Caro Stella, nelle carceri c’è troppa gente non pochi colletti bianchi di Ermes Antonucci Il Foglio, 16 marzo 2017 Col tintinnio delle manette non si sbaglia mai. Deve averlo pensato Gian Antonio Stella firmando ieri sul Corriere della Sera un’inchiesta dal sobrio titolo "Gli spacciatori affollano le carceri (e i colletti bianchi restano fuori)". Per il celebre autore del libro "La casta", il problema principale del sistema giudiziario e carcerario italiano è rappresentato dall’esigua presenza dietro le sbarre dei "colletti bianchi", espressione demagogicamente ambigua ma che nella sostanza starebbe a indicare i responsabili di reati economici e finanziari. A dimostrarlo, sostiene Stella, sarebbero i dati indicati nel rapporto annuale del Consiglio europeo sulle statistiche giudiziarie: mentre in Italia ben il 31 per cento della popolazione carceraria risulterebbe essere costituita da spacciatori, sarebbero soltanto 312 le persone condannate con sentenza definitiva per reati economici, finanziari e truffe fiscali (lo 0,9 per cento del totale dei detenuti). Un dato, si sottolinea, venti volte inferiore a quello registrato in Germania, dove i "colletti bianchi" condannati sarebbero 5.973 (11,7 per cento). Insomma, scrive Stella nel suo pezzo-omelia, da noi "nonostante i disastri causati dalla pirateria economica, finanziaria, fiscale, i delinquenti di quel tipo finiscono assai di rado in galera". Una sproporzione rispetto ai condannati per reati minori "che la dice lunga sulle priorità della nostra giustizia". In altre parole, secondo la prestigiosa firma del giornale di Via Solferino, la ricetta giusta per riportare la giustizia italiana in linea con gli standard europei sarebbe molto semplice: più carcere per i professionisti del settore economico e finanziario. Sarà contento il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, abituato a sparate giustizialiste di questo tenore, che proprio nel novembre scorso aveva dichiarato con sdegno: "La cosa grave in Italia è che i reati dei colletti bianchi sono scritti in modo tale da non consentire che vadano in carcere". Anche Davigo, come Stella, fa da sempre riferimento ai dati forniti dal Consiglio d’Europa, un’organizzazione non nuova a confronti statistici piuttosto discutibili, come nel caso dei numeri relativi alla produttività dei magistrati (anche questi citati con frequenza dal presidente dell’Anm), che questo giornale ebbe già modo di smontare un anno fa. L’eterogeneità degli ordinamenti penali, infatti, non consente un confronto reale tra le varie statistiche, ad esempio perché un reato può essere riconosciuto come tale in uno stato ma non in un altro, ma anche perché non vi è uniformità persino sulla qualificazione dei "procedimenti penali definiti". Insomma, pare proprio un peccato che Stella, piuttosto che lanciare strali classisti sulla scarsità di "colletti bianchi" (cioè "ricchi") in carcere, non abbia voluto sfruttare l’ampio spazio offerto dal Corriere a un tema così delicato ponendo l’attenzione sui reali problemi che da tempo affliggono il sistema giudiziario e penitenziario italiano, primo fra tutti la massiccia presenza di detenuti ancora in attesa di giudizio. I numeri in questo caso possono darci una mano, perché forniti direttamente dal ministero della Giustizia senza necessità di confronti fantasiosi: le persone costrette ad aspettare in carcere la sentenza di primo grado (che, come spesso accade, potrebbe assolverle) sono ben 9.831, cioè il 17,6 per cento del totale (55.929). A questi devono aggiungersi i 9.583 detenuti condannati ma ancora in attesa di sentenza definitiva e dunque, secondo la nostra Costituzione, ancora innocenti. È un peccato, poi, che Stella non abbia voluto accennare minimamente ai numeri incredibili della malagiustizia: oltre 25mila persone incarcerate ingiustamente dal 1992 al 2016, con lo stato costretto a pagare circa 650 milioni di euro di indennizzi. Tra le tante vittime della giustizia, anche molti "colletti bianchi". Per diminuire i costi del sistema penitenziario si fa strada l’idea dei Social Bond di Franca Giansoldati Il Messaggero, 16 marzo 2017 Visto che le nostre carceri stanno letteralmente scoppiando e visto l’alto tasso di recidiva che non accenna a diminuire, anche in Italia inizia a farsi strada l’idea di introdurre i Social Impact Bond come già avviene con successo (e con grande risparmio di costi per lo Stato) in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. I Social Impact Bond sono uno strumento appartenente alla finanza socialmente responsabile, in pratica uno strumento finanziario che permette al settore pubblico la raccolta di finanziamenti privati. La restituzione e la remunerazione del capitale investito, tramite questi strumenti, non è automatica e dipende dal perseguimento dell’obiettivo sociale da raggiungere. Nel caso delle carceri, per esempio, la remunerazione sarà agganciata ai benefici effettivi per la collettività, derivanti da un tasso minore di delinquenza e da costi inferiori di gestione per l’amministrazione penitenziaria che va a risparmiare risorse. L’idea di adottare i Social Impact Bond è stata discussa oggi pomeriggio nel corso di una tavola rotonda alla quale ha preso parte il Guardasigilli Orlando, Massimo Lapucci segretario della Fondazione Sviluppo e Crescita e Giovanna Melandri, presidente di Human Foundation. I dati del settore carcerario sono terribili, così come è terribile la situazione reale nelle celle, sovraffollate e prive di reale prospettiva rieducativa per chi vi è rinchiuso. Con costi altissimi a carico della collettività. Basti pensare che al 30 aprile 2016 in carcere c’erano 53.725 detenuti (di cui 2.213 donne e 18.074 stranieri) con una tendenza alla recidiva altissima. Sette detenuti su dieci prima o poi sanno che torneranno in carcere in assenza di alternativa una volta fuori usciti. "L’esame della recidiva può essere usato per misurare il grado di successo dei sistemi penitenziari" si legge nello studio di fattibilità di un piano elaborato da due fondazioni - Human foundation e Sviluppo e Crescita - che prevede l’inserimento dei Social Impact Bond. La recidiva, dove funziona l’inserimento, si abbassa dal 68% al 12 %. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna il sistema dei Social Impact Bond è già stato testato con successo. I costi a carico dello Stato si sono abbassati e l’inserimento dei detenuti, attraverso diversi progetti (finanziato da fondazioni private) ha generato una remunerazione per gli investitori, una specie di utile. In pratica gli investitori hanno scommesso sulla capacità del progetto di generare valore sociale, sopportando il rischio associato a programmi sociali inefficaci. L’emissione dei Social Impact Bond coinvolge una pluralità di soggetti: la Pubblica amministrazione, che identifica i progetti da realizzare, ma anche l’intermediario che li colloca presso gli investitori privati, le organizzazioni non-profit che si occupano di fornire i servizi previsti e l’ente valutatore indipendente, chiamato a misurare l’impatto generato dal progetto. Le aree sulle quali i Social Impact Bond possono essere impiegati, oltre al recupero dei carcerati, sono stati individuati: il mercato del lavoro, e anche la salute. Capitoli di spesa pesano tantissimo nei budget pubblici. In Israele Social Finance Israel e la Rothschild Cesarea Foundation hanno emesso il primo Social Impact Bond per ridurre la dispersione scolastica e incoraggiare la scelta verso studi di informatica. In Francia, in Germania e in Olanda l’intervento ha come obiettivo l’aumento della frequenza scolastica di ragazzi nati in contesti disagiati. Ddl Giustizia. Mussini (Misto): garantito il diritto di cura a tutti i "folli rei" ilfarmacistaonline.it, 16 marzo 2017 "La legge permette al Governo di ragionare sulla materia complessa del superamento degli Opg senza disgiungere il fronte sanitario da quello della custodia". Così la vicepresidente del Gruppo Misto esprime soddisfazione per la formulazione del testo che, collegando il buon funzionamento delle Rems all’efficienza anche delle articolazioni sanitarie delle carceri, permette di aprire un confronto serio sulla destinazione dei malati autori di reato. "La legge delega approvata è la soluzione migliore che permette al Governo di ragionare sulla materia complessa del superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari senza disgiungere il fronte sanitario da quello della custodia. Frutto di un mio lungo impegno personale e oggetto di un’approfondita discussione in Commissione, è un testo ponte concepito con l’obiettivo comune di mettere al centro il tema della cura prima di quello della detenzione, così come indicato dalla stessa legge Marino". La senatrice Maria Mussini, vicepresidente del Gruppo Misto, esprime la propria soddisfazione per la formulazione del testo sulla revisione dell’ordinamento penitenziario, contenuto nel ddl penale, che, collegando il buon funzionamento delle Residenze per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza sanitaria all’effettiva efficienza anche delle articolazioni sanitarie delle carceri, permette ora di aprire un confronto serio e concreto sulla destinazione dei malati autori di reato. Spiega infatti Mussini: "La revisione della materia sotto il profilo giudiziario unita al potenziamento della cura della salute mentale in carcere (altro emendamento approvato nell’agosto scorso dalla Commissione Giustizia) mette nelle condizioni il Governo di lavorare ragionando sia sulla piena realizzazione della legge 81, sia sui trattamenti terapeutico - riabilitativi in carcere, ora ampiamente deficitari e che, ricordo, sono già previsti per legge". "Fare delle Rems appannaggio esclusivo dei malati con sentenza definitiva, a fronte dello stato di grave inadeguatezza in cui versano molti penitenziari italiani sul fronte sanitario, avrebbe significato dividere i folli rei in salvati e sommersi, negando il diritto di cura a un’ampia fascia di persone, abbandonandole al proprio destino e creando situazioni non solo indegne di un paese civile ma anche molto pericolose per la sicurezza dentro e fuori dal carcere", conclude. Ddl Giustizia. Comitato StopOpg: così le Rems tornano alla vecchia funzione dell’Opg ilfarmacistaonline.it, 16 marzo 2017 "L’approvazione in Senato, con voto di fiducia, del maxi emendamento del Governo sul Disegno di Legge Giustizia n. 2067 rischia di riaprire la stagione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari". È questa la denuncia del Comitato stop Opg che spiega come in tal modo "si disponga il ricovero dei detenuti nelle Rems come se fossero i vecchi Opg, tornando così alla vecchia normativa sui manicomi giudiziari". Ma per il Comitato "il diritto alla salute e alle cure dei detenuti, troppo spesso negato, non può essere risolto in questo modo". "Invece di rafforzare i programmi di tutela della salute mentale in carcere e di potenziare le misure alternative alla detenzione - si legge in una nota di StopOpg - si scarica il problema sulle Rems, che tornano alla vecchia funzione dell’Opg. Una beffa a pochi giorni dalla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Stop Opg ha apprezzato e sostenuto gli emendamenti presentati dalle senatrici De Biasi, Dirindin e altri, che purtroppo non sono stati ammessi. Il D.d.L torna alla Camera". Ora il Comitato chiede al Governo, in particolare al Ministro della Giustizia Orlando e al Ministro della Salute Lorenzin "tutti gli atti necessari a rimuovere il grave errore, per difendere la riforma per il superamento dei manicomi giudiziari". Intanto già sono state annunciate le nuove proteste: riparte la mobilitazione di StopOpg. Il primo appuntamento è fissato per lunedì 10 aprile alle 9:30 a Roma (Spazio Europa via IV novembre, 149) in occasione di "Carcere, che fine hanno fatti gli stati generali?", un evento promosso da Antigone con il sostegno di StopOpg. Riforma processo penale, il Senato dice "sì" alla fiducia di Vittorio Nuti Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2017 Si completa al Senato la seconda lettura della riforma del Processo penale. Questa mattina l’Aula di Palazzo Madama ha votato la fiducia chiesta ieri dal governo sul disegno di legge delega che riforma il processo penale con 156 sì, 121 no e un astenuto. Insieme ai senatori dem hanno votato a favore i gruppi di Ap-Ncd, e del "Movimento dei Democratici e Progressisti", ad eccezione di uno dei relatori, Felice Casson. A favore anche il gruppo delle Autonomie e i senatori Angela D’Onghia (Gal) e Sandro Bondi (Misto). Contro hanno invece votato i senatori di Forza Italia, del M5S, di Ala, di SI, della Lega, di Cor, e Gal. Il voto di fiducia era sul maxiemendamento interamente sostitutivo del disegno di legge delega il cui cammino parlamentare è iniziato oltre due anni fa. Ora il provvedimento torna alla Camera per la terza lettura. Tre mesi al Governo per attuare le norme sugli ascolti - Tra le novità del maxiemendamento su cui si è votata la fiducia ci sono anche tempi più stretti per l’esercizio della delega da parte del Governo per quanto riguarda l’attuazione delle norme sulle intercettazioni: tre mesi invece di 12, che fanno ipotizzare la possibilità di una prima applicazione della riforma fin dalla prossima estate. Per le altre materie, tra cui la riforma dell’ordinamento penitenziario, su cui è prevista una delega del Parlamento al governo, il termine per i decreti attuativi è invece di un anno. I tempi lunghi di una riforma controversa - Con il voto del Senato Governo e Parlamento "archiviano" dunque la seconda lettura del ddl di riforma del processo penale, licenziato per l’Aula dalla commissione Giustizia di palazzo Madama ad agosto 2016, mentre il via libera della Camera risale al settembre del 2015. Il cammino parlamentare della riforma è stato ostacolato dalle dure critiche di Anm e penalisti e frenata dai veti incrociati interni alla maggioranza tra centristi e dem, in particolare sui "nodi" prescrizione e intercettazioni, su cui è tornato questa mattina anche il ministro per gli Affari regionali ed ex sottosegretario alla Giustizia, Enrico Costa (Ap-Ncd) auspicando "ulteriori miglioramenti sul tema della prescrizione" nel passaggio finale della riforma alla Camera. Le polemiche sono scoppiate nuovamente ieri anche tra maggioranza e opposizione, nel corso della discussione generale sul provvedimento, alimentate sia dal leader del M5S Beppe Grillo ("legge vergogna per uno stato di diritto") che da Forza Italia (per Francesco Paolo Sisto "imporre una fiducia politica su norme penali è semplicemente una vergogna"). Riforma "prioritaria" per Gentiloni e Orlando - La riforma rientra tra le priorità dichiarate del Governo Gentiloni oltre ad essere una "norma bandiera" del Guardasigilli Andrea Orlando, che ne ha fatto uno dei capitoli più rilevanti della sua politica per la Giustizia. Il premier sembra più determinato del suo predecessore Renzi a mandare in porto il pacchetto di misure che interviene su molti dei temi "caldi" del dibattito politico: dalle norme su intercettazioni, agli ascolti con trojan horse e all’inasprimento delle pene per furti e rapine fino ai tempi prefissati per le indagini preliminari. Prescrizione sospesa per 18 mesi dopo ogni giudizio - Uno dei temi che hanno maggiormente diviso la maggioranza evidenziando la distanza tra Pd e l’alleato centrista riguarda la riformulazione dei termini per la prescrizione dei reati. Rispetto all’ipotesi inziale (prevista dal ddl Ferranti confluito nella delega) di sospendere il corso della prescrizione per due anni dopo la condanna di I° grado e per un anno dopo la sentenza di II° grado (insieme all’aumento della metà dei tempi di prescrizione per i reati di corruzione) si è arrivati ad una soluzione di compromesso sancita in commissione Giustizia del Senato la scorsa estate. In pratica, ed esclusivamete in caso di condanna in I° grado, è prevista la sospensione della prescrizione per 18 mesi dopo la sentenza sia di I° che di II° grado, ma i tempi decorrono dal termine per il deposito delle motivazioni. I termini ricominciano però a decorrere nel caso di sentenze riformate o annullate. L’"indagine breve" osteggiata dalla magistratura associata - Altro punto assai controverso della revisione del processo penale riguarda la cosiddetta "indagine breve", per garantire tempi certi alle indagini preliminari evitando lungaggini che possono anche pesare sulla prescrizione del reato. In base alle nuove norme, "entro tre mesi" (prorogabili per altri tre) dal deposito degli atti, i Pm dovranno scegliere tra chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione, pena "l’avocazione obbligatoria" dell’inchiesta da parte del Procuratore generale presso al Corte d’Appello. La