14 a 26 le sezioni di tribunale specializzate nell’esame delle domande di asilo. Un emendamento presentato dal Pd chiede invece che alle sezioni dei tribunali venga assegnata la competenza per "i provvedimenti di respingimento" o di "diniego o di revoca o di annullamento del visto di ingresso", oppure ancora "di diniego di rilascio o di annullamento o di revoca" dei permessi di soggiorno e dei permessi di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo. Il cuore del decreto restano comunque gli articoli che prevedono la cancellazione dell’appello e la possibilità di utilizzare le videoregistrazioni davanti ai giudici, invece della presenza fisica della persona interessata. Occorre un procedimento davanti al tribunale "non meramente cartolare - avverte invece il Csm, in cui sia resa obbligatoria l’audizione del richiedente". Intanto ieri il Viminale ha annunciato un nuovo piano d accoglienza tarato su 200 mila persone. "Per i piccoli Comuni fino a duemila abitanti - ha spiegato il capo del Dipartimento Immigrazione, prefetto Gerarda Pantalone, parlando in commissione Migranti della Camera - il Piano prevede un massimo di sei migranti, per le 14 Città metropolitane, 2 ogni mille abitanti e per il resto dei Comuni 3-3,5. L’obiettivo è avere più Comuni coinvolti rispetto agli attuali 2.800". Il prefetto ha poi annunciato che verranno aperti altri hotspot in aggiunta ai quattro già attivi le nuove strutture dovrebbero sorgere a Crotone (800 posti), Reggio Calabria (400), Corigliano Calabro (400), Messina e Palermo. Migranti. Al Csm non piace il decreto migranti: "Tutele indebolite" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 17 marzo 2017 Il plenum critica le video-audizioni per i richiedenti asilo. Discussione accesa l’altro giorno in plenum sul parere, da inviare al ministro della Giustizia Andrea Orlando, elaborato dalla sesta e dalla settima commissione del Csm in relazione al decreto legge in materia di protezione internazionale. Decreto che, come noto, per "ottimizzare i tempi" elimina l’appello in caso di diniego dello status di rifugiato e introduce la videoconferenza per il richiedente asilo. "La contemporanea e diffusa compressione delle garanzie del richiedente asilo fa ritenere non adeguato il sistema disegnato dal legislatore: la previsione in tema di struttura del giudizio richiede come necessaria l’introduzione si legge nel parere con cui il Csm boccia il decreto - di un procedimento innanzi al Tribunale non meramente cartolare in cui sia resa obbligatoria l’audizione del richiedente. La previsione in tema di non reclamabilità della decisione assunta dal giudice, ai fini della sostenibilità sotto il profilo della effettività del diritto di difesa, impone di garantire la massima espressione dei diritti personali e di difesa nell’unico grado di giudizio di merito". Inoltre "la previsione della eliminazione dell’appello può comportare l’afflusso in Cassazione di un numero eccezionale di nuovi ricorsi, con un incremento dei carichi di lavoro difficilmente sostenibile dal giudice di legittimità". Nella discussione è intervenuto il primo presidente della Suprema corte Giovanni Canzio secondo cui "viene compromessa la garanzia del contraddittorio per le persone più deboli: un vulnus al sistema costituzionale, una doppia compressione delle garanzie delle persone più deboli". Il consigliere Renato Balduzzi (laico indicato da Scelta civica) ha sottolineato che "l’audizione del richiedente asilo da parte del giudice dovrebbe rispondere a un principio di fondo: il richiedente è anzitutto una persona, la cui situazione umana va valutata sempre direttamente, guardandolo negli occhi". E inoltre "le indubbie esigenze di speditezza di tali procedimenti, anche a garanzia dei diritti dei richiedenti e in vista dell’adempimento da parte loro dei doveri costituzionali, sono prese in considerazione dal decreto con altri strumenti e istituti, che - ha spiegato - non incidono sulle posizioni giuridiche costituzionalmente garantite, in particolare il diritto di difesa: va resa perciò obbligatoria l’audizione del richiedente". Favorevole al decreto, invece, i laici Pierantonio Zanettin e Maria Elisabetta Alberti Casellati (FI). "Ho votato contro questo parere in quanto il procedimento per il riconoscimento dello status di rifugiato deve essere celere", spiega Zanettin, "al fine di evitare che i richiedenti asilo, privi di titolo, permangano a lungo sul territorio nazionale. Va garantito un contraddittorio adeguato alla non particolare complessità delle questioni giuridiche da affrontare ed ai seri problemi di organico dei magistrati italiani, e le misure devono essere accompagnate da un serio programma di rimpatrio dei soggetti non aventi titolo, al fine di scoraggiare viaggi della speranza di migranti economici irregolari. In tale ottica", spiega il consigliere laico, "non condivido le critiche che sono state portate all’abolizione