Intercettazioni e prescrizione, due anni dopo l’ok alla riforma di Claudia Fusani L’Unità, 14 marzo 2017 Stasera sarà messa la fiducia al Senato sul testo che riforma il processo penale. Domani il voto finale. L’accelerazione del governo Gentiloni. Meglio levarsi il dente in un colpo solo. In questo caso, in un giorno solo. Mercoledì, domani, il governo Gentiloni decide di mettere alla prova la tenuta della propria maggioranza con una doppia fiducia in poche ore. La mattina è previsto il voto sul disegno di legge che riforma il processo penale che contiene anche un a rivisitazione delle intercettazioni e la riforma della prescrizione. Nel pomeriggio l’aula voterà la mozione di sfiducia presentata dai 5 Stelle contro il ministro dello Sport Luca Lotti indagato per rivelazione di segreto nell’ambito dell’inchiesta Consip. "Il ddl sul processo penale, che contiene, tra le altre, anche la delega sulla riforma dell’ordinamento penitenziario, sarà votato dopodomani dal Senato" ha ribadito ieri il ministro della Giustizia Andrea Orlando ricordando come il 3 marzo il consiglio dei ministri abbia autorizzato l’utilizzo della fiducia. La conferma arriva anche dagli uffici di palazzo Madama che si predispongono ad un mercoledì da leoni. Domani, intanto, il testo dovrà tornare in Commissione per recepire un emendamento del governo che taglia le tariffe, e quindi il budget, per le intercettazioni ma non ne dovrebbe ridurre l’utilizzo. Il grosso del risparmio - 10 mln euro nel 2017, altri 10 mln nel 2018 e fino a 50 mln nel 2019 - arriverà dalla nascita di una centrale unica di ascolto che prenderà il posto delle decine di appalti esterni che le procure sono costrette a fare. Il passaggio in Commissione prima del ricorso alla fiducia è necessario per recepire nel maxiemendamento su cui sarà messa la fiducia anche quest’ultima modifica. Il ministro e il premier sono arrivati a questo punto dopo una lunga mediazione con Ncd che per due anni ha nei fatti impedito il via libera. No n c’è dubbio che ora il peso specifico del partito di Alfano sia ridotto ai minimi termini e quindi è possibile forzare. I centristi non possono certo far cadere il governo. Né ora né mai. Per il premier Gentiloni si creano così le condizioni per osare dove fino a novembre era impossibile immaginare. Per il ministro Orlando si apre la strada per realizzare una riforma che il Paese attende da anni e che, da sola, dà senso al suo mandato in questo governo. La mediazione con i centristi, le minoranze dem e la magistratura comunque c’è stata e ha prodotto nel tempo qualche effetto. La più importante riguarda i tempi delle delega: nel testo licenziato dalla Camera nel settembre 2015 si parlava di un anno per esercitare la delega sulle intercettazioni; oggi sono tre mesi, anche perché altrimenti finisce la legislatura e tutto il lavoro fatto sarebbe inutile. Un’altra importante mediazione riguarda la prescrizione: i centristi, in questo caso anche Forza Italia, contrari in tutti i modi all’allungamento dei tempi entro i quali un processo deve essere celebrato, hanno ottenuto solo alcune limature per quello che riguarda i reati contro la pubblica amministrazione. Orlando ha precisato in ogni sede che la riforma non riguarderà i processi in corso ma solo quelli che iniziano a norma diventata legge. Ai magistrati è stato concesso di portare da 12 a 15 mesi i tempi entro i quali chiedere il processo o l’archiviazione quando si tratta di reati gravi come terrorismo e mafia. Negli altri casi il termine entro il quale il pm dovrà decidere è di tre mesi prorogabili per altri tre. Adesso, una volta che c’è stato l’atto di chiusura indagini, non esiste un limite temporale per decidere se e come esercitare l’azione penale. Era il 3 marzo quando il governo ha autorizzato il voto di fiducia. A palazzo Chigi ci fu una discussione molto accesa. Il ministro della Famiglia Enrico Costa (Ned), che aveva seguito il dossier quando era in via Arenula come viceministro della Giustizia, disse chiaramente, a nome del suo partito, di "non essere d’accordo con la scelta della fiducia in assenza di modifiche al testo". Ma per Ncd non è più tempo di puntare i piedi. E per il ministro Orlando è invece arrivato quello di spingere sull’acceleratore e portare a casa la riforma. Rinviando al mittente l’ultima provocazione. C’è infatti, anche nel Pd e tra le minoranze, chi storce il naso alla fiducia perché non c’è dubbio che ottenere il via libera del Senato sarebbe un ottimo argomento da spendere nella campagna per le primarie del Pd per il candidato alla segreteria Andrea Orlando. Di fronte ad allusioni del genere, l’unica risposta è che il paese aspetta da almeno dieci anni questa riforma. Che porterà processi più veloci - nel ddl ci sono tempi certi di indagine e la semplificazione delle impugnazioni; minori rischi di veder morire i processi senza una sentenza; motivi di appello più rigorosi; una stretta su ricorsi in Cassazione alla tanto attesa limitazione della pubblicazione delle intercettazioni. Qualora la fiducia dovesse passare, il testo dovrà tornare alla Camera per il via libera definitivo. Ma soprattutto le deleghe dovranno essere scritte entro tre mesi e prima della fine della legislatura. Altrimenti sarà tutto inutile. Riforma del processo penale. Forse è la volta buona, ma i magistrati attaccano di Silvio Capone La Notizia, 14 marzo 2017 Forse questa è veramente "la volta buona", dopo numerosi rinvii e scontri all’interno della stessa maggioranza di Governo. Questo pomeriggio, salvo clamorosi colpi di scena, arriverà in Aula a Palazzo Madama la riforma del processo penale, sul quale il Consiglio dei ministri ha già autorizzato il voto di fiducia: decisione che ha scatenato la polemica fra il ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd) e quello degli Esteri Angelino Alfano (Ncd) e provocato le proteste delle opposizioni e dei magistrati, con l’Unione delle camere penali che ha proclamato cinque giorni di sciopero fra il 20 e il 24 marzo prossimo. Orlando sembra comunque intenzionato a tirare dritto, anche se va detto che la legge dovrà tornare alla Camera prima del via libera definitivo. Non sarà tutto e subito, insomma. Le criticità non mancano, e riguardano i due aspetti principali del ddl penale: la delega sulle intercettazioni e la prescrizione. Su quest’ultimo punto le novità si annunciano importanti. Giro di vite - Il Guardasigilli, candidato alla segreteria del Pd contro Renzi ed Emiliano, le ha presentate come una stretta sulla pubblicazione indiscriminata delle registrazioni e non come una limitazione all’uso dello strumento investigativo. La delega è infatti molto ampia e comprende anche un limite all’esercizio dei software spia (trojan), interrompe la pratica della trascrizione automatica di tutte le conversazioni da parte della polizia giudiziaria e affida al pubblico ministero l’onere di selezionare quelle strettamente necessarie a sostenere l’accusa, chiudendo in cassaforte le altre. E ancora: gli avvocati difensori potranno ascoltarle ma non copiarle. Muro