Gli spacciatori affollano le carceri e i colletti bianchi restano fuori di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 15 marzo 2017 In cella per reati finanziari solo lo 0,9%: un ventesimo rispetto alla Germania. I numeri del rapporto annuale del Consiglio europeo sulle statistiche giudiziarie. Dove forse è in dubbio l’amata sopravvivenza storica dei santi e dei poeti ma sui pusher non c’è partita: nessuno ne ha tanti in galera quanti noi. Sono il 31% dei detenuti. Peccato che tanta (giusta) severità non venga applicata nei confronti di altre categorie. A partire dai "colletti bianchi" che violano le regole della buona economia. Ne abbiamo in galera un quinto rispetto all’Europa, un ventesimo rispetto alla Germania. Una sproporzione che la dice lunga sulle priorità della nostra giustizia. Lotta al narcotraffico - Capiamoci: se ‘ndrangheta, mafia e camorra dominano larga parte del business continentale (nel solo porto di Gioia Tauro, scrive linkiesta.it, sono stati sequestrati nel 2016 ben 1700 chili di coca: e gli inquirenti pensano si tratti di un decimo di quanto passa) è ovvio che la lotta al narcotraffico deve essere una priorità assoluta. Ovvio. I numeri di "Space I - Prison Populations", il rapporto annuale del Consiglio europeo sulle statistiche giudiziarie, curato da Marcelo F. Aebi, Mélanie M. Tiago e Christine Burkhardt dell’Università di Losanna, mostrano però che su alcuni temi la nostra giustizia, per usare un eufemismo, è distratta. I detenuti - Prima, qualche curiosità. Per cominciare, nel 2015 l’Europa allargata (compresi l’Armenia, l’Azerbaijan, la Russia, la Turchia, la Macedonia e altri ancora) aveva 1.404.398 detenuti. Cioè circa 800 mila in meno dei soli Stati Uniti, dove vive meno di un ventesimo della popolazione mondiale ma un quarto dei carcerati del pianeta. E dove, come ricordava tempo fa il sito web poliziapenitenziaria.it, sono in galera un bianco su 214, un ispanico su 88, un nero su 35. Al punto che, stando a Barack Obama, un bambino nero su nove ha il padre in prigione. Cifre che danno da pensare sull’uso dei due pesi e delle due misure. In Europa - In Europa sono in carcere 115,7 cittadini su 100.000 abitanti, per il 94,8% maschi, ospitati in penitenziari per un terzo (33%) sovraffollati. Trattamenti diversissimi, e non solo per il costo del lavoro degli agenti di custodia (in media uno ogni tre carcerati ) e del personale. Basti dire che per la sorveglianza, il vitto, l’alloggio, le spese varie eccetera eccetera il peso di un detenuto sul bilancio è in media di 52 euro e 36 centesimi al giorno. Ma c’è chi spende moltissimo pagando 354 euro come in Svezia o addirittura quasi 481 come a San Marino (quanto un hotel sei stelle deluxe con trattamento principesco), chi molto (129 euro in Germania, 141 in Italia, 273 in Olanda...) chi poco o pochissimo: 22 euro in Turchia, quasi 20 in Romania, 19 euro in Serbia, poco meno di 10 in Macedonia... Fino al record in Georgia: cinque euro e 66 centesimi. Segno che i custodi non devono essere pagati benissimo ma soprattutto che i pasti ai detenuti non vengono serviti da master chef. Spesa e tasso di suicidi - Eppure, a guardar dentro a questi dati, c’è qualcosa che colpisce ancora di più: la scarsa relazione tra la spesa giornaliera per ogni carcerato e il tasso di suicidi. Che ad esempio resta relativamente basso (4,7 ogni 10.000 detenuti) in Spagna dove la "retta" onnicomprensiva costa allo Stato meno di 60 euro e s’impenna a 11,9 in Svezia dove la "retta" costa sei volte di più: 354. Sia come sia, il tasso di suicidi si conferma spaventoso: uno ogni quattro morti per cause naturali. E una volta su quattro chi si uccide è in attesa di giudizio. I reati - Quanto ai reati, i numeri sono abissalmente differenti da Paese a Paese. I condannati per omicidio o tentato omicidio, ad esempio, sono il 9,2% in Portogallo, il 12,1% in Svizzera, il 13,6% in Irlanda, il 19% in Italia, il 24,2% in Finlandia, il 26,4% in Lituania e addirittura il 39,4% in Albania. Stereotipi più o meno confermati. Ma smentiti su altri fronti. Come quello dei ladri. I Paesi che ne hanno di più in carcere sono nell’ordine la Bulgaria (44,4% della popolazione in cella), l’Austria (31%), la Georgia (29%) e giù giù la Turchia, l’Ungheria, il Liechtenstein. E l’Italia? Nei primi venti non c’è. Perché i nostri vengono presi di rado o perché ce ne sono meno di quanti siano percepiti? Boh... La percezione - Certo la percezione è sbagliata sul fronte degli stranieri. Dicono i sondaggi Ipsos di Nando Pagnoncelli che gli italiani pensano che gli immigrati in Italia siano il 30% (nella realtà tra il 7 e l’8%) e gli islamici il 20%, quando non arrivano al 4%. Lo stesso vale per le carceri. Dove gli immigrati non sono la maggioranza come molti pensano ma il 33%. Percentuale altissima, sia chiaro, rispetto alla quota di popolazione. Ma dovuta anche all’impossibilità per chi non ha una casa di godere di pene alternative e comunque inferiore a quella registrata in altri Paesi: 38% dei detenuti a Cipro, 40% in Belgio, 44% in Catalogna, 53% in Austria, 54% in Grecia, 71% in Svizzera e su su fino alle stratosferiche (e un po’ irreali) percentuali dei Paesi piccolissimi sui quali svetta San Marino: 100% dei reclusi stranieri. Non un sanmarinese. Manco per sbaglio. Da notare la Germania di Angela Merkel: è il Paese che ha assorbito più immigrati di tutti (il doppio dell’Italia) ma nelle carceri è messo meglio di noi. Prova provata che dipende da "come" il problema è gestito. Colletti bianchi - Ancor più umiliante però, lo dicevamo, è lo spread con la Germania sul versante della guerra a chi infrange le norme che regolano l’economia. Per ogni spacciatore in carcere (6.820), a Berlino e dintorni, c’è quasi un "colletto bianco" (5.973, cioè l’11,7% del totale) condannato con sentenza definitiva per reati economici, finanziari, truffe fiscali... Da noi no: nonostante i disastri causati dalla pirateria economica, finanziaria, fiscale, i delinquenti di quel tipo finiscono assai di rado in galera: ne abbiamo 312, pari allo 0,9% dei nostri "ingabbiati". Il 5,2% rispetto alla Germania. Neppure il 3% rispetto agli spacciatori che teniamo in cella. I cattivi maestri che per anni hanno teorizzato che una certa dose di illegalità fa bene all’economia hanno lasciato rovine. Non solo morali. Strasburgo: record italiano di detenuti per droga e in attesa di una sentenza definitiva di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 marzo 2017 Rapporto Space: abbiamo anche la percentuale più alta di persone in attesa di una sentenza definitiva. Al 31 dicembre 2016, secondo il Dap, i ristretti per reati legati agli stupefacenti sono 25.622 su 54.653. Di questi 18.700 sono italiani e 6.922 stranieri. Mentre in Europa la popolazione carceraria è scesa del 6,8%, in alcuni Paesi, tra i quali spicca l’Italia, persiste il problema del sovraffollamento. Ma non solo. Secondo i dati diffusi dal Consiglio d’Europa nel rapporto annuale Space riferito all’anno 2015, l’Italia è fra i paesi europei con la percentuale più alta di detenuti in attesa di una sentenza definitiva. In media il 73% dei detenuti sconta una sentenza definitiva, e il 25,4% sono quelli ancora in attesa di giudizio: i paesi con la quota più alta sono l’Albania (49,2%), la Danimarca (36,3%), l’Italia (34,2%), Paesi Bassi (43,4%) e Svizzera (39,6%). Un problema che però non è distante dalla situazione odierna. L’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, in una recente intervista a Il Tempo ha spiegato che, nonostante la legge sulla custodia cautelare varata nell’aprile del 2015 nacque per limitare gli abusi di carcerazione preventiva, la detenzione in attesa di giudizio è diminuita solo dello 0,04%. Infatti se si confrontano i dati dal momento in cui è stata varatala legge sulla custodia cautelare (16 aprile 2015), si è passati dal 34,91% al 34,87%. Altro importante dato emerso dal rapporto presentato dal Consiglio d’Europa, riguarda il triste primato di detenuti per droga. Dal rapporto si evince che nel 2015, un terzo dei detenuti condannati in via definitiva era in carcere per reati legati alla droga, la quota più alta tra tutti i Paesi europei. Infatti, tra tutti i paesi analizzati, l’Italia è quello in cui la percentuale di condannati per droga è la più elevata, ovvero il 31,1% del totale. Seguono la Georgia (30,8), l’Azerbaijan (28,4), l’Estonia (28,3), Cipro (27,5). La situazione fotografata dal Consiglio d’Europa che rileva come in Italia un terzo dei detenuti condannati in via definitiva è in carcere per droga si aggrava se si osservano i dati dei detenuti con una condanna non definitiva. Al 31 dicembre 2016, secondo i dati del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, i ristretti per reati previsti dal testo unico sugli stupefacenti risultano 25.622 su 54.653 detenuti totali. Di questi 18.700 sono italiani e 6.922 stranieri. Benedetto Della Vedova, sottosegretario agli Esteri e promotore dell’inter-gruppo Cannabis Legale, ai microfoni di Radio Radicale ha dichiarato: "A maggior ragione in un paese che soffre cronicamente di sovraffollamento carcerario, in cui il tema del numero dei detenuti è una questione di legalità degli istituti penitenziari stessi, bisognerebbe interrogarsi su come sia possibile che l’Italia sia in testa alle graduatorie in termini di percentuale di detenuti per reati connessi alla droga, quali siano i tipi di reati e per quali sostanze. In termini di operazioni di polizia oltre diecimila sono legate alla cannabis. È evidente che tra i tanti elementi connessi al fallimento del proibizionismo, c’è anche l’abnorme numero di detenuti per traffico di stupefacenti. Peraltro, a fronte del massimo delle carceri non abbiamo il minimo della diffusione di sostanze stupefacenti: al contrario, c’è un aumento costante del consumo. Questa è una ragione in più per partire dal mercato più vasto (oltre 6 milioni di consumatori, dice l’Istat) quale quello della cannabis e arrivare alla definizione di un quadro di legalità. Sulla stessa linea Riccardo Magi, segretario di Radicali Italiani, e la presidente Antonella Soldo: "Quella delle droghe è questione sociale e non va affrontata col diritto penale. Ad affermare che serva un cambio deciso di strategia ormai non siamo più solo noi radicali, che lo sosteniamo da oltre 40 anni, ma un ampio fronte che comprende anche magistrati e rappresentanti delle forze dell’ordine schierati a favore della legalizzazione della cannabis: dal procuratore nazionale antimafia Roberti, al presidente dell’Anticorruzione Cantone, ai più importanti sindacati di polizia. Quella delle tossicodipendenze è una delle più grandi questioni sociali aperte nel paese e non può più essere affrontata con gli strumenti del diritto penale". I Radicali Italiani concludono con un auspicio: "È ora che il Parlamento ne prenda atto e riavvii il dibattito sulla cannabis legale anche a partire dalle proposte della legge popolare che come Radicali Italiani e Associazione Luca Coscioni abbiamo depositato con le firme di 60.000 cittadini". Il Ministro Orlando: il carcere va cambiato, pene alternative per i tossicodipendenti Adnkronos, 15 marzo 2017 "Il modello del carcere va cambiato: è dispendioso e non produce sicurezza. Dobbiamo puntare a una individualizzazione del trattamento, anziché fornire soluzioni analoghe per situazioni diverse". Ma questo "non è ancora tempo di bilanci, è una fase cruciale: spero che ci sia modo di lavorare alacremente alla delega sulla riforma dell’ordinamento penitenziario contenuta nel ddl sul processo penale che sarà votato domani dal Senato. È una riforma che arriva a 40 anni da quella precedente, pensata per un carcere del tutto differente, che non aveva fatto i conti con la droga o con la società multi-religiosa. Nel carcere si misura la capacità dello Stato di fermarsi, di non superare determinate soglie. Uno sforzo da fare non solo con i detenuti, ma da affermare come idea dello Stato liberale. Non è un caso che le società autoritarie abbiano avuto le carceri peggiori della storia". "Il carcere - ha aggiunto - non porta voti né dà grande popolarità, non offre il sostegno di lobby: non c’è una lobby dei carcerati. Ma è un luogo in cui si misura lo Stato, la cifra con cui lo Stato si pone nei confronti dell’individuo". Lo ha detto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, alla presentazione del libro "Gabbie", volume del laboratorio di scrittura dei detenuti del Don Bosco di Pisa. Tossicodipendenti: pene alternative al carcere "Come governo stiamo lavorando per incentivare l’utilizzo di pene alternative al carcere per i tossicodipendenti, il cui numero è aumentato. Poi c’è da riflettere se per combattere il fenomeno droga il carcere sia la soluzione migliore". Lo ha detto a Santa Maria Capua Vetere il ministro della Giustizia Andrea Orlando, sui dati relativi al sovraffollamento carcerario diffusi a Strasburgo che indicano come l’Italia detenga il record, tra i 47 paesi membri, dei detenuti per reati di droga. Il Comitato StopOpg: "le Rems rischiano di diventare Ospedali Psichiatrici Giudiziari" quotidianosanita.it, 15 marzo 2017 Il Disegno di Legge Giustizia stravolgerebbe le funzioni delle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive, facendole diventare delle sostitute degli ospedali psichiatrici giudiziari, chiusi solo da una ventina di giorni. Per evitare che ciò accada il Comitato Nazionale Stop Opg, si appella ai ministri Lorenzin, Orlando e Finocchiaro, chiedendo la cancellazione del testo dell’articolo 12 comma 1 lettera d) del Disegno di Legge n. 2067 sulla Giustizia, in discussione al Senato in queste ore. Ecco la lettera. "Sono passate meno di tre settimane dalla chiusura degli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari ed ora le Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive, rischiano di prendere il loro posto. Un battaglia durata alcuni anni che, ora, potrebbe essere completamente vanificata. "Una Beffa": così l’ha definita il Comitato Nazionale Stop Opg, chiedendo "la cancellazione del testo dell’articolo 12 comma 1 lettera d) del Disegno di Legge n. 2067 sulla Giustizia, in discussione al Senato in queste ore". Il Comitato ha messo il suo appello nero su bianco, in una lettera indirizzata ai ministri Andrea Orlando, Beatrice Lorenzin e Anna Finocchiaro, rispettivamente della Giustizia, della Salute e per i Rapporti con il Parlamento. Le Rems sono nate con la legge 81/2014 per accogliere tutti coloro ritenuti affetti da infermità mentale al momento della commissione di un reato. In futuro potrebbero trovarsi a dover accogliere "i detenuti per i quali l’infermità di mente sia sopravvenuta durante l’esecuzione della pena, gli imputati sottoposti a misure di sicurezza provvisorie e tutti coloro per i quali occorra accertare le relative condizioni psichiche, qualora le sezioni degli istituti penitenziari alle quali sono destinati non siano idonee, di fatto, a garantire i trattamenti terapeutico-riabilitativi". Tali disposizioni, secondo il Comitato farebbero diventare le Rems come i vecchi Opg "tornando così- si legge nella lettera - alla vecchia normativa sui manicomi giudiziari. Se non si rimedia, saranno inviati nelle strutture regionali, già sature, i detenuti con sopravvenuta infermità mentale e addirittura quelli in osservazione psichiatrica". Per il Comitato Nazionale Stop Opg "occorre che si rafforzino e si qualifichino i programmi di tutela della salute mentale in carcere e che il Dap istituisca senza colpevoli ritardi le sezioni di Osservazione psichiatrica e le previste articolazioni psichiatriche". Per questo StopOpg ha sostenuto l’emendamento 12.122 (sen. De Biasi, Dirindin e altri), che purtroppo non è stato ammesso nell’esame in Commissione. Ora la discussione si sposta in Aula e il Comitato si augura che "il Governo non solo non ponga la fiducia ma favorisca le modifiche necessarie per rimuovere il grave errore". "Ci aspettiamo - conclude la lettera - che il Ministro della Giustizia Orlando e il Ministro della Salute Lorenzin difendano la riforma per il superamento dei manicomi giudiziari". Made in carcere, il lavoro dietro le sbarre di Mara Cinquepalmi Vita, 15 marzo 2017 Laboratori di cucito o alimentari, sport. Sono tante le attività che coinvolgono i detenuti nelle carceri italiane. Una mappa di alcune di queste iniziative. La vita oltre le sbarre ha i colori degli abiti cuciti dalle detenute