dell’appello, al rito camerale e alla mancata obbligatorietà della comparizione personale del ricorrente avanti il Tribunale, che inevitabilmente ne appesantirebbero l’iter’, ha concluso Zanettin. Europa: popolazione reclusa in calo, ma stentano i progressi contro il sovraffollamento di Mirko Buonasperanza giurisprudenzapenale.com, 17 marzo 2017 Il segretario generale del Consiglio d’Europa, Thorbjørn Jagland, ha dichiarato: "Il calo del numero complessivo di persone in carcere in Europa è il benvenuto. Aumentare l’uso di pene alternative non porta necessariamente a più alti tassi di criminalità, ma può aiutare a reintegrare i trasgressori e affrontare il sovraffollamento". Dal comunicato stampa DC031 rilasciato dal Consiglio d’Europa il 14 marzo[1] scorso emerge che la popolazione carceraria in Europa è in calo ma non vi è un progresso considerevole nella lotta contro il sovraffollamento. Secondo l’ultimo documento Space (Annual Penal Statistics of the Council Of Europe, lo studio sul sistema penitenziario commissionato ogni anno all’Istituto di criminologia dell’Università di Losanna, che riunisce informazioni provenienti da 45 amministrazioni penitenziarie e 47 servizi di libertà vigilata)[2], il numero di persone detenute in carceri europee è diminuito del 6,8% nel biennio 2014-2015, anche se il sovraffollamento carcerario è rimasto un problema in 15 paesi. Nel 2015, 1.404.398 persone sono state detenute in istituti penitenziari di tutta Europa, ossia 102.880 detenuti in meno rispetto al precedente anno. Il tasso medio di carcerazione, utilizzato spesso come indicatore per valutare le politiche anti-crimine, è sceso del 7% (da 124 a 115,7 detenuti ogni 100.000 abitanti)[3]. Riduzioni significative nel tasso di carcerazione sono stati registrate in Grecia (-18,8%), Croazia (-10,2%) e Danimarca (-11,9%), mentre i paesi con i tassi di incarcerazione più elevati sono stati la Russia (439,2 detenuti ogni 100.000 abitanti), la Lituania (277,7) e la Georgia (274,6). Olanda (53) e alcuni paesi nordici, e cioè la Finlandia (54,8), la Danimarca (56,1) e la Svezia (58,6), sembrano essere quelli a ricorrere meno spesso alla detenzione registrando così le percentuali più basse. Nonostante la riduzione complessiva della popolazione carceraria nel 2015, non è possibile affermare che vi sia un progresso a livello generale europeo per ridurre il sovraffollamento, ed il numero dei detenuti è rimasto al di sopra dei posti disponibili in un terzo delle amministrazioni penitenziarie. La situazione è migliorata in alcuni paesi e deteriorata in altri. Il numero di detenuti per ogni 100 posti disponibili nelle carceri europee era 93,7 (93,6 nel 2014), ma il numero di amministrazioni penitenziarie che soffrono di sovraffollamento è cresciuto dal 13 al 15[4]. Tra queste, quelle che rimangono acutamente sovraffollate vi sono state quelle della Macedonia (138,2 detenuti per 100 posti), della Spagna (133,1) e dell’Ungheria (129,4); l’Italia si attesta a quota 105,6. Per quanto riguarda le tipologie di reati per i quali i soggetti sono detenuti (il 73% è in espiazione pena), il rapporto Space I rappresenta che quasi uno su cinque (18,7%) è stato condannato per reati legati alla droga. In Italia, Georgia, Azerbaigian, Estonia, Cipro, Lussemburgo, Montenegro, e Russia questa percentuale è più alta: il 25% o più dei detenuti. La seconda infrazione più comune per il quale i detenuti scontano una pena è il furto (16,2%), seguito da omicidio (13,2%) e rapina (12,6%)[5]. Sulla durata media della pena è invece interessante osservare che quasi uno su quattro detenuti (24,7%) sconta una pena finale tra 1 e 3 anni mentre la percentuale di detenuti che scontano meno di un anno ha continuato ad essere relativamente alta, anche se è scesa dal 15% al 13,5%. I prigionieri sottoposti a condizioni detentive molto lunghe, come ad esempio 10 anni e oltre, ergastoli e misure di sicurezza hanno rappresentato l’11,4% del totale della popolazione carceraria[6]. Nel 2015, i detenuti stranieri erano il 10,8% del totale della popolazione carceraria (in calo dal 13,7% nel 2014). Nei paesi dell’Europa centrale e orientale questa percentuale ha continuato ad essere molto piccola mentre era abbastanza grande nei paesi dell’Europa occidentale (in 16 amministrazioni penitenziarie, uno ogni quattro detenuti era uno straniero)[7]. Assai rilevante è anche la questione dei suicidi in carcere, rilevati al secondo posto dopo le cause naturali, come causa più comune di morte nelle prigioni, arrivando a rappresentare il 25% di tutti i decessi (di questi, uno ogni quattro suicidi si sono verificati in detenzione preventiva)[8]. Nel corso del 2015 ci sono stati 1.239.426 individui sotto la supervisione delle agenzie incaricate di misure alternative alla detenzione, come libertà vigilata, servizio alla comunità o elettro-monitoraggio: di questi solo il 7,5% era in attesa di processo, il che dimostra