novità si applicherà solo alle notizie di reato iscritte dopo l’entrata in vigore della legge. In caso di indagini relative a reati di mafia la durata delle indagini preliminari è invece fissata a 15 mesi. Attualmente il termine per le indagini preliminari per reati non mafiosi è di sei mesi, prorogabile per altri sei. Le nuove norme sono duramente osteggiate dalla magistratura associata, da mesi mobilitata per evitare un stretta sui tempi di indagine che potrebbe avere ricadute negative sul funzionamento degli uffici e aumentare il rischio di procedimento disciplinare a carico delle toghe in caso di ritardo. La stretta sulle intercettazioni "irrilevanti" - Oltre ai tempi stretti per l’esercizio della delega, la riforma del processo penale assegna al Governo anche un complessivo intervento sulle norme relative alle intercettazioni. L’obiettivo è quello di garantire una maggiore riservatezza degli indagati e delle persone coinvolte nelle indagini evitando la pubblicazione degli "ascolti" irrilevanti o riguardanti persone estranee all’inchiesta. In pratica, il pubblico ministero dovrà selezionare ed escludere dalla documentazione da inviare al giudice a sostegno della richiesta di misura cautelare tutti gli atti e i dati non pertinenti alla responsabilità dei procedimenti per cui si procede oppure considerati irrilevanti ai fini delle indagini perché riguardanti fatti o persone estranee alle indagini. Tale documentazione "irrilevante", custodita in "apposito archivio riservato", rimarrà a disposizione della difesa: i legali degli indagati potranno esaminarlo o ascoltarlo, ma non chiederne copia. In base ai principi fissati dalla delega è prevista poi la punibilità con la pena del carcere fino a 4 anni per il delitto di "diffusione, al solo danno di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui" di riprese audio e registrazioni abusive, ovvero effettuate fraudolentemente. Un modo per limitare l’abuso delle registrazioni nascoste anche da parte di normali cittadini, con una stretta che i Cinque Stelle considerano "uno degli aspetti più pericolosi" del provvedimento. Infine, sul fronte dei virus informatici Trojan horse (strumenti di intercettazioni particolarmente invasivi che permettono di tracciare e captare pc, smartphone e tablet) gli inquirenti dovranno attenersi alla normativa prevista per le intercettazioni ambientali e potranno essere utilizzati solo per perseguire i reati di mafia e terrorismo. Il nuovo processo penale e i limiti del compromesso di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 16 marzo 2017 Dopo tre anni, la riforma è andata in porto. Sancisce l’ingresso definitivo della "questione giustizia" nella campagna congressuale del Pd. Ci sono voluti quasi tre anni perché il ministro della Giustizia Andrea Orlando riuscisse a condurre in porto la riforma del processo penale. Il Guardasigilli ha dovuto navigare per acque agitate, trascorrere lunghi periodi fermo in rada aspettando che passassero le tempeste, per poi riprendere la rotta fino al voto finale di ieri al Senato. Con tanto di questione di fiducia, accordata dal premier Gentiloni e negata a suo tempo da Renzi. A testimonianza che le difficoltà non sono venute soltanto dal braccio destro della maggioranza di governo, quasi naturali su questa materia, ma anche dal braccio sinistro, divenuto particolarmente sensibile alle garanzie e alla tutela di indagati e imputati. Che l’argomento giustizia fosse il più difficile da affrontare per la "strana alleanza" che ha sostenuto gli esecutivi dell’ultimo lustro era pressoché scontato: il Pd e quel pezzo di centrodestra rimasto nella maggioranza anche dopo la fuoriuscita di Forza Italia s’erano presentati agli elettori nel 2013 con programmi che su molti punti erano non solo diversi, ma perfino alternativi. Essere riusciti a mediare fino a raggiungere un risultato che nonostante lacune, forzature e contraddizioni introduce comunque novità importanti (la più rilevante, probabilmente, riguarda la riforma del sistema penitenziario) e fa compiere qualche passo avanti su questioni annose come quelle della prescrizione, è un punto di merito. Che però contiene in sé, proprio per le precarie condizioni di agibilità politica in cui è maturata, compromessi che implicano limiti visibili. A cominciare proprio dalla prescrizione, abbassata oltre limiti accettabili ai tempi dei governi Berlusconi, e ora rialzata a fatica con meccanismi che pure sono mutati nei passaggi tra Camera e Senato. La sospensione di due anni dopo la condanna di primo grado, ad esempio, s’è ridotta a un anno e mezzo alzando di sei mesi quella prevista dopo la sentenza d’appello. E il Nuovo centrodestra l’ha votata obtorto collo, per non far cadere il governo, rimarcando una contrarietà di cui il ministro degli Affari regionali (già viceministro della Giustizia) Enrico Costa continua ad essere un fiero paladino. La norma che impone alle Procure di decidere entro tre mesi dalla conclusione delle indagini se chiedere l’archiviazione o il rinvio a giudizio dell’indagato, pena avocazione da parte della Procura generale, è stata approvata nonostante l’accorata contrarietà - ribadita anche ieri - dell’Associazione magistrati; con il contentino di una possibile proroga di tre mesi e l’applicabilità solo ai procedimenti iscritti dopo l’entrata in vigore della legge. È una vittoria degli avvocati e di chi, in Parlamento, è più sensibile alle loro ragioni, controbilanciata dalla sconfitta subita con la regola che prevede i processi in videoconferenza per gli imputati sparsi nei penitenziari della penisola, evitando così la presenza in aula e il conseguente "turismo giudiziario" (con relative spese per l’erario) denunciato dai magistrati. Sulle intercettazioni, argomento di attualità a tratti spasmodica, la delega al governo per restringerne la pubblicazione sui giornali (che dovrà essere esercitata entro tre mesi dall’approvazione definitiva della legge) è divenuta molto più ampia e circostanziata di quanto fosse in principio. E recepisce, in alcuni passaggi, le restrizioni che alcune Procure (cominciando da quelle di Roma e di Torino) si sono già date per evitare di trascrivere e rendere divulgabili troppi dialoghi non strettamente collegati alle esigenze investigative. Logico quindi che ci si muoverà lungo la direzione che il Consiglio superiore della magistratura ha definito di "buone prassi" adottate negli uffici giudiziari. Ma al di là del merito e del valore che assume nell’ottica dei risultati raggiunti dal governo, la riforma sancisce l’ingresso definitivo della "questione giustizia" nella campagna congressuale del Pd. Perché dopo i problemi di Renzi legati all’indagine su suo padre e il cosiddetto "giglio magico" nell’inchiesta Consip, e dopo l’ingombrante doppio ruolo del candidato-magistrato Michele Emiliano, ora il terzo aspirante segretario in lizza, Andrea Orlando, può esibire un importante biglietto da visita di "tessitore di accordi e alleanze" da far valere nella competizione. Riforma della Giustizia. Il sì del Senato è un piccolo passo, ora tocca al governo di Claudio Cerasa Il Foglio, 16 marzo 2017 L’approvazione in Senato della riforma del processo penale (voto di fiducia sul maxiemendamento interamente sostitutivo del disegno di legge delega licenziato più di due anni fa) è il penultimo passo per arrivare alla terza lettura alla Camera, dove però la maggioranza è più sicura. Dopo il voto a Montecitorio, entro tre mesi - invece dei dodici previsti nella redazione precedente - il governo dovrà emanare i decreti attuativi. Se sul merito della riforma si possono esprimere pareri articolati, va sottolineato il fatto che il Parlamento riesca a deliberare in materia di giustizia, riappropriandosi di una prerogativa costituzionale che sarebbe ovvia, ma che nei fatti è stata in molti casi ostruita dalle ingerenze del cosiddetto "partito delle procure". I temi che hanno suscitato più attenzione riguardano la limitazione del tempo disponibile per le indagini preliminari, un maggiore controllo delle intercettazioni e il prolungamento dei termini di prescrizione, ma anche l’aumento delle pene per alcuni reati, a cominciare dai furti in appartamento. Tuttavia altre disposizioni considerate "minori" finiranno con l’avere effetti rilevanti sull’amministrazione della giustizia, e si sbaglia a sottovalutarle. Particolarmente rilevante è la delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario, che prevede una semplificazione delle procedure e la revisione delle modalità di accesso alle misure alternative alla detenzione - insieme a una riconsiderazione dell’assistenza medica, soprattutto psichiatrica, per i detenuti e alle misure di integrazione per gli stranieri. Anche la modifica dell’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, che attribuisce al procuratore della Repubblica il potere e il dovere di far osservare le disposizioni sull’iscrizione delle notizie di reato, apparentemente puramente burocratica, può servire a mettere ordine e a ristabilire un minimo di sistema gerarchico negli uffici giudiziari. Sui temi considerati più rilevanti, si nota una contraddizione tra quelli che puntano a ridurre la durata dei processi, come la riduzione dei tempi per le indagini preliminari, e quello che invece puntano ad allungarli, per esempio l’aumento dei tempi di prescrizione dei reati. La prima di queste misure può essere considerata anche una forma iniziale di riequilibrio tra accusa e difesa, visto che le indagini preliminari rappresentano una fase disponibile esclusivamente alle procure, in cui la difesa ha un ruolo ancillare, anche perché non può confrontarsi a pieno con ipotesi di reato ancora parziali. Il protrarsi di questa fase, spesso accompagnata dalla propalazione di frammenti di intercettazioni, agevola una specie di processo mediatico preventivo, che poi in molti casi non corrisponde affatto a quello giudiziario che segue (come dimostra l’esempio delle indagini su centinaia di inquisiti per Mafia capitale, poi prosciolti). L’aumento delle pene per alcuni reati tende a evitare che scippatori e rapinatori continuino a delinquere anche quando sono stati identificati e condannati a pene coperte dalla condizionale, il che potrebbe provocare allarme sociale e spingere a forme di autodifesa la cui estensione può risultare pericolosa. Il tema su cui più si è appuntata la critica della magistratura associata è quello della limitazione delle intercettazioni, la cui trascrizione viene allegata alle richieste di misure cautelari, ma su questo bisognerà vedere come il governo eserciterà la delega in merito. In ogni caso è bene notare che si comincia ad affermare un principio fondamentale, e cioè che non possono essere propalate intercettazioni che riguardano persone che non sono investite dal procedimento, e che quindi hanno il diritto a vedere garantita la loro riservatezza. Il principio è sacrosanto, ma per ora è solo un principio. Infine, ma non per ultima, la questione che suscita più dubbi è il prolungamento dei termini di prescrizione dei reati, che in sostanza permette un prolungamento di tre anni dei procedimenti penali, che già sono interminabili. Le cause di questa lentezza sono molte, per affrontarle con efficacia bisognerebbe migliorare la produttività degli uffici giudiziari e semplificare la legislazione, ma su questi problemi la magistratura associata ha elevato un muro di resistenza corporativa difficile da valicare. Anche di questo si dovrà occupare il governo. Riforma del processo penale, un passo avanti (ancora confuso) di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2017 Un po’ di tutto. Forse troppo o troppo poco. Il disegno di legge sul processo penale ingloba misure di varia natura, deleghe e altre subito in vigore, e diversa efficacia. Un intervento che però nasce, ammette lo stesso ministero, nella consapevolezza che la complessità della giustizia italiana è tale da non potere essere affrontata con un unico intervento riformatore. Tanto più che tutta una serie di problemi attiene in realtà a piano organizzativo e strutturale più che strettamente normativo. Di certo sono da subito forti le proteste di magistrati (Anm critica soprattutto sulla norma che vincola l’esercizio dell’azione penale a 3 mesi dalla chiusura indagini) e gli avvocati (Camere penali in sciopero la prossima settimana sull’impianto autoritario del provvedimento) Comunque, tra quanto diventerà immediatamente operativo, va senza dubbio segnalata la riforma della prescrizione. Che verrà bollata come minimalista o, invece, azzardata. Perché si è scelto di non toccare i limiti di decorrenza, ma di agire sulla sospensione, bloccando il decorso in caso di condanna di primo grado. Facendolo però riprendere in caso di assoluzione nei giudizi di impugnazione. Una decisione che punta a un equilibrio tra necessità di perseguire i reati e livello delle garanzie e che, tuttavia, parte delle opposizioni e i penalisti contesta, sottolineando che in questo modo i processi dureranno a oltranza. In una chiave di riduzione dei procedimenti che approdano a giudizio si segnala l’impulso alla giustizia riparativa, con l’introduzione di una nuova causa di estinzione dei reati perseguibili a querela quando l’imputato rimedia interamente al danno e ripara alle conseguenze del reato, di regola prima del dibattimento. In stretto collegamento va letta l’estensione del perimetro dei reati perseguibili a querela, contro il patrimonio e la persona, a condizione che provochino offese modeste. Maggiori perplessità sulle misure di diritto penale sostanziale, quelle più indulgenti a quel populismo penale che anche il ministro Andrea Orlando ha spesso criticato. Previsto l’aumento del sanzioni per i furti in abitazione e gli scippi e per quel reato di voto di scambio che pure nel 2014 era stata modificato in direzione contraria (condotta più ampia, ma pena più blanda). Assai nutrito il pacchetto delle deleghe che verosimilmente, non vedrà un approdo in questo limitato scorcio di legislatura, da quella sull’ordinamento penitenziario a quella sulle misure di sicurezza personali, passando per il casellario e le impugnazioni. Unica eccezione, la delega sulle intercettazioni, con un periodo di soli 3 mesi per darvi esecuzione e una commissione ministeriale già in rampa di lancio per recepire le buone prassi già adottate da alcune procure soprattutto in materia di tutela della privacy. Prescrizione lunga e rischio bavaglio: dopo quasi mille giorni primo sì alla riforma di Liana Milella La Repubblica, 16 marzo 2017 Passa nell’Aula del Senato la riforma del processo penale con il voto di fiducia. I sì sono stati 156, i no 121, un astenuto. Il testo, già approvato alla Camera il 23 settembre 2015, essendo stato modificato, torna ora all’esame di Montecitorio. Il maxiemendamento prevede fra l’altro che il governo dovrà adottare su proposta del ministro della Giustizia i decreti legislativi per la riforma della disciplina delle intercettazioni "nel termine di tre mesi". Sono trascorsi novecento ventisei giorni dal primo sì in consiglio dei ministri - il 30 agosto 2014 - a oggi, alla approvazione della fiducia al Senato sul disegno di legge Orlando che riscrive pezzi dei codici penale e di procedura penale. Si potrebbe risalire indietro ancora di un paio di mesi, a quel 30 giugno dello stesso anno, quando Renzi premier annunciò la riforma della giustizia in 12 punti. Dentro ci sono la prescrizione più lunga, ma pure la stretta sull’uso e la divulgazione delle intercettazioni, l’Acqua Santa e il Diavolo, vedendola dalla parte dei magistrati. Il Guardasigilli Andrea Orlando, tempra di mediatore nato, ha lavorato allo stremo su due fronti: dentro la maggioranza per sopire il conservatorismo di Ncd che ancora adesso vagheggia future modifiche nell’ultimo passaggio alla Camera, e sul fronte della magistratura per disinnescare la mina delle intercettazioni, inciampando però nel principio dell’avocazione - il pm deve chiudere con le richieste, dopo due anni di indagini, sennò si vede sfilare il caso dalla procura generale - che offre miccia all’Anm. Per un caso, la fiducia cade proprio nel giorno del caso Lotti al Senato, e questo inasprisce la "guerra" di M5S. Un coincidenza che certo non giova né a Orlando, né al suo processo penale. Destinata a enfatizzare la dietrologia. Soprattutto sulle intercettazioni, di certo il piatto forte del ddl assieme alla prescrizione. La delega, che Orlando si appresta a esercitare con rapidità e con la "complicità" dei procuratori, inevitabilmente cambierà anche la storia del giornalismo giudiziario. Perché - ma le circolari di molte procure della Repubblica lo hanno già anticipato - in futuro gli scartafacci sugli arresti non saranno più quelli di oggi. Tra i 40 articoli