di Milano, Bologna, Lecce o l’odore del caffè torrefatto a Rebibbia. Lavorare in carcere è un’opportunità che mette alla prova detenuti, istituzioni e operatori. Un’opportunità come quella che Luciana Delle Donne ha voluto dare alle detenute di Lecce con il progetto Made in carcere. Un passato nel mondo della finanza, poi il ritorno nel suo Salento e dal 2008 "grazie alla collaborazione della direttrice del carcere di Lecce Rita Russo - spiega Delle Donne a Vita - abbiamo avviato i laboratori di cucito". Oggi sono circa quindici le donne impegnate a cucire i prodotti di Made in carcere, ma soprattutto "le donne coinvolte - continua Delle Donne - nel giro di due tre mesi imparano un mestiere, la responsabilità delle consegne, i vantaggi che vengono fuori da un modello di lavoro semplice". Le sarte del progetto realizzano borse e gadget con tessuti che la moda scarta: "Noi - racconta ancora l’ideatrice di Made in carcere - raccogliamo e diamo una seconda vita a tessuti che altrimenti andrebbero al macero". Ora la sfida è "formare altre risorse per costruire competenze che non si limitino solo alla sartoria, ma anche organizzative, come se dovessero loro stesse imprenditrici". Made in carcere è uno dei numerosi progetti di cucito che, da Nord a Sud, coinvolgono le detenute. Come quello ormai storico della Sartoria San Vittore a Milano che ripara anche le toghe dei giudici. Venticinque detenute cuciono nei tre laboratori sartoriali, due dei quali a San Vittore e a Bollate. A Venezia il Banco Lotto n.10 è l’unico punto vendita dove acquistare gli abiti realizzati nel carcere femminile della Giudecca. Qui sette detenute, affiancate da una sarta e da una cartamodellista, imparano a cucire e creano vestiti, giacche, borse e accessori di moda. Prende il nome dalla via dove si trova il carcere bolognese il laboratorio sartoriale Gomito a Gomito. Attivo dal 2010, il laboratorio coinvolge detenute, che hanno seguito un percorso di formazione, di acquisire una nuova competenza professionale. La parola d’ordine del laboratorio bolognese è riciclare: le sarte recuperano materiali di scarto e danno ad essi una seconda vita. Dalle sartorie alle cucine. Tra le attività che vedono impegnati i detenuti molte si svolgono tra i fornelli. L’iniziativa più recente è nata sempre alla Dozza di Bologna dove, quattro detenuti sono stati assunti dall’azienda salentina "Liberiamo i sapori", che ha aperto il primo caseificio all’interno del carcere di Bologna, dentro una ex tipografia. Rimaniamo in cucina, ma questa volta per caffè, biscotti e altre delizie che nascono dietro le sbarre tra Roma, Padova e Napoli, solo per citare alcune esperienze. Il Caffè Galeotto è prodotto all’interno dell’istituto penitenziario Rebibbia Nuovo Complesso, nel carcere di Padova la pasticceria Giotto produce ogni giorno dal 2005 panettoni, colombe, veneziane, biscotti. I ragazzi dell’Istituto per minori Nisida a Napoli realizzano il "ciortino", un biscotto portafortuna (non a caso è a forma di cornetto scaramantico e "ciorta" in napoletano vuol dire proprio sorte). I prodotti "made in carcere" non sono destinati alla grande distribuzione, ma il Ministero della Giustizia offre una vetrina on line per conoscere le creazioni dei detenuti e dove acquistarli. Dietro le sbarre, però, nascono anche progetti educativi che fanno leva sui valori dello sport. Come quello che la regista Enza Negroni ha documentato nel film La prima meta, che sarà presentato giovedì 16 marzo allo Sguardi Altrove Film Festival in corso a Milano fino a domenica 19. Protagonisti della pellicola sono i 40 detenuti di nazionalità diverse, italiani e stranieri con pene da 4 anni all’ergastolo, della Giallo Dozza, la squadra di rugby nata dal progetto educativo "Tornare in campo" della Casa Circondariale della Dozza di Bologna, coordinato da tecnici e allenatori del Rugby Bologna 1928. "Non avevo mai varcato la soglia della cittadella della Dozza - racconta a Vita Enza Negroni - un vero e proprio microcosmo, inserito nella città di Bologna; vista da fuori l’impressione è che non accada nulla e il tempo sia sospeso. Immergermi, in questa nuova dimensione, mi ha portato a conoscere e poter raccontare con la macchina da presa in mano a Roberto Cimatti, l’attività sportiva del rugby, con i suoi valori, come la lealtà, il rispetto, la generosità, il sacrificio e l’altruismo messi in campo, dai detenuti". Nessuno, prima di entrare nella squadra, aveva mai giocato a rugby. Non si conoscevano, ma hanno imparato a stare insieme in un’unica sezione del carcere, la 1D. Dalla stagione sportiva 2014-2015, la squadra disputa il campionato nazionale F.I.R. di Serie C2. "Insieme a loro - continua Negroni - ho imparato le regole del rugby, mettendomi in gioco in una vera palestra di vita, con un progetto educativo ed innovativo, in una condizione di emarginazione. Il rapporto instaurato con l’allenatore Max e i giocatori, è cresciuto con il tempo, alcuni di loro sono usciti, altri sono ancora all’interno, il mio pensiero va a loro che ogni sabato si mettono in campo per vincere una partita e avere quel riscatto che fa crescere in loro il senso di dignità". Il primo social impact bond per le carceri italiane di Alessia Maccaferri Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2017 Lo Stato remunera gli investitori sulla base dei risultati nella riduzione della recidiva e nel reinserimento sociale. Sette detenuti su dieci prima o poi tornano in carcere. Lo sanno bene le migliaia di operatori e volontari che vedono quanto valore abbia invece il reinserimento lavorativo: laddove è efficace, fa scendere la recidiva dal 70% al 10%, talvolta meno. A vantaggio delle persone pregiudicate e a vantaggio del sovraffollato sistema carcerario. Partirà proprio dal reinserimento sociale dei detenuti la prima esperienza italiana di social impact bond (Sib) che segue quella britannica del carcere di Peterborough (2010) e quella americana di Rikers Island. "Il social impact bond è prima di tutto uno strumento che serve a testare, sperimentare e innovare i modelli di intervento nel welfare, attraverso la compartecipazione al rischio di pubblico e privato" spiega Federico Mento, direttore generale di Human Foundation che ha curato lo studio di fattibilità del progetto (che sarà presentato a Roma il 15 marzo) assieme alla Fondazione Sviluppo e Crescita Crt. Un intervento di innovazione sociale che, in questo caso, ha come obiettivo "l’autonomia della persona attraverso un’attività individualizzata. Ciascuna biografia è diversa - spiega Mento - Per cui bisogna immaginare dei percorsi che rispondano ai diversi aspetti della persona: il lavoro, le relazioni con la famiglia, il bisogno abitativo. Tutte traiettorie che concorrono al reinserimento sociale". Ma come funziona questo modello? In generale, ci sono diversi attori coinvolti che sono l’amministrazione pubblica, i beneficiari, chi eroga il servizio (in genere cooperative), gli investitori sociali, l’intermediario che emette il bond e raccoglie il capitale e un valutatore esterno. In genere gli investitori sociali sono vicini alla venture filantropy, quindi investono con l’aspettativa di un rendimento minimo dell’investimento. Ex ante il modello prevede un target di successo con un massimale di remunerazione e diversi target intermedi. Una volta che il progetto sarà giunto al termine un soggetto valutatore terzo certificherà il raggiungimento degli obiettivi. In base all’esito lo Stato a fronte del risparmio conseguito (si calcola che un detenuto costi circa 130 euro al giorno) remunera gli investitori. Lo studio di fattibilità - che sarà presentato con interventi del ministro della Giustizia Andrea Orlando e della presidente di Human Foundation Giovanna Melandri - mette in luce le opportunità e gli ostacoli del progetto. L’Università di Perugia ha analizzato le buone pratiche nel reinserimento lavorativo sia all’interno del carcere che fuori. Il Politecnico di Milano ha svolto la fotografia del carcere Lorusso Cutugno di Torino. Infine, dopo aver dialogato anche con gli operatori del carcere e le cooperative si è giunti a un modello di intervento con tanto di metriche e indicatori necessari per comprendere il cambiamento. Infine sono stati presi in esami gli aspetti giuridici dell’operazione affidati a Kpmg. "Più in generale dovremmo ragionare su schemi pay for results semplici, perché i Sib nella forma originale scontano ancora grandi difficoltà applicative - spiega Mario Calderini, docente di social innovation al Politecnico di Milano - Ci sono due precondizioni per il successo dei Sib. Innanzitutto lo stato deve adeguare gli strumenti di contabilità pubblica che tengano conto della scommessa dei Sib sui risparmi futuri. In secondo luogo, dovremmo fare un’azione di capacity building sulle imprese sociali, senza che queste perdano i loro valori costitutivi. Un conto è ragionare a progetto con le risorse statali, un conto è ragionare con esigui capitali di rischio di investitori privati". Stretta alle intercettazioni e pene più alte per i furti. La riforma è a una svolta di Dino Martirano Corriere della Sera, 15 marzo 2017 Oggi con la fiducia passaggio decisivo al Senato. La legge delega, firmata Orlando, comprende l’inasprimento delle pene minime per furti, rapine estorsioni e voto di scambio. Il governo ha chiesto il voto di fiducia sulla riforma della giustizia penale che verrà votata oggi al Senato. La legge delega, firmata dal Guardasigilli Andrea Orlando, comprende snodi sensibili: l’inasprimento delle pene minime per furti, rapine estorsioni e voto di scambio, per rendere il carcere più certo. Il testo, poi, prevede il giro di vite sulla pubblicazione delle intercettazioni non penalmente rilevanti (con riduzione del 50% del budget per le Procure); i tempi massimi concessi alle Procure per esercitare l’azione penale (o per chiedere l’archiviazione); il nuovo ordinamento penitenziario; i tempi di prescrizione dei reati più lunghi (3 anni) in caso di condanna in primo grado e in appello. Se il Senato approverà il ddl, sarà necessaria una terza lettura alla Camera prima che scattino i tre mesi (erano 12) ora concessi al governo per varare i decreti attuativi: le prime misure, dunque, verrebbero applicate non prima di agosto. Il provvedimento, in grande ritardo dopo gli stop imposti dal governo Renzi, è stato indicato come una priorità dal premier Paolo Gentiloni. E anche il Guardasigilli Orlando sta per portare a casa il passaggio parlamentare più difficile. Aumenta la pena minima per i furti in abitazione, che passa dai 3 ai 6 anni, per il furto aggravato (da 2 a 6 anni), per la rapina semplice e per quella aggravata (da 4 a 10 anni) e per l’estorsione aggravata (da 6 a 7 anni). Sembrano piccoli aggiustamenti ma, ritoccando anche di poco le pene minime, ora il giudice sarà costretto a partire da una base più solida e gli avvocati avranno minori possibilità di giocarsi le attenuanti generiche: "In una parola sola - ricorda Donatella Ferranti (Pd), presidente della commissione Giustizia della Camera - le pene per i reati contro il patrimonio, e non solo, saranno più certe". Pene aumentate (da 4-10 anni a 6-12 anni) anche per il voto di scambio politico mafioso mentre per il reato di corruzione (pena massima portata da 6 a 1o anni) era intervenuto un precedente provvedimento del governo Renzi. Il governo predisporrà le norme per evitare la pubblicazione delle intercettazioni irrilevanti ai fini dell’indagine o riguardanti persone estranee all’inchiesta. Non cambiano i presupposti investigativi per intercettare gli autori (o presunti tali) dei reati più gravi. Non sono previste pene aggiuntive per i giornalisti. Il governo ha voluto il taglio del 50% del budget per le intercettazioni, assicurando che, grazie alle tecnologie digitali, non diminuirà la quantità degli ascolti. Sarà punito fino a 4 anni chi diffonde registrazioni di conversazioni tra privati captate fraudolentemente al solo fine di infangare la reputazione. La punibilità è esclusa quando le registrazioni costituiscono prova in un processo o sono utilizzate per il diritto di difesa o per l’esercizio del diritto di cronaca. Nella delega al governo - nonostante l’allungamento dei tempi di prescrizione dei reati in caso di condanna in I e II grado - c’è una norma che ha fatto insorgere l’Associazione nazionale magistrati: quella che concede al massimo 3 mesi alle Procure (prorogabili di altri 3) per chiedere il rinvio a giudizio dell’indagato, o il suo proscioglimento, al termine delle indagini preliminari. In altre parole, esauriti i termini di legge, i pm non potranno più tenere a "bagnomaria" gli indagati per un tempo illimitato. Se il limite viene superato dal pm, scatta l’avocazione da parte del procuratore generale (per mafia e terrorismo il tempi concesso è di 12 mesi). Contro questa novità, l’Anm è insorta: "Si tratta di norme irrazionali, destinate a creare un pericoloso imbuto negli uffici giudiziari, che poteranno le Procure al collasso". In soli 3 mesi la riforma delle intercettazioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2017 Si vota questa mattina la fiducia sul maxiemendamento sul processo penale. La decisione del Governo è stata annunciata dal ministro dei Rapporti con il Parlamento Anna Finocchiaro e fa pensare a una giornata di fuoco a Palazzo Madama perché al voto di fiducia sul provvedimento ne seguirà un altro sulla mozione di sfiducia presentata nei confronti del ministro per lo Sport Luca Lotti per la vicenda Consip. Intanto, tra le modifiche più significative dell’ultima ora al testo del disegno di legge delega, c’è l’accorciamento del tempo a disposizione del ministero della Giustizia per la revisione della disciplina delle intercettazioni da 12 a tre mesi. E, a ulteriore conferma della volontà del ministro Andrea Orlando di accorciare i tempi, è già in vista una commissione ministeriale per la redazione del decreto delegato con la partecipazione dei capi delle procure che hanno provveduto a disposizioni di autodisciplina. Ma il disegno di legge, che dovrà tornare alla Camera per il via libera definitivo, contiene anche altri interventi importanti. Primo tra tutti quello sulla prescrizione subito operativo, il cui perno è costituito dalla sentenza di condanna di primo grado che, spiega il ministero "affermando la responsabilità dell’imputato, non può che essere assolutamente incompatibile con l’ulteriore decorso del termine utile all’oblio collettivo rispetto al fatto criminoso commesso". Non si toccano però le regole della legge ex Cirielli sui criteri per il decorso dei termini, con una prescrizione di norma pari al massimo della pena prevista per il reato; si interviene piuttosto per introdurre specifiche parentesi di sospensione (di 18 mesi ciascuna per ciascun grado di impugnazione: Appello e Cassazione) per dare ai giudizi di impugnazione un periodo di tempo congruo per il loro svolgimento. Il periodo di sospensione torna però a correre la prescrizione nel caso in cui la sentenza di condanna sia riformata o annullata (o sia annullata la sua conferma in appello), perché a quel punto viene meno il presupposto che giustifica la sospensione, e cioè, il verdetto di condanna. Il disegno di legge poi, anche qui con effetto immediato, inasprisce le sanzioni per i reati di furto in domicilio e rapina, oltre che il reato di scambio elettorale politico-mafioso. Per il furto in abitazione e di scippo si innalza il minimo della pena detentiva dall’attuale anno a tre anni e si eleva anche la pena pecuniaria. Per il reato di rapina si innalzano i limiti sia della pena detentiva, dagli attuali tre a quattro anni nel minimo, sia di quella pecuniaria. Si inasprisce il quadro sanzionatorio relativo alle condotte aggravate. Per quanto riguarda il voto di scambio, già nel corso della attuale legislatura, la legge 62 del 2014 è intervenuta sia sul fronte della condotta incriminata, dilatandola sensibilmente, sia su quello della pena, riducendola. Il disegno di legge interviene nuovamente sulla cornice edittale, sanzionando tale reato con la pena della reclusione da sei a 12 anni. Resta confermata anche nel maxiemendamento la norma assai contestata, ancora la settimana scorsa, da parte dell’Anm (mentre le Camere penali saranno in sciopero per protestare contro la decisione della fiducia tutta la prossima settimana), sull’obbligo per il Pm di esercitare l’azione penale o richiedere l’archiviazione