che le misure non detentive sono scarsamente applicate come alternativa alla custodia cautelare[9]. Per ciò che riguarda direttamente il nostro Paese, all’Italia va il record di detenuti per droga fra i 47 Paesi membri del Consiglio d’Europa: nel 2015 nel nostro Paese erano addirittura un terzo del totale dei condannati in via definitiva al carcere, la quota più alta (la media europea, come ricordato prima, è di un quinto). Questa categoria di reclusi è in percentuale la più elevata e il suo peso in rapporto alle persone condannate per altri reati non ha fatto altro che crescere negli ultimi 10 anni[10]. Tra tutti i paesi analizzati, l’Italia si colloca al primo posto con il 31,1% del totale[11]. I dati evidenziano anche che in Italia il 19% dei detenuti sconta una pena per omicidio e tentato omicidio, contro una media europea del 13,2%. L’Italia è anche uno dei 15 paesi europei che nel 2015 ha continuato a soffrire di sovraffollamento carcerario: come detto precedentemente, al primo settembre 2015 erano presenti 105,6 detenuti per ogni 100 posti disponibili, una situazione comunque migliore dell’anno precedente, quando il rapporto era di 109,8. Il miglioramento può essere attribuito agli effetti degli interventi legislativi registrati nel 2014 che hanno portato a una diminuzione del numero di detenuti, passati da 54.252 a 52.389. Ma dal rapporto emerge anche che la questione del sovraffollamento potrebbe essere legata al fatto che in Italia lo spazio minimo di una cella occupata da un solo detenuto è definito per legge in 9 metri quadrati, più altri 5 per ogni letto aggiunto. Tenendo conto che il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa raccomanda come spazio minimo della cella singola 6 mq, più 4 per ogni altro detenuto, e che molti Stati scelgono questo come parametro, si sottolinea che il rapporto tra capacità e detenuti nel 2015 sarebbe positivo[12]. Resta in ogni caso necessario introdurre meccanismi che possano di fatto alleggerire il carico delle strutture detentive (come l’uso di misure alternative espresso dal Segretario generale del Consiglio d’Europa all’inizio di questo articolo) senza però cadere in misure una tantum che, come l’indulto del 2006, di fatto, da un lato hanno frustrato la normalità dell’iter giudiziario e dall’altro non hanno inciso uniformemente ed efficacemente sul problema del sovraffollamento. [1] Consiglio d’Europa, Comunicato stampa n. DC031, 14 marzo 2017 [2] Consiglio d’Europa, Annual Penal Statistics, SPACE I - Prison populations, Survey 2015 [3] Consiglio d’Europa, SPACE I 2015 - Executive Summary - Facts & Figures, p.1 [4] Ibidem. [5] Ibidem. [6] Consiglio d’Europa, Annual Penal Statistics, SPACE I, cit., tab. 7, p.87. [7] Consiglio d’Europa, SPACE I 2015 - Executive Summary, cit., p. 5. [8] Consiglio d’Europa, SPACE I 2015 - Executive Summary, cit., p. 2. [9] Consiglio d’Europa, Annual Penal Statistics, SPACE II - Persons Serving Non-Custodial Sanctions and Measures, survey 2015, p.1. [10] Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Ufficio per lo sviluppo e la gestione del sistema informativo automatizzato - sezione statistica [11]Consiglio d’Europa, SPACE I 2015 - Executive Summary, cit., p. 6. [12]Si veda sul punto Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Ufficio del Capo del Dipartimento, Ufficio Studi Ricerche Legislazione e Rapporti Internazionali, Scheda sulla capienza degli istituti penitenziari - Recepimento nell’ordinamento interno delle indicazioni CEDU e CPT, 2015. Stati Uniti. Cala il consumo di cannabis e cocaina, la nuova droga si chiama smart-phone di Simone Valesini La Repubblica, 17 marzo 2017 In America il consumo di droga tra i giovani è in calo per la prima volta da 40 anni, mentre cresce la dipendenza da internet. Per alcuni esperti, i due fenomeni potrebbero essere collegati. Cannabis e cocaina, ma anche crack, eroina, metanfetamina, ecstasy. Le droghe insomma non sembrano più di moda tra gli studenti americani. A rivelarlo è l’indagine Monitoring the Future, un report annuale che fotografa l’andamento dei consumi di sostanze d’abuso negli Usa, e che, per la prima volta dal 1975 segna un netto calo in quasi tutte le voci, compresi alcol e sigarette. Capire il perché non è facile: secondo qualcuno potrebbe essere merito dello stigma crescente per le sigarette che elimina una delle porte di ingresso principali al consumo di sostanze stupefacenti; per altri l’effetto è dovuto alla sempre più diffusa legalizzazione della marijuana, o all’efficacia delle campagne di sensibilizzazione degli ultimi anni. Alcuni esperti americani però iniziano a vedere un pattern preciso, e meno rassicurante. Come racconta un articolo del New York Times, il minor consumo di sostanze d’abuso potrebbe essere collegato al crescente problema della dipendenza da internet, smartphone e computer. I millennials, insomma, starebbero solamente cambiando vizio. Due facce della