del ddl penale quello che fino a ieri, prima del maxi-emendamento del governo, portava il numero 35, riscrive le regole sull’uso delle intercettazioni, non solo da parte dei pubblici ministeri e dei gip, ma anche dei giornalisti. Orlando dice che non sarà un "bavaglio", procuratori come Pignatone, Spataro, Lo Voi, sono pronti a entrare nella sua commissione, ma l’odore della stretta c’è comunque. Quando la delega sarà legge vedremo più di un pm e di un gip porsi la domanda "ma questa intercettazione la metto o non la metto?", "la chiudo in cassaforte per sempre oppure la uso?", "è necessaria oppure è superflua?". Di conseguenza, inevitabilmente, caleranno anche le notizie pubblicabili. Molto, ovviamente, dipenderà dalla magistratura chiamata a una sfida sulla trasparenza degli atti. Non potrà che far discutere, giusto oggi, anche la norma che esclude la possibilità di utilizzare i Trojan Horse, i nuovi software spia, anche per i reati di corruzione. Sì per il terrorismo e la mafia, no invece contro le mazzette. Un’incomprensibile esclusione, mentre la corruzione dilaga e il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone dice a Repubblica "via i politici da gare e appalti". Tant’è, la politica avrebbe potuto dare un nuovo strumento, ma si è fermata prima. Così come si blocca sulla prescrizione, dove il compromesso è sotto gli occhi di tutti. Ancora in queste ore il ministro della Famiglia Enrico Costa, alfaniano, una vera "ossessione" per la prescrizione più lunga, contesta il rischio che la conseguenza di una simile riforma sia solo quella di avere processi più lunghi degli attuali. In realtà parliamo solo di 36 mesi, tre anni. L’orologio si ferma solo temporaneamente dopo il primo grado, resta bloccato per 18 mesi in appello e 18 in Cassazione, ma poi inesorabilmente riprende a correre. Stupisce che l’Anm, proprio su questo, non abbia fatto una grande campagna. Tutte le toghe ne parlano da sempre, quelle più famose, Pier Camillo Davigo in testa, sostenendo che la prescrizione dovrebbe fermarsi definitivamente dopo il primo grado, ma alla fine la voce del sindacato dei magistrati si è fatta sentire di più sulla proroga dell’età pensionabile per 18 colleghi e sul rischio avocazione delle inchieste che non sulla prescrizione. Intendiamoci, l’avocazione è un pericolo, soprattutto se messa in mani cattive. La norma stabilisce che dopo due anni di indagini preliminari il pm ha solo tre mesi di tempo per decidere che fare, se archiviare o andare avanti. Davigo vede procure generali inadeguate, inadatte, ingolfate, l’inizio di un nuovo caos. Ma tant’è, su questo Orlando è stato irremovibile. Luci - pene minime più alte per furti, scippi e rapine - ma anche ombre oscure - il rito abbreviato avrebbe potuto essere vietato ed escluso per i reati gravi, mentre invece continuerà a essere concesso - fanno sospendere il giudizio sul ddl Orlando. Ci sono deleghe da scrivere, come quella sull’ordinamento penitenziario, e capitoli delicatissimi da affrontare come quello sulle Rems, le residenze che prenderanno il posto degli ospedali psichiatrici e le sezioni specializzate degli istituti penitenziari a seconda della gravità dei casi e delle condanne. Materia incandescente, su cui la vigilanza rispetto a soggetti deboli e privi di tutela non potrà che essere massima. Ma il cammino del ddl penale, con oggi, non è ancora finito. E l’ulteriore passaggio alla Camera permetterà di guardare ancora le criticità. Ecco perché il processo a distanza nega i diritti e non fa risparmiare di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 16 marzo 2017 È una delle novità del ddl penale approvato ieri al Senato: finirà per creare imputati di Serie B e imporrà costi notevoli per attrezzare tribunali e carceri con impianti per videoconferenze. L’articolo 23 del ddl di riforma del processo penale prevede che tutti gli imputati detenuti per una lunga serie di reati non possano partecipare personalmente al proprio processo o ad ogni altro processo penale o civile, anche in veste di testimone, potendo assistervi esclusivamente dal luogo di detenzione tramite l’immagine fissa di un video e comunicando telefonicamente con il proprio difensore. A sua volta l’imputato è conosciuto dal suo giudice, come la pallida immagine fissa di una figura sfocata e lontana. Provate soltanto ad immaginare cosa avrebbe potuto provare uno di quei tanti innocenti le cui terribili storie di ingiustizia ci vengono ogni settimana raccontate su Rai 1 da Alberto Matano, in "Sono innocente", ad essere giudicato con simili modalità che mortificano la dignità dell’individuo, ne cancellano l’umanità, già fanno di un accusato un sicuro reo. Si tratta infatti di una legge iniqua in quanto rende ancor più debole chi è già più debole e rende ancor più fragile chi è già più fragile. Che priva di ulteriori diritti chi è già privato della libertà personale. Una legge che sostituisce di fatto alla presunzione di innocenza una presunzione di colpevolezza. Lo status di detenuto, che già si dovrebbe configurare quale condizione eccezionale dell’imputato, anziché essere circondato da ulteriori garanzie e tutele, viene invece ulteriormente deprivato della piena fruizione di fondamentali garanzie proprie del processo quali l’immediatezza ed il contraddittorio. Così facendo l’imputato detenuto è trasformato in un accusato "di serie b", in un quasi- reo, per il quale non è più necessario che le garanzie processuali conservino la loro normale pienezza ed estensione. Attrezzare tribunali e carceri non è un costo? - Ma un aspetto di questa riforma che deve essere anche esaminato è costituito dal fatto che tale gravissima compressione dei fondamentali principi del processo, nello stesso originario disegno partorito dai lavori dalla "Commissione Gratteri", sarebbe esclusivamente giustificata da ragioni di ordine economico ed efficientistico. Se, infatti, si volesse accedere a questo piano economicistico del discorso occorrerebbe segnalare come si siano incredibilmente sottovalutati i concreti aspetti operativi di questa riforma. Oggi neppure i Tribunali più grandi come Napoli, Roma e Milano sono tecnicamente attrezzati per poter gestire la prevedibile mole dei processi a distanza. Ammesso che una o due aule siano già attrezzate per poter operare le necessarie connessioni, occorre rilevare come si dovrebbero istituire dei turni fra le diverse sezioni del Tribunale, il che bloccherebbe le rispettive udienze per ore. Ma anche immaginando che si possano attrezzare tutte le aule di tutti i singoli tribunali delle attrezzature necessarie per celebrare a distanza tutti i processi con detenuti, bisogna ricordare che anche gli istituti ove sono custoditi gli imputati dovranno essere dotati di altrettante strutture, ovvero di tante stanze tecnicamente operative quante sono le aule del dibattimento (nonché delle udienze preliminari) che celebrano processi con detenuti. Questa moltiplicazione di strutture dovrà essere operata con riferimento, non solo a tutti i Tribunali, ma anche con riferimento a tutti le carceri, in quanto altrimenti si dovrebbe provvedere al trasferimento dei detenuti da luoghi di detenzione sprovvisti dei necessari mezzi per l’effettuazione delle videoconferenze, verso istituti che ne siano invece sprovvisti, determinando ulteriori aggravi di spesa. Basta considerare come, ad esempio, il Tribunale di Roma - che è uno dei Tribunali più grandi d’Europa - ha attualmente in dotazione solo quattro aule, su di un totale di ben oltre cinquanta aule operative, attrezzate per le videoconferenze. Se pure è vero che il carcere di "Rebibbia Nuovo Complesso", una delle case circondariali più importanti d’Italia, possiede dodici sale dotate di strutture per i processi a distanza, una simile situazione non è certo riscontrabile in tanti degli altri penitenziari italiani. Occorre inoltre rilevare come tali strutture siano attualmente impegnate sull’intero territorio nazionale, per cui non risulterebbero in alcun modo sufficienti a coprire le quotidiane esigenze dei tribunali della Capitale. Se, pertanto, si moltiplicano le necessarie installazioni tecnologiche per tutte le carceri e i Tribunali del Paese, le dotazioni di personale tecnico addetto alla gestione ed alla manutenzione dei dispositivi in tutti i Tribunali ed in tutti gli istituti di detenzione, la dislocazione di personale di Polizia penitenziaria per l’intera durata di tutti i dibattimenti celebrati a distanza, si comprende bene come l’intera operazione sia del tutto incompatibile, oltre che con i principi di umanità e di dignità che devono sempre sorvegliare ogni processo penale, anche con le condizioni e le risorse attuali. E si comprende, quindi, come la introduzione del processo a distanza, lungi dal garantire gli ipotizzati risparmi, certamente provocherà un aumento dei costi e delle inefficienze. *Segretario Unione Camere Penali Italiane Processi con l’imputato in video-conferenza, un’inaccettabile riduzione dei diritti di Mauro Anetrini L’Opinione , 16 marzo 2017 Escludendo quelli del gruppo M5S (che Iddio abbia compassione di loro, non sanno quello che fanno), ora contiamo quanti avvocati parlamentari ieri hanno avuto il coraggio di votare la fiducia su un disegno di legge che, tra le altre ferite ai principi della civiltà giuridica e dello stato di diritto, nega agli imputati detenuti di stare in aula davanti al giudice. Mentre il Senato della Repubblica, consumando per mere ragioni di opportunità politica uno strappo con alcuni tra i principi fondanti dell’ordinamento, si accinge a votare la fiducia a un Governo alla ricerca della sopravvivenza, noi dobbiamo levare la nostra voce, protestare. Reagire senza paura. A differenza di altri, ai quali è consentito cercare spazi di mediazione, noi, oggi, non possiamo permetterci il lusso di tergiversare, discutere, batterci per trovare un punto di compromesso. Non possiamo farlo, come è chiaro a ciascuno di noi, perché i diritti alla cui protezione abbiamo dedicato la vita non ci appartengono e non sono nella nostra disponibilità. Noi siamo la voce di chi quei diritti non può esercitare; di chi affida a noi il proprio destino, confidando nella nostra lealtà e nella fedeltà ai nostri doveri. Noi non accetteremo riduzioni di quei diritti perché, cedendo alle tentazioni, ci renderemmo responsabili del tradimento dei valori in cui diciamo di credere. E di noi stessi. Altri rappresentano e servono lo Stato. Noi serviamo e difendiamo la Costituzione repubblicana e i diritti che la rendono democratica. Oggi, io scelgo la via dell’Aventino: tornerò a dialogare - con chiunque, visto che non ho governi o ministri amici - quando agli imputati detenuti sarà consentito di stare davanti al giudice e quando si darà corso ad una riforma vera della Giustizia. Fino ad allora, come mi impone l’indisponibilità dei diritti che rappresento, io farò ostruzionismo, protesterò e ricorderò ai miei amici che, insieme, la spunteremo noi. Viva la Repubblica, Viva la libertà. Riforma del processo penale, un grave vulnus alla civiltà giuridica di Barbara Alessandrini L’Opinione, 16 marzo 2017 Ecco fatto. Anche la seconda lettura del ddl delega con cui viene riformato (?) il processo penale è passata ieri al Senato, che ha accordato la fiducia chiesta dall’Esecutivo proprio sulla riforma. Con l’ormai tristemente usuale prassi di evitare il dibattito ed escludere la discussione parlamentare sul delicatissimo tema della giustizia penale, cui sono strettamente collegati i diritti, le garanzie e la dignità della persona, il Governo ha incassato la fiducia dando l’ennesima prova di curarsi solo degli interessi di chi ne fa parte. Una mossa a dir poco opportunistica da parte del guardasigilli Andrea Orlando che pure sulla riforma del sistema penitenziario si è mosso in modo da lasciar intravedere uno spiraglio di miglioramento sotto il profilo del rispetto costituzionale dell’esecuzione della pena, ma il cui interesse a presentarsi alle primarie del Partito Democratico con il colpo della (contestatissima) riforma del processo penale mandato a segno ha prevalso. All’insegna della più smaccata arrendevolezza alle esigenze di populismo penale dell’opinione pubblica e di personale retribuzione elettoralistica, alle "indicazioni" e pressioni dei settori più invadenti della magistratura e in spregio ai diritti, alle garanzie del singolo, al giusto processo e alla civiltà giuridica che contrassegna la democrazia. I temi scottanti contenuti nel ddl sono le intercettazioni telefoniche e il nuovo pervasivo strumento di indagine, il Trojan di Stato, l’aumento delle pene edittali, il processo a distanza che lede in modo plateale il diritto di difesa e in generale i cardini del giusto processo, quello in cui la prova si costruisce durante il dibattimento nel contraddittorio tra le parti dell’accusa e della difesa e prevedendo per l’imputato la possibilità di essere vicino a chi ricopre la sacrosanta e costituzionale funzione difensiva, le nuove regole sulle indagini preliminari, i tempi della prescrizione, per i cui temi è prevista una folle dilatazione. Al momento il giusto processo è sconfitto, ma intanto può servire a comprendere anche l’ironia dell’avvocato Domenico Battista della Camera penale di Roma, che proprio sulla nuova regolamentazione della prescrizione ironizza con amarezza: "2035: grazie alla riforma Orlando/D’Ascola/Ferranti, il signor Rossi, accusato di corruzione nel 2017, sarà ancora in attesa della propria condanna o della propria assoluzione. Ma forse, magra consolazione, avrà diritto a proporre ricorso, sulla base della Legge Pinto, per la durata irragionevole del suo processo (salvo che nel frattempo gli "orfani dell’inquisitorio" non riescano a cambiare anche la Costituzione e la Cedu), i diritti fondamentali non si prescrivono". "Il processo e i diritti dei cittadini non possono essere merce di scambio di alcuna contesa di potere e tanto meno ostaggi di conflitti di naturale elettorale", si legge in comunicato dell’Unione delle Camere Penali Italiane con il quale si comunica l’astensione dalle udienze nel settore penale dal 20 al 24 marzo in segno di protesta e l’organizzazione di una manifestazione nazionale prevista a Roma per il 23 marzo. Anche l’Ucpi, forse, avrebbe potuto credere meno alle sirene di Orlando e non ridursi alla contestazione in difesa dei fondamentali del processo accusatorio e di diritti e libertà fondamentali di cui al momento sembra non importi nulla a nessuno e i rischi della cui violazione nessuno vuole vedere. Perché questa riforma è un grave vulnus alla civiltà giuridica e sarà ora più difficile apportare doverosi correttivi. Sì al nuovo processo. Stretta su furti e rapine: le pene sono raddoppiate di Anna Maria Greco Il Giornale, 16 marzo 2017 Inasprimento delle pene per furti in casa, scippi, rapine e voto di scambio; prescrizione più lunga; tempi certi per le indagini; giro di vite sulle intercettazioni. Sono solo alcuni punti della riforma della giustizia penale che ieri il Senato ha approvato, con il voto di fiducia contestato dalle opposizioni, e ora torna alla Camera per la terza lettura. Gli obiettivi più controversi e delicati riguardano appunto l’allarme sicurezza che spinge molti italiani ad armarsi, la velocizzazione del processo penale intervenendo anche sulla fase d’inchiesta e sulle impugnazioni, il bilanciamento tra uso delle intercettazioni e protezione della privacy, il salvataggio di molte cause destinate al macero per i tempi lunghi della giustizia. Sono stati 156 i voti a favore nell’aula del Senato, 121 i contrari e uno astenuto, con il Pd compatto per il sì (2 assenti su 99 senatori e il presidente di Palazzo Madama Pietro Grasso che secondo la prassi non ha votato), insieme a tutti e 12 i transfughi democratici progressisti, 24 di Ap (3 assenti), il gruppo per le Autonomie con il solo no di Claudio Zin e 4 assenti, 8 su 33 del gruppo Misto. Non ha partecipato al voto Dario Stefano di Sel, mentre il fronte del no ha riunito Fi e M5S, Ala, Cor e Gal con solo 2 voti a favore della fiducia (Naccarato e D’Onghia). La maggioranza festeggia una "riforma coraggiosa", mentre per il M5S si tratta di un "inganno che lega le mani a toghe e forze ordine". Per l’Anm si tratta di "una riforma non organica che rallenta i processi" e si tradurrà "in un danno per i cittadini". L’Unione Camere Penali parla di "scelte autoritarie e antidemocratiche imposte dal governo" e conferma l’astensione dalle udienze dal 20 al 24 marzo. Il ddl intitolato al "rafforzamento delle garanzie" e alla tutela della "ragionevole durata dei processi", dicono gli oppositori, in realtà otterrà risultati opposti. Vediamo le principali modifiche del codice penale e di quello di procedura penale. Per furto in abitazione