entro tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini preliminari. In caso di inerzia, scatterà l’avocazione da parte della procura generale. Tolleranza zero. Le prove generali e i confini della legge di Paolo Graldi Il Messaggero, 15 marzo 2017 Tira aria di guerriglia. È questa l’estrema sintesi di una preoccupazione del Viminale. Una preoccupazione disegnata sulla base di elementi ricorrenti nel modo di agire di gruppi estremisti. Il timore è che i fatti di Napoli di sabato scorso, collegati a una "tradizione" di assalti programmati (piazza San Giovanni e altri) da parte di organizzazioni oltranziste possano ripetersi in occasione di eventi di carattere internazionale, come il sessantesimo anniversario dei Patti di Roma, previsto per il 25 marzo, fra due sabati, nella Capitale. E si guarda anche oltre, allungando lo sguardo al G7 di Taormina, programmato per luglio prossimo. In questo clima niente affatto rassicurante s’iscrive il ribollire di situazioni non ancora oltre il limite di guardia, come i tafferugli di ieri mattina alla Sapienza, intorno a un convegno con la presenza del ministro della Università, e nelle quali si rintracciano elementi di "prove generali" di assalti e di gravi trasgressioni all’ordine pubblico. La sfida aperta, organizzata, programmata alle forze dell’ordine rappresenta un momento sul quale porre la massima attenzione, proprio per far tesoro di tante passate trascuratezze, che sono montate nel tempo divenendo guerriglia aperta. Ci sono segnali, come nelle malattie, che sono annunciati da sintomi anche minori che sarebbe sbagliato trascurare. In più occasioni, coni più diversi pretesti, e Napoli non è che l’ultima fiammata, si è assistito a manifestazioni regolarmente autorizzate che sono degenerate in scontri violenti e anche violentissimi per il comparire di piccole ma aggressive falangi di scalmanati che si muovono rispettando il copione della guerriglia urbana, dell’assalto ai corpi dell’ordine pubblico, ma anche paralizzando qualsiasi attività, prendendo in ostaggio interi quartieri, pezzi di città prigionieri nella deflagrante legge delle molotov. Roma ha vissuto e pagato sulla propria pelle giornate pesantissime, si è ritrovata nel segno di una accoglienza millenaria, preda e vittima di estremismi che ne hanno offeso e ferito l’immagine e il cuore. Le avvisaglie di un ritorno a giorni bui che gli studi del Viminale stanno elaborando in segretezza ma con realismo vanno presi sul serio, se non altro per scongiurare che siano i bilanci dei disastri della violenza a stabilire l’entità dei danni. Nelle prossime occasioni di rango internazionale si deve dimostrare, anche sul fonte della sicurezza, l’affidabilità del Paese alla quale tutti, nessuno escluso, deve contribuire. Gli Anni di Piombo sono lontani, tra due giorni ricordiamo i 39 anni dal rapimento di Aldo Moro e quella tremenda stagione: ne siamo usciti come Paese vincitori e oggi, perfino un paragone con la temperie politica di quegli anni, appare ed è lontano e irripetibile. Ma niente può darsi per scontato, per sempre. Ci sono virus della violenza che si nutrono di tutto, dalla crisi economica alla voglia di ribellione come farmaco per la soluzione di tutti i mali. Ecco che prevenire è meglio che curare: attenzione ai segnali che portano sul nostro cielo le nubi nere della violenza e guai a far sentire a chi pensa male che ogni gesto sarà tollerato, osservato ma non punito. Il ministro dell’Interno Marco Minniti, su questo punto, è stato chiaro e c’è da prenderlo in parola. La risposta alla violenza di piazza sarà fermissima, a tolleranza zero. La speranza, appena venata da ragionevole scetticismo, è che l’avvertimento non serva altro che a prevenire, perché non ci sarà bisogno di spegnere i fuochi. Voce alla piazza, se vuole farsi sentire, ma dentro il confine della legge. Che quella è invalicabile per ciascuno, e per tutti. La Camera vota sull’arresto dei parcheggiatori abusivi. Daspo per mendicanti e prostitute di Giulia Merlo Il Dubbio, 15 marzo 2017 L’idea dell’on. Naccarato (Pd) è che così si combatte la criminalità. Caccia senza quartiere ai parcheggiatori abusivi. C’è anche questo in uno degli emendamenti al decreto sicurezza urbana, in discussione ieri alla Camera. La proposta, presentata dal parlamentare del Pd Alessandro Naccarato, prevede di rendere perseguibile penalmente l’attività dei parcheggiatori abusivi, con una pena che va da uno a tre anni in caso di reiterazione del reato. Nel caso di parcheggiatori sorpresi per la prima volta, invece, scatta la "sanzione amministrativa da 771 euro ad euro 3.101". In ogni caso, è prevista la sanzione accessoria della confisca delle somme percepite. L’esame degli emendamenti al testo base, il cosiddetto "decreto Minniti", durerà almeno un paio di giorni, ma già si sono levate le prime critiche di Sinistra Italiana: "Puro marketing elettorale". Caccia ai parcheggiatori abusivi. C’è anche questo in uno degli emendamenti al decreto sicurezza urbana in discussione ieri alla Camera: la proposta, che trasforma l’attività dei parcheggiatori abusivi in un reato punito col carcere da uno a tre anni, è stata depositata dal parlamentare del Pd, Alessandro Naccarato ma era già stata sollecitata dal presidente dell’Anci, Antonio De Caro. La modifica, che è stata presentata in Aula, supera per afflittività l’emendamento già approvato in Commissione che prevedeva la pena del Daspo: i parcheggiatori abusivi sorpresi a farlo per la prima volta sono puniti "con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 771 ad euro 3.101. Se nell’attività sono impiegati minori, o nei casi di reiterazione, la sanzione amministrativa pecuniaria è aumentata del doppio". Se il parcheggiatore abusivo viene colto nuovamente in questa sua attività scatta "la reclusione da uno a tre anni". In ogni caso si applica la sanzione accessoria della confisca delle somme percepite. Il testo base di cui è in corso l’approvazione alla Camera è il cosiddetto decreto Minniti: 18 articoli, in cui si rafforzano i poteri di ordinanza dei sindaci, aumentano i servizi di controllo sul territorio, si introduce l’obbligo per i vandali di ripristinare i luoghi danneggiati e la possibilità di imporre il "Daspo urbano", ovvero il divieto di frequentare determinate aree ai soggetti condannati per reati di particolare allarme sociale, come lo spaccio. Non solo, il Daspo per "accattoni", prostitute e alcolisti potrà scattare a prescindere da eventuali condanne penali, in seguito ad una specifica ordinanza del primo cittadino, competente ad individuare aree del centro storico di "particolare pregio e interesse turistico" da tutelare anche con la messa al bando degli indesiderati. Infine, arriva anche la previsione di nuove misure per prevenire le occupazioni arbitrare degli immobili da parte dei prefetti. Norme severissime, seppur di carattere amministrativo e il risultato di precise richieste dell’Anci. "Questi strumenti rafforzano il potere dei sindaci e difendono il decoro delle città", aveva spiegato, dopo il varo del Consiglio dei Ministri, il ministro dell’Interno, Marco Minniti. Ora, L’Aula approverà ulteriori emendamenti al testo, che spaziano dall’equo indennizzo per la polizia locale all’estensione del Daspo per gli spacciatori di stupefacenti anche ai luoghi adiacenti alle scuole e alle università. Modifiche anche alle spese degli enti locali: la commissione Bilancio a Montecitorio ha reso parere favorevole su un emendamento che prevede una spesa per i comuni di 7 milioni di euro nel 2017 e di 15 ogni anno nel 2018 e 2019 per installare sistemi di videosorveglianza. Vista la mole di modifiche presentate, è probabile che l’esame non si concluda prima della prossima settimana. Il decreto ha sollevato aspre critiche, soprattutto da parte di Sinistra Italiana: "Il decreto sicurezza urbana e contrasto all’immigrazione (in discussione al Senato ndr) vanno nella stessa direzione: un approccio sicuritario in cui si tenta di rincorrere la Lega Nord per mero marketing elettorale", è il duro commento dei capogruppo, Loredana De Petris e Giulio Marcon, durante la conferenza stampa convocata insieme a Pippo Civati, di Possibile. "Un approccio reazionario a temi come povertà e immigrazione che introducono elementi di imbarbarimento e di incostituzionalità", ha sottolineato Marcon Legittima difesa, così è cambiato il vento di Nino Materi Il Giornale, 15 marzo 2017 Archiviata l’indagine sull’orefice che nel 2015 uccise un ladro. E non è più un caso isolato. Nella giurisprudenza, ma anche nella sensibilità sociale dell’opinione pubblica, c’è una data-chiave che sancisce un cambio di rotta rispetto alle storie processuali e umane di chi ha ucciso un malvivente reagendo a un furto o una rapina. Questa data è il 13 novembre 2015: giorno in cui il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, concesse la grazia ad Antonio Monella, che era in carcere a seguito di una condanna definitiva a sei anni per omicidio volontario. L’uomo era finito dietro le sbarre dopo aver ucciso un topo d’auto che gli stava rubando la macchina sotto casa. Monella, 60 anni, di Arzago d’Adda (Bergamo) era stato ritenuto colpevole in tutti e tre ì gradì di giudizio, ma i suoi processi avevano dato il via a un dibatto sull’esigenza di ampliare i limiti della legittima difesa. Oggi come allora, due i fronti contrapposti: quello che ritiene giusto difendersi autonomamente con le armi, e quello contrario ai giustizieri fa-da-te. Il partito dei "pistoleri" sostiene che, in caso di necessità, è legittimo sparare per difendere sé, la propria famiglia e i propri beni; il partito "garantista" replica che mettere mano alle armi non è compito dei cittadini, ma solo delle forze dell’ordine. Un braccio di ferro che prosegue tutt’ora, pur registrando una lieve oscillazione a favore di chi non se la sente di aspettare, a braccia conserte, l’arrivo di polizia e carabinieri, magari quando ormai i banditi sono già belli e scappati. Ma ora anche nelle aule di giustizia sembra che il vento stia cambiando, con collegi giudicanti propensi a valutare con maggiore "tolleranza" le reazioni violente di chi, nella propria casa, si è trovato faccia a faccia con criminali decisi a tutto per portare via il bottino. Proscioglimenti e archivi azioni sono così diventati i nuovi indirizzi giurisprudenziali per dipanare la matassa degli ultimi casi dei "giustizieri" finiti in prima pagina. L’era "post-Monella" è proseguita fino a oggi: di due giorni fa, ad esempio, l’assoluzione in appello di Franco Birolo, il tabaccaio di Padova che nella notte del 26 aprile 2012 uccise un ladro moldavo che si era introdotto nel suo locale. Birolo in primo grado era stato condannato a 2 anni e 8 mesi di reclusione e al risarcire con 325 mila euro la famiglia del bandito ammazzato. Archiviazione disposta pure nei confronti del benzinaio vicentino Pietro Staccino che il 3 febbraio 2015 freddò a fucilate uno dei malviventi che avevano assaltato l’oreficeria vicina alla sua pompa di benzina. Stesso iter giudiziario per Rodolfo Corazzo, l’orefice milanese che il 24 novembre 2015 uccise un rapinatore che faceva parte di una gang di albanesi che avevano preso d’assalto la sua villetta a Rodano, minacciando di uccidere la moglie e la figlia di 10 anni. "Fu legittima difesa", la sentenza del giudice. Scarcerato dal gip anche il 64enne Bruno Poeti, ex poliziotto accusato di tentato omicidio per aver fatto fuoco, lo scorso febbraio, contro un rumeno che si era introdotto nel suo podere. Chiesta l’archiviazione anche per Francesco Sicignano il pensionato 66enne di Vaprio D’Adda che nel 2015 uccise un ladro albanese, entrato a casa sua per derubarlo. L’ultimo caso è quello che riguarda il ristoratore di Lodi, Mario Cattaneo, ora nella bufera per aver ucciso un ladro rumeno: "Il colpo di fucile è partito durante la colluttazione, non volevo ammazzarlo. Avevo paura che facesse del male ai miei nipotini", la sua versione. Il giudice crederà anche a lui? "La legge è giusta. Difendersi sapendo che la vita vale più del denaro" di Andrea Priante Corriere del Veneto, 15 marzo 2017 Intervista ad Antonino Condorelli, procuratore generale presso la Corte d’appello di Venezia. "È una questione di civiltà: la violenza deve sempre rappresentare l’extrema ratio. E di certo un proiettile non può essere la risposta giusta per punire un ladruncolo". E allora quando sparare è legittima difesa? "Quando la nostra incolumità è messa seriamente in pericolo. Solo in questo caso". Antonino Condorelli è procuratore generale presso la Corte d’appello di Venezia. Con lui, il sostituto Paolo Luca si è confrontato in vista del processo di secondo grado che lunedì ha portato all’assoluzione di Franco Birolo, finito sotto accusa per aver ucciso un bandito la notte del 25 aprile 2012. "È stato un caso molto interessante - ammette Condorelli - perché, a seconda di come si ricostruiva la dinamica della sparatoria, si profilavano tre scenari completamente diversi eppure tutti plausibili: che Birolo avesse agito per legittima difesa o che, al contrario, avesse aperto il fuoco su un uomo inerme, che in realtà si stava arrendendo". E il terzo scenario? "È quello che, credo, abbia spinto il giudice ad assolvere il tabaccaio: la legittima difesa "putativa". In pratica, quando la vittima del criminale agisce nella convinzione, sbagliata, che la propria incolumità sia in pericolo. Birolo non avrebbe dovuto sparare perché il bandito non voleva aggredirlo ma il suo è stato un errore di valutazione giustificabile, considerate le condizioni in cui si trovava ad agire. Era certo che la sua vita e quella dei suoi familiari fossero in pericolo e c’erano diversi fattori che hanno contribuito a trarlo in inganno. In un caso del genere, la condotta non è sanzionabile". Come si è arrivati a questa ricostruzione? "Non è possibile avere la certezza di come siano andate realmente le cose quella notte. Comunque trovo vergognose le minacce ricevute dal giudice che, in primo grado, condannò Birolo. Quel magistrato agì correttamente, e la sua valutazione può essere criticata e non condivisa ma nel rispetto del suo ruolo e della sua piena legittimazione". Ma allora perché Birolo, in Appello, è stato assolto? "Attendiamo il deposito delle motivazioni ma ritengo che, in assenza di elementi certi, si sia scelto di non punire chi ha sparato". Diversi fronti, a cominciare dalla Lega Nord, spingono per una "difesa sempre legittima". Cosa ne pensa? "Occorre una proporzione tra il torto che subiamo e le modalità con cui decidiamo di reagire. Se una persona tenta di rubare una cosa è giusto cercare di fermarla ed eventualmente punirla, ma non certo uccidendola. Una società civile ha dei valori, e il rispetto della vita umana viene prima di ogni altro. Qualcuno vorrebbe confondere il diritto alla "difesa", che è un principio sacrosanto, con quello all’"offesa", che invece va ripudiata. All’interno delle nostre abitazioni non siamo dei sovrani con libertà di vita e di morte su chiunque varchi la porta. Difendersi è giusto anche con i mezzi più estremi ma purché vi sia un pericolo attuale e concreto di aggressione. Altrimenti sarebbe il Far West". Quindi secondo lei la legge attuale non va cambiata? "La normativa deriva da una riforma che, nel 2006, fu oggetto di fortissime critiche perché si ritenne che "dilatasse" eccessivamente i limiti della legittima difesa. A riportare un po’ di equilibrio è stata l’interpretazione che i giudici hanno dato alla Legge. A mio avviso si è raggiunto un giusto compromesso, che tiene conto del diritto a difendere se stessi e i propri beni senza per questo infrangere il rispetto per la vita degli altri, che va sempre garantito a tutti - fino a quando è compatibile con la tutela della propria incolumità - compresi coloro che vivono nell’illegalità". Birolo, Stacchio e, pochi giorni fa, Mario Cattaneo, l’oste di Lodi che ha ucciso un malvivente. Spesso, sparare significa dover fare i conti con un calvario giudiziario. "È vero. Dobbiamo garantire la massima priorità a questo genere di processi: la legittima difesa va accertata nell’arco di pochi mesi". Ma l’impressione è che il desiderio di "farsi giustizia" cresca di pari passo con la sensazione di insicurezza... "Complice il drammatico numero delle prescrizioni, purtroppo è passato il messaggio che nel nostro Paese viga una sorta di impunità per i criminali. E questo porta inevitabilmente