stessa medaglia. Ne è convinta ad esempio Nora Volkow, direttrice del National Institute on Drug Abuse americano, che racconta al New York Times di avere organizzato un convegno per il prossimo aprile, per iniziare a indagare seriamente questa possibilità. L’utilizzo ossessivo di internet, social media, computer e smartphone, spiega l’esperta, ha iniziato a diffondersi tra i giovanissimi proprio negli ultimi anni, e potrebbe aver tolto tempo per droghe e festini, sostituendo però una nuova forma di dipendenza allo sballo derivante dal consumo di sostanze illegali. È presto per spiegare come ma, spiega Volkow, "c’è chiaramente sotto qualcosa": per la prima volta da 40 anni il consumo di cannabis è in calo tra gli studenti dei licei e lo stesso si nota per cocaina, allucinogeni, ecstasy, crack. E mentre cala il desiderio di sballarsi, aumenta il tempo trascorso tra giochi, social media e altre attività online. Un’indagine del 2015 svela che tra i 13 e i 18 anni gli americani trascorrono in media sei ore e mezza davanti allo schermo di computer, tablet e telefoni. Una storia americana? Guardando al Bel paese, il rapporto tra giovani e internet non è poi tanto diverso: secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza il 50% degli adolescenti trascorre dalle 3 alle 6 ore ogni giorno con lo smartphone in mano, il 16% tra le 7 e le 10, e il 10% supera tranquillamente le 10 ore quotidiane. Sul fronte dei consumi di sostanze stupefacenti però la situazione si fa meno chiara. Lo studio Espad (European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs), che analizza periodicamente la diffusione delle sostanze illegali tra i giovani europei, parla di un trend in calo solo per alcune sostanze, e a macchia di leopardo. Tra il 1993 e il 2003 si è assistito a una generale tendenza al rialzo e oggi il consumo (con grandi variabili a livello nazionale) risulta sostanzialmente stabile: in 10 nazioni europee la percentuale di giovani che ha sperimentato sostanze illecite almeno una volta nella vita è ferma al 25%, mentre in Italia, leggermente sopra la media, si attesta intorno al 28%. E guardando alla sostanza più diffusa nel nostro paese, la cannabis, i dati parlano di un consumo in leggero rialzo: nel 2015 l’ha sperimentata il 27% degli studenti italiani, contro il 21% del 2011. Più di internet poté la crisi. "In Europa si è assistito ad un trend in diminuzione per l’utilizzo di alcune sostanze, e l’abuso di internet è effettivamente in aumento tra gli adolescenti, ma a mio avviso la relazione tra i due fenomeni non è poi così banale", spiega Sabrina Molinaro, ricercatrice dell’Istituto di Fisiologia Clinica del Cnr e coordinatrice europea del progetto Espad. Analizzando più a fondo i dati sui consumi, emerge in effetti un quadro più variegato: l’utilizzo di sostanze cala ad esempio tra i consumatori più occasionali, mentre è in crescita tra i consumatori abituali, quelli che utilizzano sostanze più di 20 volte al mese. "Personalmente mi sembra troppo semplice pensare a una relazione diretta tra abuso di sostanze e dipendenza da internet - continua l’esperta - piuttosto dai nostri dati sembra più plausibile che a modulare i consumi di droghe sia stata la crisi. Avere meno soldi a disposizione frena l’utilizzo di sostanze stupefacenti tra i ragazzi che ne fanno un uso sporadico, ma può indurre a usarle più spesso chi ne fa già un consumo costante, ed è quindi abituato a trovarvi rifugio". Una relazione possibile. Secondo Federico Tonioni, responsabile dell’Ambulatorio dipendenze comportamentali del Policlinico Gemelli di Roma, sia internet che le droghe possono essere la risposta a un problema comune: la difficoltà di controllare ed esprimere le proprie emozioni. Una difficoltà che nasce nell’infanzia e si presenta in modo trasversale in tutti i cosiddetti nativi digitali. "Le emozioni e il movimento sono due polarità fondamentali dell’esperienza, che vengono danneggiare da un’infanzia trascorsa di fronte agli schermi di tablet, computer e smartphone", spiega Tonioni. Il poliabuso, cioè l’utilizzo di sostanze stupefacenti, da un lato, e il ritiro sociale web mediato, cioè l’isolamento causato da un abuso di internet, dall’altro, sarebbero dunque un tentativo di rispondere alle difficoltà emotive. Un giovane può insomma scegliere di rispondere ad un problema emotivo utilizzando la droga, o rifugiandosi su internet. "I ragazzi possono decidere di dislocare la propria vita online, perché lo schermo del computer è un filtro che aiuta a controllare più facilmente le proprie emozioni - conclude l’esperto - o possono invece rifugiarsi nell’abuso di sostanze, che rappresenta un modo per programmare le proprie esperienze emotive, e avere un’illusione di controllo. Difficilmente però decideranno di fare entrambe le cose. E in questo senso, l’aumentare dei problemi legati alla vita online potrebbe effettivamente riflettersi in una diminuzione