contro muro - L’altro aspetto è invece quello che riguarda la prescrizione. L’accordo raggiunto durante i lavori parlamentari ha portato alla previsione di 3 anni per la sospensione dei termini in caso di condanna in primo grado, con uno stop di un anno e mezzo tra il processo di primo grado e l’appello, e la medesima sospensione tra secondo grado e Cassazione. L’aumento dei termini di prescrizione, con uno stop fino a 18 anni, è poi previsto per i reati contro la pubblica amministrazione (come la corruzione). Su questo punto, il partito di Alfano rimane contrario all’impostazione data, ma non dovrebbe far mancare i propri voti. Non solo. Lo scontro, come detto, non è esclusiva delle forze politiche, ma riguarda anche il rapporto fra politica e toghe. Nei giorni scorsi l’Associazione nazionale magistrati (Anm), presieduta da Piercamillo Davigo, ha espresso forti preoccupazioni sulla previsione di un obbligo per i pubblici ministeri di esercitare l’azione penale o chiedere l’archiviazione entro 3 mesi dalla fine delle indagini preliminari, pena l’avocazione obbligatoria dell’inchiesta da parte della Procura generale. Una norma che il sindacato della toghe aveva definito "inutile e dannosa" nonché "irrazionale", col rischio di "vanificare migliaia di indagini". Riforma del processo penale. Ecco cosa cambia Adnkronos, 14 marzo 2017 È previsto per domani, mercoledì 15 marzo, il primo via libera da parte del Senato alla riforma del processo penale, un provvedimento già passato all’esame della Camera e finito ora sotto la lente d’ingrandimento di Palazzo Madama. Il ddl mira a modificare alcune disposizioni del codice penale (come l’inasprimento delle pene per furti e rapine, l’estinzione del reato per condotte riparatorie), del codice di procedura penale (come la disciplina delle indagini preliminari) e delle norme di attuazione. Con il provvedimento, che si compone di 40 articoli, viene inoltre delegato il governo a una riforma del processo penale e dell’ordinamento penitenziario. Ma quali sono le principali novità contenute nel disegno di legge presentato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando? Pene più severe per furti e rapine - Tra le modifiche al codice penale è previsto l’inasprimento delle pene per il reato di scambio elettorale politico-mafioso (reclusione da sei a dodici anni, al posto della pena attuale da quattro a dieci anni) e per alcuni reati contro il contro il patrimonio, tra i quali il furto in abitazione e con strappo, il furto aggravato e la rapina. Il testo prevede inoltre l’estinzione del reato per condotte riparatorie, ossia la possibilità per il giudice di dichiarare estinto il reato in relazione alle condotte riparatorie dell’imputato (come il risarcimento all’eliminazione delle conseguenze del reato), con riguardo a taluni reati perseguibili a querela. Le nuove disposizioni si applicano anche ai processi in corso. Il provvedimento modifica inoltre direttamente il regime di procedibilità del reato di violenza privata (art. 610 c.p.), richiedendo nelle ipotesi non aggravata la querela di parte. Intercettazioni - Il provvedimento contiene la delega al governo a riformare le intercettazioni e i giudizi di impugnazione. In particolare, per le intercettazioni sono previsti principi a tutela della riservatezza delle comunicazioni e una nuova fattispecie penale (punita con la reclusione non superiore a 4 anni) a carico di quanti diffondano il contenuto di conversazioni fraudolentemente captate, al solo fine di arrecare danno alla reputazione. La punibilità è esclusa quando le registrazioni sono utilizzabili in un procedimento amministrativo o giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca. Il pm, deve assicurare la riservatezza anche degli atti contenenti registrazioni di conversazioni o comunicazioni informatiche o telematiche inutilizzabili a qualunque titolo, ossia contenenti dati sensibili che non sono utili al procedimento. Anche le intercettazioni che abbiano coinvolto occasionalmente soggetti estranei ai fatti per cui si procede devono essere escluse. Il provvedimento contiene anche una disciplina per le intercettazioni effettuate tramite i cosiddetti trojan (i captatori informatici che consentono di captare dialoghi tramite dispositivi mobili). Prescrizione - Altra misura contenuta nel ddl è quella che reca modifiche alla disciplina della prescrizione dei reati (Capo II - art. 7-11). Il testo in esame prevede, in particolare, che dopo la sentenza di condanna in primo grado il termine di prescrizione resti sospeso fino al deposito della sentenza di appello, e comunque per un tempo non superiore a un anno e sei mesi; dopo la sentenza di condanna in appello, anche se pronunciata in sede di rinvio, il termine di prescrizione resta sospeso fino alla pronuncia della sentenza definitiva e comunque per un tempo non superiore a un anno e sei mesi. Il disegno di legge stabilisce inoltre che per i reati di maltrattamenti in famiglia, tratta di persone, sfruttamento sessuale di minori e violenza sessuale e stalking, se commessi in danno di minori, il termine di prescrizione decorre dal compimento del diciottesimo anno di età della vittima, salvo che l’azione penale non sia stata esercitata in precedenza; in quest’ultimo caso, infatti, il termine di prescrizione decorre dall’acquisizione della notizia di reato. Il disegno di legge interviene inoltre sui termini di prescrizione per i reati di corruzione e prevede che l’interruzione della prescrizione non possa comportare l’aumento di più della metà del tempo necessario a prescrivere anche i seguenti reati: corruzione per l’esercizio della funzione, corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, corruzione in atti giudiziari, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio, pene per il corruttore, peculato, concussione, induzione indebita dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri della Corte penale internazionale o degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri limitatamente ai delitti già richiamati, nonché la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. La riforma della prescrizione, precisa il testo, potrà applicarsi ai soli fatti commessi dopo l’entrata in vigore della legge. Nuovo Ordinamento Penitenziario - La disposizione di delega contiene specifici principi e criteri direttivi per l’adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze rieducative dei detenuti minori di età, con riferimento tanto alle autorità giurisdizionali coinvolte, quanto all’organizzazione degli istituti per i minorenni. Il testo prevede inoltre la revisione delle misure alternative alla detenzione e dei benefici penitenziari, in particolare all’istruzione e ai contatti con la società esterna, in funzione del reinserimento sociale. Indagini preliminari - Il testo del ddl modifica le disposizioni del codice di procedura penale che riguardano le indagini preliminari, l’archiviazione e l’udienza preliminare. Il provvedimento interviene, tra l’altro, sui tempi delle diverse fasi, sulle