a un aumento di alcuni fenomeni criminali". Ma se i malviventi non vengono puniti e ai cittadini è consentito sparare solo in casi estremi, qual è la soluzione? "Occorre potenziare l’attività preventiva svolta dalle forze di polizia, aumentando la dotazione di uomini e mezzi. Contemporaneamente è necessario fornire ai tribunali le risorse necessarie a garantire l’effettività delle pene. Chi delinque deve sapere che verrà sottoposto alle giuste sanzioni di legge". Carofiglio: "un diritto dei magistrati fare politica, ma servono dei paletti d’ingresso" di Liana Milella La Repubblica, 15 marzo 2017 Parla l’ex parlamentare mentre tiene banco il caso Emiliano: "Mi ero iscritto al Pd, ma ho restituito la tessera dopo i rilievi della Corte". "Il vero problema non è il rientro del magistrato al suo lavoro dopo un mandato elettivo, ma il suo ingresso in politica magari dopo un’inchiesta importante". Dice così Gianrico Carofiglio, scrittore di romanzi con un passato da pm. Candidato dal Pd al Senato quando già era consulente della commissione Antimafia, Carofiglio ha lasciato la toga dopo l’esperienza parlamentare. Il caso Emiliano riapre la questione dei magistrati in politica. La Camera sta per votare un ddl. Lei come la vede? "Lo dice un progetto di legge che presentai con Francesco Sanna, credo più avanzato di quello in discussione oggi. L’idea era di tenere insieme il diritto dei magistrati a essere cittadini come gli altri, e la necessità che l’immagine di imparzialità della magistratura e dei singoli giudici non venga appannata da un eventuale impegno in politica. Ma la proposta non fu neppure messa in calendario". Emiliano, il caso più caldo del momento. Che ne pensa? "Non desidero parlare del suo caso specifico. Posso però chiarire le coordinate normative dell’argomento. Nell’ordinamento giudiziario c’è una norma che vieta ai magistrati di essere iscritti ai partiti politici o comunque di partecipare in modo attivo alla loro vita. Anni fa sorse la questione se il divieto riguardasse anche i magistrati in aspettativa per un mandato politico nazionale o locale". Certo, il noto caso di Luigi Bobbio, ex pm che aveva assunto un ruolo in An. "Ci fu un’azione disciplinare e il Csm sollevò questione di legittimità costituzionale. Chiese alla Corte se quella norma non fosse illegittima nella parte in cui vietava l’iscrizione ai partiti anche ai magistrati fuori ruolo per motivi parlamentari. Era un argomento convincente e la questione non sembrava infondata. Invece la Corte confermò il divieto per tutti. Tant’è che il giorno dopo restituii la tessera del Pd. La norma c’era, anche se mantenevo dei dubbi sulla sua legittimità costituzionale, e andava rispettata". In vista del ritorno del magistrato alla sua vita professionale che differenza c’è tra il parlamentare e l’iscritto a un partito? Non è la stessa cosa? "La Corte dice che sono due cose diverse. Ripeto: trovo che quella decisione non sia immune da critiche ma c’è e, insomma, il diritto vigente dice che un magistrato, anche in aspettativa, non può essere iscritto a un partito politico e tanto meno esserne un dirigente". Il Csm, di fronte al caso Emiliano, potrebbe bussare di nuovo alla Consulta? "Non è vietato, ma a fronte di una sentenza recente della Corte sul punto, dovrebbe portare motivazioni ulteriori". Diritti costituzionali. Un magistrato è un lavoratore con gli stessi diritti degli altri. Ma per candidarsi non solo dovrà essere in aspettativa da 6 mesi, ma non potrà farlo in una circoscrizione se negli ultimi 5 anni ha lavorato lì. "Quest’ultimo termine è senza dubbio eccessivo. Condivido invece l’imposizione del termine di sei mesi di aspettativa". Non sarà che non si vogliono più magistrati in politica? "Certo, il sospetto viene. Contro le candidature dei magistrati c’è un atteggiamento trasversale ostile con molte buone, ma anche con molte pessime ragioni. Purtroppo ci sono stati episodi che hanno dato fiato alle critiche, basti pensare per esempio a quel magistrato che stava in procura, si occupava di reati ambientali e di reati contro la Pa, poi si è candidato, è stato eletto e nominato assessore nella stessa sede in cui fino al giorno prima aveva inquisito gli assessori. Casi del genere creano un’immagine catastrofica che alimenta uno schieramento ostile. Ripeto: i limiti sono necessari più per l’ingresso in politica che per l’uscita Regole pe, evitare che qualche magistrato ambizioso, come pure è avvenuto, usi più o meno consapevolmente le inchieste per lanciare la sua carriera politica". Corruzione tra privati anche per i manager di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2017 Schema di decreto legislativo recante attuazione della decisione quadro2003/568/GAI relativa alla lotta contro la corruzione nel settore privato. Per il reato di corruzione nel settore privato, oltre ai vertici sono puniti anche i manager. Il Consiglio dei ministri di venerdì scorso ha dato il via libera definitivo al decreto legislativo che attua la decisione quadro 2003/568/Gai sulla lotta alla corruzione nel settore privato. Il provvedimento, composto da sette articoli, allarga la platea dei soggetti responsabili, includendo tra gli autori di reato, oltre a coloro che rivestono posizioni apicali di amministrazione e di controllo anche chi svolge un’attività lavorativa esercitando funzioni direttive presso le società o gli enti privati. La norma, con l’articolo 4, interviene sul Codice civile, introducendo la fattispecie dell’istigazione alla corruzione tra privati, oggi non punita (articolo 2635-bis del Codice penale). Il decreto legislativo muove su un doppio binario: sia sotto il profilo attivo, con la sanzione per chi offre o promette denaro a un soggetto interno, sia sotto il profilo passivo punendo l’interno che solleciti una promessa o una dazione di denaro per fare od omettere un atto violando i suoi obblighi. La procedibilità è prevista su querela della persona offesa. La condanna per il reato di corruzione tra privati e per istigazione alla corruzione comporta in ogni caso, l’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. Il legislatore inasprisce le sanzioni per la corruzione fra privati nei casi previsti dal terzo comma dell’articolo 2635 Codice civile (violazione degli obblighi da parte di amministratori, dirigenti preposti alla redazione del bilancio, soggetti con obblighi di vigilanza ecc.). L’innalzamento della sanzione pecuniaria è pari ad un valore compreso tra le quattrocento e le seicento quote, ferme restando le sanzioni interdittive. Un criterio analogo viene applicato in caso di istigazione alla corruzione (primo comma dell’articolo 2635-bis del codice civile) con una sanzione pecuniaria che "lievita" all’importo corrispondente ad un valore compreso tra le 200 e le 400 quote. La previsione tiene conto, nell’attribuire la responsabilità, delle posizioni apicali e non dell’ente. C’è stalking anche seguendo la vittima sui mezzi pubblici di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2017 Tribunale di Genova, sentenza 24 gennaio 2017, n. 37. È stalking farsi trovare sul treno che la vittima usa quotidianamente per andare al lavoro, avvicinarla, guardarla insistentemente o seguirla nel percorso su altri mezzi, procurandole un’ansia tale da costringerla a cambiare abitudini di vita. Ad affermarlo, è il Tribunale di Genova, con sentenza n. 37 del 24 gennaio 2017. Finito agli arresti domiciliari in via cautelare, con l’accusa di aver commesso atti persecutori, è un genovese che, ormai da diverso tempo, aveva il "vizio" di pedinare una donna e tentare in ogni modo di stabilirci un contatto. Ma l’uomo, non si limitava a questo. La osservava continuamente, le rivolgeva apprezzamenti fisici, le si sedeva accanto e a volte la inseguiva, fermata dopo fermata, anche sugli altri mezzi di trasporto che la poverina era costretta ad adoperare per liberarsi di lui. In tre occasioni, poi, approfittando della calca, era giunto persino a palpeggiarla. Atti persecutori, perpetrati con modalità decisamente fastidiose che - cagionando alla signora un perdurante stato di ansia e di paura per la propria incolumità - l’avevano, di fatto, indotta a mutare abitudini ed itinerari e a chiedere a suo marito di accompagnarla al lavoro. Di qui, il giudizio immediato per stalking aperto a carico dell’uomo e la condanna a due anni di reclusione, aumentati di quattro mesi per aver sfiorato la vittima nelle parti intime. Il processo, spiega il Tribunale di Genova, aveva dimostrato ampiamente, grazie alle testimonianze, alle denunce sporte dalla vittima e alla documentazione fotografica acquisita, che l’imputato era colpevole di atti persecutori. Nonostante la donna gli avesse fatto capire di non gradire quegli approcci così penetranti, infatti, egli non aveva mai smesso di pedinarla e farsi trovare sul suo stesso itinerario. Situazione estenuante, quella emersa dagli atti, che aveva reso la signora sempre più ansiosa e nervosa, oltre che restia ad andare al lavoro per il comprensibile timore di incontrare il suo persecutore. Stalking vero e proprio, dunque. Del resto, lo stalking è un reato che si caratterizza per l’abitualità della condotta (reiterazione di minacce o di molestie) e per il verificarsi di uno degli eventi (alternativi, ricorda la Cassazione nella sentenza 35778/2016) indicati nell’articolo 612-bis del Codice penale: - perdurante e grave stato di ansia o di paura, letto come apprezzabile destabilizzazione della serenità e dell’equilibrio psicologico dell’offeso (tra le più recenti sentenze in questo senso, quelle del Tribunale di Firenze 6166/2016 e del Tribunale di Bari 3669/2016); - fondato timore per l’incolumità e alterazione delle abitudini di vita. A rilevare, sarà sia la minaccia palese che quella implicita o subdola, purché idonea ad incutere timore (considerate le circostanze del caso, la personalità del reo, le condizioni della vittima e quelle ambientali), o qualsiasi altra seccante intrusione nell’altrui sfera individuale, compresi reiterati contatti telefonici (Tribunale di Campobasso, sentenza 8/2017) o atteggiamenti predatori (Tribunale di Genova, sentenza 5425/2016). Ecco che, nella vicenda, provata la condotta e lo stato di ansia e di paura causato nella vittima - inteso, si puntualizza in sentenza, non come patologia ma come ogni conseguenza rilevante sulla sua salute psichica (stato d’ansia, insonnia, depressione, disturbi del carattere e del comportamento) - la condanna del pedinatore era "già scritta". Incidente mortale: per la responsabilità conta la velocità ma soprattutto la visibilità di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2017 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 14 marzo 2017 n. 12192. Il centauro che investa il ciclista provocandone la morte non è responsabile a priori per il solo fatto cioè di non aver rispettato i limiti di velocità previsti del codice della strada. Occorre verificare se era possibile avvistare il ciclista e avere il tempo per evitarlo o per ridurre comunque al massimo le conseguenze dello scontro. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 12192/2017. La vicenda - La Corte si è trovata alle prese con una ricostruzione fatta nei gradi di merito che lasciava diversi dubbi. In particolare era stata evidenziata sì l’imprudenza del ciclista, che si era trovato ad attraversare l’intersezione stradale stimando sufficiente il tempo a disposizione prima dell’arrivo della motocicletta (seppure l’avesse vista), mentre avrebbe dovuto anche in considerazione del fatto che non era fornito di illuminazione fermarsi all’interno della corsia di canalizzazione. La sentenza di secondo grado aveva concluso che l’evento doveva e poteva considerarsi prevedibile, potendosi presumere in vicinanza di un centro abitato che qualche incauto ciclista di notte azzardasse manovre non proprio rispettose in tema di circolazione stradale. L’evento, pertanto, era evitabile da parte del centauro qualora avesse mantenuto una velocità entro il limite dei 50 Km/h. In alternativa anche considerato che avesse viaggiato alla velocità richiesta avrebbe dovuto comunque reagire con adeguata tempestività alla situazione. Molto più cauta la sentenza della Cassazione che ha evidenziato come la motivazione della precedente sentenza non fosse corretta. La velocità del motociclista - Infatti, si legge nella decisione, nell’incertezza sulla velocità effettivamente tenuta dal motociclista (è stato stimato un range tra 50 e 62 Km/h) al momento dell’investimento, si è fatto implicito richiamo alla disposizione dell’articolo 141 del codice della strada che sanzionando il cosiddetto eccesso di velocità relativo, impone al conducente di conservare sempre il controllo del proprio veicolo per essere in grado di compiere tutte le manovre necessarie in condizione di sicurezza, specialmente l’arresto tempestivo del mezzo entro i limiti del campo di visibilità e dinanzi a qualsiasi ostacolo prevedibile. È stata affermata dunque la prevedibilità dell’ostacolo ossia la possibilità per il motociclista di prevedere che a quell’ora della notte (intorno alle 00.25) un ciclista potesse procedere all’attraversamento della strada incautamente su un mezzo peraltro privo di ogni tipo di illuminazione, solo perché si era in prossimità di un centro abitato. Secondo la Corte si è trattato di un ragionamento condotto con criteri poco soddisfacenti e che si è basato su un’apodittica asserzione che non ha approfondito l’aspetto della oggettiva visibilità dell’ostacolo che il motociclista si era trovato di fronte e della possibilità conseguente di avere un tempo tecnico di reazione sufficiente a evitarlo. Conclusioni - Solo fornendo un’adeguata risposta al quesito sull’avvistabilità del ciclista da parte dell’imputato entro un tempo che consentisse una qualunque manovra di emergenza si potrà pervenire al conseguente giudizio di evitabilità dell’evento, da cui far discendere la responsabilità colposa. La sentenza è stata pertanto annullata con rinvio alla Corte d’appello di Bologna per nuovo esame. Velo in azienda, perché può essere vietato di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2017 Corte di giustizia Ue, sentenza 14 marzo 2017 sulla causa C-157/15. Il datore di lavoro ha il diritto di vietare a una dipendente l’utilizzo del velo islamico in azienda. È la Corte di giustizia dell’Unione europea a stabilirlo con una sentenza depositata ieri, che entra su un tema sensibile quanto controverso. Un’impresa belga, fornitrice di servizi di sicurezza e di vigilanza, aveva licenziato una dipendente musulmana perché si era rifiutata di lavorare senza velo nonostante il precedente divieto del datore di lavoro. Di qui la causa, finita davanti alla Corte di cassazione belga e poi agli euro-giudici. Per i quali, però, la politica di "neutralità" della società rispetto al credo religioso, se applicata verso tutti i lavoratori senza discriminazioni, legittima il divieto e non provoca una violazione della libertà di credo. La società belga, infatti, aveva vietato ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro "segni visibili delle convinzioni politiche, filosofiche o religiosi". La donna, dopo qualche anno, aveva comunicato ai superiori di voler indossare il velo durante l’orario di lavoro. Così aveva fatto, malgrado una modifica scritta al regolamento interno vietasse i segni visibili. Di qui il licenziamento sulla cui legittimità si erano pronunciati i giudici nazionali. La vicenda è poi approdata alla Corte Ue che, di fatto, ha dato ragione all’azienda(causa C-157/15, Achbita). Prima di tutto, gli euro-giudici hanno delineato il perimetro della nozione di religione fissata nella direttiva 2000/78 sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (recepita in Italia con Dlgs n. 216/2003) che va interpretata - osserva Lussemburgo - tenendo conto dell’articolo 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, delle tradizioni costituzionali comuni e della Carta dei diritti fondamentali. Di conseguenza, la nozione di religione, che ha, quindi, un’accezione ampia, include anche il diritto di manifestare il proprio credo proprio perché l’articolo 1 della direttiva include il forum internum e quello externum, ossia la manifestazione pubblica della fede. Detto questo, però, la Corte Ue ammette il diritto di porre limitazioni alla manifestazione del credo sul posto di lavoro se l’azienda persegue un obiettivo legittimo come