del consumo di droghe tra gli adolescenti". Stati Uniti. "Robolawyer", gli avvocati-robot ruberanno il lavoro degli umani? di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 17 marzo 2017 Inevitabile: dopo il robot operaio e quello chirurgo, TurboTax che ti fa la dichiarazione dei redditi al posto del fiscalista e i giornali Usa che cominciano a far scrivere gli articoli meno complessi a una macchina, arriva anche "robolawyer", l’avvocato-robot. Mentre Trump continua a suonare la grancassa del rilancio dell’occupazione ingiungendo alle industrie che hanno costruito fabbriche all’estero di riportarle negli Usa senza preoccuparsi se i vecchi impianti da duemila operai vengono rimpiazzati da nuove fabbriche automatiche con un centinaio di addetti, l’onda lunga dell’impatto della tecnologia sul mercato del lavoro raggiunge anche i suoi professionisti preferiti: gli avvocati. Sono loro i personaggi di cui il miliardario diventato presidente ama circondarsi: ora come prima, quando da imprenditore li usava per blindare i suoi accordi d’affari o minimizzare le tasse da pagare al Fisco. Sono in molti a gioire per i bollettini di vittoria della Casa Bianca: elenchi di aziende che accettano di tornare a produrre negli Usa. Ma Trump (e con lui gran parte della classe politica, negli Usa e in Europa) preferisce ignorare il nodo angoscioso del numero crescente di lavori in cui le macchine possono sostituire l’uomo senza perdite di qualità e a basso costo. Progressi che, liberando dalla fatica, sono di certo un’opportunità, ma che, non gestiti, diventano problemi assai seri. Soluzioni facili non ce ne sono: il reddito di cittadinanza che le sinistre europee vorrebbero dare a chi perde il lavoro è un tampone costosissimo e provvisorio. Ma non si può nemmeno accantonare il problema nell’attesa che nascano nuovi mestieri, come avvenuto più volte in passato: l’attesa dura da almeno 15 anni mentre i progressi dell’intelligenza artificiale accelerano la diffusione dell’automazione. Si temono rivolte in un mondo senza più tassisti né camionisti, ma, benché meno visibile, è ben più profondo l’impatto delle tecnologie che invadono le professioni intellettuali: i computer che già leggono ecografie e risonanze magnetiche, "Watson" di Ibm che diagnostica un cancro meglio dell’oncologo. E, ora, "Ross", il computer già "assunto" da grandi studi legali Usa che svolge le ricerche necessarie per preparare un caso. E Lex Machina un software basato sul linguaggio naturale e sui casi simili già discussi da tutti i tribunali, che formula gli argomenti da sostenere nel dibattito davanti alla corte. Egitto. Caso Regeni, i dieci ingranaggi che inchiodano il regime di Chiara Cruciati Il Manifesto, 17 marzo 2017 La Procura di Roma individua i membri dei servizi coinvolti. Ministro Shoukry: "Da noi apertura senza precedenti" ma l’ambasciatore resta al Cairo. La Nato accoglie al-Sisi: all’Egitto un ufficio diplomatico permanente al Patto Atlantico. Due generali, due colonnelli, un maggiore, tre capitani, due agenti: le cariche dei dieci membri del dipartimento per le attività sindacali e le organizzazioni politiche illegali della National Security egiziana coinvolti nel caso Regeni non sono superabili dalla narrativa delle mele marce e del caso isolato, cara al regime di al-Sisi. Le rivelazioni della Procura di Roma sulla nuova rogatoria inviata al procuratore generale Sadek smontano - una volta di più - l’impalcatura di depistaggi che dal 3 febbraio 2016, giorno del ritrovamento del corpo martoriato di Giulio, Il Cairo ha sapientemente costruito. Sapientemente perché, seppur palesemente fasulla, quell’impalcatura permette al presidente golpista di non venir sporcato a livello internazionale dalle pratiche brutali della macchina della repressione interna. Lo si vede ogni giorno, in un climax di legittimazione occidentale del regime che mortifica le aspirazioni democratiche e egualitarie del popolo egiziano. Eppure il caso Regeni (la terribile sorte di uno straniero che illumina quella identica di migliaia di egiziani) nega alla base tale legittimazione. Nella rogatoria il team di Piazzale Clodio è chiarissimo: chiede i verbali dei dieci soggetti coinvolti nella sparizione, la morte e la successiva catena di insabbiamenti, non soggetti qualsiasi ma ingranaggi centrali dei servizi segreti che fanno capo al Cairo. "Questo ufficio - si legge - ritiene che Giulio Regeni sia stato oggetto di accertamenti, per un non breve periodo, ad opera di ufficiali degli apparati di sicurezza egiziani. Questi ultimi, nel ricostruire le indagini effettuate, hanno riferito, tra molte reticenze, fatti non conformi al vero e ciò sia in ordine ai tempi e ai modi dell’attività svolta a gennaio 2016, sia in ordine alla perquisizione del 24 marzo 2016 che portò al ritrovamento dei documenti di Giulio Regeni". Hanno mentito, depistato: la Procura di Roma fa quello che il governo italiano non