garanzie della persona offesa dal reato, sulla nullità del provvedimento di archiviazione e prevede che allo spirare del termine di durata massima delle indagini preliminari, il pm abbia tempo 3 mesi (12 per i reati più gravi), prorogabili una sola volta, per decidere se chiedere l’archiviazione o esercitare l’azione penale, altrimenti l’indagine sarà` avocata dal procuratore generale presso la corte d’appello. Con la prescrizione allungata addio processi brevi di Giorgio Gandola La Verità, 14 marzo 2017 L’intervento del Pd sulla legge per riformare il procedimento penale rischia di rendere sempre più difficile arrivare a sentenza Caso estremo, la corruzione di pubblici ufficiali: il limite passa da 20 a 33 anni. Gentiloni mette la fiducia e il partito dei pm esulta. Un elastico chiamato giustizia. Fra oggi e domani arriva in aula al Senato la riforma del processo penale che potrebbe dare la mazzata finale alle buone intenzioni di rendere più efficiente e snella la macchina giudiziaria per avere sentenze in tempi relativamente brevi. E questo perché nelle pieghe del provvedimento c’è la trappola della prescrizione con tempi destinati ad allungarsi ancora. Anzi a diventare infiniti, senza alcuna garanzia per il cittadino che rischia di dover attendere oltre 30 anni prima di sapere se è innocente o colpevole. Con l’avallo di una legge dello Stato. La prescrizione, così come è uscita dalla commissione Giustizia a trazione Pd, somiglia vagamente a un guanciale sul quale un procedimento si può addormentare in attesa che si trovino le prove per incriminare una persona. Tutto ciò per la massima soddisfazione dei magistrati inclini alla ricerca del teorema e per la massima frustrazione di coloro che accendono i riflettori sugli indagati solo quando hanno la ragionevole certezza che siano realmente protagonisti di un atto criminoso. Se la legge passa, i tempi rischiano di diventare biblici. Un paio di esempi. Per corruzione in atti d’ufficio si passerebbe dagli attuali 10 anni anche a 18; per corruzione in atti giudiziari dagli attuali 14 anche a 24; per corruzione e concussione con pubblici funzionari coinvolti si parte dagli attuali 20 anni e si arriva a oltre 33 anni. Praticamente Gesù avrebbe fatto in tempo a nascere e a morire. E sulla spinta del trasversale partito dei magistrati, il governo Gentiloni ha deciso di mettere la fiducia sulla votazione per non rischiare una altrettanto trasversale reazione negativa sul merito della legge. "Eterno processo dona loro governo", sintetizza il senatore Carlo Giovanardi di Idea. "La cosa più eclatante è che si aumentano i minimi di pena per molti reati, quindi si partirà più facilmente con l’arresto e con il carcere preventivo. Il rischio è che passi il principio secondo il quale lo Stato può prendersi 33 anni prima di saperti dire se sei innocente 0 colpevole. È lo stile di Giuseppe Lumia. Lui in commissione sostiene che lo Stato non può arrendersi nel condannare un colpevole. Ma il processo ha il compito di stabilire altro, vale a dire se questa persona è innocente o colpevole. Così, più sono infondati o labili gli elementi che portano un cittadino in carcere, più la tendenza sarà non fare il processo, attendere, tanto la prescrizione è lontana. Servirebbe l’esatto contrario". Più volte l’Europa ha sollecitato l’Italia a riformare la giustizia per renderla più rapida, più efficiente. Più volte ci siamo imbattuti in casi limite, come quello di Torino dove qualche settimana fa un pedofilo è stato mandato libero dopo 20 anni senza una sentenza, per sopravvenuta prescrizione. E più volte abbiamo notato che il problema (come nel caso torinese) non sia nella prescrizione corta, ma nei tempi esasperanti di quel procedimento. 20 anni per non mettere a ruolo il processo d’Appello; un’ingiustizia che lo stesso presidente del Tribunale ha voluto sottolineare con le scuse pubbliche. Non essendo capaci di arrivare a sentenza in tempi ragionevoli, si allunga la prescrizione. Eppure non sarebbe impossibile. Nei convegni di settore si fa spesso l’esempio di Carlo Nordio e dell’inchiesta sul Mose. Fu istruita con profondità d’indagine, fu arricchita da dati certi e portò a sentenze in termini di mesi, non di decenni. La stessa riforma che terrà banco nei prossimi giorni, prima di vedere la luce dell’aula ne ha impiegati tre, tanto che il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, è stato costretto a sollecitare un cambio di passo. L’imposizione della fiducia ci mostrerà ancora una volta lo psicodramma del Ncd, che in natura non avrebbe mai votato l’allungamento della prescrizione. Ma che sarà costretto a farlo per ordini di scuderia. Sorpresa: i partiti hanno scoperto il garantismo di Piero Sansonetti Il Dubbio, 14 marzo 2017 Forse qualcosa si muove nella politica italiana. Tra sabato e domenica si sono tenute due kermesse importanti. Quella di Renzi al Lingotto e quella di Giuliano Pisapia a Roma. In tutte e due il tema del garantismo ha avuto uno spazio notevole. È una grande novità. Renzi ha invitato il figlio di un ex politico inquisito, e poi suicidatosi, e successivamente risultato innocente: l’assessore Giorgio Nugnes, di Napoli. Facendo strappare i capelli al povero Marco Travaglio che sul "Fatto" ha strepitato per due giorni consecutivi, perché non si capacitava di tanto ardire. Pisapia ha parlato a lungo di un tema che peraltro, prima ancora di diventare un leader politico, aveva sempre messo al centro del suo lavoro e del suo impegno intellettuale: i diritti, anche i diritti individuali, come pilastri di una costruzione democratica. Questo schierarsi su posizioni garantiste è una novità, soprattutto è una novità a sinistra. Da una trentina d’anni almeno i partiti di sinistra in Italia hanno confuso garantismo e corruzione. E questo è stato un grandissimo problema. Perché ha impedito a questi partiti di fare la lotta alla corruzione. E perché ha lasciato la difesa del garantismo ad alcuni delimitati settori del centrodestra, o più precisamente - se vogliamo essere precisi - a Silvio Berlusconi e al suo ristretto gruppo di collaboratori. Il garantismo non può essere una esclusiva di una parte dello schieramento politico: non è un modo di pensare tipico della sinistra o della destra. Il garantismo non è una ideologia. È una forma di impegno politico e intellettuale organico all’ideologia democratica. Che necessariamente attraversa gli schieramenti. La democrazia non può esistere senza garantismo, perché assume subito una connotazione autoritaria e perde quel suo elemento fondante che è l’indiscutibilità dello Stato di diritto. Noi siamo abituati a contrapporre garantismo e giustizialismo. In realtà non sono due filoni ideali che possano essere messi sullo stesso piano. Il giustizialismo è effettivamente una ideologia, come lo sono stati il comunismo, o il fascismo. Il giustizialismo è un modo di vedere le cose, e di immaginare l’impianto della società e dello Stato, che prescinde dal diritto e sostituisce il diritto con l’etica. Il giustizialismo, come il comunismo e il