l’affermazione di una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa. Si tratta - scrive la Corte - di una finalità legittima che può giustificare alcune limitazioni all’esternazione del credo. A patto, però, che le limitazioni riguardino tutti i dipendenti, "imponendo loro, in maniera generale ed indiscriminata, segnatamente una neutralità di abbigliamento", che può portare al divieto di indossare segni religiosi. Se il principio di parità di trattamento è rispettato, il datore di lavoro non commette una discriminazione diretta e, quindi, agisce in modo conforme al diritto Ue. Se, invece, la regola interna che fissa il divieto di indossare segni visibili vale solo con riferimento ad alcuni dipendenti il datore di lavoro incorre in una violazione del diritto dell’Unione. Nel caso arrivato a Lussemburgo, però, il divieto riguardava tutti i dipendenti e quindi, la norma trattava in modo identico i lavoratori ai quali era imposto il rispetto del principio di neutralità. Detto questo, però, la Corte lascia un margine di intervento ai giudici nazionali chiamati a verificare se una norma apparentemente neutra non comporti, nell’applicazione concreta, una situazione di particolare svantaggio per coloro che aderiscono a una determinata religione o ideologia. Esclusa l’esistenza di una discriminazione diretta, la Corte ha ammesso che, anche azioni che in sé possono costituire una disparità di trattamento, possono essere consentite se giustificate in modo oggettivo da una finalità legittima e se i mezzi impiegati sono appropriati e necessari. E proprio tra le finalità legittime, la Corte mette in primo piano l’esigenza, per un datore di lavoro, di adottare "una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa", per dare ai propri clienti un segno della libertà di impresa garantita anche dall’articolo 16 della Carta dei diritti fondamentali. Un’esigenza che Lussemburgo tutela soprattutto quando il datore di lavoro agisce con misure proporzionali, ad esempio ponendo limiti all’utilizzo di segni visibili quando si tratta di dipendenti che entrano in contatto con i clienti dell’azienda. In linea, sul punto, con quanto stabilito in passato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che ha anche dato il via libera alle legislazioni nazionali che vietano di indossare il velo islamico in luoghi di lavoro pubblico. Sempre ieri, la Corte Ue, nella causa C-188/15, ha invece bocciato il comportamento di un datore di lavoro che aveva licenziato una dipendente per assecondare un cliente il quale non voleva che i servizi dell’azienda fossero forniti da una lavoratrice che indossava il velo islamico. In questo caso, infatti, non è stato dimostrato che l’assenza del velo era un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa perché sono state incluse considerazioni soggettive "quali la volontà del datore di lavoro di tener conto dei desideri particolari del cliente". Reggio Emilia: nell’ex Opg 153 reclusi con patologie psichiatriche di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 marzo 2017 La gestione dei detenuti psichiatrici all’interno della Casa circondariale di Reggio Emilia è insostenibile e il dramma colpisce anche gli agenti penitenziari che si trovano costretti ad operare oltre il proprio turno di lavoro. La struttura di Reggio Emilia è stata una dei primi Ospedali Psichiatrici Giudiziari a chiudere. L’imponente edificio era nato nel 600 come convento dei Padri della Missione, poi fu convertito in carcere correzionale nel 1796. Dopodiché, nel 1869, venne trasformato in Opg. Fino ad arrivare al 2016 quando fu di nuovo riconvertito in istituto di pena. Tutti gli internati psichiatrici sono stati trasferiti nelle Rems, ma, ironia della sorte, tanti detenuti con patologie psichiatriche sono stati internati grazie alla realizzazione di un nuovo padiglione dell’ex Opg adibito alla tutela della salute mentale. Il problema è che a gestirlo non sono gli operatori sanitari, ma gli agenti penitenziari. Un disagio che sia il direttore Paolo Madonna che la comandante di reparto Manon Giannelli, hanno rappresentato alla delegazione del Partito Radicale in visita. Grazie al questionario dei radicali che Il Dubbio ha potuto visionare, i numeri parlano chiaro: su 351 detenuti presenti, 153 sono affetti di patologie psichiatriche. Cinquanta di loro sono sotto osservazione al nuovo reparto dell’ex Opg e a operare c’è un solo psichiatra che effettua un monitoraggio una volta a settimana. Il resto del lavoro compete agli agenti penitenziari mentre, in realtà, nell’articolazione per la tutela della salute mentale dovrebbe operare il personale sanitario specializzato per la cura. Una situazione che ogni giorno diventa sempre più insostenibile sia per il personale che per i detenuti stessi. Non a caso, dal questionario si evince anche che c’è un crescendo di casi autolesionistici. Basti pensare che nel 2015, 70 detenuti hanno prodotto atti di autolesionismo, per poi arrivare nel 2016 a ben 137 casi. Più del doppio. Il caso di Reggio Emilia si aggancia al dibattito di questi giorni sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. Due sono le scuole di pensiero che a colpi di emendamento vanno a scontrarsi. Da una parte c’è la senatrice Maria Mussini che proprio per evitare questo disagio, con due emendamenti, chiede di destinare alle Rems, in via prioritaria, le persone a cui è stata accertata l’infermità al momento della commissione del fatto e già prosciolte, e di estendere l’accesso ad altre "categorie giuridiche psichiatriche", laddove le sezioni degli istituti penitenziari non siano in grado di garantire loro i trattamenti terapeutici necessari. Sempre la senatrice Mussini ha presentato un ulteriore emendamento in cui si chiede "un impegno al potenziamento della cura della salute mentale in tutti gli istituti penitenziari". Dall’altra c’è la senatrice del Pd Emilia De Basi che con un emendamento chiede espressamente di "destinare alle residenze di esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) le sole persone per le quali sia stato accertato in via definitiva lo stato di infermità al momento della commissione del fatto da cui derivi il giudizio di pericolosità sociale e il conseguente bisogno di cure psichiatriche" e quindi l’esclusione dell’accesso alle Rems "dei soggetti per i quali l’infermità di mente sia sopravvenuta durante l’esecuzione della pena, degli imputati sottoposti a misure di sicurezza provvisoria e di tutti coloro per i quali ancora occorra accertare le relative condizioni psichiche". La senatrice De Basi, sempre nell’emendamento, chiede comunque "garanzia dell’effettiva idoneità delle sezioni degli istituti penitenziari ad assicurare i trattamenti terapeutici e riabilitativi". Nel frattempo il dramma rimane. Il superamento degli Opg e la loro sostituzione con le Rems è stato un grande traguardo. Però rimane il problema della salute mentale in carcere. Pisa: il Garante dei detenuti "carcere Don Bosco da abbattere e rifare ex novo" di Tommaso Fabiani pisatoday.it, 15 marzo 2017 Diverse le criticità segnalate da Alberto Di Martino nel resoconto 2014-2016. Giovedì 16 marzo l’argomento verrà discusso in Consiglio Comunale. Una struttura fatiscente e in alcune sue parti "radicalmente illecita" che "andrebbe abbattuta e rifatta ex novo", in cui mancano strutture di cura per ospitare soggetti incompatibili con la detenzione, così come spazi adeguati per attività sociali e formative. Non solo. Carenza di organico. Sovraffollamento della popolazione carceraria. Mancanza di competenze (interpreti, mediatori culturali) per l’interazione con i detenuti stranieri. Sono solo alcuni dei problemi segnalati dal garante dei diritti dei detenuti di Pisa, Alberto Di Martino, nel resoconto 2014/2016 per quanto riguarda il carcere Don Bosco. Resoconto che sarà discusso anche nella seduta di giovedì 16 marzo del Consiglio Comunale. "Le criticità sono molteplici - spiega Di Martino - a partire dalle condizioni della struttura che è stata realizzata negli anni ‘30 e che da allora non mai stata riqualificata nel suo complesso. Sono stati fatti alcuni interventi qua e là, ma non è con le toppe che si può risolvere la situazione. Il Don Bosco, per essere adeguato alla legge Gozzini del 1975 (nata per valorizzare l’aspetto rieducativo della carcerazione rispetto a quello punitivo, ndr) andrebbe abbattuto e rifatto: pena il tradursi in un carcere a regime pre-democratico". Nel suo complesso il carcere dovrebbe ospitare 226 detenuti. Alla fine del 2016 la popolazione carceraria era però di 277 reclusi. "La tendenza - si legge nel resoconto - appare dunque nuovamente verso il sovraffollamento". Inoltre, nonostante la struttura sia nata per accogliere "detenuti in attesa di giudizio o di sentenza definitiva" si registra una netta predominanza di chi il giudizio lo ha già ottenuto (187) rispetto a chi ancora è in attesa (90). A questa problematica se ne somma un’altra. "La carenza di organico - prosegue Di Martino - soprattutto per quanto riguarda l’area educativa ma non solo". Una penuria di personale che si riflette anche sull’attività dei volontari che in carcere assistono i detenuti, "che possono entrare solo fino alle 15 - spiega Di Martino - perché dopo quell’ora manca il personale necessario a garantire la loro sicurezza". Inadeguato, secondo il garante, anche l’atteggiamento "securitario e particolarmente rigoroso" tenuto dalla direzione carceraria e dalle guardie penitenziarie, un atteggiamento "motivato dal loro punto di vista ma che non può certo andare bene". Il reparto penale fa inoltre registrare problemi di natura igienico sanitaria. "Si è venuta a creare una situazione - afferma Di Martino - abbastanza scandalosa. Negli anni scorsi si è infatti iniziato a costruire una struttura esterna al centro diagnostico terapeutico. Nei progetti doveva essere una nuova area del centro clinico. L’azienda costruttrice è però fallita nel corso dei lavori che sono quindi stati interrotti. L’area è stata abbandonata e si è trasformata in una sorta di palude determinando problemi igienici e di umidità anche per quanto riguarda la parte del reparto penale che si trova vicino a quest’area. Problemi certificati anche dalla Asl con documento che dichiara inagibile parte del reparto". Piuttosto critica la situazione delle detenute. Secondo il garante la struttura della sezione femminile è in parte "illecita" perché "in contrasto con le norme di ordinamento penitenziario". In particolare questo per quanto riguarda i sanitari che, situati all’interno delle celle, sono però separati solo da un muretto che non impedisce alle detenute di essere viste durante i loro bisogni. Nessun bidet è inoltre dotato di erogazione di acqua calda. Una situazione di illiceità che riguarda anche i servizi igienici dell’area dei detenuti in semilibertà dotati di toilette alla turca "non separata dal vano camera". "Credo inoltre - afferma ancora Di Martino - che la quasi totalità della sezione femminile potrebbe essere trattata con misure alternative alla detenzione. Si tratta purtroppo di un problema che non riguarda solo la popolazione carceraria femminile, né solo il Don Bosco, ma di un problema sistemico: l’assenza di strutture di cura e di collegamento con i servizi territoriali, per chi soffre di dipendenze o di problemi psicologici o psichiatrici". Criticità anche per quanto riguarda il rapporto con detenuti stranieri che rappresentano la maggioranza della popolazione penitenziaria pisana (164 a 113). Una situazione che genera diversi problemi pratici. Innanzitutto da un punto di vista linguistico. La mancanza di adeguate competenze (interpreti, mediatori culturali) e dotazioni strumentali (sussidi linguistici) rende infatti difficile l’interazione con il gran numero di detenuti stranieri, molti dei quali conoscono appena l’italiano, così come la comprensione dei propri diritti e della propria posizione giuridica. Un aspetto particolarmente delicato riguarda i detenuti deceduti. Tra l’estate 2014 e la fine del 2016 sono infatti stati 6 i decessi, di cui due suicidi e 4 naturali. In un caso di presunto suicidio (era l’estate 2015) fu anche avviato si legge nel documento "un procedimento penale nei confronti di alcuni membri dello staff sanitario della Casa circondariale". "Il caso riguardava una ragazza - spiega Di Martino - che si sarebbe suicidata. I suoi genitori non hanno però mai creduto a questa versione". Nel corso del 2017 i decessi sono invece già stati due. "L’ultimo - conclude Di Martino - nel mese di febbraio. Si trattava di un detenuto morto dopo essere stato trasferito dal carcere di Siena al centro clinico del Don Bosco. Anche in questo caso è stato aperto un procedimento per accertare eventuali responsabilità da parte degli operatori di Pisa o di Siena". Il garante auspica infine un "maggiore collegamento" tra il carcere, la società civile, le istituzioni (principalmente il Comune) e i privati. Questo per raggiungere diversi obiettivi tra cui: trovare fonti di finanziamento, aumentare la sinergia con i servizi territoriali e l’assistenza in uscita e rendere strutturale l’offerta di lavoro di percorsi socialmente utili. Trieste: Bernardini "manca Magistrato di Sorveglianza, pochi permessi e risposte lente" di Marco Ballico Il Piccolo, 15 marzo 2017 Delegazione Radicale in visita al carcere. "Il problema più serio, più forte e grave, più qui che altrove, è il magistrato di sorveglianza". Dopo la lunga visita di ieri nel carcere del Coroneo, l’ex deputata radicale Rita Bernardini, assieme ai compagni della sezione regionale Marco Gentili e Andrea Michelazzi, ha voluto raccontare le sue impressioni sulla struttura triestina. E, tra i difetti riscontrati, quello che pesa di più è che "i detenuti si lamentano che tutte le loro istanze vengano respinte, quelle per la detenzione domiciliare, persino i permessi. Su 194 solo cinque usufruiscono di permessi premio. Così è anche per i giorni di liberazione anticipata, cioè i detenuti che si comportano bene - e qui la condotta mi pare sia molto buona - hanno diritto a 45 giorni di sconto della pena ogni semestre. Averli alla fine è importante anche perché si può scendere a una determinata soglia che consente l’accesso ad alcuni benefici e invece per persone che hanno ancora diversi anni da scontare, le risposte non arrivano, nonostante le relazioni positive dell’area educativa, e addirittura c’è il timore di alcuni che potrebbero essere già fuori se fossero stati concessi tutti i giorni di liberazione". Pare questo lo scoglio più grande, per cui l’ex segretaria dei Radicali italiani farà una segnalazione al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, così come al ministro della Giustizia Andrea Orlando e al Csm. A farle l’eco Alessandra Devetag, referente dell’Osservatorio Carceri della Camera penale. "Trieste è una delle sedi meno generose per i permessi premio e le misure alternative, questo inspiegabilmente visto che il territorio non conosce, a parte alcuni casi, grandi reati per tali severità". Di fronte comunque l’esponente radicale si è trovata un edificio che "per essere un circondariale, vista anche la piccola dimensione, e trovandosi comunque fuori dalla legalità, è decente. Rispetto all’ultima volta ci sono stati notevoli miglioramenti, le docce sono state rifatte e sono colorate". A questo proposito invece Devetag ha sottolineato come "gli uomini debbano lavare la biancheria nei bagni, in secchi, e metterla ad asciugare, quando ci sono gli attacchi per le lavatrici, ma non ci sono gli elettrodomestici". Un grande plauso Bernardini l’ha conferito alla direttrice Silvia della Branca così come alla collega dell’Area pedagogica, "anche se mancano 33 agenti nella pianta organica e non è possibile ci sia un direttore per due istituti, presente solo due giorni alla settimana, così si bloccano alcuni adempimenti burocratici per cui non si possono fare delle deleghe". A questa ulteriore problematica si aggiungono, secondo l’ex deputata, "le sole 30 ore della psicologa a disposizione per i detenuti e il fatto che pochi di questi lavorino, 28 su 194 e solo 5 all’esterno, anche se le cose dovrebbero migliorare perché con la finanziaria sono stati stanziati 300mila euro in arrivo prossimamente". Trento: pronto il testo unificato dei Ddl istitutivi dei Garanti dei detenuti e dei minori di Antonio Girardi provincia.tn.it, 15 marzo 2017 Pronto per la I Commissione, firmato