fa, abbandonando il lessico imbellettato della diplomazia. Aggiungendo un elemento importante: quei soggetti hanno usato un luogo compatibile con le torture subite da Giulio ("professionisti della tortura", li definì la madre Paola Deffendi) per almeno una settimana e - se davvero si fosse trattato di "mele marce" - lontano da occhi indiscreti. Quasi una domanda retorica che, insieme all’uccisione di cinque egiziani, svela di per sé la pochezza della teoria dei lupi solitari. Nel mirino della procura torna infatti anche la sparatoria, come la definì la polizia egiziana, in cui morirono cinque egiziani accusati di aver assassinato Giulio. Innocenti, vittime di esecuzioni a sangue freddo con colpi sparati alla testa e i corpi messi nei sedili del minivan. Per quelle morti il procuratore del Cairo sta indagando due poliziotti. Ma è ovvio che non si è trattato dell’azione solitaria di due agenti. E la Procura di Roma lo spiega: fu un colonnello a collocare i documenti di Giulio in casa di una delle vittime, lo stesso che contattò il generale e il capitano del Dipartimento che avevano registrato la denuncia del capo del sindacato ambulanti Abdallah e con lui avevano intessuto relazioni dirette (Abdallah ripete che fu uno di loro a consegnargli la videocamera con cui filmò Regeni il 6 gennaio). Nelle stesse ore parlava il ministro degli Esteri egiziano Shoukry: in un’intervista alla tv egiziana Dmc, ha detto che la morte di Giulio e il mancato ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo "gettano un’ombra sui legami bilaterali" tra i due paesi. E aggiunge: "Abbiamo dimostrato una trasparenza senza precedenti nella collaborazione degli organi giudiziari con la controparte italiana. Abbiamo accettato di essere così aperti in via eccezionale, data la natura storica dei legami con l’Italia". Apertura e trasparenza visibili solo a Shoukry che, in ogni caso, ha optato per una misura identica nei confronti di Roma: l’ambasciatore Badr non si insedierà in Italia - dice il segretario della Commissione parlamentare agli Esteri, Tarek al-Kholi, ad Agenzia Nova - fino a quando quello italiano non tornerà in Egitto. Il mare magnum di bugie non bagna l’Occidente. Le istituzioni italiane non ne parlano, quelle internazionali corrono alla corte di al-Sisi. Ieri è giunto l’ultimo riconoscimento in ordine di tempo. Con un decreto presidenziale al-Sisi ha approvato la creazione di una missione diplomatica permanente alla Nato. Non una partnership vera e propria, ma un innalzamento consistente del livello dei rapporti con il Patto Atlantico: Il Cairo avrà un suo ufficio permanente di rappresentanza, come Israele e la Russia. Due giorni fa era stato il segretario Stoltenberg a lodare l’iniziativa: "Rafforzerà la cooperazione e il partenariato tra Nato e Egitto". Una misura (probabilmente definita una settimana fa quando il generale Pavel, capo del Comando Militare Nato, ha fatto visita all’esercito egiziano e quindici giorni fa quando Shoukry è stato ricevuto da Stoltenberg a Bruxelles) che si inserisce all’interno di un legame ventennale, quello del Dialogo Mediterraneo di cui Il Cairo fa parte con Israele, Giordania, Tunisia, Algeria, Mauritania e Marocco. Grecia: si moltiplicano i casi di autolesionismo tentato suicidio e depressione tra i bambini La Repubblica, 17 marzo 2017 Il rapporto di Save the Children diffuso oggi. La causa è attribuibile al degrado progressivo delle condizioni in cui vengono tenuti sulle isole greche, dove ormai ci sono circa 13.200 richiedenti asilo di fatto reclusi in uno stato disumano. A un anno dalla firma dell’accordo tra Unione Europea e Turchia, Save the Children denuncia l’aumento allarmante dei casi di autolesionismo e tentativo di suicidio, aggressività, ansia e depressione tra i bambini migranti e rifugiati a causa del degrado progressivo delle condizioni sulle isole greche, dove sono trattenuti circa 13.200 richiedenti asilo in condizioni disumane. Cinquemila bambini di fatto detenuti. Con il rapporto Tra autolesionismo e depressione - L’impatto devastante dell’accordo UE-Turchia sui bambini migranti e rifugiati, l’Organizzazione internazionale, dedicata dal 1919 a salvare i bambini in pericolo e a promuoverne i diritti, descrive le atroci condizioni in cui l’Europa ha costretto migliaia di famiglie e più di 5.000 bambini, rinchiusi in strutture diventate di fatto veri e propri centri di detenzione a seguito dell’applicazione dell’accordo UE-Turchia nel marzo 2016. È inaccettabile che nonostante conseguenze di così grave entità sulla vita dei bambini, questo accordo venga indicato dall’Europa come un modello da seguire per la cooperazione con altri paesi di transito quali la Libia o l’Egitto. Un’impennata nell’uso di droghe. Il nuovo rapporto diffuso oggi, sottolinea la gravità delle evidenti conseguenze sulla salute mentale e il benessere generale dei bambini. Incidenti e atti di autolesionismo che coinvolgono