fascismo, appunto, sostituisce lo "Stato di diritto" con lo "Stato etico". Naturalmente "Stato di diritto" e "Stato etico" non solo non sono conciliabili, ma rappresentano due modi diversi di concepire le relazioni pubbliche. Lo "Stato di diritto" è basato sulla certezza del diritto. Lo "Stato etico" è fondato sulla relatività dell’etica. L’etica non è mai assoluta: dipende da chi la definisce, da chi la pratica, da chi la impone. L’etica, se diventa pubblica, è indissolubilmente legata al potere. Ed è subalterna al potere. Il diritto invece è superiore al potere. Lo organizza, lo limita, lo giudica. Se davvero siamo entrati in una fase politica nella quale il garantismo - cioè la religione dello "Stato di diritto" - che da almeno trent’anni, in Italia, è considerato un nemico della "morale", torna a pieno titolo al centro della scena, allora è logico aspettarsi che i partiti politici compiano dei passi concreti. Servono leggi che smantellino le legislazioni speciali e di emergenza che da trent’anni a questa parte hanno sfregiato lo Stato di diritto, servono misure che impediscano alla politica e al giornalismo di essere il regno dei sospetti e dei linciaggi. Bisogna agire a tutto campo. Dalla legislazione in materia di pentiti, alle intercettazioni, alla pubblicità degli avvisi di garanzia, alla applicazione dell’articolo 111 della Costituzione - quello sul giusto processo, che oggi è violato da molte leggi in vigore - e infine al ritorno alla centralità del processo, che oggi è del tutto contraddetta dalla centralità delle indagini preliminari. Si sta facendo già qualcosa? Non moltissimo siamo sinceri. Allungare la prescrizione non è una misura che proprio coincide con quella indicazione della Costituzione che è la "ragionevole durata" di un processo. Se per una accusa di corruzione posso aspettare anche più di 20 per essere giudicato, e se poi addirittura a qualcuno sembrano anche pochi, la Costituzione va a farsi benedire. Le intercettazioni restano comunque uno strumento che qui in Italia è usato dieci o cento volte più che negli latri paesi europei. La carcerazione preventiva è una malattia mortale della nostra giustizia, che permette e giustifica inauditi soprusi. In questi ultimi anni il ministro Orlando ha fatto fare molti passi avanti alle posizioni del governo. Molti, si, va bene, molti: ma - scusate l’ossimoro - davvero troppo pochi ancora. Se la politica decide di avere le spalle abbastanza larghe per sfidare il populismo giudiziario e per dire che il garantismo è un valore essenziale della democrazia, deve fare passi molto, molto più lunghi. Anche perché bisogna riparare i danni compiuti in un quarto di secolo. Gli effetti perversi dell’avviso di garanzia di Carlo Nordio agenziaradicale.com, 14 marzo 2017 Si finge di non sapere quale sia la funzione dell’informazione di garanzia. Questa funzione, come dice la stessa parola, è quella di garantire chi ne viene informato, cioè il cittadino, che nei suoi confronti si sta appunto svolgendo una certa indagine. Non significa ovviamente condanna, ma non significa nemmeno imputazione: chi è raggiunto dall’informazione di garanzia non è nemmeno imputato. Questo istituto dell’informazione di garanzia è più vecchio del Codice penale del 1988-89 e risale a vent’anni prima, cioè agli anni 60, quando si volle rimediare alla circostanza che delle persone fossero sottoposte a un’indagine senza saperlo e senza predisporre i mezzi a propria tutela e difesa. Sin dal primo momento, però, ha avuto una vita abbastanza tormentata, anche dal punto di vista lessicale perché prima è stato chiamato "avviso di reato" poi "informazione di reato" e alla fine "avviso di garanzia". Perché questo? Perché sin dal primo momento si è capito che quello che era uno strumento a difesa e tutela del cittadino si convertiva a suo danno, perché attraverso la strumentalizzazione mediatica diventava una specie di condanna anticipata. Quando poi è scoppiata Mani pulite, questa perversione in senso latino, cioè questo "malo uso" dell’informazione di garanzia si è tradotto in strumentalizzazione politica, perché se ne sono serviti i politici non certo i magistrati per eliminare o comunque delegittimare gli avversari. Con il pretestuosissimo motivo che chi era indagato, cioè chi era iscritto in questo registro era bene che facesse un passo indietro in attesa di tutti i chiarimenti. Naturalmente poiché la giustizia italiana penale è eterna, questo significava eliminarlo dalla vita politica perché prima che intervenisse il chiarimento intanto passavano anni. A un certo punto si è addirittura voluto addebitare alla magistratura questa colpa, mentre qui davvero non c’entriamo nulla nel senso che l’informazione di garanzia è un atto dovuto, un atto - ripeto - a tutela di chi lo riceve e se noi non lo inviassimo nei casi previsti dalla legge, commetteremmo un abuso e un’omissione di atti d’ufficio. Sennonché proprio perché la politica se ne è impadronita come strumento anomalo, quella che è una attività che dovrebbe essere a tutela di chi riceve questa famigerata cartolina verde - quello è il suo colore - si è convertita appunto in uno strumento di lotta politica. Personalmente credo che, a questo punto, dopo cinquant’anni di fallimenti, l’informazione di garanzia prima ancora che essere rivista deve essere eliminata, perché ha cagionato più danni che vantaggi. Resta il fatto che è scandaloso che ancora oggi si dica che se un Sindaco, se un ministro o un parlamentare riceve un avviso di garanzia debba fare un passo indietro o addirittura dimettere e non presentarsi più alle elezioni. Il Consiglio d’Europa: l’Italia vari subito il reato di tortura La Repubblica, 14 marzo 2017 Comitato dei ministri: insufficienti le misure prese dopo sentenza di condanna di Strasburgo sul caso Cestaro. Associazione Antigone: "La nostra credibilità internazionale è minacciata. Si approvi la legge". L’Italia deve introdurre senza più attendere i reati di tortura e trattamenti degradanti, assicurando che siano sanzionati adeguatamente e gli autori non possano più beneficiare restare impuniti. A chiederlo è il comitato dei ministri del Consiglio d’Europa che ha ritenuto insufficienti le misure sinora prese dall’Italia per dare esecuzione alla sentenza di condanna della Corte europea dei diritti umani sul caso Cestaro (irruzione nella scuola Diaz durante il G8 di Genova) emessa il 7 aprile 2015. Due anni fa la Corte di Strasburgo decretò che Arnaldo Cestaro era stato vittima di tortura durante la perquisizione alla scuola Diaz avvenuta il 21 luglio 2001, alla conclusione del G8 di Genova. Il comitato dei ministri "nota con preoccupazione che malgrado le chiare indicazioni fornite dalla sentenza della Corte di Strasburgo, la legislazione italiana non si è ancora ad oggi dotata di disposizioni penali che permettano di sanzionare in modo adeguato i responsabili degli atti di tortura e di altre forme di maltrattamenti vietati dalla convenzione europea dei diritti umani". L’esecutivo del Consiglio d’Europa ricorda che un progetto di legge