da Civico (Pd) e condiviso dai capigruppo di maggioranza. Sarà discusso giovedì 23 marzo dalla Prima Commissione il testo "Modificazioni della legge provinciale sul difensore civico: istituzione del garante dei diritti dei detenuti e del garante dei diritti dei minori", che unifica i disegni di legge 13 e 14, proposti entrambi da Mattia Civico (Pd). Il provvedimento, sottoscritto anche dai colleghi del Pd e da consiglieri di altri gruppi (Bottamedi del Misto, Baratter del Patt, Detomas dell’Ual e Passamani dell’UpT), consta di tre articoli e prevede di istituire presso l’ufficio del difensore civico il garante dei diritti dei detenuti e il garante dei diritti dei minori. I garanti - spiega l’articolo 1 - "operano in autonomia nello svolgimento delle proprie funzioni e collaborano con il difensore civico". A quest’ultimo - prosegue il testo unificato - sono affidati il coordinamento delle attività dell’ufficio di difesa civica, l’utilizzo delle risorse e il potere di avocare a sé le pratiche assegnate ai garanti. Compiti - Il disegno di legge precisa poi il garante dei diritti dei detenuti, che dovrà occuparsi di quanti sono sottoposti a misure restrittive o limitative della libertà, "promuove interventi, azioni o segnalazioni finalizzati ad assicurare l’effettivo esercizio dei diritti delle persone presenti negli istituti penitenziari, anche a attraverso protocolli d’intesa tra la Provincia e le amministrazioni statali competenti". Il garante dei diritti dei minori - chiarisce il disegno di legge - opera invece per assicurare la piena attuazione dei diritti riconosciuti dagli ordinamenti internazionale, europeo e statale alle persone minori di età nell’infanzia e nell’adolescenza. Questo garante promuove, anche coinvolgendo le famiglie interessate, interventi, azioni e segnalazioni finalizzati alla tutela dell’effettivo esercizio dei diritti dei bambini e degli adolescenti. I compiti dei due garanti - continua il dispositivo - potranno essere specificati con regolamento, previo parere della Commissione consiliare competente. Requisiti - Quanto alle caratteristiche che le nuove figure dovranno possedere, il testo precisa che i garanti sono scelti fra cittadini che dispongano di particolare competenza, assicurano probità, indipendenza, obiettività, riservatezza e capacità nell’esercizio delle funzioni loro affidate. Più in particolare, i requisiti richiesti al garante dei diritti dei detenuti sono una qualificata competenza ed esperienza professionale almeno quinquennale in ambito penitenziario o nel campo delle scienze giuridiche, delle scienze sociali o dei diritti umani, anche come rappresentante di associazioni o formazioni sociali. Il garante dei diritti dei minori dovrà possedere una qualificata competenza ed esperienza professionale almeno quinquennale nel settore della tutela di bambini e adolescenti, o della prevenzione del disagio sociale o dell’intervento sulla devianza minorile, anche come rappresentante di associazioni o formazioni sociali. Nomina e condizioni - I garanti sono nominati, disgiuntamente, dal Consiglio provinciale nella stessa seduta in cui è nominato il difensore civico. I garanti, puntualizza il testo unificato, sono tenuti ad astenersi da attività professionali che interferiscono o che sono incompatibili con i compiti assegnati. Indennità - Ai garanti, conclude il testo unificato, spettano un trattamento economico stabilito dall’ufficio di presidenza del Consiglio provinciale nel limite massimo di due terzi e, rispettivamente, della metà dell’indennità lorda percepita dai consiglieri provinciali, nonché le indennità di missione e i rimborsi per le spese di viaggio sostenute per svolgere il loro incarico, in misura analoga a quella prevista per i consiglieri provinciali. Trento: presunti maltrattamenti sui detenuti, il Gip respinge la richiesta di archiviazione Corriere del Trentino, 15 marzo 2017 La Procura dovrà sentire un nuovo teste. Suicidio in cella: concluse le verifiche. Nuovi accertamenti per far luce su quanto accade all’interno del carcere di Spini di Gardolo. È quanto ha disposto il gip Francesco Forlenza che ha respinto la richiesta di archiviazione della Procura del procedimento penale sui presunti maltrattamenti nella casa circondariale. Il giudice ha chiesto alla Procura di sentire un nuovo testo la cui identità al momento resta riservata per garantire la genuinità dell’indagine e dell’acquisizione delle prove. Saranno i carabinieri della polizia giudiziaria a sentire la persona indicata dal giudice nell’ordinanza, poi la Procura, alla luce della nuova testimonianza, può decidere se chiedere nuovamente l’archiviazione o procedere a nuovi approfondimenti. La vicenda è alquanto delicata e necessita cautela. Il fascicolo d’indagine nasce dalle accuse mosse lo scorso anno dal garante dei detenuti e contenute in un rapporto nel quale veniva denunciata la presenza di una "stanza delle percosse". Nel maggio 2016 era stato invece presentato un esposto alla Procura, sul quale venne aperta l’indagine. Il pm Davide Ognibene, titolare del fascicolo d’indagine, dopo una serie di approfondimenti aveva però deciso di chiedere l’archiviazione, ma il garante ha presentato opposizione. Martedì scorso si è tenuta l’udienza davanti al gip Francesco Forlenza, il garante era rappresentato da Emilia Rossi con l’assistenza dell’avvocato Nicola Canestrini, come "persona offesa". L’avvocato ha sottolineato l’opportunità che gli accertamenti siano condotti da autorità diverse rispetto a quelle coinvolte nell’indagine. In realtà gli accertamenti sono stati condotti dai carabinieri e non dalla polizia penitenziaria. "Al di là del merito specifico e delle necessità proprie di un’indagine - aveva spiegato Rossi al termine dell’udienza - riteniamo che, in vicende in cui ci sono denunce o segnalazioni anche ripetute di atti di violenza o di maltrattamenti nei confronti dei detenuti, le indagini debbano essere molto approfondite perché tralasciare profili di indagine e archiviare i procedimenti penali senza che si sia accertato tutto ciò che è possibile può generare un’idea di impunità che non fa bene all’onore, al prestigio e all’impegno del corpo di polizia penitenziaria e di tutta l’amministrazione che lavora negli istituti con grande dedizione, sacrificio e impegno". Un appello che il gip ha evidentemente accolto ordinando una piccola integrazione d’indagine. Intanto volgono al termine anche le indagini sulla morte di Luca Soricelli, il trentacinquenne della Bassa Vallagarina, che si è tolto la vita nella cella dell’infermeria del carcere il 17 dicembre scorso. L’uomo, con problemi psichici, era stato arrestato alcuni giorni prima dopo aver incendiato il distributore Agip di Rovereto. L’indagine, che si avvia alle fasi conclusive, ora potrebbe confluire in quella aperta per i presunti maltrattamenti sui detenuti. Pescara: la Uil-Pa chiede la chiusura della sezione per detenuti psichiatrici abruzzoquotidiano.it, 15 marzo 2017 Chiusura immediata della sezione per detenuti psichiatrici e non solo per le aggressioni subite dai baschi blu. È quanto è stato chiesto dalla Uil-Pa Polizia Penitenziaria a conclusione dell’incontro con la Direzione della Casa Circondariale di Pescara. All’ordine del giorno il tema delle aggressioni al personale di polizia penitenziaria e le misure da intraprendere per prevenirne altre. È quanto ha reso noto il Vice Segretario Regionale Mauro Nardella: "Il dubbio che avevamo sulla parziale risoluzione dei problemi legati alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari - afferma il sindacalista - ci è stato confermato proprio stamattina. Dalla discussione è emerso che le Rems sono state sì create ma per ospitare esclusivamente internati e cioè quei soggetti sottoposti a misure di sicurezza preventive. È rimasta immutata invece la regola che vede gli imputati e i condannati, ai quali nel corso della misura detentiva sopravviene una infermità psichica che non comporti, rispettivamente, l’applicazione provvisoria della misura di sicurezza o l’ordine di ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o in casa di cura e custodia. Essi restano assegnati a un istituto o sezione speciale per infermi e minorati psichici. Stessa sorte è toccata ai soggetti condannati a pena diminuita per vizio parziale di mente per l’esecuzione della pena i quali possono essere assegnati agli istituti o sezioni per soggetti affetti da infermità o minorazioni psichiche quando le loro condizioni siano incompatibili con la permanenza negli istituti ordinari. Gli stessi, quando le situazioni patologiche risultino superate o migliorate in modo significativo, sono nuovamente assegnati agli istituti ordinari, previo eventuale periodo di prova nei medesimi. Non essendoci più gli OO.PP.GG. la gestione di questi ultimi viene demandata, così come accade per il carcere pescarese, ad un istituto di pena che, contrariamente agli ospedali di cui sopra, non è dotato di mezzi e personale adeguatamente formato per la gestione dei soggetti psicotici con il rischio, così come è accaduto negli ultimi giorni, che le aggressioni diventino sempre più frequenti. Il carcere di Pescara quindi - continua Nardella- è divenuto suo malgrado un surrogato di ospedale psichiatrico giudiziario con la differenza paradossale, tuttavia, che proprio perché rispetto agli OO.PP.GG. non ha personale idoneo (infermieri, Operatori Socio Assistenziali e terapisti della riabilitazione ) la sezione del penitenziario Dannunziano sta risultando essere un rimedio peggiore del male. Se queste sono le intenzioni della politica sulla gestione dei soggetti psicotici- prosegue il dirigente Uil - possiamo tranquillamente affermare che l’operazione fatta sulla chiusura degli OO.PP.GG. è soltanto un’operazione di facciata. Ad aggravare la situazione - rilancia Nardella - vi è l’inversione di tendenza del numero di detenuti presenti in struttura e che ad un’iniziale diminuzione relegata a 2 anni fa sta vedendo un pericoloso incremento. Si è infatti passati dai 260 di qualche mese fa ai 306 attuali riportando alla ribalta la drammatica situazione del sovraffollamento carcerario. A ciò fa da contraltare la lenta ma continua deflazione di personale di polizia penitenziaria e l’attivazione di nuovi servizi operativi(sentinella) che non fanno altro aggravare il già pesante carico di lavoro di poliziotti sempre più vecchi e stanchi. Per tali questioni la Uil - chiosa Nardella - ha chiesto l’immediata chiusura della sezione psichiatrici, l’invio di un congruo numero di agenti e/o il rientro in sede di tutti i poliziotti penitenziari impegnati in sedi extra moenia tra i quali quelli impegnati presso il tribunale di sorveglianza, quelli non più impiegati nel disciolto provveditorato e, soprattutto, coloro i quali sono attualmente impegnati nel servizio di scorta del sottosegretario alla giustizia". Monza: gli agenti del carcere ora devono fare anche i baristi di Marco Galvani Il Giorno, 15 marzo 2017 Dalla divisa della Polizia penitenziaria al grembiule, dai corridoi fra le celle al bancone dello "spaccio" per servire caffè, cappuccini, brioches e panini ai colleghi in pausa. È il destino di tre agenti in servizio alla casa circondariale di Monza, "arruolati" dalla direzione dell’istituto per coprire - da aprile - un servizio che, ancora per un paio di settimane, sarà gestito da una società esterna. "Una decisione inspiegabile ma soprattutto assurda e paradossale - sbotta Domenico Benemia, segretario regionale della Uil Polizia Penitenziaria. Non si comprende come, nonostante l’oggettiva situazione di carenza si siano assunti provvedimenti che vanno ulteriormente a ridurre il personale assegnato a compiti istituzionali". Tre agenti che oggi lavorano nelle sezioni del carcere e che saranno sottratti a un organico già ridotto all’osso: a Monza i poliziotti sono 350 (un centinaio in meno rispetto al previsto) ma solo sulla carta. Perché una cinquantina è distaccata in altre carceri per compensare altre carenze. E adesso "ce ne tolgono altri tre per metterli a fare qualcosa che non c’entra niente con il ruolo del poliziotto e che, invece, potrebbe continuare a essere svolto da personale civile - mette i puntini il sindacalista. Se progressivamente l’effetto Monza ci sarà anche negli altri diciannove istituti della Lombardia, ci ritroveremo con circa 200 agenti in meno". La coperta è corta. Secondo il Ministero, in regione dovrebbero esserci 5.208 poliziotti penitenziari ma quelli effettivamente presenti sono solo 3.779. Il 30% in meno. E la carenza riguarda tutti i livelli: i commissari (previsti 57, presenti 33), gli ispettori (134 invece di 511), i sovrintendenti (116 invece di 529) e soprattutto gli agenti, 3.496 quando invece dovrebbero essere 4.111. Lo stesso provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, Luigi Pagano, già a novembre aveva rimarcato l’effettiva mancanza di agenti in Lombardia, invitando i direttori di ogni istituto a cercare di non far ricadere sugli agenti "gli effetti negativi della carenza d’organico". E allora "è inutile che continuiamo a girare attorno al problema - si schiera Benemia. Non è possibile che i vari istituti si debbano rubare agenti per tappare i buchi, e nemmeno che si debba rinunciare a riposi e ferie accumulando decine di ore di straordinari. Gli agenti devono fare gli agenti". Roma: via dalle "Gabbie", Montecitorio apre le porte ai detenuti di Sara Ficocelli La Repubblica, 15 marzo 2017 Incontro alla Camera dei deputati tra il ministro della Giustizia Orlando e la casa editrice Mds, ideatrice del laboratorio di scrittura che ha coinvolto i detenuti del carcere Don Bosco di Pisa insieme a giornalisti, scrittori, filosofi e imprenditori. I fondi raccolti dalla vendita dei volumi saranno devoluti alla casa circondariale. Le gabbie più oscure e opprimenti non sono (quasi) mai quelle fisiche ma mentali, interiori. Sono le gabbie dell’anima, determinate dalle nostre paure, dai pregiudizi, dall’ignoranza. A questi luoghi intimi e spettrali, tanto assurdi quanto inevitabili nel corso della vita, è dedicato il libro "Gabbie", edito dalla casa editrice pisana MdS, che per realizzarlo ha coinvolto i detenuti del carcere Don Bosco Pisa, dando loro l’opportunità di collaborare insieme a filosofi, giornalisti, scrittori (tra loro anche Stefano Benni), professori e professionisti vari per la realizzazione di un romanzo che è molto più di un semplice progetto di "rieducazione". Esseri umani prima di tutto. Presentato nella sala Aldo Moro di palazzo Montecitorio ieri pomeriggio su invito del questore della Camera Paolo Fontanelli e alla presenza del Ministro della giustizia Andrea Orlando, il libro di racconti scritto dai detenuti è stato curato dalla giornalista Antonia Casini, ideatrice del progetto insieme al collega Michele Bulzomì. "L’importanza di "Gabbie" sta nel fatto che detenuti e non si sono misurati alla pari - spiega Alfonso Maurizio Iacono, già rettore della facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Pisa, uno degli intellettuali coinvolti nell’iniziativa - mostrando le differenze che esistono fra loro ma con un’appartenenza comune: quella di essere tutti esseri umani alle prese con la scrittura, con la necessità cioè di mettere ordine, di fare scelte, di fare i conti coi vincoli imposti dalle regole stesse della lingua". Orlando: "Lo Stato stia coi più deboli". La scrittura, prodotto dialettico fra vincolo e libertà e per questo e dunque strumento fondamentale per chi ha intrapreso un percorso di rispetto di sé e degli altri, è stata al centro del discorso fatto anche dal ministro Orlando, che ha sottolineato l’importanza del tema del trattamento della pena. "Non servono solo spazi che tengano conto della necessità di socializzazione e luoghi per leggere e studiare, ma una continua dialettica fra il dentro e il fuori, fra il carcere e il territorio che lo ospita. Lo Stato deve sapersi limitare attraverso l’esercizio di un diritto mite, occupandosi di chi ha poca possibilità di far sentire la propria voce, dei deboli e dei poveri per primi". "Stando ai presupposti descritti dal ministro, il carcere di Pisa andrebbe chiuso o quanto meno ristrutturato, essendo privo di manutenzione da quanto è stato costruito", ha fatto eco il direttore del carcere di Pisa Fabio Prestopino. Da ex sindaco del capoluogo toscano, il questore della Camera Paolo Fontanelli ha invitato Orlando a recarsi quanto