e scippo il minimo della detenzione passa da 1 anno a 3 e aumenta anche la pena pecuniaria. Come per la rapina che sale da 3 a 4 anni nel minimo la pena detentiva. Per il reato di scambio elettorale politico-mafioso, si prevede la reclusione da 6 a 12 anni. Altro capitolo che ha portato a divisioni anche nella maggioranza è la prescrizione: viene sospesa per 18 mesi tra primo grado e appello e altrettanti tra appello e Cassazione. La riforma fissa poi il termine di tre mesi (prorogabile di altri tre) per la richiesta del pm di archiviare o rinviare a giudizio. Diventano 15 mesi per delitti di mafia e terrorismo. Aumenta a 20 giorni il termine per opporsi alla richiesta di archiviazione. Se il giudice non l’accoglie, deve fissare entro tre mesi l’udienza e decidere entro altri tre se non sono necessarie ulteriori indagini. La stretta sulle intercettazioni prevede un risparmio di 80 milioni in tre anni. Il governo fisserà i limiti alla pubblicazione dei colloqui e ci sarà la reclusione fino a 4 anni per chi diffonde riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni telefoniche captate fraudolentemente. Ci sarà l’obbligo di riservatezza anche sugli atti inviati al giudice dal pm con intercettazioni di conversazioni, comunicazioni informatiche o telematiche inutilizzabili. Il clandestino non può essere condannato perché non esibisce il permesso di soggiorno di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2017 Il reato previsto dall’articolo 6, comma 3, del Dlgs n. 286 del 1998 (come modificato dalla legge n. 94 del 2009) per lo straniero che non esibisca il permesso di soggiorno non si applica anche ai clandestini, i quali proprio perché irregolarmente presenti sul territorio ne sono per forza sprovvisti. Con questa motivazione il Tribunale di Genova, Sezione 1, sentenza del 1° febbraio 2017 n. 335 ha assolto perché il fatto non sussiste un extracomunitario. L’imputazione nasceva a seguito della "mancata esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno", nel corso di un controllo, da parte dei pubblici ufficiali del Commissariato di pubblica sicurezza di Rapallo. Essendo privo di documenti lo straniero era stato poi identificato mediante rilievi foto-dattiloscopici. Inoltre dall’istruttoria era emerso che l’extracomunitario aveva presentato istanza di permesso di soggiorno in Italia ma che non era stata accolta, e che di conseguenza ne era stata disposta l’espulsione con decreto del Prefetto di Genova del novembre 2015. Per cui, prosegue la sentenza, "risulta certo che al momento del controllo l’odierno imputato era privo non solo di documenti ma altresì del permesso di soggiorno, per il quale aveva fatto istanza, poi respinta". Così stando le cose, argomenta ancora il giudice, "si ritiene che non possa essere ravvisato il reato contestatogli, atteso che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità alla luce della modifica normativa, il reato contestato è oggi ravvisabile unicamente nei confronti dei soggetti regolarmente muniti di permesso di soggiorno e non anche ai soggetti irregolarmente presenti nel territorio dello Stato e privi pertanto di permesso di soggiorno". Secondo la nuova formulazione della norma infatti: "Lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non ottempera, senza giustificato motivo, all’ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato è punito con l’arresto fino ad un anno e con l’ammenda fino ad euro 2.000". E?le Sezioni unite (n. 16453/2011) intervenendo sulla questione hanno chiarito che "rispetto alla precedente formulazione secondo cui il reato era integrato per il fatto di non esibire una delle due categorie di documenti - d’identificazione ovvero di regolare soggiorno - a seguito della ricordata modifica, la fattispecie contravvenzionale è integrata dallo straniero che, a richiesta degli ufficiali e degli agenti di pubblica sicurezza, omette di esibire entrambe le categorie di documenti". Cosi ricostruita la fattispecie, "ne deriva che essa non può più applicarsi allo straniero in posizione irregolare, cioè a colui che è entrato illegalmente in Italia o qui è rimasto nonostante la scadenza del titolo di soggiorno". Dunque, concludevano le S.U. correttamente il giudice di merito aveva ritenuto che "la norma incriminatrice non può più riguardare tale straniero perché egli, in quanto irregolarmente presente nel territorio dello Stato non può, per ciò stesso, essere titolare del permesso di soggiorno". Antiriciclaggio, sanzioni penali "limitate" alle violazioni più gravi di Luigi Fruscione e Benedetto Santacroce Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2017 Sanzioni penali solo per le violazioni più gravi. È quanto prevede lo schema di Dlgs sull’antiriciclaggio ora all’esame delle commissioni parlamentari per i pareri. L’intervento si basa sulla necessità di procedere ad un adeguamento dell’entità delle sanzioni ai più recenti orientamenti delle istituzioni comunitarie che richiedono ai legislatori nazionali di procedere alla redazione di sistemi sanzionatori che siano basati su misure effettive, proporzionate e in particolar modo dissuasive da comminare sia nei confronti delle persone fisiche che giuridiche. Le sanzioni penali - In particolare le nuove norme - articoli da 55 a 59 - prendono in esame le sanzioni penali in due capi distinti del Titolo V (Capo I quelle penali e Capo II quelle amministrative). L’articolo 55 relativo alle sanzioni penali tende a "limitare l’ambito soggettivo di applicazione ai soli soggetti obbligati e di circoscrivere la previsione di fattispecie incriminatrici alle sole condotte di grave violazione degli obblighi di adeguata verifica e di conservazione dei documenti, perpetrate attraverso frode o falsificazione, e di violazione del divieto di comunicazione dell’ avvenuta segnalazione, prevedendo sanzioni penali adeguate alla gravità della condotta" mentre, gli articoli da 56 a 64, prendono in esame le sole sanzioni amministrative pecuniarie. A titolo esemplificativo l’articolo 55 punisce "chiunque, essendo tenuto all’osservanza degli obblighi di adeguala verifica ai sensi del presente decreto, falsifica i dati e le informazioni relative al cliente, al titolare effettivo, all’esecutore, allo scopo e alla natura del rapporto continuativo o della prestazione professionale e all’operazione … con la reclusione da sei mesi a tre anni e con lo multa da 10mila euro a 30mila euro". Le sanzioni amministrative - Per quel che attiene, invece, le sanzioni amministrative gli articoli da 56 a 64 prendono rispettivamente in esame i casi di: inosservanza degli obblighi di adeguata verifica e dell’obbligo di astensione (articolo 56), inosservanza degli obblighi di conservazione (articolo 57), inosservanza delle disposizioni relative all’obbligo di segnalazione delle operazioni sospette (articolo 58), inosservanza degli obblighi di comunicazione da parte dei componenti degli organi di controllo dei soggetti obbligati (articolo 59), inosservanza degli obblighi informativi nei riguardi dell’Unità di informazione finanziaria (Uif) e degli ispettori del Mef (articolo 60), sanzioni per inosservanza delle disposizioni specifiche in materia di soggetti convenzionati e agenti di prestatori di servizi di pagamento e istituti emittenti moneta elettronica (articolo 61), disposizioni sanzionatorie specifiche per soggetti obbligati vigilati (articolo 62), inosservanza delle disposizioni relative al contante ed ai libretti al portatore (articolo 63), inosservanza delle disposizioni di cui al Titolo IV commesse da distributori ed esercenti nel comparto del gioco (articolo 64). Le disposizioni successive (articoli da 65 a 69) dettano, invece, le regole relative al procedimento sanzionatorio, ai criteri di applicazione delle sanzioni, l’irretroattività della norma più sfavorevole e l’applicazione del regime del favor rei. Oltre le sbarre, il volontariato in carcere. Intervista all’Ombudsman delle Marche di Micol Sara Misiti centropagina.it, 16 marzo 2017 Il Garante regionale dei diritti, Andrea Nobili, fa il punto sulla situazione nelle carceri marchigiane ed evidenzia la carenza nelle attività finalizzate alla rieducazione dei detenuti. Sabato scorso si è svolto un tavolo tecnico in Regione, organizzato dal Garante regionale dei diritti, Andrea Nobili, a cui hanno partecipato diverse associazioni provenienti dal mondo del volontariato che operano all’interno degli istituti penitenziari marchigiani. La parola all’Ombudsman delle Marche. Cosa è emerso dall’incontro? "L’incontro è stato promosso dall’Ufficio del Garante per i Diritti dei detenuti perché riconosciamo l’importanza e l’impegno delle associazioni di volontariato all’interno delle carceri. Abbiamo ascoltato le loro istanze e desideriamo supportare queste associazioni che affrontano le criticità della realtà penitenziaria. Molte sono le questioni che sono state evidenziate, a partire dalla necessità della valorizzazione istituzionale del lavoro, sino agli aspetti solo apparentemente minimali della vita dei detenuti". Che servizio svolgono queste associazioni provenienti dal mondo del volontariato? "Non solo portano conforto umano a persone che non hanno rapporti con il mondo esterno, ma spesso danno un aiuto concreto a soggetti che vivono una significativa fragilità sociale". Quali sono le maggiori problematiche nelle carceri marchigiane? "Nelle Marche, come negli altri territori del Paese, uno dei problemi maggiori riguarda il sostegno all’attività "trattamentale", necessaria per dare concretezza alla finalità rieducativa della pena. Le carceri necessiterebbero soprattutto di opportunità lavorative per consentire il reinserimento nella società dei condannati. La Regione fa la sua parte, ma manca un adeguato impegno a livello nazionale". In particolare, qual è la situazione nella casa circondariale di Montacuto e nella casa di reclusione Barcaglione? "Nella struttura di Montacuto ha riaperto, dopo la ristrutturazione, la sezione dedicata all’Alta Sicurezza, che ospita prevalentemente persone provenienti dal Sud Italia, dove vivono le loro famiglie. Nella casa di reclusione Barcaglione sempre più si dovrebbe dare senso alla finalità specifica assegnata a questo penitenziario, con un regime particolare orientato a favorire il reinserimento dei condannati, che hanno pene brevi da scontare". Gli istituti penitenziari sono adeguatamente proporzionali al numero di detenuti o è presente il fenomeno del sovraffollamento? "Non si può ancora parlare di sovraffollamento vero e proprio, tuttavia gli ultimissimi dati indicano un aumento della popolazione carceraria nelle Marche". Quanti sono i detenuti? Quali le tipologie di reato più frequenti? "I detenuti sono circa 850, poco meno di un terzo di origine straniera. Molti reati sono legati ad una situazione di tossicodipendenza dei condannati. Per lo più si tratta di reati contro le persone e il patrimonio. Molti i crimini commessi nell’ambito del traffico di stupefacenti". Per quanto riguarda la sanità, il lavoro, l’istruzione e la famiglia, i detenuti hanno sufficienti garanzia e diritti? "Personalmente ritengo ci si debba impegnare molto per assicurare il rispetto dei diritti delle persone detenute, spesso non tutelati in modo compiuto proprio nei settori che ha indicato. I tempi sono maturi per una riforma dell’ordinamento penitenziario". Quali le azioni concrete da sviluppare per dare la possibilità a chi vuole cambiare vita di poterlo fare? "È necessario pensare ad interventi che favoriscano il reinserimento e che riguardino istruzione, formazione e lavoro. Per questo come Ufficio del Garante stiamo agevolando la realizzazione di progetti, con altri soggetti istituzionali, nel campo dello studio (Istituto di Fossombrone) e della formazione professionale (Istituto di Barcaglione)". I detenuti hanno un adeguato sostegno psicologico? "Questo è un tema di fondamentale importanza e purtroppo la risposta non è positiva. Il supporto psicologico è al di sotto delle necessità effettive". Alcuni giorni fa un detenuto ha tentato il suicidio in cella nella casa di reclusione Barcaglione. Cosa è possibile fare per evitare questo estremo gesto? "Preliminarmente va riconosciuto il qualificato lavoro della Polizia Penitenziaria e delle Direzioni degli Istituti penitenziari. La questione è a monte: occorre una valutazione attenta delle condizioni psicologiche in cui versano i detenuti e favorire sempre più regimi alternativi alla detenzione, soprattutto per quelle persone che commettono reati a causa della loro condizione di tossicodipendenza". Nelle carceri toscane arriva il nuovo infermiere con formazione in Transcultura infermieristicamente.it, 16 marzo 2017 Un’Ati (Associazione temporanea di imprese), che fa capo allo studio Auxilium Infermieri Professionisti sanitari Associati di Borgo San Lorenzo, composta da infermieri e gestita interamente da infermieri, ha vinto la Gara Europea da 11 miliardi di euro per la "Gestione del servizio di assistenza infermieristica a favore della popolazione detenuta negli Istituti penitenziari della regione Toscana, per il periodo 2017/21. Ma quando il Sistema sanitario è entrato nelle carceri, per occuparsi di assistenza? Il Dpcm 01/04/2008 sul "Riordino Medicina Penitenziaria", ha segnato il passaggio di competenze in materia di salute al Servizio Sanitario Nazionale, lasciando all’amministrazione penitenziaria, il compito di provvedere alla sicurezza dei detenuti. Con il decreto ministeriale, si è dunque giunti alla separazione della gestione della sicurezza dal diritto alla salute; diritto alla salute secondo i Lea spettanti ai cittadini liberi, come il diritto all’assistenza, alla prevenzione, alla riabilitazione, attraverso prestazioni adeguate ed efficaci. Gli infermieri, di assistenza parlando, in carcere non sono mai stati e, non hanno una storia, un passato remoto; questo ha determinato la necessità di costruire da zero una professione, che potesse affrontare le problematiche, non poche, legate all’assistenza del detenuto: la conoscenza profonda dell’assistito che vive una situazione di reclusione, il dover eseguire prestazioni in spazi limitati e tempi ristretti, concessi dall’organizzazione sanitaria e penitenziaria per il contatto con il detenuto, impongono agli infermieri la necessità di ridefinire modi e metodi del processo assistenziale. Le difficoltà assistenziali sono legate al tipo di patologia riscontrabile nei luoghi detentivi, prevalentemente di tipo infettivo, Tbc, Hiv, sifilide ed altre malattie sessualmente trasmesse, con una morbilità maggiore nella popolazione femminile, meno complianti nei confronti dei programmi di riabilitazione, per una minore tolleranza alla carcerazione. Le malattie mentali, sebbene non sia chiaro se sia la detenzione a creare disordini mentali, o siano già patologie preesistenti, riguardano il 10-15% della popolazione detenuta. A tali disturbi si associa la frequenza di comportamenti aggressivi e le abitudini di abusi di sostanze. L’ Ati è stata premiata, conquistando un distacco di 11 punti rispetto ai propri competitor, grazie ad un progetto innovativo. L’innovazione riguarda l’aver previsto una nuova figura infermieristica, con formazione specifica in Transcultura, che si occupi solo di relazioni con i detenuti, con l’obiettivo di andare ad individuare ed intercettare i vari aspetti problematici come gestione del rischio del suicidio, l’aderenza alla terapia, la sperimentazione di scale di valutazione del dolore attuabili in ambito penitenziario. L’altra novità è quella di avere introdotto innovazioni di carattere tecnologico che spaziano, dalla telecardiologia all’informatizzazione di alcuni processi legati alla somministrazione della terapia, fino ai miglioramenti nell’organizzazione dei servizi. Il progetto, di esclusiva governance infermieristica, occuperà 87 persone, 35 infermieri liberi professionisti, 35 infermieri dipendenti di due cooperative, 15 Oss e due amministrativi. Per l’Ipasvi Firenze è una grande conquista degli infermieri che hanno dimostrato competenza e capacità progettuale, amore e dedizione. Pisa: il carcere Don Bosco è una struttura "infelice e in parte illecita" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 marzo 2017 Così l’ha definito il Garante dei detenuti. Rita Bernardini presentò un esposto in Procura dopo una visita. La situazione più complicata nella sezione femminile dove le recluse non possono sostare sul ballatoio e l’area dei sanitari e all’interno delle celle, separata da un muretto basso. Il carcere Don Bosco di Pisa andrebbe ricostruito da capo e in particolare la sezione femminile è in parte infelice, in parte illecita. Continua l’ennesima denuncia da parte del garante dei diritti dei detenuti di Pisa, Alberto Di Martino, nel suo ultimo