sulla materia è fermo in Parlamento e quindi chiede alle "autorità di agire con urgenza per finalizzare senza più attendere il processo legislativo per assicurare che la legge nazionale sanzioni tutte le forme di trattamento proibite dall’articolo 3 della convenzione europea dei diritti umani (proibizione assoluta di ricorrere a tortura e maltrattamenti inumani e degradanti) e che gli autori di tali atti non possano più beneficiare di misure incompatibili con la giurisprudenza della Corte". Il comitato dei ministri chiede inoltre all’Italia di "fornire informazioni sulle disposizioni che regolano la responsabilità disciplinare delle forze dell’ordine e su quelle che permettono l’identificazione di chi partecipa ad azioni simili a quelle condotte alla Diaz". "È scandaloso che l’Italia faccia ostruzione a tutti gli organismi internazionali ed è scandaloso che il nostro Paese non preveda che la tortura, crimine contro l’umanità, sia un reato" dice Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone che si batte per i diritti nelle carceri. "È inoltre scandaloso - prosegue Gonnella - che l’Italia assicuri impunità ai torturatori nostrani e stranieri". "Presto - anticipa il presidente di Antigone - arriverà anche un nuovo monito dalle Nazioni Unite e sono preannunciate nuove condanne dalla Corte di Strasburgo". "La nostra credibilità internazionale è minacciata. Dunque si approvi subito il reato" conclude Gonnella. Bindi: "i beni confiscati alle mafia valgono 25 miliardi, bisogna approvare la riforma" Il Tirreno, 14 marzo 2017 I dati presentati dell’Agenzia nazionale (Anbsc) al Viminale indicano un calo di 600 unità rispetto al 2015. Gli appelli della presidentessa dell’antimafia e del capo della Dna Roberti al Senato perché approvi la nuova legge ferma da mesi. "Tra denaro, beni immobili, terreni e aziende, i beni confiscati alle mafie valgono almeno 25 miliardi di euro: in un momento difficile come questo non possiamo permetterci di non sfruttare adeguatamente questo patrimonio, facendone un volano per l’economia e per il welfare del Paese". A dirlo è la presidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, intervenuta il 13 marzo 2017 al Viminale alla Giornata nazionale dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Bindi sottolinea l’urgenza di approvare la riforma dei beni confiscati ferma al Senato da mesi. Riforma che promette di snellire il lavoro dell’Agenzia che ad oggi si districa a fatica tra case, pizzerie, alberghi, imprese edili, palazzi interi, castelli. Un dato per tutti: gli immobili confiscati e sequestrati alle mafie e destinati dall’Agenzia nazionale sono calati da 1.731 nel 2015 - anno di boom rispetto ai 191 del 2012, ai 335 del 2013 e ai 627 del 2014 - a 1.098 nel 2016. Seicento in meno dunque. Lo si legge nella raccolta di dati statistici dell’Anbsc, diffusi durante la conferenza alla presenza del ministro dell’Interno Marco Minniti e del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti e del direttore dell’Agenzia Umberto Postiglione. Sul fronte degli immobili, nel 2016 il 64% è stato destinato agli enti locali per finalità sociali, il 23% agli enti locali per finalità istituzionali e l’11% mantenuto al patrimonio dello Stato "per usi governativi, di ordine pubblico, giustizia". Per quanto riguarda invece i beni mobili registrati, sempre l’anno scorso il 35% è stato assegnato alle forze dell’ordine e l’8% ai vigili del fuoco per soccorso pubblico. "La Relazione - ha spiegato Postiglione - testimonia gli sforzi fatti per venire fuori da una situazione complessa, resa ancora più difficile dalla continua prospettiva di cambiamenti normativi non ancora arrivati. Pur lavorando sotto organico, abbiamo raggiunto risultati importanti, compresa l’implementazione di una piattaforma informatica che rappresenta una vera e propria rivoluzione in termini di trasparenza e di velocità delle procedure: oggi siamo in grado di assegnare i beni confiscati nel giro di quattro mesi". Sull’urgenza della riforma insiste anche Minniti, secondo cui alla guida dell’Agenzia ci vorrebbe un manager. "Per evitare che un’azienda muoia dice il ministro - servono competenze e professionalità specifiche, degli esperti di mercato, dei manager. Ecco perché a dirigere l’Agenzia potrebbe anche non essere un prefetto, pur all’interno di un sistema che riconosca ed esalti la centralità del ruolo delle prefetture". "Quella che siamo chiamati a giocare - ha ricordato il ministro dell’Interno - è una partita cruciale, la convinzione che per colpire al cuore la criminalità organizzata fosse necessario aggredirne i beni si è dimostrata una strategia vincente: i risultati sono sotto gli occhi di tutti, al punto che l’obiettivo di sconfiggerla definitivamente, prima molto lontano, ora è dentro un orizzonte percorribile. E un aiuto importante in tal senso potrebbe arrivare proprio dal testo di riforma della gestione dei beni confiscati ora all’esame del Senato: il periodo di tempo per arrivare alla sua approvazione non può essere illimitato, sarebbe un peccato mortale non arrivarci entro la fine della legislatura. Faccio appello in questo senso al Parlamento". Giudici con il doppio lavoro e intanto le sentenze aspettano di Carmine Gazzanni La Notizia, 14 marzo 2017 Uno scandalo togato: solo l’anno scorso 1.366 doppi incarichi. Lavori extra strapagati per tutti. Seminari, convegni, lezioni, libri e relazioni. Tutto, ovviamente, retribuito profumatamente con compensi che arrotondano stipendi già di per sé a dir poco stellari. Questo è il motivo, d’altronde, per cui la grana degli incarichi extragiudiziari, puntualmente, fa la sua comparsa nelle stanze del Csm. È lecito che i magistrati vengano autorizzati a svolgere incarichi fuori dal proprio ruolo togato, anche per conto di privati? È una domanda che tanti si pongono, specie tra i membri laici del Consiglio superiore della magistratura. Ma, caso strano, non si arriva mai ad una risposta chiara. Con la conseguenza inevitabile che i magistrati di tutta Italia continuano a collezionare incarichi pagati profumatamente. E, d’altronde, il buon esempio viene direttamente da Giovanni Canzio, primo presidente della Corte di Cassazione. Nonostante, come si sa, Canzio porti a casa qualcosa come 24omila euro, il presidente sta tenendo 60 lezioni all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (dal primo ottobre 2016 al 18 maggio 2017), per un compenso di 4.300 euro. Ma Canzio non è l’unico della Consulta a lavorare anche fuori dai tribunali. Roberto Mucci, magistrato presso la Cassazione, a giugno ha tenuto nove ore di lezione, portando a casa altri 960 euro. Atenei e multinazionali - Sono, questi, solo alcuni della miriade di esempi che si potrebbero fare. Secondo l’ultimo aggiornamento del Csm infatti (giugno 2016 - novembre 2016) sono stati autorizzati 504 incarichi extra, che, uniti a quelli del precedente semestre (novembre 2015 - maggio 2016), ci portano all’incredibile cifra di 1.366 incarichi. Una valanga, insomma. In cui, ovviamente, troviamo di tutto. Dalle lezioni