prima a visitare la casa circondariale. La parola ai detenuti. Toccante e in un certo modo divertente la testimonianza di un "ospite" del Don Bosco, Giuseppe Musumeci, che tra applausi scroscianti ha elogiato il progetto di MdS "perché mi ha dato la possibilità di fare i conti, attraverso la scrittura, con me stesso. Ho lavorato duramente per imparare a scrivere, so di essere migliorato; ho avuto la fortuna di incontrare persone che si rivolgono a me con rispetto e senza pregiudizi e che hanno creato le condizioni per farmi diventare diverso e migliore da quando, giustamente, sono entrato in carcere", ha detto curiosamente seduto - per ragioni di scaletta - alla poltrona del ministro Orlando, sulla quale capeggiava la scritta "Ministro della Giustizia". I fondi raccolti devoluti al carcere di Pisa. "Ringrazio tutti gli autori del libro, Stefano Benni che ci ha dato un suo racconto, il professor Iacono, Paolo Fontanelli, il ministro Orlando, il direttore del carcere Prestopino e tutta l’area educativa; ringrazio gli amici e i collaboratori di "Gabbie": il libro continuerà il suo viaggio e i fondi raccolti saranno devoluti al carcere di Pisa", ha concluso Sara Ferraioli, presidente della cooperativa editoriale che fa capo a MdS. Dopo la presentazione a Montecitorio, "Gabbie" e i suoi autori inizieranno il tour che porterà il progetto al salone del libro di Torino, a Pistoia e a Volterra, all’interno di un percorso sostenuto e patrocinato dal consiglio dell’ordine degli avvocati di Pisa e dalla Camera Penale di Pisa. Ancona: "Poesistere", la parola ai carcerati. Oggi il premio del concorso in versi Corriere Adriatico, 15 marzo 2017 Parole che aprono gli animi ed escono dalle sbarre, trovando la carta e diventando libro. Sono quelle dei testi che i detenuti dei due istituti di pena di Ancona, la Casa Circondariale di Montacuto e la Casa di Reclusione di Barcaglione, hanno scritto per il concorso di poesia dal titolo "Poesistere". Un progetto che, organizzato dall’Officina associazione culturale Onlus di Ancona e promosso dal Rotary Club Ancona Conero con la collaborazione del Rotary Club Ancona 25-35, arriva alla sua conclusione con la presentazione domani presso il carcere di Montacuto, del volume che raccoglie i testi dei dodici vincitori. Laboratori di poesia e scrittura per avvicinare i detenuti alla parola scritta e alla lettura, supervisione della stesura delle poesie e, successivamente alla valutazione dei testi, produzione del libro: di tutto questo si è occupata l’Officina associazione culturale Onlus grazie all’organizzazione del Rotary, mentre una giuria appositamente selezionata per l’occasione ha, invece, valutato tutte le poesie prodotte e ha decretato i 12 vincitori. Non solo. Il progetto ha coinvolto attivamente anche molti giovani. Da un lato, gli studenti del liceo Savoia di Ancona, che hanno conferito una targa speciale a quella che, tra le 12 vincitrici, era secondo loro la migliore poesia. Dall’altro, i giovani del Rotaract (di età compresa tra i 18 e i 30 anni) che conferiranno, anch’essi, il premio a quello che considerano il testo migliore. Firenze: "Scena Libera", al Cantiere Florida il teatro sul carcere e dal carcere novaradio.info, 15 marzo 2017 Si apre stasera all’interno di Materia Prima, la rassegna ideata da Murmuris Teatro nell’ambito della multi-residenza che anima il Teatro Cantiere Florida, il focus "Scena Libera - riflessioni dal carcere": 5 spettacoli e un incontro dedicati al tema del carcere e del teatro come rieducazione, tre dei quali realizzati da detenuti. Ad inaugurare la rassegna presso la Casa circondariale di Sollicciano "Dal carcere", con gli attori/detenuti della Compagnia di Sollicciano/Krill Teatro guidati da Elisa Taddei. Si prosegue poi mercoledì 15 marzo, alle 16:30 nella Sala degli Specchi di Palazzo Medici Riccardi, con l’incontro "Detenzione e Recupero. La cultura salva", sperienza artistica in carcere come elemento importante nel percorso di rieducazione. Alle 18:30 andrà in scena un altro frutto del lavoro di Elisa Taddei con i detenuti del Carcere di Sollicciano, il monologo "Malesigu". Giovedì 16 marzo ore 21.00, al Teatro Cantiere Florida, a cura di Murmuris e Versiliadanza, Teatro Metropopolare in collaborazione con Teatro Metastasio "Proteggimi" con i detenuti della casa circondariale di Prato. Spettacolo incentrato intorno al tema del desiderio ispirato a testi di Tennesee Williams. Sempre in Teatro, venerdì 17 marzo ore 21.00 "Come un granello di sabbia. Giuseppe Gulotta, storia di un innocente", una produzione Mana Chuma Teatro, che racconta la vicenda attuale, dolorosa ed emblematica di un uomo ingiustamente detenuto. Sabato 18 marzo alle ore 21:00, al Teatro Cantiere Florida, Catalyst / Versilidanza proporranno "Il conte di Montecristo" di Italo Calvino con Riccardo Rombi e Angela Torriani Evangelisti. Ultimo dei racconti deduttivi de "Le Cosmicomiche", diventa una partitura per attore, voce e movimento. Con le elezioni alle porte si scoprono i poveri di Sara Dellabella L’Espresso, 15 marzo 2017 Il tema è caldo e ne parlano tutti. Perché se il populismo si rivolge alle pance non c’è argomento migliore della promessa di un reddito. Ormai ne parlano tutti. Da Sinistra italiana all’estrema destra, ognuno ha la sua ricetta contro la povertà. Con le elezioni alle porte, 4,6 milioni di italiani in povertà assoluta e circa 10 in povertà relativa, il tema diventa pane per la campagna elettorale. Così il governo si affretta ad approvare con un testo blindato la legge delega sulla povertà, che stanzia circa 1,6 miliardi di euro per aiutare i cittadini più in difficoltà, anche se la platea dei beneficiari verrà stabilità nei decreti attuativi. E il dossier del centro studi del Senato calcola che se il beneficio economico fosse spalmato sul numero dei poveri assoluti ognuno intascherebbe solo 20 euro al mese. La montagna ha partorito il topolino e per questo i 5 Stelle al Senato promettono di astenersi al momento del voto. Già, nel 1992 una risoluzione europea stabilì che ogni cittadino doveva poter contare su risorse sufficienti "a garantire la dignità umana", individuando una serie di criteri volti al reinserimento sociale delle persone più in difficoltà. Il primo a recepire e sperimentare un reddito minimo di inserimento (Rmi) fu Romano Prodi nel 1998, ma la misura fu abolita dal successivo governo di centrodestra. Dopodiché venne l’epoca della social card, delle pensioni minime a 500 euro e persino dei consigli, come quello dispensato alle giovani precarie di "sposare un uomo ricco" (copyright Silvio Berlusconi). Poi è arrivata la crisi economica ad attanagliare intere fasce di popolazione, sempre più ai margini. Tra propaganda e prospettiva, i partiti provano a parlare alle fasce più basse della società, alcuni alimentando un vero e proprio scontro tra disgraziati. Così se il Pd ha fretta di approvare la legge delega sulla povertà, Casa Pound sta raccogliendo le firme per una proposta di legge popolare per il "reddito di natalità", ovvero 500 euro per ogni bambino nato fino al compimento dei 18 anni, da finanziare con i soldi oggi destinati all’accoglienza dei migranti; il Movimento 5 stelle propone da sempre un reddito di cittadinanza e la Rete dei Numeri Pari, che raccoglie 105 organizzazioni territoriali con l’obiettivo di ridurre le disuguaglianze, ha già sottoposto ai parlamentari di tutti gli schieramenti una proposta per il reddito minimo di dignità. Anche all’estero il tema è caldo. In Francia l’outsider della sinistra socialista Benoit Hamon ha vinto a sorpresa le primarie per l’Eliseo proponendo una revisione delle misure di contrasto alla povertà; e in Finlandia dal primo gennaio è iniziata la sperimentazione di un reddito di cittadinanza di 560 euro erogato per due anni a duemila cittadini disoccupati scelti a caso, che verrà corrisposto anche in presenza di reddito. Caso unico in Europa di reddito di cittadinanza puro. Più ampio persino da quello proposto dai grillini. La senatrice del Movimento Nunzia Catalfo, che segue questi temi spiega che il loro è un modello temperato. Il reddito minimo è individuato dalla soglia Eurostat, in base alla quale non bisognerebbe mai scendere al di sotto del 60 per cento del reddito mediano equivalente, pari a 9.000 euro l’anno, circa 780 euro al mese. In questo contesto la proposta grillina prevede un’integrazione al reddito per chi è sotto quella soglia e nessun vantaggio per chi la supera. Una misura che a conti fatti costerebbe 15 miliardi di euro. Ma mentre nei Palazzi della politica si parla, le sperimentazioni sono già in atto in molte regioni italiane, dove sotto la parola reddito si combinano un mix di servizi ed erogazioni in denaro rivolti ai cittadini in difficoltà. Così in Lombardia, dove c’è un assessore con la delega al "Reddito di autonomia", circa 12 mila bambini hanno accesso gratis all’asilo nido e alle mamme in dolce attesa è erogato un buono famiglia. Ma, spiega l’assessore leghista Francesca Brianza, "le misure sono rivolte a chi a un Isee inferiore a 20 mila euro, così ci occupiamo anche di chi rischia di scivolare nella povertà, però chiediamo una corresponsabilità dei soggetti che beneficiano dei nostri bonus". Perché una contropartita c’è sempre. In tutte le proposte e sperimentazioni in atto, chi beneficia di un voucher, di un assegno o di un servizio, deve seguire un programma di reinserimento lavorativo o sociale, nel caso di disabili o minori in povertà, concordato con il comune e i servizi sociali, pena l’interruzione dell’erogazione. Ma è proprio sul coinvolgimento degli enti locali che rischiano di saltare le buone intenzioni. A lanciare l’allarme è stato l’Anci, la sigla che riunisce i comuni italiani, che al Senato ha ricordato come i comuni che dovranno farsi carico della gestione delle pratiche e dei piani di reinserimento siano gli stessi che in questi anni hanno subito il blocco delle assunzioni, i vincoli del patto di stabilità e la riduzione degli stanziamenti destinati al sostegno degli interventi sociali. La vera sfida non è quindi tanto l’erogazione dei denari, ma "abituare l’amministrazione ad avere un ruolo pro-attivo nei confronti dei cittadini, coinvolgendo i servizi sociali", spiega Elisabetta Gualmini, assessore al Welfare della Regione Emilia Romagna, dove è stato approvato il reddito di solidarietà di 400 euro al mese per circa 80 mila cittadini con un Isee fino a tremila euro. Sulla stessa linea, ma con stanziamenti inferiori, si muove anche la regione Puglia con il Red, il "reddito di dignità", che a pieno regime dovrebbe aiutare 20 mila famiglie, privilegiando quelle con minori e disabili non autosufficienti. Gli economisti lo chiamerebbero "universalismo selettivo", in parole semplici una guerra tra il povero e il più povero. Così anche la misura di prossima approvazione del governo dovrà individuare una platea ristretta di beneficiari, affinché la misura abbia economicamente un senso. "Con la povertà aumentano le diseguaglianze e trovano terra fertile i populismi", ragiona Giuseppe De Marzo di Libera e tra i coordinatori della Rete dei Numeri Pari. Tra le sue iniziative la Rete propone una modifica dell’articolo 81 della Costituzione, che impone il pareggio di bilancio, vincolandolo al "rispetto dei diritti fondamentali delle persone" e chiedendo all’Europa che "la spesa per il sociale esca dai vincoli di bilancio dell’Unione". Se il populismo parla alle pance, quale migliore argomento della promessa di un reddito? Soprattutto se 10 milioni di italiani quelle pance le hanno vuote e le elezioni sono alle porte. I piani della Difesa: "hacker arruolati per difendere l’Italia dalla cyber-guerra" di Gianluca Di Feo La Repubblica, 15 marzo 2017 Il generale Graziano presenta la riforma: "Una forza integrata per le sfide future, senza gelosie di corpo". Tutti per uno, uno per tutti. I piani per il futuro delle forze armate ricordano il motto dei moschettieri. Nulla di guascone, anzi, la strada obbligata per garantire la specializzazione che richiede la Difesa di domani, con molti meno mezzi ma più sofisticati. Con meno personale, ma più qualificato. E soprattutto con meno generali e ammiragli. Una svolta che nasce dalle missioni del presente e dalle lezioni del passato: "I capitoli peggiori della nostra storia militare, soprattutto nell’ultimo conflitto mondiale, sono segnati dalla mancanza di coordinamento tra le singole forze armate: aerei che colpiscono nostre navi e viceversa. Un errore che ci fa capire l’importanza di costruire una Difesa completamente integrata", spiega il generale Claudio Graziano, comandante di tutti i militari italiani. Oggi il campo di battaglia più importante è il cyberspazio: la capacità di proteggere e attaccare le reti di computer. Nonostante le forze armate dispongano dell’unica centrale attiva 24 ore su 24, il nostro Paese sembra in ritardo. "Non avevamo compreso la dimensione della minaccia, ma ci stiamo attrezzando. Abbiamo creato il Cioc, Comando interforze operazioni cibernetiche, che è già in funzione e dal 2018 sarà a pieno regime. Stiamo pensando anche a un reclutamento straordinario, e ho già dato direttive in tal senso, perché tra i giovani ci sono delle grandi capacità: basta un hacker per mettere in crisi un sistema di computer. Già oggi nella scuola di Chiavari abbiamo una sala per simulare azioni cyber, gestita in collaborazione con l’Università di Genova, ma dobbiamo cercare all’esterno queste professionalità, soprattutto negli atenei". Dalla Gran Bretagna alla Germania, i governi hanno varato programmi molto costosi. Quali stanziamenti serviranno per la nostra cyber-difesa? "Serviranno investimenti importanti, con ricadute però sullo sviluppo tecnologico del Paese. Quanto? Difficile dirlo ma credo che in futuro si arriverà al 10 per cento delle risorse della Difesa. Oggi tutto è già cyber: ogni nuova nave, aereo o mezzo terrestre è un sistema dove la componente digitale costituisce il 50-60 per cento dei costi e delle capacità". Di cosa si occuperà il comando delle cyber-war? "In patria difenderemo la sicurezza delle nostre reti, mettendo le strutture a disposizione degli altri dicasteri. Si tratta di un comando che nasce in stretto coordinamento con le altre agenzie di sicurezza. Nelle missioni all’estero ogni comandante potrà contare su tutti gli strumenti cyber, anche di natura offensiva". In ogni suo discorso ritornano sempre due parole chiave: difesa interforze e integrata. "Questo è lo spirito della riforma approvata dal consiglio dei ministri, fortemente voluta dal Quirinale, dal governo e dal ministro Pinotti; fortemente sostenuta da me e da tutte le forze armate come esigenza ineludibile: lo vedo dal confronto con altri paesi e nella condotta quotidiana delle operazioni. Ai tempi della leva quando c’era una missione si improvvisava mettendo insieme il meglio disponibile, ma oggi non c’è nessuna attività che non richieda componenti di ciascuna forza: non ci possiamo permettere doppioni, l’integrazione è una scelta obbligata. Ad esempio alla luce dell’importanza che il Mediterraneo ha per il nostro paese penso serva una forza di proiezione dal mare, una task force con assetti navali, terrestri ed aerei". Una sorta di marines italiani, unendo San Marco e Lagunari? Oggi stiamo persino prevedendo caccia F-35 a decollo verticale con stormi distinti per Aeronautica e Marina... "Della capacità nazionale di proiezione dal mare si è cominciato a parlare nel 2001 poi c’è stato qualche rallentamento ma dobbiamo accelerare. Si tratta di capacità a livello strategico e interforze: il singolo combattente agisce in mare, terra o cielo ma questo schieramento deve essere integrato sin dal tempo di pace. Noi dobbiamo operare con le risorse che il Paese ci mette a disposizione e usarle al meglio. Non possiamo fermarci a conservazioni di gelosie, qualcuno potrà criticare, rimpiangere il passato ma non si trattava di "bei tempi andati": dobbiamo essere in grado di guardare al futuro perché gli egoismi militare non mai hanno prodotto efficacia". È inevitabile che ci siano resistenze, alla luce della tradizionale autonomia dei nostri corpi. "Altri paesi si stanno già muovendo su questa linea, come la Francia: avere in un’unica sede il comando della Difesa, riducendo quello delle singole forze armate e accorpando tutte le funzioni comuni. Gli stati maggiori si rimpiccioliscono, senza rinunciare al vertice autonomo della