bambini anche di 9 anni si stanno moltiplicando, e le madri scoprono spesso le ferite sulle loro mani quando li aiutano a lavarsi. Alcuni bambini, anche di 12 anni, hanno tentato il suicidio generando anche un meccanismo di emulazione tra i loro coetanei. C’è stata un’impennata nell’abuso di droghe e alcol nel tentativo di sfuggire ad una realtà insostenibile, una vulnerabilità di cui spesso approfittano gli sfruttatori. I bambini, a cui è stata negata ogni forma di educazione, sono stati coinvolti in proteste violente, hanno visto morire persone nei campi o perso tutto ciò che avevano negli incendi, sono stati costretti a passare l’inverno sotto tende inadeguate o a dormire all’aperto. Le testimonianze. "Ho visto cambiare radicalmente mio figlio," racconta Babak, un rifugiato che si è ritrovato con suo figlio di 12 anni in mezzo all’incendio che ha distrutto parte del campo sull’isola di Chios l’anno scorso. "È terrorizzato, da quando il campo è bruciato non dorme più bene la notte e ha continui incubi, come me. Nessuno vivrebbe in queste condizioni, odio l’Europa e me stesso per tutto questo." Alcune famiglie sono spaventate al punto da trattenere i bambini tutto il giorno nelle tende perché hanno paura che possano subire violenze o abusi, e loro sono sempre più terrorizzati per la mancanza di sicurezza nei campi dove sono rinchiusi tra il filo spinato. "Prima ci hanno portati al campo di Moria, dove c’erano sempre scontri con pietre e bastoni che terrorizzavano i bambini - racconta Beyar, che è fuggito dall’Iraq con sua moglie e quattro figli - poi siamo stati trasferiti a Leros, ma anche qui la situazione è brutta, ci sono stati casi di abuso di bambini alcune settimane fa, ho paura per i miei figli." Livelli di violenza altissimi. I minori soli sono spesso oggetto di attacchi e scontri nei quali la polizia interviene raramente, mentre usa in alcuni caso un livello di violenza ingiustificato nei confronti dei migranti e rifugiati, compresi i bambini. Gli operatori di Save the Children hanno raccolto testimonianze di minori soli che vivono in allarme continuo e fanno i turni per dormire cercando di proteggersi a vicenda, e molti sono scomparsi lasciando le isole grazie ai trafficanti o intraprendendo fughe solitarie. "L’accordo UE-Turchia - dice Andreas Ring, rappresentante di Save the Children in Grecia - avrebbe dovuto bloccare il flusso dei migranti considerati irregolari verso la Grecia, ma a quale prezzo? I nostri operatori stanno rilevando un preoccupante deterioramento delle condizioni di salute e benessere mentale e temiamo che bambini e adolescenti possano sviluppare problemi a lungo termine come depressione, ansia da separazione, angoscia e stress post-traumatico, o anche conseguenze a livello fisico come problemi cardiaci o diabete." "Basta con le detenzioni illegali". Save the Children chiede all’Unione Europea e al Governo greco di intraprendere azioni immediate per porre fine alla detenzione illegale e ingiustificata dei migranti e rifugiati; di decongestionare le isole trasferendo bambini e famiglie in contesti sicuri; di creare strutture di accoglienza adatte per I 2.100 minori non accompagnati particolarmente vulnerabili, e trasferire i bambini con problemi di salute mentale in strutture dove possano ricevere cure e assistenza specifiche. L’Organizzazione chiede agli Stati Membri dell’Unione Europea di rispettare i loro impegni per il ricollocamento dei richiedenti asilo dai paesi di ingresso come la Grecia e l’Italia, con un appello ad abbandonare il criterio di nazionalità e facilitare i ricongiungimenti familiari. Medio Oriente. Raed Andoni e i fantasmi della libertà di Giovanna Branca Il Manifesto, 17 marzo 2017 Cinema. Il regista palestinese parla di "Ghost Hunting", premiato alla Berlinale e in concorso al Cinéma du Reél a Parigi. Nel documentario ricostruisce la sua esperienza in una prigione israeliana, un trauma che ha deciso di rielaborare in questo lavoro che intreccia finzione e realtà. "Sono stato in un centro per interrogatori a lungo, avevo il volto coperto e non vedevo nulla intorno a me. È un incubo che mi perseguita". Andare a caccia di fantasmi è l’obiettivo di Raed Andoni e del suo "cast" nel film che ha vinto il premio al miglior documentario originale alla Berlinale 2017: Ghost Hunting, che parteciperà in concorso anche a Cinéma du Rèel di Parigi. I fantasmi sono quelli del passato che accomuna il regista ai suoi personaggi e collaboratori, che si ritrovano a Ramallah per dare forma e nuova vita alla loro esperienza più buia: la detenzione nel centro per interrogatori israeliano Al-Moskobiya. Per Andoni - al suo secondo lungometraggio dopo Fix me, del 2009 - è un’esperienza che risale a 30 anni fa, quando appena diciottenne è stato arrestato e detenuto: un trauma che ha deciso di rielaborare proprio con questo documentario che intreccia finzione e realtà, ciò che è accaduto al regista e a tutti