universitarie come nel caso di Canzio, ai seminari presso gli archivi notarili, passando ovviamente per incarichi ministeriali, fino ad arrivare a Regioni, Province e Asl. Il punto, però, è che molto spesso gli incarichi che accettano i magistrati sono conferiti da privati. Ed è proprio qui che molti temono possano nascere potenziali conflitti d’interesse. Tra i vari committenti spuntano vari atenei privati (dalla Luiss alla "Kore" di Enna fino alla Bocconi); società attive nell’editoria giuridica, come la Altalex Consulting o la Giuffrè Editore; sindacati come la Anaao Assomed, che raccoglie i medici dirigenti. Infine multinazionali, come la Wolters Kluwer, che si occupa di formazione professionale. L’esempio è quello del giudice Paolo Scognami-glio: due incarichi ricevuti dalla Wolters per un totale di 35 ore e un compenso di quasi tornila euro. I recordman - Ovviamente in questa sfilza di incarichi, non potevano mancare "recordman". Come, ad esempio, il presidente del Tribunale di Frosinone, Paolo Sordi. Nel triennio precedente ha collezionato ben 43 incarichi e nell’ultimo semestre ne ha aggiunti altri 8. Si va dai 3.200 euro per le 40 ore di lezione presso la Lumsa ai 3.600 euro per le 20 ore a La Sapienza. E poi, ancora, incarichi con la Paradigma e con altri istituti privati per un totale di oltre 10mila euro. Non male anche Salvatore Saia che, pur lavorando al vertice del mondo togato, in Cassazione, negli ultimi sei mesi ha arrotondato con altri 7mila euro, visti i suoi sette incarichi extra. Che dire ancora di Vincenzo Pacileo, procuratore aggiunto a Torino: 4 incarichi (che si aggiungono ai 15 collezionati nel triennio precedente) che l’hanno spedito in tutt’Italia, da Teramo ad Ascoli, senza dimenticare le due ore di lezione all’Istituto di Ricerca Agroalimentare, pagate ben 500 euro. Finita qui? Assolutamente no. Molto spesso, ancora, l’impegno richiesto è pluriennale. Guido Rispoli, per dire, pur lavorando alla Corte d’Appello di Campobasso, è stato "chiamato" al Comune di Bolzano fino al 2020. Non proprio dietro l’angolo. Uccise il ladro, tabaccaio assolto Corriere Veneto, 14 marzo 2017 Per la procura di Padova non andava condannato. Salvini: "Il 25 aprile a Verona per chiedere la riforma" Franco Birolo sparò al bandito, i giudici ribaltano la sentenza di primo grado. "Legittima difesa". "È stata legittima difesa". Ribaltando la sentenza di primo grado, la Corte d’appello di Venezia ha assolto Franco Birolo, il tabaccaio di Civè di Correzzola, nel Padovano, che nel 2012 uccise con un colpo di pistola il ventiduenne moldavo Igor Ursu durante un furto nella tabaccheria della piccola frazione. Era stato lo stesso sostituto procuratore generale Paolo Luca a chiedere l’assoluzione, "dopo essermi consultato con il procuratore generale Antonino Condorelli, vista la delicatezza del caso", ha voluto precisare. "In nome del popolo italiano, in riforma della sentenza...". Le sette sono passate da pochi minuti, la camera di consiglio è durata due ore. E mentre il presidente del collegio della Corte d’appello, Michele Bianchi, inizia a leggere il dispositivo di sentenza, in aula, sul banco dell’imputato, si capisce già che l’incubo è finito. La Corte ha infatti assolto Franco Birolo, il tabaccaio di Civè di Correzzola, che nella notte del 25 aprile 2012 uccise con un colpo di pistola il 22enne moldavo Igor Ursu durante un furto nel suo negozio nella piccola frazione, al confine tra le province di Padova e Venezia. In attesa delle motivazioni, che arriveranno in 60 giorni, i giudici hanno scritto che "il fatto non costituisce reato": hanno così ribaltato la sentenza di primo grado del giudice di Padova Beatrice Bergamasco, che aveva invece condannato Birolo a una pena di 2 anni e 8 mesi di carcere e a un risarcimento di 325 mila euro ai parenti della vittima, ritenendolo colpevole di un eccesso di legittima difesa. Era stato lo stesso sostituto procuratore generale Paolo Luca a chiedere l’assoluzione, con una precisazione importante: "Mi sono consultato con il procuratore generale Antonino Condorelli, vista la delicatezza del caso". La seconda postilla, prima della richiesta finale, è stata invece proprio per il giudice Bergamasco, che dopo quella sentenza di un anno fa fu vittima di attacchi pesantissimi sulla rete e sui social, tanto che fu costretta ad avere la scorta per alcuni mesi. "Questo non significa giudicare malamente la decisione della collega - ha spiegato Luca - Il materiale probatorio autorizza ipotesi diverse, ma noi nel dubbio abbiamo ritenuto di dare prevalenza alla tesi a favore dell’imputato". La procura generale si è dunque convinta che il tabaccaio padovano avesse reagito a una situazione che, in quegli attimi concitati, gli era sembrata legittimamente pericolosa per se stesso e per i suoi famigliari, visto che la sua abitazione era sopra la tabaccheria. D’altra parte il suo avvocato Luigino Maria Martellato ha ricordato che Birolo era sceso armato con la Glock dopo essere stato svegliato dal rumore assordante dell’auto dei banditi che, in retromarcia, avevano sfondato la vetrina, e dai due allarmi. "Non solo quello della tabaccheria, ma anche il volumetrico alla base delle scale - ha spiegato il legale - Che cosa doveva aspettare? Che entrassero in camera?". "Non siamo in presenza di un giustiziere - è stata la chiosa del pg Luca - ma di una persona che sarà per sempre segnata nella sua coscienza da quell’episodio. In quel momento lui ha percepito una situazione di gravissimo pericolo, che va valutata in quel momento, non ex post". Questo il nodo principale. Martellato ha letto gli svariati interrogatori di Birolo e anche Luca ha sottolineato che fin da subito l’imputato aveva detto di aver percepito che Ursu aveva qualcosa in mano e che avesse intenzione di aggredirlo. La procura ha così interpretato anche gli esiti dell’autopsia, che aveva parlato di un proiettile entrato dall’ascella destra e uscito dall’ascella sinistra, sparato peraltro da non più di due metri. "È molto improbabile che Ursu stesse correndo per scappare - ha osservato Luca, smontando uno dei punti centrali della sentenza di primo grado - mi sono messo davanti allo specchio per mimare la corsa e ritengo quasi impossibile che un proiettile in quella situazione non colpisca le braccia. La vittima aveva dunque le braccia alte, o per scagliare il registratore di cassa o per aggredire Birolo". Registratore di cassa che, peraltro, era vuoto, come lui ben sapeva, ribadendo che se c’era qualcosa che stava difendendo era la sua vita. A poco sono serviti i tentativi degli avvocati di parte civile, Paola Miotti e Eleonora Danieletto (la madre e la sorella di Ursu erano presenti in aula), di difendere la sentenza di primo grado. "La reazione fu sproporzionata", avevano affermato. Ora potrebbero ancora fare ricorso in Cassazione, ma la richiesta civilistica di fatto riaprirebbe l’intero processo. Difficile. Da Stacchio a Zaia: si cambi la legge sulla legittima difesa di Andrea Priante Corriere Veneto, 14 marzo 2017 "Questa sentenza