componente Marina, Aeronautica, Esercito. E cala il numero di alti ufficiali. Da questo nasce la scelta di una commissione unica che valuterà la promozione di generali e ammiragli, in cui l’arma di appartenenza sarà predominante, ma che serve a valorizzare gli incarichi interforze. Il capo di Stato maggiore della Difesa svolgerà la funzione di garanzia". Il nuovo volto della Difesa è pure nell’aumento delle forze speciali, su cui poi ricade il peso di molte missioni. "Dal 2001 sono cambiate molte cose. Avevamo un nucleo storico di reparti d’élite, è stato costituito un comando unificato e introdotta l’abitudine ad operare insieme. Poi sono stati sviluppate altre unità come gli alpini parà del Monte Cervino o il Rao della Folgore. Ma stiamo potenziando anche la sanità: sin dalla missione a Beirut del generale Angioni aprire gli ospedali alla popolazione ha testimoniato concretamente l’eticità del soldato italiano". Strage di Srebrenica. Una verità scomoda e la polemica strumentale di Erdogan di Massimo Nava Corriere della Sera, 15 marzo 2017 Il presidente turco rievoca il genocidio di 21 anni fa per denigrare l’Olanda. Ma è un’occasione per riparlare dei contorni oscuri della strage. Il presidente Erdogan rievoca fantasmi di Srebrenica per denigrare l’Olanda. Dopo l’accusa di simpatie naziste, ecco il carico, la complicità nel genocidio dell’enclave bosniaca che costò la vita a ottomila musulmani. La polemica è strumentale, sgradevole e dettata dalla disperata necessità del sultano di galvanizzare il consenso interno. Ma ben venga a fare uscire le cose dagli armadi della memoria, chiusi a doppia mandata, proprio perché certe verità più sono terribili, più sono scomode. Per tutti: a cominciare dallo stesso Erdogan, che ha sempre ostacolato il riconoscimento del genocidio armeno, che avrebbe semplificato il cammino della Turchia verso l’Europa, venendo meno, appunto, un argomento di facile strumentalità. Verrebbe dunque da chiedersi da quale pulpito, ma - "grazie" a Erdogan - non buttiamo l’occasione di parlarne. Tanto più che la strage di Srebrenica, dopo 21 anni, continua ad avere contorni oscuri e, fino ad oggi, due soli colpevoli riconosciuti e condannati: i serbo-bosniaci Radko Mladic e Radovan Karadzic. È vero che un Tribunale olandese ha condannato lo Stato a risarcire alcune famiglie bosniache, così come è vero (ed è questa una differenza con la Turchia) che l’opinione pubblica e il governo hanno espresso sentimenti di vergogna, imbarazzo e condanna per il comportamento dei propri soldati, quel battaglione di caschi blu che si voltarono dall’altra parte, in attesa di ordini che non arrivarono mai. Tuttavia, nessuno ha più riesumato responsabilità di altri attori, non solo olandesi - il comando francese dei caschi blu, il governo di Belgrado, il governo musulmano-bosniaco di Sarajevo -, in sintesi quel cinico contesto politico diplomatico (da Washington, a Parigi, a Londra) che aveva ritenuto il sacrificio di Srebrenica necessario alla spartizione territoriale e agli accordi di Dayton. Furono sacrificati anche foreign fighters islamici e per loro non pianse nessuno. Siria. Contro l’impunità per i crimini di guerra occorre la giurisdizione universale di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 marzo 2017 Oggi il conflitto siriano entra nel suo settimo anno. Secondo l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, il numero delle vittime dal marzo 2011 è di oltre 400.000: un siriano su 100. Oltre il 20 per cento dei siriani vivono come rifugiati fuori dal paese e metà della popolazione che si trova ancora in Siria ha bisogno di assistenza umanitaria (la foto è stata scattata in un campo per sfollati interni di Atmeh, nei pressi di Idlib). I crimini contro l’umanità e i crimini di guerra commessi da tutti coloro che prendono parte al conflitto siriano sono stati ampiamente documentati sin dall’inizio del conflitto da Amnesty International, da altre organizzazioni per i diritti umani e dalle agenzie delle Nazioni Unite. L’elenco di questi crimini comprende: esecuzioni extragiudiziali; torture e trattamenti crudeli; attacchi deliberati contro i civili, le abitazioni, le strutture sanitarie e le infrastrutture civili; attacchi indiscriminati e sproporzionati; sparizioni forzate; sterminio e cattura di ostaggi. Per porre fine all’impunità, Amnesty International ha lanciato la campagna "Giustizia per la Siria". La campagna chiede ai governi di porre fine all’impunità e avviare l’accertamento delle responsabilità sostenendo e finanziando il meccanismo d’indagine approvato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite lo scorso dicembre e applicando la giurisdizione universale per indagare e processare persone sospettate di crimini di crimini di guerra e crimini contro l’umanità nel corso del conflitto siriano. Tutti gli stati possono esercitare la giurisdizione universale su crimini di diritto internazionale come i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. Essa permette di indagare e processare nei tribunali nazionali persone sospettate di essere responsabili di detti crimini, così come di quelli di tortura, genocidio e sparizione forzata, a prescindere dallo stato dove siano stati commessi e della nazionalità della persona sospetta o di quella della vittima. Attualmente, sono 147 i paesi che possono esercitare la giurisdizione universale su uno o più crimini di diritto internazionale. Indagini sui crimini commessi in Siria sono in corso in vari paesi europei tra cui Francia, Germania, Norvegia, Olanda, Svezia e Svizzera. L’Italia potrebbe esercitare la giurisdizione universale per le migliaia di casi di tortura verificatisi in Siria, ma come noto la legge sul relativo reato manca da quasi 30 anni. La risoluzione adottata dall’Assemblea generale nel dicembre 2016 ha dato alla popolazione siriana un barlume di speranza che la giustizia sia possibile e ha costituito un segnale di sfida per un Consiglio di sicurezza, bloccato e incapace di porre fine ai crimini di diritto internazionale in Siria. Ora, per poter diventare operativo, il meccanismo approvato dall’Assemblea generale attende il necessario finanziamento e la cooperazione, altrettanto indispensabile, degli stati che hanno votato a favore. Non farlo sarebbe l’ennesimo tradimento verso la popolazione siriana. Iraq. "Io, blogger a Mosul, vi racconto la guerra all’Isis rischiando la vita" di Sara Lucaroni L’Espresso, 15 marzo 2017 È l’autore del sito Mosul Eye e da oltre due anni racconta su Internet, di nascosto, la città occupata dal Daesh. Oggi ne testimonia la battaglia finale. L’Espresso lo ha intervistato. "Il mio è un dovere civile". Si sta concludendo in questi giorni la seconda fase dell’offensiva per liberare Mosul, la capitale irachena del Califfato. I quartieri della riva occidentale del Tigri sono ancora sotto il controllo di circa 5 mila jihadisti, mentre secondo l’Onu oltre 700 mila civili sono nella morsa dei combattimenti, privi di cibo ed energia elettrica. Il racconto più vivido e autentico della guerra in corso passa attraverso un blog, "Mosul Eye", che da due anni documenta la vita sotto la Sharia e la resistenza della città. Nessuno conosce l’identità del suo autore, che per ovvi motivi di sicurezza scrive post in modo anonimo, ma L’Espresso è riuscito a rintracciarlo e a parlargli, via Internet. "D’accordo, mi fido. Ti dico dove sono adesso e perché. Ma ti prego di non dirlo a nessuno", è il suo messaggio, arrivato a notte fonda su WhatsApp. E poi: "C’è libertà nel buio. Uno è confinato dentro il sacco amniotico dove si trova solo e non ha bisogno del permesso, l’aiuto o l’approvazione di nessuno", cita da "Lettera ad un bambino mai nato", precisando la pagina della sua copia tradotta. È lo spunto per spiegare il suo "dovere di raccontare", di come si sia camuffato per farlo, dentro quel buio. "Io sono uno storico indipendente, nato e cresciuto a Mosul", dice di sé il suo autore, e nulla più di questo. Affiancato da un gruppo di dissidenti e una rete di contatti, è ritenuto "reale" da giornalisti, analisti e studiosi di Medio Oriente. Un’identità, ha detto lo studioso Rasha Al Aqeedi al The New Yorker, che incarna la prospettiva di una "giovane intellighenzia di Mosul: la volontà di rileggere l’Islam e la questione religiosa lungo narrazioni storiche". L’unica certezza, comunque, è che qualcuno scrive, in un blog su Word- press collegato ad account su Facebook e Twitter, aggiornamenti in arabo e in inglese che mescolano cronache di vita quotidiana, esecuzioni pubbliche, notizie sulle strade più sicure, aumenti dei prezzi, appelli e bombardamenti, a riflessioni sospese tra volontà e disperazione sulla libertà, la giustizia e la religione. E il male. Il 6 novembre scorso, nel post dal titolo "Oblivion", sui miliziani di al-Baghdadi, si legge: "Vedo la paura dei loro occhi, sento il grido che esce dal loro petto e li sento dire a se stessi "che diavolo abbiamo fatto e ottenuto per noi?". Sono corpi morti che camminano". Quel giorno hanno decapitato uno dei suoi più cari amici. Non si può mentire su dolori così lucidi e "Mosul Eye" viene condiviso da ragazzi in tutto il mondo. Ancora: "Ho visto e vissuto più che a sufficienza. Ho visto teste tagliate, braccia amputate, persone buttate giù dalla sommità degli edifici, gettate sui sassi. Ho visto le loro anime cercare di trattenere il proprio corpo, ma i corpi erano così lacerati da non contenere le proprie anime". In questi giorni i post aggiornano di ora in ora sulle operazioni della seconda fase dell’offensiva per liberare la città, lanciata dall’esercito di Baghdad insieme a peshmerga curdi e milizie sciite. L’obiettivo è la conquista della sponda occidentale del Tigri, ancora controllata dall’Isis. Sul blog ci sono foto e video di documenti e di carte abbandonate dagli islamisti, le gallery dei ragazzi che ripuliscono edifici e ospedali, ma anche gli aggiornamenti sulla campagna per donare libri con cui ricreare la biblioteca centrale incendiata. Un po’ nascosta, c’è la foto della postazione dalla quale il blogger scrive: due computer, tè, cenere e sigarette. Frutta. Un cd di Beethoven. Questa è l’intervista che ci ha concesso. Che cosa sta succedendo in queste ore a Mosul? "Il dispiegamento dei combattenti Isis più imponente è nei quartieri storici. Hanno anche aperto le abitazioni lungo il fiume per usarle come passaggi sicuri. Altre case, con le famiglie tenute come ostaggio, sono utilizzate come bunker militari e magazzini. Una delle aree più vulnerabili è Al-Shahwan, vicino alla fortezza di Bashtabiya, diventata base militare. Da Hawi Al-Kanisa, l’Isis fa partire i suoi droni. Ci sono anche molti cecchini in quella zona. Di droni ora ne vengono fabbricati anche otto al giorno, gli ultimi tipi contengono esplosivo e possono sostituire gli attacchi suicidi. Ma molti combattenti del Califfo sono fuggiti in Turchia attraverso una strada a ovest della città". E i civili? "La situazione umanitaria è catastrofica. Il cherosene è a 20 mila dinari iracheni al litro (circa 16 dollari) e le persone non possono permettersi di acquistarlo. Un chilo di patate costa 25 mila dinari iracheni (20 dollari), come le cipolle. Il prezzo di un chilo di riso è 30 mila dinari (25 dollari). E non c’è sicurezza. I combattenti dell’Isis che vogliono disertare si tagliano le barbe e nascondono le divise per mescolarsi ai civili, circolando ovunque nelle zone liberate". Che rapporti hai con quelli dell’Isis? Nel blog hai scritto di avere ricevuto minacce, ma anche di essere entrato in contatto con molti di loro. "Penso che i membri dell’Isis siano molto manipolabili. Ho studiato e raccolto documenti sulla storia della presenza dei gruppi terroristici a Mosul dal 2003, è bastato citare alcuni episodi e circostanze del passato e dimostrare la mia conoscenza dell’Islam e del Corano per poter avere la fiducia di molti di loro e ottenere anche informazioni sensibili. Ma ho avuto lo stesso paura. Allora ho cominciato ad andare nelle loro moschee e sentire le lezioni, discutendo con loro nei mercati e in strada per mostrarmi devoto alla Sharia. Comunque sì, ho anche ricevuto minacce e ne ricevo ancora adesso, come "Ti uccideremo in un modo ancora sconosciuto all’umanità"". Com’è vivere sotto l’Isis? "La quantità di orrore che ho vissuto negli ultimi due anni va oltre ogni possibile descrizione". L’Isis è ancora forte? "No. È sempre meno forte, sta crollando perché ha esaurito la sua capacità di combattere". Mosul è una città cruciale. Per l’Isis come per l’Iraq. Perché? "Mosul non l’avete mai capita. Ha una sua identità, una sua armonia multiculturale e un sistema sociale totalmente diverso dal resto dell’Iraq. Suggerisco di leggere Dina Rizk Khoury in "State and Provincial Society in the Ottoman Empire: Mosul, 1540-1834" o gli studi di Peter Sluglett, che lega la città al sud della Turchia e alla Siria. Ibn Jubayr del suo viaggio a Mosul invece ha scritto: "Questa città è grande e antichissima, fortificata e maestosa e preparata contro i colpi delle avversità". La gente di Mosul vuole ritrovare quell’identità che Saddam Hussein, Al Qaeda, l’ex presidente Al Maliki e infine l’Isis le hanno rubato". Allora sei d’accordo con l’ipotesi di dividere l’Iraq? "Non sto parlando di queste vecchie discussioni o di unirsi alla Turchia, lo dico da un punto di vista psicologico, sociale e sociologico. In questi ultimi due anni la città è sopravvissuta soltanto grazie ai commerci anche petroliferi con Aleppo, che l’ha aiutata a superare tutti i vincoli imposti dalla capitale dopo l’invasione". Ma Mosul è stata anche la seconda capitale del Califfato… "Non so se sia stato condotto un vero studio scientifico sui gruppi armati di Mosul dopo il 2003. Ci sarebbero sorprese. Non esiste un solo cittadino di Mosul che abbia preso parte a gruppi terroristici. Sono state le tribù rurali che hanno costruito le fondamenta del terrorismo, qui. Lo scontro tra la società civile urbana e il mondo rurale, scaturito dopo la fine del regime di Saddam, ha favorito il secondo e radicato i gruppi terroristici". Che cosa vogliono adesso i cittadini di Mosul? "Vogliono riavere indietro il loro potere sulla città. Questo non è possibile se non con un accordo internazionale e un periodo di transizione sotto protezione. È la premessa per ricostruirla, in sintonia con la sua storia e la sua gente". C’è fiducia verso Baghdad in questi mesi? "Con l’esercito c’è un buon rapporto, grazie al modo in cui ha interagito con noi durante le operazioni. Uno dei nuovi eroi è il generale Abdulwahab Al-Sàadi. La fiducia non è un problema quando i militari trattano gli abitanti di Mosul in modo equo e giusto. Il problema è il futuro". Già, chi governerà la città? E chi è in grado di ricostruirla? "La ricostruzione è la più grande incognita. Il futuro è tutto incerto e vago. Abbiamo bisogno di sforzi e di pianificazione per ricostruire e rilanciare Mosul sul piano internazionale. Ci sono problemi persistenti di sicurezza, la paura per i gruppi sciiti, per il ritorno dei cristiani. Ci piacerebbe veder tornare i cristiani, sono parte fondamentale dell’armonia civile della futura città". E per estirpare l’Isis? "Bisogna combattere ogni forma di radicalizzazione. Molti bambini qui sono stati istruiti con queste idee, se non facciamo qualcosa saranno i futuri mostri. E anche molti adolescenti hanno in testa quella che i terroristi hanno fatto loro credere fosse la vera religione. Ho paura di questo". Cosa ti aspetti da Donald Trump? "Le sue recenti uscite sul mio Paese qui hanno sollevato molte preoccupazioni. Ha in progetto di ignorare l’Iraq, fatta eccezione forse per le sue risorse, cosa che porterà a nuove violenze. Gli Stati Uniti sono ancora un alleato strategico per l’Iraq, ma abbiamo la necessità di conoscere quanto siamo strategici noi per le loro politiche in Medio Oriente". Un’ultima domanda, su di te: perché hai iniziato a scrivere il blog? E perché continui a scriverlo, rischiando la vita? "Ho deciso di documentare ogni evento dal primo giorno dell’invasione. Sapevo che a ogni post sarei stato assalito dalla paura perché non solo io potrei essere ucciso se venissi scoperto, ma anche la mia famiglia e i miei amici, se dimostrata la loro complicità con me. Ma ho sentito la responsabilità di raccontare e far passare in qualche modo alla storia il fatto che la mia città non ha ceduto al terrorismo. E che qualcuno si alzava in piedi".