resoconto che oggi sarà finalmente oggetto di discussione nel consiglio comunale di Pisa. Una denuncia - come già riportato da Il Dubbio - che va a sommarsi a quella presentata, con tanto di esposto alla Procura, dalla radicale Rita Bernardini durante la visita effettuata l’anno scorso. La sezione femminile è infelice, perché - si legge nel rapporto del garante Di Martino - le celle si trovano al piano superiore lungo un ballatoio che si affaccia sul corridoio del piano terra. Come misura adottata per evitare i problemi da sovraffollamento, le detenute possono stare fuori dalla cella per un certo numero di ore al giorno, ma - ad oggi - non possono sostare sul ballatoio; possono solo riunirsi a gruppi nelle celle (idonee, d’altronde, al massimo per due persone) oppure recarsi al piano inferiore in una sala comune. Il provvedimento relativo all’uso del ballatoio è oggetto di insoddisfazione e vivace contestazione. Il ballatoio dispone di una cucina professionale piuttosto moderna, tuttavia non accessibile all’uso ordinario quotidiano, nonostante sollecitazioni in tal senso anche del garante regionale; resterebbe accessibile per corsi professionalizzanti o comunque attività di carattere occasionale. La direzione della casa circondariale sottolinea la non gestibilità dei profili di responsabilità (innanzi tutto civile) che potrebbero essere connessi all’uso ordinario dell’impianto. La sezione femminile risulta poi illecita, perché sempre secondo il garante l’area dei sanitari è situata all’interno delle celle, separata dal resto dell’ambiente da un semplice "mezzo muro": cioè un muretto basso che non impedisce né la vista, né ovviamente ogni altra percezione di quanto connesso alla fisiologia dell’evacuazione ed alle pratiche di igiene personale. Nessun bidet ha erogazione di acqua calda, che è disponibile soltanto nelle docce e nessun wc è munito di impianto equivalente al bidet. Le finestre di alcune celle, nelle quali è stato sistemato un letto a castello, non consentono l’apertura completa de- gli stipiti. "Con soddisfazione - annota De Martino nel resoconto - si apprende che un pronunciamento recente della magistratura di sorveglianza, anche sollecitata dai ricorsi promossi dalle detenute con l’assistenza dei volontari de "L’Altro Diritto", ha intimato all’amministrazione di risolvere strutturalmente, entro sessanta giorni, il problema della separazione del vano sanitari dal resto della stanza. V’è solo da interrogarsi sulle ragioni del ritardo istituzionale nel gestire questa problematica, nonostante sia stata sin da subito rappresentata anche al Provveditorato regionale dell’amministrazione". Le criticità però sono molteplici nell’intera struttura carceraria. Il Don Bosco, per essere adeguato alla legge Gozzini del 1975 (nata per valorizzare l’aspetto rieducativo della carcerazione rispetto a quello punitivo, ndr) andrebbe secondo il Garante "abbattuto e rifatto: pena il tradursi in un carcere a regime pre-democratico". Ma non lo dice solo lui. Il 13 marzo scorso, durante la presentazione a Montecitorio del libro "Gabbie" scritto dai detenuti del carcere di Pisa, il direttore Fabio Prestopino del Don Bosco ha provocatoriamente invocato la chiusura del carcere per la situazione fatiscente. Provocazione che ha ribadito dai microfoni della trasmissione Radio Carcere condotta da Riccardo Arena su Radio Radicale. Nel suo complesso il carcere dovrebbe ospitare 226 detenuti. Alla fine del 2016 la popolazione carceraria era però di 277 reclusi. "La tendenza - si legge nel resoconto - appare dunque nuovamente verso il sovraffollamento". Inoltre, nonostante la struttura sia nata per accogliere detenuti in attesa di giudizio o di sentenza definitiva, si registra una netta predominanza di chi il giudizio lo ha già ottenuto (187) rispetto a chi ancora è in attesa (90). Inadeguato, secondo il garante, anche l’atteggiamento "securitario e particolarmente rigoroso" tenuto dalla direzione carceraria e dalle guardie penitenziarie, un atteggiamento "motivato dal loro punto di vista ma che non può certo andare bene". Un aspetto particolarmente delicato riguarda i detenuti deceduti, tra cui un caso è sotto il vaglio della magistratura. Nel periodo compreso fra l’estate 2014 ed oggi sono morti sei detenuti/ e. Due, di cui una donna, si sono suicidati il primo settembre del 2014 e il 14 agosto 2015. La donna era di nazionalità italiana, l’uomo di nazionalità cèca. "Nessuno dei due in tempo antecedente il decesso - spiega De Martino - aveva richiesto di incontrarsi con lo scrivente, talché la personalità e il contesto del fatto possono essere ricostruiti soltanto in base a quanto riferito dall’Amministrazione". Per quattro persone risulta il decesso per morte naturale: due presso l’Ospedale di Pisa; uno in semilibertà; una, per il cui decesso risulta pendente procedimento penale nei confronti di alcuni membri dello staff sanitario della Casa circondariale, all’interno del "centro clinico". Il Garante è in contatto con i familiari e il loro difensore, al fine di monitorare l’evolversi delle indagini, soprattutto in relazione ad eventuali carenze strutturali ed organizzative che siano contestate all’esito delle investigazioni. "Sia in relazione allo stato delle indagini, sia in relazione alle conseguenze più generali che dalle particolarità della vicenda concreta potrebbero derivare a seconda dell’esito del procedimento penale, ho ritenuto - specifica il Garante - di mantenere e far mantenere al momento il riserbo rispetto ai mass- media circa questa situazione, pure seguita dal garante dei detenuti della città di residenza della famiglia". In generale la situazione del carcere di Don Bosco risulta totalmente dimenticato dalle istituzioni, un carcere che nel passato aveva ospitato Adriano Sofri e Bompressi, dove operava il dottor Francesco Ceraudo, esperto di medicina penitenziaria molto amato dai detenuti. Il carcere, va ricordato, progettato tra il 1928 ed il 1933 e costruito tra il 1934 ed il 1935, fu preso in consegna nel 1941 ed iniziò la sua attività nel 1944. Da allora non è mai stato riqualificato nel suo complesso. Pisa: crolla il solaio nel carcere. Sappe: "per intervenire si attendono tragedie più gravi?" pisatoday.it, 16 marzo 2017 Ennesima denuncia del sindacato sulle condizioni del Don Bosco. Le carenze strutturali mettono a rischio la sicurezza di agenti e detenuti. Crollo all’interno di un locale del carcere Don Bosco di Pisa. A cedere è stata parte del soffitto dell’Ufficio Matricola e, per fortuna, al momento del fatto non era presente alcun agente o detenuto. Il fatto, avvenuto martedì mattina, 14 marzo, è stato denunciato dal Sappe. "Siamo sconcertati da quello che è successo - commenta Pasquale Salemme, segretario nazionale per la Toscana del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE - l’episodio evidenzia tristemente le precarie condizioni di vivibilità e sicurezza della struttura penitenziaria. È caduto il solaio (circa un metro quadro) di una stanza nell’Ufficio Matricola dell’istituto. Solo la fatalità ha fatto sì che non vi fosse personale di Polizia (erano in conferenza di servizio). Nonostante le segnalazioni sullo stato di decadimento dell’istituto l’amministrazione penitenziaria latita, forse nell’attesa che avvengano tragedie ben più gravi". "Questo episodio - sottolinea Donato Capece, segretario generale del Sappe - conferma l’inadeguatezza del penitenziario pisano. Sono periodici e continui i nostri appelli sui problemi di questo carcere. Non è più accettabile avere in Italia un carcere decadente, in tutti i sensi, come il Don Bosco". Capece esprime "solidarietà al personale di Polizia Penitenziaria che lavora nel carcere di Pisa" e torna a denunciare la situazione di crisi delle carceri italiane: "Contiamo ogni giorno gravi eventi critici nelle carceri italiane, episodi che vengono incomprensibilmente sottovalutati dall’amministrazione penitenziaria. Ogni 9 giorni un detenuto si uccide in cella mentre ogni 24 ore ci sono in media 23 atti di autolesionismo e 3 suicidi in cella sventati dalle donne e dagli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria. Aggressioni risse, rivolte e incendi sono all’ordine del giorno e i dati sulle presenze in carcere ci dicono che il numero delle presenze di detenuti è in sensibile aumento. Ed il Corpo di Polizia Penitenziaria, che sta a contatto con i detenuti 24 ore al giorno, ha carenze di organico pari ad oltre 7.000 agenti. Ora abbiamo persino i soffitti delle carceri che crollano all’improvviso". "Da quando sono stati introdotti nelle carceri vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto sono decuplicati gli eventi critici in carcere - concludono i sindacalisti del Sappe - se è vero che il 95% dei detenuti sta fuori dalle celle tra le 8 e le 10 ore al giorno, è altrettanto vero che non tutti sono impegnati in attività lavorative e che anzi trascorrono il giorno a non far nulla. Ed è grave che sia aumentano il numero degli eventi critici nelle carceri da quando sono stati introdotti vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto. Nell’anno 2016 ci sono infatti stati 39 suicidi di detenuti, 1.011 tentati suicidi, 8.586 atti di autolesionismo, 6.552 colluttazioni e 949 ferimenti". Palermo: inserimento lavorativo degli ex detenuti "così voltiamo pagina" di Pietro Giammona fanpage.it, 16 marzo 2017 La storia di Lillo e Marcello raccontata dalle telecamere di Fanpage.it: dopo un’infanzia difficile a Palermo e la reclusione al Malaspina, hanno deciso di darsi alla pasticceria, con la speranza di avere presto un proprio laboratorio. "Il nostro sogno è quello di aprire un giorno un laboratorio tutto nostro, nella speranza che qualcuno ci aiuti a realizzarlo". Marcello Patricola e Rosolino Mulieddo, detto Lillo, non hanno dubbi. Dopo una vita difficile vissuta in uno dei quartieri più problematici di Palermo e anni altrettanto duri dietro le sbarre, il loro riscatto passa per la pasticceria. Una volta fuori dal carcere della città siciliana, hanno deciso di mettere in pratica quello che avevano imparato all’istituto alberghiero che avevano frequentato da ragazzi e di realizzare dolci per poter riprendere in mano le redini della loro esistenza. "Al momento ci aiutano delle persone, anche grandi laboratori - hanno raccontato alle telecamere di Fanpage.it. Ci permettono di utilizzare per qualche ora i loro ambienti e le loro attrezzature in attesa di avere un luogo tutto nostro". "Abbiamo seguito un modello sbagliatissimo da ragazzi. Ed in un attimo ci siamo ritrovati a commettere reati e a fare altre cavolate - hanno continuato. Ma abbiamo preso il diploma alberghiero e dopo anni di galera abbiamo deciso di voltare pagina". È nato così il brand Dolce Buonaspina. "Questo nome vuole ricordare la nostra storia - sottolinea Marcello, che ne è il titolare, essendo stati al Malaspina. Ma abbiamo voluto dargli una connotazione positiva, perché ci siamo imposti di portare il bene avanti a ogni cosa". Quella di Marcello e Lillo è solo una delle tante di storie di ex detenuti che cercano di ritrovare, attraverso il lavoro, la dignità e soprattutto la libertà perduta in carcere. I due pasticceri hanno avuto la forza di guardare avanti e di mettere in pratica conoscenze che avevano acquisito negli anni per raggiungere passo dopo passo il loro obiettivo. Non per tutti, purtroppo, c’è il lieto fine. Anzi, si può dire che siano l’eccezione che conferma la regola. Ma cosa prevede la legge in materia di reinserimento lavorativo di questi soggetti? È la Costituzione italiana, all’articolo 27, a sottolineare il valore rieducativo della pena, con l’obbligo di orientare chi l’ha già scontata al reinserimento nel tessuto sociale ed economico-produttivo del Paese. Come ha sottolineato Andrea Orlando che, quando era a capo del Ministero della Giustizia nel 2014, si è fatto promotore dell’istituzione di un fondo di 30 milioni di euro per le imprese che avessero assunto ex reclusi, "i detenuti che in carcere non svolgono alcuna attività hanno nel momento del loro ritorno nella società un altissimo tasso di recidiva". A coordinare questo sistema concorrono sia il Ministero che gli Enti Locali. È necessario che il detenuto sia iscritto alle liste di collocamento, avendo ben chiaro l’obiettivo da raggiungere: a partire dal secondo anno di iscrizione l’azienda coinvolta nel reinserimento lavorativo di questo soggetto può ottenere gli sgravi fiscali. Il percorso dovrebbe cominciare già dal carcere. Ma per gli ex reclusi l’iter diventa quasi una corsa ad ostacoli, con le procedure burocratiche e i ritardi amministrativi che spesso vanificano tanti sforzi avviati per un inserimento lavorativo. Catanzaro: accordo Prap-Uepe per applicazione più ampia delle sanzioni di comunità lacnews24.it, 16 marzo 2017 L’accordo prevede l’applicazione più ampia possibile delle sanzioni di comunità alle persone detenute e l’abbattimento della recidiva. Il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Cinzia Calandrino, ed il direttore dell’ufficio inter-distrettuale di esecuzione penale esterna, Emilio Molinari, in data odierna, hanno sottoscritto un accordo volto a disciplinare le modalità di integrazione operativa tra istituti penitenziari ed uffici di esecuzione penale esterna del territorio di competenza. L’accordo, in linea con le direttive del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, rappresenta un esempio di collaborazione virtuosa e sinergica tra le suddette amministrazioni dello stato le quali hanno comuni obiettivi istituzionali: l’applicazione più ampia possibile delle sanzioni di comunità alle persone detenute e l’abbattimento della recidiva. Così come più volte sottolineato dallo stesso Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, vi è un nuovo approccio nell’esecuzione delle pene: si cerca di ricorrere in via prioritaria alle misure alternative, capaci di reintegrare il detenuto nella società in maniera costruttiva, pianificata e controllata. Lo scopo è di evitare la perpetrazione di ulteriori reati instaurando rapporti positivi al fine di assicurarne la presa in carico, di guidarli e assisterli per favorire la riuscita del loro reinserimento sociale. All’interno dell’accordo sono previste delle azioni di semplificazione amministrativa dirette a rendere più rapidi i procedimenti, razionalizzando gli interventi e costruendo una comune regia dei processi di dimissione dal circuito detentivo: solo attraverso questi nuovi approcci si riesce a dare in maniera efficace una risposta concreta alle esigenze della collettività in tema di sicurezza, giustizia e legalità. Cagliari: il carcere di Iglesias sarà trasformato in centro di accoglienza per immigrati sardanews.it, 16 marzo 2017 Il deputato sardo Mauro Pili (Unidos): "Per portare a compimento l’operazione sono stati approntati anche progetti di ristrutturazione". Lo ha detto stamane il deputato di Unidos Mauro Pili comunicando la risposta del ministro Orlando all’interrogazione sulla gestione di alcune strutture penitenziarie nell’isola. "Si tratta di un progetto folle e scellerato, sia sul piano della dislocazione di un centro di accoglienza in un carcere sia per l’inopportunità di una struttura in un’area priva di qualsiasi tipo di servizio ma ricompresa in un compendio ad alta densità abitativa rurale. Tutto questo sta avvenendo nel più totale silenzio delle istituzioni considerato che la conferma alle mie denunce di questi anni è arrivata stamane con la risposta del ministro della giustizia ad un’interrogazione sul Carcere di Alghero. Nella risposta Orlando scrive: "tra le strutture individuate dal ministero dell’interno come idonee al predetto fine vi sono le strutture demaniali della ex Scuola di Polizia penitenziaria di Monastir e dell’ex carcere di Iglesias, per le quali sono stati anche approntati dei progetti di ristrutturazione". "Tutte le smentite e i reiterati silenzi sulla struttura crollano dinanzi ad una comunicazione ufficiale direttamente dal ministro della giustizia che firma la risposta alla mia interrogazione. L’amministrazione comunale si deve opporre a questa ennesima imposizione e chiedere la restituzione di quel patrimonio considerato che è cessata la funzione statale del bene e che, in base all’art.14 dello statuto, nello stesso istante in cui cessa l’originaria funzione statale quel bene immobile deve transitare nel demanio regionale e poi quello comunale. Spero, auspico, che l’amministrazione comunale abbia fatto o intenda fare tutti i passi necessari per fermare questo atto congiunto tra il ministro della giustizia e quello dell’interno". "Che questo governo, su input della prefettura, fosse senza scrupoli - ha detto Pili - lo si era compreso da tempo ma con questa ennesima forzatura si