indica una precisa direzione: che il Parlamento si metta il cuore in pace e legiferi sulla legittima difesa. Perché una decisione come questa dichiara che la difesa è sempre legittima". Lo dice il governatore del Veneto Luca Zaia commentando l’assoluzione in Appello di Franco Birolo, il tabaccaio di Civè di Correzzola (Padova) che il 25 aprile del 2012 sparò e uccise un ladro sorpreso a rubare nel suo negozio. Quella per l’estensione del diritto alla difesa è una battaglia cara alla Lega Nord, con il leader Matteo Salvini che già lo scorso anno quando in primo grado il negoziante fu invece condannato a due anni e otto mesi, e 325 mila euro di risarcimento - lanciò lo slogan "Io sto con Birolo". E ora è proprio il Carroccio a cantare vittoria. A cominciare dal sindaco "padano" Mauro Fecchio, che difese il suo compaesano fin dal mattino successivo alla sparatoria, quando Correzzola smise di essere un paesino semisconosciuto per diventare l’avamposto del Far West in salsa veneta. "Sono felice per Franco, finalmente si è chiarito che agì per legittima difesa, le stesse conclusioni a cui è giunta anche la procura", ricorda Fecchio. Nel 2012 lui e l’intera giunta arrivarono ad auto-tassarsi pur di aiutare Birolo ad affrontare le spese legali. Sindaco e assessori raccolsero tremila euro. "Con questa sentenza è stata ristabilita la verità - conclude - anche se nessuno potrà mai restituire a quest’uomo gli anni trascorsi nell’ansia per ciò che poteva capitare a lui e alla sua famiglia in caso di condanna". Chi conosce bene i patimenti ai quali si va incontro aprendo il fuoco contro i ladri, è Graziano Stacchio, il benzinaio di Nanto che il 3 febbraio 2015 uccise un componente della banda che stava assaltando una gioielleria, all’interno della quale era barricata la commessa. "L’assoluzione di Franco è una notizia stupenda. L’ho incontrato sabato, era sconfortato, non vedeva via d’uscita. E invece alla fine è andato tutto nel modo migliore". Anche Stacchio fu prosciolto da tutte le accuse. "L’autodifesa è un diritto e come tale va tutelato, come avviene in buona parte d’Europa. Se lo Stato non è in grado di garantire la sicurezza, non significa che i cittadini debbano vivere nella paura". La pensa allo stesso modo anche Robertino Zancan, il proprietario della gioielleria difesa dal benzinaio: "Nessuna persona di buonsenso vuole imbracciare un’arma e sparare a un altro essere umano, ma ci sono delle volte in cui non si ha scelta. Per questo occorre cambiare la legge: la difesa dev’essere sempre legittima, perché solo così può fare da deterrente alla criminalità". Ieri, per tutto il giorno, Zancan è rimasto in contatto con Franco Birolo. Fino alla lettura della sentenza. "Mi ha chiamato, mi ha detto: "Ce l’abbiamo fatta". È vero, questa assoluzione è una vittoria per tutti. Spero che in futuro nessun altro debba affrontare un processo solo per essersi difeso da un’aggressione" Tra chi si è sempre schierato dalla parte del tabaccaio di Correzzola, c’è anche monsignor Adriano Tessarollo, vescovo di Chioggia. Nel 2006 scrisse un durissimo editoriale sul settimane diocesano, nel quale prendeva di mira il magistrato che, nel processo di primo grado, condannò il tabaccaio. "Quello che non era riuscito forse a rubare il ladro da vivo - scrisse il vescovo - glielo ha dato il giudice, completando il furto alla famiglia, un bel vitalizio ottenuto per i suoi familiari, con l’incidente accadutogli nel suo "lavoro di ladro". Ieri monsignor Tessarollo si è detto soddisfatto per la sentenza di assoluzione: "È stata fatta giustizia. Nessuno vuole che le nostre città si trasformino in un Far West ma ci sono delle volte in cui un uomo è costretto a fare tutto ciò che può, per difendere la propria famiglia dai criminali". Un carcere che non rieduca di Laura Bottici (Senatrice Movimento 5 Stelle) Ristretti Orizzonti, 14 marzo 2017 Nelle scorse settimane ho visitato insieme al consigliere Gabriele Bianchi il carcere fiorentino di Sollicciano, una struttura vecchia che presenta molti cedimenti strutturali, alcune celle sono ricoperte di muffa a causa delle infiltrazioni. Difficile in queste condizione riuscire ad applicare l’articolo 27 della Costituzione. Detenuti e operatori, medici e infermieri sono costretti a lavorare in condizioni da terzo mondo, e pensare che ogni detenuto comporta un esborso medio da parte delle finanze pubbliche di circa 300 euro al giorno, più di 3 miliardi all’anno per i circa 54 mila detenuti attuali. Tutti soldi di cui il cittadino non potrà mai conoscere nel dettaglio l’utilizzo. E avere informazioni sui vari istituti di pena non risulta impresa più facile, per la società civile, per la stampa e per gli stessi garanti dei detenuti. In molti istituti italiani, l’80% della popolazione risulta affetta da patologie, e circa il 40% di queste soffre di disturbi psichiatrici. Nel carcere di Sollicciano esiste un reparto psichiatrico, un reparto vecchio e non attrezzato alle esigenze di chi deve essere curato, dove la disponibilità di ambienti, strutture e presidi di indispensabile, quando non vitale, importanza per le loro difficili condizioni, è spesso negata. Da tempo si attende il nuovo reparto. Tutti gli operatori sono costretti a vivere con un tasso di sovraffollamento elevato, non solo a Sollicciano ma su tutto il territorio nazionale. Condizione schizofrenica sotto tutti i punti di vista, che non è imputabile solo al sovraffollamento, ma che è imputabile alla carenza di personale di ogni tipo, agenti, educatori, psicologi, assistenti sociali, ai problemi della difficoltà della sanità, quella penitenziaria è passata alle Asl, con gravi problemi che chi visita le carceri ben conosce, a un sistema impazzito per il quale oltre la metà dei detenuti sono costretti a scontare la pena a centinaia di chilometri di distanza dalle loro famiglie, dai loro affetti. Nelle nostre carceri viene annientata la dignità di migliaia di uomini e di donne, regredisce la civiltà di una società; le condizioni prevalenti nelle nostre carceri sono l’ostacolo principale alla messa in opera dei trattamenti di riabilitazione, quei luoghi offendono la nostra stessa dignità di uomini liberi sollevando dubbi sul nostro grado di civiltà. Abbiamo chiuso gli Opg, ma la polvere è tanta e sotto il tappeto quotidianosanita.it, 14 marzo 2017 Il carcere per malati di mente autori di reato non è la soluzione per "liberarle". La riforma degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari ha condotto a diverse nuove problematiche dove già si è avuto un suicidio in carcere di una persona che, invece, sarebbe dovuta essere in una Rems. È noto che i tassi di suicidio in carcere sono 25 volte più alti che nella popolazione generale e perciò sarebbe forse auspicabile che persone affette da disturbi mentali non fossero gestite in carcere. Tuttavia recentemente il Commissario di Governo al superamento Opg ha concluso il proprio lavoro esaltando l’attività svolta dalle Rems (residenze per esecuzione delle misure di sicurezza) dal momento che l’obiettivo di