i protagonisti con la sua ricostruzione e messa in scena. In una delle prime sequenze vediamo l’alter ego di Andoni fare il provino a coloro che hanno risposto al suo annuncio, in cui cercava ex detenuti delle prigioni israeliane. Inizialmente tutti vogliono vestire i panni del carnefice, ma col progredire del film i ruoli si sovrappongono e si scambiano, accompagnati dal riemergere doloroso e incontrollabile dei ricordi. Parallelamente gli scenografi danno forma al luogo intorno al quale ruota l’intero film: la prigione con le sue celle buie, le stanze per gli interrogatori e i disegni sui muri fatti da chi cercava di evadere almeno col pensiero. "È proprio questo il senso dell’arte - osserva Andoni, che incontriamo insieme all’aiuto regista Wadee Hanani - trasferire l’ immateriale su qualcosa che può essere visto, toccato. In questo modo è possibile trasformare un ricordo doloroso in qualcosa di diverso". Come è nato il progetto di Ghost Hunting? È cresciuto dentro di me sin da quando sono stato prigioniero a Moskobiya. Ho sempre pensato che sarebbe arrivato il momento giusto, in cui avrei avuto abbastanza coraggio per affrontare l’argomento. È stata d’aiuto la psicanalisi fatta per il mio film precedente, Fix Me, che mi ha fatto sentire sicuro abbastanza da affrontare quel trauma. Il film si svolge su più livelli tra finzione e realtà. Ho capito molto presto che la finzione non rifletteva abbastanza ciò che volevo raccontare, specialmente dal momento in cui ho iniziato a incontrare delle vere persone, con le loro emozioni e ricordi. Quindi ho deciso di girare un documentario che avesse al suo interno delle sequenze di fiction. Dovevo però fare in modo che il pubblico riuscisse a seguire il passaggio continuo tra una dimensione e l’altra. Così ho stabilito una "grammatica" che aiutasse nel processo: la scena del casting o il trucco che viene applicato ai protagonisti quando si passa dalla realtà alla simulazione. Il film sembra aver avuto un effetto catartico per lei e per tutte le persone coinvolte. La prima cosa fatta dalle migliaia di palestinesi che erano stati detenuti, nel momento in cui l’esercito israeliano ha lasciato città come Ramallah o Nablus, è stata proprio andare a vedere le prigioni in cui li avevano rinchiusi. Sono stato in un centro per interrogatori molto a lungo, ma per tutto il tempo avevo il volto coperto e non vedevo nulla intorno a me. È un’esperienza che ha continuato a perseguitarmi, e per me era fondamentale riuscire finalmente a vedere la prigione. Un personaggio dice che il tempo all’interno del carcere scorre in modo diverso da quello della vita. Wadee Hanani: Nel centro per gli interrogatori non penetra la luce del sole, non si mangia con orari fissi, non c’è nulla di regolare. Tutte le abitudini della vita vengono infrante: specialmente la presenza della luce, ma anche i suoni quasi non esistono. Il senso del tempo è necessario per organizzare la propria giornata, mentre lì il tempo è morto. Le stesse giornate si confondono tra di loro e si sprofonda talmente tanto dentro se stessi che inizia a emergere un nuovo tempo della vita - l’unico che ti è concesso - in cui per sopravvivere devi riuscire a costruire il tuo paradiso interiore. Come ha lavorato con i suoi "personaggi"? Sin dal primo giorno di riprese ho comunicato loro che avevano il diritto di lasciare quando volevano. Erano anche liberi di scegliere i loro ruoli nelle ricostruzioni e non erano mai tenuti a fare qualcosa che non desiderassero fare. Credo fosse molto importante lasciare loro questa libertà per non farli sentire come se fossero di nuovo in prigione e perché sentissero di stare creando qualcosa. Inizialmente tutti vogliono interpretare i carcerieri. Chiunque sia stato in prigione vuole identificarsi col suo aguzzino. Ma per me andare in cerca di questi ricordi non significava trasfigurarli, ricostruirli in modo diverso: sarebbe l’equivalente di essere di nuovo prigionieri. Si tratta piuttosto di rimettere in gioco la memoria, vederla da nuovi punti di vista. Ricostruire i ricordi permette proprio di metterli in prospettiva. Penso che anche le sequenze di finzione facessero parte del doc vero e proprio: si tratta di persone che sono realmente state in prigione, e la moltitudine di livelli del film deriva proprio da questo. Se si trattasse solamente di attori, per quanto bravi, sarebbe un’altra cosa. Con la legalizzazione di molti insediamenti da parte del parlamento israeliano la situazione in Palestina sembra ulteriormente peggiorata… Ciò che mi spaventa è vedere le persone senza speranza. Non riesco a essere ottimista in nessun modo, siamo in una situazione bloccata. I palestinesi sentono che il mondo intero si sta prendendo gioco di loro con la questione degli accordi di pace: ci viene chiesto di sederci e parlare con i nostri carcerieri mentre ancora siamo in prigione. Ma come può si può negoziare con una simile disparità?