conferma la spregiudicatezza con la quale viene gestita la partita dell’immigrazione arrivando ad utilizzare anche un carcere pur di gestire appalti e servizi connessi. Con una spregiudicatezza senza precedenti e senza alcun tipo di remora il ministero dell’interno, attraverso la prefettura di Cagliari, ha fatto scattare l’operazione che prevede di riempire il carcere di Iglesias di migranti. La decisione é stata messa a punto tra i vertici del ministero della giustizia con quelli dell’interno e l’operazione era stata avviata in gran segreto". "La folle decisione di utilizzare il carcere di Iglesias - ricorda Pili - era stata già presa quasi un anno fa quando denunciai quella scelta scellerata mentre ora viene confermata dallo stesso ministro con il silenzio di tutti. É gravissimo il silenzio dell’amministrazione comunale di Iglesias e ancora più grave quello della regione. Il ministero dell’interno, nonostante l’emergenza in Sardegna stia raggiungendo soglie non più sostenibili, sia sul piano della qualità dell’accoglienza che quello sanitario, continua a destinare all’isola un contingente di migranti ormai ingestibile". Il piano dei nuovi sbarchi in Sardegna di fatto programmata già dalle prossime settimane sarà attuato con il metodo dell’emergenza, niente di concordato ma dinanzi alle navi cariche di profughi e migranti nessuno potrà dire più niente. La scelta riguarda proprio la caratteristica principale della Sardegna: il suo essere isola e isolata. Una decisione scandalosa e contro tutte le disposizioni internazionali. Si vuole creare una vera e propria barriera fisica che isoli gli immigrati dal resto del continente e impedisca loro di muoversi nel territorio nazionale con troppa facilità. Anzi, la Sardegna sarebbe di fatto un vero e proprio campo di isolamento, per perseguirlo sino in fondo adesso si useranno anche le carceri a partire da Iglesias. Si tratta - ha concluso il deputato di Unidos - di un piano scellerato e frutto solo di un retaggio statale che vede la Sardegna come cayenna, una volta per i mafiosi, una volta per i migranti". Verona: "giustizia di comunità", quando il detenuto-volontario esce dal carcere di Samuele Nottegar Corriere di Verona, 16 marzo 2017 Assistenza ai disabili o agli anziani, cura del verde e dei giardini, attività di segreteria, manutenzione della sede o del sito internet. La giustizia alternativa al carcere c’è e funziona. In particolare a Verona dove l’esperienza della "giustizia di comunità" rappresenta una buona pratica che, anche nel resto della regione, non sembra aver eguali per numeri e adesioni. Il tutto grazie a una convenzione stipulata, già a partire dal 2011, tra il Centro Servizio per il Volontariato e il tribunale di Verona che permette ai condannati di commutare la propria pena detentiva in ore di lavoro socialmente utile. Quello che sembrava un esperimento, oggi, si è trasformato in un prassi che ha effetti importanti, nei numeri, ma anche nei risultati. Perché se all’inizio del progetto le realtà associative che si erano rese disponibili ad accogliere questi particolari "volontari" erano state 11, per 14 posti totali, l’anno scorso gli enti accoglienti sono stati 53, tra cui 34 organizzazioni di volontariato, 2 cooperative, 15 enti non profit, una fondazione e un’impresa sociale. Un dato che, anche solo rispetto al 2015, è raddoppiato per lavori di pubblica utilità, messa alla prova e attività volontaria in alternativa alla detenzione. "La peculiarità di Verona - spiega Chiara Tommasini, presidente del Csv scaligero - è che noi ci siamo assunti la responsabilità di essere l’ente di riferimento per il progetto. Quindi, siamo punto di riferimento per il tribunale e per gli avvocati che ci contattano, ma anche per le associazioni. In pratica noi incrociamo le necessità di entrambi e mettiamo in contatto la persona giusta con l’associazione giusta, facendo colloqui e formazione. Un grosso lavoro data la delicatezza del tema e il giusto rigore con cui deve essere trattato". Grazie a questo progetto, l’anno scorso hanno iniziato la propria attività socialmente utile 197 persone: le ore di servizio svolte, da gennaio a dicembre, hanno sfiorato quota 12mila, assestandosi a 11.443. In pratica una media di oltre 30 ore al giorno, festivi compresi. "I volontari - spiega Tommasini - sono stati coinvolti nelle attività delle associazioni nei più diversi ambiti, dal socio-sanitario e assistenziale alla tutela dell’ambiente, dal culturale e ambientale alla protezione civile e alla cooperazione internazionale. La cosa bella di questo progetto è che più di qualcuno è rimasto, come volontario nell’associazione che l’aveva accolto, anche al termine del percorso obbligatorio. Ha messo a disposizione le proprie competenze e ha deciso di proseguire insieme". Sondrio: nuova biblioteca in carcere, dietro le sbarre pagine di libertà di Sara Baldini La Provincia di Sondrio, 16 marzo 2017 A disposizione dei detenuti 1.500 volumi. Inaugurazione in perfetto stile "caffè letterario" con lo scrittore Andrea Vitali e ottima musica dal vivo. La frase non passa inosservata. Nel luogo deputato alla lettura è lì, apposta, per essere letta. "Ogni parola che non impari oggi è un calcio nel culo domani". È di don Milani e campeggia su un muro, tra uno scaffale colmo di libri e un altro grondante fumetti, della nuova biblioteca del carcere che ieri ha visto un battesimo in perfetto stile "caffè letterario" con ospiti illustri e letture intervallate da ottima musica. A fare gli onori di casa, a neppure una settimana dalla presentazione "in società" della pasta senza glutine "1908" realizzata nel laboratorio artigianale del carcere, la sempre emozionatissima direttrice della casa circondariale Stefania Mussio, che ha ripercorso le tappe attraverso cui "la stanza beige dei libri, con armadi di metallo chiusi con i lucchetti" si è via via trasformata in uno spazio colorato di pesca alle pareti - alla tinteggiatura hanno pensato alcuni detenuti - con termosifoni lilla, luci calde, tavoli, sedute, una parete in cartongesso per le proiezioni e, soprattutto capienti librerie arancio e verdi a contenere oltre 1.500 volumi giunti in dono da tutta la valle. Letteratura italiana e mondiale e tanti, tantissimi Topolino, Tex, Diabolik, Zagor. Alla fine, come ha ricordato il "regista" Adriano Stiglitz, il direttore della biblioteca civica di Sondrio che ha supervisionato la catalogazione dei volumi, "così come ogni lettore ha il suo libro, ogni libro ha il suo lettore: non ci sono libri per tutti". Particolarmente vero "in un carcere dove il 70% dei detenuti è costituito da stranieri - ha ricordato Mussio - ma dove il tempo per cercare e trovare quello che fa per ognuno di noi certo non manca". La direttrice dopo aver ringraziato i propri "preziosissimi collaboratori", il cappellano don Ferruccio Citterio, le volontarie che negli ultimi mesi insieme a due poliziotti penitenziari e all’educatore hanno seguito l’operazione biblioteca, ha ribadito l’aiuto, "fondamentale", della Fondazione Credito Valtellinese per la donazione degli arredi e introdotto il super ospite Andrea Vitali, il popolare scrittore di Bellano che per essere presente ieri ha messo "in pausa" il tour di promozione del suo ultimo libro "A cantare fu il cane" (Garzanti). A seguire, tra the e caffè fumanti e collinette di pasticcini, la lettura di otto testi intervallati dai brani del disco "Pixel" suonati dal vivo dal Lemon Quartet di Marco Bianchi. Oltre alle pagine lette da Vitali ed estrapolate dai suoi "La signorina Tecla Manzi" e "Pianoforte Vendesi", a leggere per gli ospiti sono stati alcuni tra i detenuti, molto emozionati: flash da "Lo spacciatore di fumetti" di Pierdomenico Baccalario alla "Lettera a una professoressa" della Scuola di Barbiana, dal celeberrimo "gabbiano" di Richard Bach, passando per gli Esercizi di stile di Queneau, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Stevenson e "La prima sorsata di birra. E altri piccoli piaceri della vita" di Philippe Delerm. Una prova non certo da poco, superata tuttavia in modo egregio. Appassionati l’intervento e l’invito di Stiglitz: "questa è la vostra biblioteca - così si è rivolto ai detenuti - trovate il modo giusto di viverla, non vedetela come una "nuova tortura morale", ma come la palestra della mente, perché il cervello va allenato così come fate con i muscoli in palestra". "Quando si parla di articolo 21 in relazione al carcere di solito si fa riferimento alla norma dell’ordinamento penitenziario che disciplina il lavoro all’esterno. C’è però anche un altro art 21, quello del regolamento, che istituisce il servizio bibliotecario dentro il carcere. Tra le caratteristiche del servizio anche quella di riconnettersi alle biblioteche esterne, per consentire parità di accesso al patrimonio librario anche a chi è ristretto nella libertà personale. La biblioteca del carcere inaugurata oggi - ha concluso l’assessore alla Cultura del Comune Marina Cotelli - è la ricostituzione di un primo nucleo, che risponde ad esigenze di immediata fruibilità. L’auspicio e l’impegno sono di trovare le modalità per consentire a chi è in carcere di accedere, al pari di ogni cittadino, al prestito bibliotecario "esterno", per dare attuazione piena a quello che 1’Unesco ha definito il diritto universale alla lettura". Il prefetto Scalia: uno spazio dove ritrovare "parti omesse" di esistenza "Uno spazio ove sia possibile superare l’isolamento, la deprivazione culturale, le barriere mentali e fisiche". Questo, secondo il Prefetto di Sondrio Giuseppe Mario Scalia, è il ruolo principale che la biblioteca carceraria è chiamata a svolgere nella maniera più incisiva "per favorire la promozione culturale, la libera espressione della creatività, la costruzione di un canale di informazione e di scambio tra interno ed esterno volti alla crescita culturale e al superamento dei pregiudizi e delle reciproche diffidenze". Nel suo intervento all’inaugurazione del nuovo spazio all’interno del carcere Scalia ha tenuto a sottolineare la valenza della biblioteca "come agente Indispensabile per promuovere la pace e il benessere spirituale delle menti di uomini e donne" e, nel caso specifico di un centro detentivo, il suo "servizio di indiscutibile importanza nell’ambito della progettualità trattamentale, configurandosi come spazio-simbolo della promozione culturale del condannato durante il tempo della pena e come strumento che rende possibile la diffusione di valori e modelli "altri" rispetto a quelli sperimentati dai detenuti nei loro precedenti percorsi di vita". Un concetto, questo, che il prefetto Scalia ha ribadito riportando anche quanto detto anni da un detenuto del carcere di Opera facente parte proprio del gruppo "Biblioteca" di quel carcere: "Noi detenuti dobbiamo leggere per riprendere le parti omesse della nostra esistenza". "La biblioteca in carcere - ha aggiunto infine Scalia - è infatti momento di apprendimento, di riflessione e di confronto, di scambi relazionali, di elaborazione e di sviluppo della creatività soggettiva e di gruppo, di proiezione verso il mondo esterno". Pozzuoli (Na): cravatte "made in carcere", nasce un laboratorio per le detenute di Agata Marianna Giannino Il Giornale, 16 marzo 2017 Firmato oggi il protocollo di intesa che permetterà la nascita di un laboratorio sartoriale nel carcere femminile di Pozzuoli. Le sue cravatte sono famose in tutto il mondo. "Marinella" metterà a disposizione il suo know-how per dar vita a un laboratorio sartoriale nella casa circondariale femminile di Pozzuoli, in provincia di Napoli. Un progetto per il quale è stato firmato oggi il protocollo d’intesa dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo, dall’amministratore unico della E. Marinella srl, Maurizio Marinella, e dall’amministratore unico della Maumari srl, Dario dal Ver. Le donne carcerate, per le quali saranno avviati percorsi professionalizzanti, confezioneranno cravatte che saranno date in dotazione alla Polizia penitenziaria. Un quantitativo predefinito sarà usato anche come cadeax istituzionale. L’azienda di Marinella offrirà personale specializzato per la realizzazione e la supervisione del design del prodotto che sarà realizzato. L’obiettivo: formare le detenute nel settore tessile per permetterne, una volta fuori dall’istituto penitenziario, un reinserimento nella società, ma anche realizzare sensibili economie di spesa. "Il lavoro penitenziario - ha dichiarato Consolo - va implementato con progetti di qualità e con il sostegno del mondo imprenditoriale esterno. Questa è la strada da seguire, se vogliamo realmente abbattere la recidiva. Il fine pena deve essere il momento in cui la persona riprende in mano la propria vita e sceglie di vivere nella legalità. Il lavoro e la formazione sono strumenti formidabili per il riscatto sociale del singolo e per la sicurezza dell’intera collettività". "Era nostro desiderio contribuire concretamente alla sfida della formazione del tessuto sociale disagiato di Napoli, sfida che spero si estenda all’Italia. È un onore, come terza generazione dell’azienda Marinella che porta il mio nome, poter dare una possibilità a chi è stato meno fortunato di altri", ha dichiarato Maurizio Marinella. Messina: 10mila euro per la barberia in carcere, alla gara si presenta solo un concorrente di Alessio Caspanello letteraemme.it, 16 marzo 2017 Diecimila euro in nove mesi? Non interessano a nessuno, o quasi. Forse perché il luogo di lavoro non è esattamente invitante, o forse perché il gioco non vale la candela, fatto è che il bando lanciato dal ministero della Giustizia per il servizio di barberia al carcere di Gazzi di Messina è andato praticamente deserto. Al punto che la ditta aggiudicataria è stata anche l’unica a presentarsi, su quindi inviti alla procedura negoziata. L’appalto, dell’importo a base d’asta da diecimila euro ("da considerarsi del tutto presunto, potendo variare, in difetto o in eccesso, per effetto della diminuzione o dell’aumento della popolazione detenuta", specificano dal ministero), riguarda praticamente il taglio dei capelli "sia ministeriale che a spese degli stessi detenuti", a iniziare dal primo aprile e fino al 31 dicembre. Condizioni non particolarmente gravose, che però non hanno suscitato alcun interesse nelle imprese. Messinesi soprattutto. Perché, su quindici operatori invitati a presentare offerta per la procedura negoziata, di busta ne è arrivata solo una: quella di Salvatore Sparacino, che la sua bottega da barbiere ce l’ha per giunta ad Alì, e che ad un prezzo unitario di quattro euro e dieci centesimi a taglio (il criterio di aggiudicazione era il prezzo più basso), si è aggiudicato la gara. "Unica offerta pervenuta, ritenuta congrua, soddisfacente ed economicamente conveniente per l’amministrazione". Un circostanza che suscita curiosità, che a un bando da diecimila euro, in una città che negli euro non ci nuota esattamente dentro, si presenti solo un interessato, ma non inusuale, spiegano dalla casa circondariale. Al direttore del carcere di Gazzi Calogero Tessitore, quindi, non è rimasto che inoltrare l’avviso di aggiudicazione provvisoria. Livorno: in carcere Pet Therapy per i detenuti, con l’Associazione Do.Re.Miao quilivorno.it, 16 marzo 2017 Nella casa circondariale di Livorno, in collaborazione con l’Associazione Do.Re.Miao, è attivo un percorso di Pet Therapy organizzato per i detenuti di Media Sicurezza. Il progetto, meglio definito come "Educazione cinofila di base e sostegno alla genitorialità con la mediazione del cane", è finanziato dal Rotary Club di Livorno e sponsorizzato da Front Line e da Fondazione Livorno. Il progetto coinvolge circa dodici detenuti, che partecipano sia per libera adesione degli stessi sia per mirato coinvolgimento da parte dell’Area Giuridico-Pedagogica. I detenuti vengono scelti in particolare sotto il profilo di maggior beneficio che possono trarre dal contatto con l’animale. Di per sé, dal punto di vista relazionale, il cane porta a un interscambio comunicativo ed emotivo e sposta l’asse dell’attenzione dal disagio al benessere. Cane ed educatori cinofili agiscono e sono riconosciuti come figure non giudicanti, esprimenti accettazione incondizionata nei confronti del detenuto e ciò infonde nei partecipanti un senso di sicurezza e di fiducia. Se oggi l’attività si presta più funzionalmente al supporto emotivo dei detenuti partecipanti, è previsto che, nel prossimo futuro, con l’ampliamento della popolazione del Reparto di Media Sicurezza e con un’adesione al progetto più continuativa da parte degli interessati, si potrà pensare a strutturare l’attività anche in senso più propriamente formativo, con il rilascio di un attestato di "operatori di canile" o di "dog sitter" spendibile all’esterno. Torino: l’Università presenta la Guida ai diritti dei detenuti unito.it, 16 marzo 2017 Giovedì 16 marzo 2017 alle 10, presso la Sala Lauree Blu del Campus Luigi Einaudi (Lungo Dora Siena, 100 - Torino), è in programma un incontro dal titolo "Guida ai diritti - Orientarsi tra norme e pratiche penitenziarie": L’Università di Torino presenta la Guida ai diritti dei detenuti, realizzata attraverso la collaborazione tra Dipartimento di Giurisprudenza dell’Ateneo, il Provveditorato Regionale Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e Fondazione C.R.T. La guida informativa, tradotta in quattro lingue per raggiungere anche il crescente numero di detenuti stranieri, sarà distribuita in tutte le carceri piemontesi per facilitare la comprensione e l’accesso ai diritti delle persone private della libertà personale, con l’obiettivo di accompagnarle nei primi, difficili momenti dell’ingresso in istituto, fino alle misure alternative cui accedere negli ultimi periodi di detenzione. Il progetto è stato condotto dagli studenti della Clinica Legale "Carcere e diritti" del Dipartimento di Giurisprudenza, sotto la supervisione di professori e tutor, con una interazione diretta e continua con detenuti e operatori di alcune carceri del territorio che ha permesso di realizzare una guida concretamente adeguata alle esigenze dei suoi destinatari. La fase di revisione editoriale della guida è stata curata dal Laboratorio Stampati in galera della Casa di Reclusione di Saluzzo e la stampa è stata realizzata dalla tipografia della Casa Circondariale di Ivrea. Radio Carcere: il capo del Dap conferma: "nelle carceri oltre 4.000 posti sono inutilizzati" Ristretti Orizzonti, 16 marzo 2017 Il Capo del Dap, Santi Consolo, conferma in diretta: nelle carceri oltre 4.000 posti sono inutilizzati e annuncia un implemento delle riscorse sia per gli stipendi dei detenuti. Link: www.radioradicale.it/scheda/502877/radio-carcere-il-travagliato-iter-del-ddl-sul-processo-penale-in-senato-il-capo-del Mediare è un reato: un’altra norma di distrazione di massa Il Dubbio, 16 marzo 2017 Proponiamo di seguito un estratto da "Trafficante sarà lei. Lobby e processo mediatico ai tempi di Tempa rossa", il volume su traffico di influenze e altri parossismi delle giustizia mediatica pubblicato dall’esperto di comunicazione politico-istituzionale Massimo Micucci e dall’avvocato Santo Primavera per Bonanno editore (pag. 118, € 10,00). Il libro verrà presentato oggi a Roma, alle 17.30 presso Reti bis (via di Pietra 70). Interverranno Marina Sereni, Gennaro Migliore, Massimo Bordin. L’Italia appare essere la democrazia dell’Europa occidentale con la più ampia copertura data a eventi legati alla corruzione. Secondo uno studio condotto da Paolo Mancini e Marco Mazzoni, dell’Università di Perugia, nel decennio che va dal 2004 al 2013, in quattro dei principali quotidiani nazionali ("La Repubblica", "Corriere della Sera", "Il Giornale", "Il Sole - 24 Ore" ), sono stati pubblicati 46.239 articoli incentrati sulla corruzione e su altre parole connesse ad atti illeciti a essa assimilabili. (...) In verità la società tribale in cui siamo scivolati da un ventennio, non riuscendo ad affrontare sia i temi chiave alla base della crisi cronica della giustizia sia l’enormità pervasiva della inefficiente gestione pubblica, si inventa continuamente "norme di distrazione di massa". L’equazione da cui nasce la disposizione risulta semplice. Oggi la gente pensa che tutta la politica è corruzione, quindi puniamo i corrotti e anche se già vi sono fattispecie incriminatrici in materia, aggiungiamo e prevediamo persino che le relazioni sono corrotte e corruttrici in sé. Poiché la corruzione esiste ormai anche tra privati e il rischio di un vantaggio improprio è definito dalle posizioni rilevanti, non conta più molto che ci sia solo denaro o che vi siano pubblici ufficiali. Dovrebbe comunque contare che il vantaggio di chi viene privilegiato sia indebito e improprio l’agire della persona "che decide". (...) Il reato di traffico di influenze illecite è stato inteso come risposta al fenomeno identificato nel gergo mediatico con "rete di malaffare", "sistema di favori e tangenti" e con le "cricche". Queste espressioni sono state utilizzate per indicare una ragnatela che arriva lontano e che travolge la politica che conta, quella che governa. Gli scandali venuti alla luce negli anni sono stati tanti, per ricordare: Tanzi e la Parmalat; Moggi e gli arbitri; la Protezione civile e i Grandi eventi, ma anche le ricostruzioni post- terremoto; Bisignani e la P4; le consulenze di Finmeccanica; Formigoni, Daccò e la clinica Maugeri; Don Verzé e il San Raffaele di Milano. Con l’introduzione del reato di traffico di influenze illecite si è tentato secondo le intenzioni del governo Monti di difendere quasi con "un cordone sanitario" il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione, andando a sanzionare comportamenti che eventualmente possono essere anticipatori della corruzione che viene quasi data per scontata e presunta, tanto da invertire l’onere della prova a carico degli indagati. (...) Alla fine la fattispecie incriminatrice di traffico di influenze illecite nasce da un compromesso culminato in Senato fra Pdl, Pd e Governo il quale sia al Senato che alla Camera ha posto la questione di fiducia sul ddl modificato. La previsione appare ormai inaccettabile senza disciplinare l’attività di lobbying, come accade in altri Paesi, perché rischia di criminalizzare comportamenti da considerare non patologici ma fisiologici della vita pubblica. Si può ritenere che qualsiasi azione condotta dalla politica o l’esistenza di gruppi di pressione e dei portatori di interesse debbano automaticamente coincidere con un reato? Aldo Moro nel labirinto di fantasmi di Andrea Colombo Il Manifesto, 16 marzo 2017 Un volume curato da Marco Clementi, Paolo Persichetti ed Elisa Santelena per Derive Approdi percorre la parabola delle Brigate Rosse. Il tempo non è stato galantuomo. A 39 anni di distanza dall’agguato di via Fani e dal sequestro di Aldo Moro la verità, invece di avvicinarsi, si è allontanata, almeno agli occhi dell’opinione diffusa. La verità sul caso Moro è affondata in una palude di coincidenze spacciate per prove, di sospetti sconfinanti nei territori della psicopatologia, di dicerie elevate a fatti. La vittoria di quella che uno dei più brutti neologismi in circolazione ha battezzato "dietrologia" non consiste tanto nell’aver affermato la sua confusa e sgusciante "verità" quanto nell’aver imposto il proprio terreno di confronto: quello in cui ci si deve misurare sempre su voci e ipotesi fantasmagoriche, sino a che dalla storia dell’organizzazione politica Brigate rosse, del sequestro del leader politico Aldo Moro e del braccio di ferro proseguito per 55 giorni con l’intero establishment politico italiano vengono espunti proprio i due elementi fondamentali, la storia e la politica, sostituititi da una frenetica caccia al mistero. Almeno per quanto riguarda il versante storico un passo avanti decisivo è segnato dalla pubblicazione di Brigate rosse, (Derive Approdi, pp. 550, euro 28), di Marco Clementi, Paolo Persichetti ed Elisa Santelena. È il primo volume di una storia delle Br tracciata con gli strumenti propri della ricerca storica. Ne dovrebbero seguire altri due, forse con l’apporto di nuovi o diversi autori, anche se non è escluso che il progetto si riduca solo a un secondo volume. Clementi, da questo punto di vista, è un pioniere. È stato il primo, nel libro del 2001 La pazzia di Aldo Moro, a cimentarsi da un punto di vista rigorosamente storico con gli scritti di Moro dal carcere del popolo, poi con la Storia delle Brigate rosse, del 2007. Nei dieci anni trascorsi dall’uscita di quel libro, però, si sono aperte molte nuove fonti per la ricerca storica, e i tre autori le hanno esplorate tutte con incredibile minuzia. Pur trattandosi di un libro sulle Br e non sul caso Moro, l’operazione Fritz, come fu definita in codice dai brigatisti stessi, occupa ben 411 pagine su 550. È una scelta editoriale che veicola un preciso taglio storico: una costruzione del genere, infatti, mette in prospettiva l’intero percorso delle Br sino a quel momento come progressivo avvicinamento al culmine, rappresentato appunto dalla loro azione più clamorosa. Inevitabilmente i tre autori sono costretti a confrontarsi con la ricostruzione della verità storica, sfatando molte leggende: dalla insufficiente protezione assicurata dallo Stato al presidente della Dc, alle minacce di cui sarebbe stato oggetto sin dal 1975; dalle diverse versioni offerte dal presunto "super-testimone" Marini alla ormai leggendaria Honda di via Fani. Ma la parte più interessante riguarda la politica, sia nel senso di esplorare le motivazioni politiche che muovevano le Br sia in quello di esaminare dallo stesso punto di vista le scelte dello Stato e dei partiti. La politica, ancora più della Storia, è la grande rimozione nel dibattito pluridecennale sul caso Moro. Da questo punto di vista la "dietrologia" è la prosecuzione con altri mezzi di quella che all’epoca fu definita "linea della fermezza". Quella linea non significava affatto rifiuto di trattare. Lo Stato era pronto a trattare, però come si faceva d’abitudine con i banditi comuni: senza dirlo e offrendo in cambio della vita dell’ostaggio soldi. Nel caso specifico moltissimi soldi. Fermezza voleva dire negare l’identità politica e non criminale delle Br. Le fantasie che impazzano da decenni sul caso Moro fanno lo stesso, trascinando tutto sul terreno di un complotto oscuro, nel quale le Br fanno più o meno la figura dei burattini. Proprio la scelta di negare quella identità politica portò come conseguenza inevitabile, almeno nel solco dell’analisi brigatista, all’uccisione dell’ostaggio. Il riconoscimento di quella identità, secondo gli autori, avrebbe avuto conseguenze enormi. Tanto, si direbbe, da giustificarne in pieno il rifiuto da parte dello Stato. Sia il sequestro che la scelta di uccidere Moro furono decisioni dettate da un’analisi politica che non si può liquidare come "delirante", secondo l’aggettivo più in voga all’epoca. L’analisi della fase del capitalismo contenuta nelle Risoluzioni strategiche del 1975 e del 1978 risulta in effetti tutt’altro che delirante, mentre certamente superficiale è il ruolo che le Br assegnavano alla Dc all’interno di quel processo globale. Si può discutere su alcune delle analisi elaborate dagli autori, come il carattere deflagrante del riconoscimento politico. Ma fino a che la ricostruzione storica e politica non si snoderà sul terreno posto con questo libro, un momento essenziale della storia repubblicana resterà ridotto a un labirinto di fantasmi. Migranti. Il Csm boccia il governo "sull’asilo devono poter fare ricorso" di Francesco Grignetti La Stampa, 16 marzo 2017 Per l’organo dei magistrati il decreto lederebbe i diritti dei profughi. E Frontex conferma i timori del Viminale: boom di arrivi dalla Libia. Frontex, l’agenzia che tutela i confini dell’Unione europea dall’immigrazione clandestina, certifica che a febbraio la rotta del Mediterraneo centrale ha preso il sopravvento su tutte le altre. "Sono stati rilevati più di 10.900 attraversamenti clandestini delle frontiere, un decimo rispetto allo scorso anno". Ma il 90% di questi ingressi irregolari è passato per l’Italia. E nonostante le difficili condizioni del mare. "Tra le nazionalità dei migranti - annota poi l’Agenzia - spiccano a livello numerico i cittadini della Guinea e del Bangladesh". Ed è curiosa la spiegazione di Frontex sul perché siano divenuti così tanti i bengalesi tra chi arriva dalla Libia. "Mentre la maggior parte proviene dai Paesi africani e si dirige verso la Libia via terra, i bengalesi raggiungono Tripoli per via aerea, accedendo grazie a un visto di lavoro libico". Successivamente si affidano agli scafisti e raggiungono le coste libiche dove aspettano il loro turno per il gommone. Un boom, quello dell’immigrazione clandestina, che però sembrerebbe rallentare a marzo (un dato ancora non recepito da Frontex): sono sbarcati in 2413 contro i 9676 del pari periodo del 2016. Visto l’incremento di sbarchi, insomma, diventa cruciale la capacità di attuare le espulsioni per chi non ha diritto all’asilo. Per dirla con le parole del ministro Marco Minniti: "Se l’immigrazione irregolare cresce a dismisura, è più complesso affrontare la questione integrazione. Bisogna evitare a tutti i costi che la cattiva moneta dell’illegalità cacci la buona moneta della legalità". Il governo, con un decreto Minniti-Orlando ora all’esame del Senato, sta modificando le norme per i richiedenti l’asilo politico. C’è una jungla di trucchi e trucchetti per approfittare delle pieghe della giustizia e allungare i tempi delle espulsioni. Uno viene demolito da un nuovo emendamento del governo, che prevede, in caso di ricorsi in Cassazione, che occorra una firma del ricorrente "in data successiva alla comunicazione del decreto impugnato". Troppo facile, infatti, per gli avvocati incassare a monte la firma di uno straniero che poi sparirà nel nulla. Intanto il ricorso farà il suo corso e il legale potrà anche presentare la parcella allo Stato. Dal Csm, però, in un parere approvato dal plenum, e condiviso dal primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio, arriva una bordata micidiale: "Il decreto, sopprimendo l’appello, contiene una diffusa compressione delle garanzie del richiedente", tale da "far ritenere non adeguato il sistema". Il ricorso alla videoconferenza per sostituire la presenza davanti al giudici di chi chiede la protezione internazionale, dovrebbe avere caratteri di "facoltatività ed eccezionalità". Canzio parla di un "vulnus" al nostro sistema costituzionale perché si limita la garanzia del contraddittorio nei confronti delle "persone più deboli" di cui sono in gioco "diritti fondamentali". Secondo il Csm, occorre un procedimento davanti al tribunale "non meramente cartolare", "in cui sia resa obbligatoria l’audizione del richiedente", e "garantita la massima espressione dei diritti personali e di difesa nell’unico grado di giudizio di merito". Sono suppergiù le stesse critiche espresse nei giorni scorsi dall’Anm, e due giorni fa dalle associazioni di volontariato. Così la maggioranza pensa di correre ai ripari. Ieri mattina il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Anna Finocchiaro, annunciava l’intenzione del governo di emendare il decreto "nel senso di quanto segnalato dal Csm". E fino a sera, il relatore Giuseppe Cucca, Pd, ha limato un suo emendamento. Sicurezza urbana, reintrodotte le sanzioni per spaccio abrogate dalla Consulta di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 marzo 2017 Decreto Minniti. L’art. 13 ricalca il 75 bis della Fini Giovanardi. Ma il governo presenta anche un articolo aggiuntivo (in forse l’ammissibilità) per introdurre i codici identificativi di reparto (non individuali) per gli agenti. Non solo ampliamento dei poteri di ordinanza del sindaco, rafforzamento del mini Daspo urbano (una sorta di foglio di via da alcuni luoghi "sensibili" della città), proroga dell’arresto in flagranza differita anche fuori dagli stadi e dopo le manifestazioni: il decreto "Minniti-Orlando" sulla sicurezza urbana che oggi verrà licenziato dalla Camera e trasmesso al Senato per la conversione in legge entro il 20 aprile, fa rientrare dalla porta ciò che la Corte Costituzionale ha buttato dalla finestra. L’articolo 13 infatti è la fotocopia dell’articolo 75 bis della legge Fini-Giovanardi che la Corte Costituzionale ha soppresso un anno fa (sentenza 94/2016), ultimo colpo di scure su una legge smontata pezzo per pezzo dalla Consulta. Contemporaneamente però il governo ha presentato una correzione, in forma di articolo 10 bis, per introdurre un codice identificativo di reparto (non individuale) sulle divise degli agenti delle forze dell’ordine. Una proposta (ben al di sotto del necessario richiesto dal Consiglio d’Europa per la democratizzazione delle polizie italiane) che era contenuta in un emendamento presentato dalla pentastellata Roberta Lombardi e che è stato dichiarato inammissibile perché "erroneamente formulato". E non è stato l’unico: alcuni deputati del M5S hanno protestato per la "discriminazione", a loro dire, subita dai propri emendamenti, "respinti o accantonati". L’articolo aggiuntivo è stato depositato ieri, al varo del Comitato dei nove (ma potrebbe essere non ammesso), insieme alla proposta del relatore di riformulare un emendamento di FI che introduce l’arresto differito in flagranza, "sulla base di documentazione video", per "reati commessi con violenza alle persone o alle cose, compiuti alla presenza di più persone, anche in occasioni pubbliche". Senza tetto, mendicanti, ambulanti, abusivi, rom, tossicodipendenti, prostitute, giovani della movida, ultrà e parcheggiatori: eliminati loro, almeno dalla visuale, le città italiane torneranno decorose. È questa la filosofia del decreto "Minniti-Orlando", il core elettorale calibrato sulla paura diffusa, come hanno denunciato SI e le associazioni per i diritti umani, e come ammette tra le righe lo stesso ministro dell’Interno durante il question time: "C’è una percezione di senso di insicurezza, soprattutto nelle aree metropolitane - ha spiegato Minniti - ma il 2016 segna una diminuzione della delittuosità pari al 9,4% rispetto il 2015, e se prendiamo il mese di gennaio la percentuale è più alta: meno 23,2% rispetto gennaio 2016". Eppure, senza alcun bisogno di inchinarsi alla logica, il super ministro conclude: "Confido che il provvedimento potrà incrementare gli strumenti in mano ai sindaci per prevenire la diffusione della criminalità nelle città". Ne è convinto anche il sindaco di Firenze, Dario Nardella, che ieri ha ringraziato il questore Alberto Intini per aver disposto il Daspo urbano nei confronti di un 21enne marocchino condannato per spaccio, che in questo modo non potrà avvicinarsi a tutti i locali che si trovano in una zona del centro storico. "Chi spaccia piccole dosi viene denunciato, o più raramente viene arrestato, ma il giorno dopo è di nuovo libero", si è lamentato il questore di Firenze. Che considera il decreto capace di colmare "vuoti che non può coprire l’azione giudiziaria", anche se suggerisce di correggere il testo rendendo il Daspo urbano applicabile "dopo un arresto per spaccio", e non solo dopo una condanna definitiva. Il decreto sicurezza non arriva a tanto ma comunque riapre una via chiusa dai giudici costituzionali (sia pure per motivi di "omogeneità" con il decreto in cui venne inserito): l’articolo 13 reintroduce infatti l’inasprimento delle sanzioni amministrative (obbligo di firma, mobilità ridotta, libera uscita a fasce orarie, divieto di allontanarsi dal comune di residenza, il divieto di condurre qualsiasi veicolo a motore) per piccoli spacciatori e tossicodipendenti, cancellate dalla Consulta. Ad accorgersene è stato il deputato di SI, Daniele Farina, che ha presentato un emendamento soppressivo dell’articolo fotocopia di quello ideato da Giovanardi. L’emendamento è stato respinto, naturalmente. Il M5S si è astenuto. Il giudice di Milano: "incostituzionale punire con il carcere chi imbratta i muri" di Franco Vanni La Repubblica, 16 marzo 2017 Per un writer accusato di imbrattamento, il processo non è nemmeno cominciato. L’udienza è rinviata dopo il 17 giugno, giorno in cui la Corte Costituzionale deciderà sull’eccezione sollevata dal giudice Alberto Carboni, della Sesta sezione penale: la tesi è che prevedere il carcere per chi imbratta i muri violi l’articolo 3 della Costituzione, che afferma l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Se per l’imbrattamento sono previsti fino a 6 mesi di reclusione, infatti, il più grave reato di danneggiamento è stato depenalizzato dal Parlamento, ed è punito solo con una sanzione pecuniaria. Il processo al writer non si può fare. Prima, infatti, la corte Costituzionale dovrà chiarire se la pena prevista per il reato di imbrattamento - disciplinato dall’articolo 639 del codice penale - non violi l’articolo 3 della Costituzione, che afferma l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. L’imputato per imbrattamento, di fronte ai giudici della Sesta sezione penale del tribunale, è un trentenne milanese accusato di avere sporcato con vernice spray la serranda di un negozio in viale Bligny. Ieri, la prima udienza del processo si è conclusa con un rinvio "in data successiva al 17 giugno". Quel giorno, infatti, la suprema corte dovrà pronunciarsi sull’eccezione di costituzionalità sollevata per un caso analogo dal giudice Alberto Carboni, della stessa sezione del tribunale, il cui presidente è Raffaele Martorelli. Intervenendo sul caso di un trentatreenne accusato di avere sporcato i muri di diversi palazzi privati (da via Pezzotti a via Boifava), Carboni si è infatti imbattuto in un evidente paradosso del nostro ordinamento giuridico. Dopo le modifiche introdotte al reato di danneggiamento dal decreto legislativo numero 7 del 15 gennaio 2016, infatti, chi prende a picconate una parete rischia al massimo una sanzione pecuniaria amministrativa (in pratica, una multa), mentre chi vi traccia sopra scritte facilmente cancellabili rischia da uno a sei mesi di carcere. Il parlamento ha infatti depenalizzato il reato di danneggiamento (articolo 635 del codice penale), ma non quello meno grave di imbrattamento. Nell’ordinanza con cui rimette la valutazione di legittimità costituzionale alla Consulta, il giudice Carboni scrive che "è certamente irragionevole e arbitraria la decisione di sanzionare più severamente le condotte che cagionano un’offesa meno grave (deturpare e imbrattare) rispetto a quelle che pregiudicano il medesimo bene giuridico provocando un nocumento maggiormente significativo (distruggere, disperdere, deteriorare, rendere in tutto o in parte inservibile)". I procedimenti aperti a Milano per imbrattamento nei confronti di giovani accusati di avere scritto sui muri sono decine. Se la corte dovesse pronunciarsi nel senso di equiparare le sanzioni previste dai due articoli del codice penale, molti graffitari a processo in caso di condanna potrebbero cavarsela con una sanzione fra i 100 e gli 8mila euro, salvando la fedina penale. A partire dal trentenne per cui il processo sarebbe dovuto cominciare ieri. Niccolò Vecchioni, l’avvocato che assiste l’imputato, commenta: "La decisione del giudice di rinviare il processo a una data successiva al 17 giugno è condivisibile. Perseguire penalmente l’imbrattamento e non il danneggiamento è una scelta di politica criminale che rischia di porsi in contrasto con i principi della carta fondamentale". Restano in ogni caso penalmente rilevanti - anche dopo il decreto del 15 gennaio 2016 - i danneggiamenti a danno di monumenti. E sono senz’altro reati quegli atti che comportano l’interruzione di un pubblico servizio, come l’imbrattamento di vagoni della metropolitana, che per essere ripuliti devono essere fermati in rimessa. Caso Regeni, la procura chiede all’Egitto i verbali degli interrogatori di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 16 marzo 2017 Soprattutto quelli ad esponenti delle forze dell’ordine e dei servizi che avrebbero avuto un ruolo nella tragica vicenda di Giulio. Chiesti anche eventuali dossier della National Security. "Nell’ambito della collaborazione tra le autorità inquirenti italiane ed egiziane - vi si legge - oggi il procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone ha inviato una nuova rogatoria alla procura generale della Repubblica Araba d’Egitto". Oggetto della richiesta, una serie di verbali degli interrogatori di esponenti delle forze dell’ordine e dei servizi che, secondo chi indaga, avrebbero avuto un ruolo nella tragica vicenda di Giulio. Gli inquirenti avrebbero chiesto anche eventuali dossier della National Security egiziana su Giulio e registrazioni oltre a quella dell’incontro con il rappresentante del sindacato degli ambulanti che è stata diffusa a gennaio. "Nel corso della mattinata - prosegue il comunicato - c’è stato un colloquio telefonico tra i due uffici, nell’ambito del quale il procuratore di Roma ha rappresentato sinteticamente quanto contenuto nella rogatoria, mentre il procuratore Generale Sadek si è impegnato a dare corso in maniera esauriente alle attività richieste nel più breve tempo possibile". Al momento sono cinque i verbali di interrogatorio già in possesso del pm Sergio Colaiocco, altri cinque sono quelli che si intendono acquisire con la rogatoria e tra i quali c’è anche il verbale di Mahamed Abdallah l’ambulante che avrebbe fornito informazioni riservate su Regeni agli stessi servizi segreti. "Qui ho finito di registrare, venitemi a togliere l’apparecchiatura", si sente dire da Abdallah, in coda al filmato in cui discute con Giulio Regeni. Siamo al 6 gennaio 2016. La voce dell’egiziano che telefona a chi gli ha messo addosso la microcamera, rimasta incisa sullo stesso nastro, è l’ulteriore prova che dietro quella ripresa rubata c’era la National Security Agency, organismo che raccoglie polizia e servizi segreti egiziani. Come anche la scelta del luogo dove tenere detenuto Regeni per almeno una settimana, per chi indaga è forte la certezza che porta ad apparati pubblici e in particolare a soggetti che avevano nella loro disponibilità un luogo sicuro, non certo un’abitazione, dove poter procedere con le torture lontano da occhi indiscreti. Secondo quanto si apprende il nuovo incontro tra magistrati italiani ed egiziani che indagano sull’omicidio si terrà prima di Pasqua. Siria. Sei anni dopo niente pace, ora si combatte a ridosso della Giordania di Michele Giorgio Il Manifesto, 16 marzo 2017 Guerra civile. Siria, dopo sei anni di guerra nessuna pace. Nonostante la tregua si combatte a nord e sud dove a prevalere sono gli interessi degli sponsor regionali di governo e opposizioni. In Golan Israele parla di minaccia iraniana ma è l’Isis che avanza. Amman torna da Assad. È difficile prevedere se la nuova carta costituzionale, in discussione ad Astana, si rivelerà la strada giusta per mettere fine alla guerra civile in Siria, giunta al sesto anniversario, che ha fatto centinaia di migliaia di morti e feriti e milioni di rifugiati. I dubbi sono molti. I "ribelli", al Qaeda, l’Isis e anche l’opposizione politica non rinunciano al sogno di abbattere con la forza il regime "apostata" di Bashar Assad con il pretesto di mettere fine alla "dittatura". E il presidente siriano non abbandona l’idea di vincere la guerra e di riportare tutto il Paese sotto il controllo di Damasco. Il quadro sul terreno intanto resta complesso. La tregua, scattata dopo la liberazione di Aleppo Est, resta fragile ed è riuscita solo a ridurre la violenza. Su tutto pesano gli interessi contrapposti di Arabia saudita, Turchia, e Usa da una parte e di Iran e Russia dall’altra. Si combatte ancora in molte aree del Paese e non, come si crede, solo a nord dove si sta giocando la partita della riconquista di Raqqa, la "capitale" dello Stato islamico in Siria. Si spara anche ad Est di Damasco dove le forze governative conquistano terreno ma lentamente e nella Siria orientale da Palmira a Deir az-Zor, fino al confine con l’Iraq. La guerra prosegue anche a sud, però se ne parla poco. Lì il quadro militare è caotico. Le truppe agli ordini di Assad hanno recuperato terreno, specie a ridosso delle Alture del Golan occupate da Israele, e altrettanto hanno fatto i miliziani affiliati all’Isis. Un mese fa l’Esercito Khalid Ibn al Walid - fedele allo Stato islamico e che raggruppa 1500 combattenti di tre gruppi jihadisti (Muthanna, Brigate dei Martiri di Yarmouk e Jaish al-Mujahidin), ha preso il controllo dei villaggi di al Shajara, Jamla, Abidin, Qusayr, Nafaa, Ain Thakar, Tasil, Adwan, Jillen e Sahm, approfittando della battaglia tra i governativi e i qaedisti del Tahrir al-Sham per il controllo della regione di Deraa. Hassan Abu Bakr, portavoce degli insorti della Rivoluzione nel Fronte Sud, ha spiegato che gli affiliati all’Isis si sono impossessati di armi pesanti, di carri armati T-55 e cannoni capaci di colpire a grande distanza. Tutto è avvenuto a qualche chilometro dal confine con la Giordania facendo scattare l’allarme ad Amman. Le armi in possesso dell’Esercito Khalid Ibn al Walid minacciano le città dall’altra parte del confine come Ar-Ramtha e Irbid (la seconda più grande della Giordania), abitata da quasi un milione di persone. All’improvviso è andata in frantumi l’alleanza, volta alla protezione della frontiera giordana, tra il regno hashemita e i gruppi armati (un centinaio) riuniti sotto l’ombrello dell’Esercito libero siriano (Els, la milizia dell’opposizione anti-Assad). Il rischio avvertito dai giordani è che l’Isis possa proclamare un emirato in quelle regioni, quindi sul confine. "I gruppi radicali (dell’Isis) costituiscono una minaccia enorme e potrebbero lanciare missili sulle città giordane e attacchi come quello a Rukban", spiega l’analista Amer al Sabayla in riferimento all’attentato che lo scorso giugno uccise sette soldati giordani sul confine. La minaccia ha indotto re Abdallah ad adottare un approccio diverso, decisamente più pragmatico, nei confronti di Damasco, e a cercare il dialogo con Mosca dove si è recato a gennaio. "Anche perché la Coalizione internazionale (a guida Usa, ndr) non ha una visione oltre i bombardamenti aerei dell’Isis", aggiunge al Sabayla. Per Bashar Assad, ritenuto dai giordani l’attore più affidabile nel caotico contesto siriano, è un’altra vittoria diplomatica. La situazione comunque resta fluida nel sud della Siria dove fa sentire la sua voce anche Israele. Il viaggio del premier Netanyahu a Mosca, qualche giorno fa, è la conferma che Tel Aviv vuole un’intesa con la Russia, il player più forte in questa fase, allo scopo di garantire i suoi interessi sul terreno e sui tavoli dei negoziati. Il principale è quello di limitare - e idealmente escludere - la partecipazione dell’Iran nel processo politico siriano e di impedire che i combattenti sciiti, libanesi e iraniani, alleati di Assad contro i jihadisti, possano schierarsi ridosso del Golan. Un punto sul quale Netanyahu ha battuto molto e prima di lui anche il capo dell’opposizione israeliana Yitzhak Herzog, volato in Russia con qualche giorno di anticipo sul premier. Mosca non è in una posizione semplice, ha spiegato l’analista russo Dmitry Maryasis al portale al Monitor, perché Vladimir Putin "vuole mantenere buone relazioni con l’Iran" e non può fare pressioni su Teheran affinché si ritiri dalla Siria. "Però - ha aggiunto - può ottenere che Hezbollah e altri gruppi sciiti non operino vicino alle linee israeliane". Un favore per il quale Mosca potrebbe richiedere, in cambio, la cooperazione di Israele nel settore del gas. Iran. Ahmadreza Djalali, il ricercatore detenuto che rischia la pena di morte di Edith Driscoll interris.it, 16 marzo 2017 È stato arrestato con l’accusa di spionaggio. Un collega chiede la mobilitazione del mondo scientifico e della Ue. Arriva dall’Italia l’ennesimo appello per ottenere la liberazione di Ahmadreza Djalali, il ricercatore iraniano di 45 anni esperto di Medicina dei disastri e assistenza umanitaria, detenuto nel suo Paese con l’accusa di "spionaggio" e che rischia la pena di morte. A farsi portavoce del dramma vissuto dal collega è Luca Ragazzoni, ricercatore del Crimedim dell’università del Piemonte Orientale che dal 2012 ha lavorato insieme a lui. Per protesta, Djalali ha iniziato uno sciopero della fame (ripreso lo scorso 24 febbraio) e ha dichiarato di aver smesso di assumere anche i liquidi. Sta protestando per la sua detenzione e il rifiuto delle autorità di garantirgli accesso ad un avvocato di sua scelta. Ora Ragazzoni chiede che la comunità scientifica e l’Unione europea si mobilitino per mettere sotto pressione Teheran. "Stiamo cercando - ha spiegato all’Adnkronos - di attivare la comunità scientifica mondiale, di chiamarla a raccolta contro questa detenzione, ad esempio respingendo gli inviti a partecipare a eventi scientifici in Iran", come ha fatto di recente la senatrice a vita e scienziata Elena Cattaneo. Una mobilitazione che si aggiunge all’interessamento al caso da parte della Farnesina e dell’Unione europea, nella persona dell’Alto commissariato per gli affari esteri Federica Mogherini. "Non sappiamo esattamente cosa stiano facendo. Chiediamo di avere rassicurazioni sullo stato di salute di Ahmadreza e conferme ufficiale dell’impegno e dei risultati che stanno ottenendo". Dopo 11 mesi di alti e bassi, la sensazione è che "Di passi avanti concreti non ce ne sono stati. Ahmadreza continua a fare lo sciopero della fame iniziato a fine febbraio e questo dal punto di vista della salute è drammatico". Al collega detenuto nella prigione di Evin, Ragazzoni ha fatto un appello: "Gli chiedo di smettere lo sciopero della fame perché siamo sicuri di salvarlo. Come amici e colleghi stiamo facendo un grandissimo lavoro per riportarlo a casa e deve avere fiducia. Non è solo: ha la famiglia, gli amici e il mondo scientifico dalla sua parte". Il 45enne ricercatore che dopo il lavoro in Italia si è trasferito con la sua famiglia in Svezia era stato invitato ad aprile scorso dall’Università di Teheran per un ciclo di conferenze, ma dal 25 aprile la sua vita prosegue dietro le sbarre "e rischia la pena di morte, se venisse accertato lo spionaggio. Per questo - ha sottolineato Ragazzoni - chiamiamo che il suo caso venga rivisto e che abbia un processo regolare".