chiudere gli Opg è stato raggiunto. L’obiettivo di chiudere gli Opg è, tuttavia, preliminare al fornire una adeguata salute mentale alle persone con infermità mentale in misura di sicurezza e ai detenuti, come vuole il Dpcm 1 aprile 2008. Ovvero, se si vuole davvero interpretare in senso civile lo spirito del provvedimento, la chiusura degli Opg è solo il passo preliminare per curare allo stesso modo tutti gli infermi di mente autori di reato ed erogare un’autentica assistenza psichiatrica ai detenuti. Il sistema delle Rems ha, infatti, evidenziato dei profondi e pericolosi vuoti normativi, c’è infatti una incapacità ad armonizzare le norme penali alle esigenze di cura e contemporaneamente alla sicurezza della collettività. Non solo, anche i percorsi di cura non sono ben definiti. È sicuramente positivo che oggi alle persone con disturbo mentale autori di reato e giudicati infermi o semi infermi di mente e socialmente pericolosi sia offerta la possibilità di trattamento in un assetto comunitario e una maggiore presa in carico da parte dei servizi territoriali; in tal modo le famiglie sono più prossime ai loro congiunti internati e il numero ridotto (massimo 20 di soggetti per Rems) consente una gestione personalizzata della cura. Tuttavia è anche vero che il personale assegnato alle Rems dalla legge è assolutamente insufficiente. Dopo un anno e mezzo di attuazione delle strutture già osserviamo dei casi di burn out. Il fenomeno della violenza da parte dei soggetti internati ovviamente non può essere abolito per legge (anche se alcuni lo pensano), dal momento che le leggi non cambiano la "natura". Così il tema della sicurezza degli operatori che vivono in totale prossimità con gli utenti è diventata una emergenza in diverse realtà. Ancora, la distinzione in due livelli assistenziali delle Rems previsti dal Decreto 1 ottobre 2012 del ministero della Salute non è mai stata attuata da nessuna Regione, e neanche sarebbe possibile, dal momento che non esiste una valutazione codificata dei livelli di pericolosità. Il Magistrato o l’Amministrazione Penitenziaria non hanno, infatti, elementi clinici o statistici obiettivi per gradare la misura. I pazienti internati sono inviati presso l’una o l’altra Rems senza alcuna valutazione tecnica del livello di sicurezza necessario (come se le persone in misura di sicurezza fossero tutte identiche). Le persone inferme di mente che purtroppo sono cronicamente aggressive, parzialmente trattabili e di difficile gestione con il solo intervento sanitario sono un problema emergente e in alcuni casi hanno messo in grande difficoltà intere strutture, impedendo ad altri pazienti di beneficiare dei trattamenti. Per questo sottogruppo le necessità di sicurezza sono altissime e le Rems, come sono oggi organizzate, sono del tutto inadeguate. La risposta di uno stato civile per soggetti non trattabili, con elevati tratti di anti-socialità, assenza di empatia, non può essere solo il carcere, come di fatto è ipotizzato in alcuni progetti legislativi, ma dovrebbe essere una struttura sovraregionale ad elevata sicurezza con altissima intensità di cura e protezione. Il carcere non è una risposta a nulla se non alla sicurezza sociale e ha un livello di assistenza psichiatrica di minore intensità assistenziale e specificità. Inoltre vi sono enormi differenze tra una realtà penitenziaria e l’altra e l’integrazione con i Dipartimenti di Salute Mentale procede con difficoltà. Nella prospettazione di alcuni ingegneri sociali creare un circuito privilegiato per "veri" pazienti autori di reato da inviare in Rems e "mezzi pazienti" (i semi infermi di mente o i detenuti definitivi che sviluppano una patologia mentale) potrebbe risolvere il problema a scapito di tutti i dannati che rimarranno in carcere con una assistenza psichiatrica minimale, quasi sempre in condizioni di sovraffollamento. Questo, a nostro parere, è un ragionamento cinico per continuare a sostenere la "bontà" di una riforma attuata senza la dovuta riflessione che la delicatezza del tema necessitava, come già evidenziato da Basaglia che giudicava il problema irrisolvibile. Si motiva una scelta quale quella prospettata (tutti i pazienti psichiatrici in carcere tranne i pochi con un giudizio definitivo) affermando altrimenti salterebbe la rivoluzione che ha chiuso gli Opg. Si provi quindi a pensare ad un ragionamento utilitaristico di questo tipo in un ambito di salute come, per esempio l’oncologia. Non sarebbe eticamente accettabile. Nel mondo civile le persone hanno diritto di accesso alle cure sulla base della loro patologia e dei loro bisogni non in base alla necessità di far funzionare a tutti i costi una riforma che sta mostrando tutti i limiti già previsti dai tecnici e dagli operatori del settore. Un esempio su tutti, la riduzione dei posti letto per esigenze di risparmio: attualmente abbiamo circa 290 persone in attesa di posto letto in Rems. Alcuni sono impropriamente in carcere (dove magari si suicidano) e la gran parte liberi con possibile danno per le persone a loro vicine. Di fronte ad una scelta tra lasciare libera una persona che ha un elevato rischio di recidiva e metterla in carcere, i magistrati, logicamente, tendono ad inviare questi soggetti in carcere. È anche molto probabile che il numero di persone in attesa di posto letto in Rems aumenterà. La risposta a tale emergenza potrà essere una migliore appropriatezza degli invii in Rems, la valutazione con il Dipartimento di Salute Mentale di programmi alternativi, cercando di evitare l’invio in carcere dei soggetti con provvedimento provvisorio. L’attuale misura in discussione, invece, li vuole inviare in carcere. Certo se si configurasse una simile norma si avrebbe il risultato di svuotare le Rems, dove più del 50% dei soggetti ha un provvedimento di misura di sicurezza provvisorio. Così queste persone sarebbero inviate in carcere senza la dovuta assistenza, e con un probabile, ulteriore, incremento dei tassi di suicidio. Ci troviamo in una situazione contradditoria: da un lato il paradigma di riferimento è il trattamento comunitario stile Rems, ma dall’altro se non vi sono posti e denaro sufficiente per gestire tutte queste persone allora si invia in carcere il 60 % delle persone che dovrebbero essere in Rems. Anche se la gran parte sono persone con disturbi mentali gravi. In questo modo si potrà dichiarare trionfalmente che l’Italia ha superato anche le Rems e che sono scomparsi dal territorio nazionale i soggetti con patologia psichiatrica che hanno commesso reato. È un gioco non etico attuato sulla vita degli ultimi degli ultimi. Infine, non meno importante, la Legge non ha cambiato il codice penale, non ha chiarito chi assolva alle funzioni di direttore penitenziario in una struttura ove si eseguono misure di sicurezza detentive, come si tutelino i diritti degli internati p.e. per quanto previsto dall’art.123 Cpp., chi debba fare le notifiche degli atti giudiziari, chi debba accompagnare e (quindi scortare, considerata la pericolosità) un soggetto fuori dalla Rems, ma soprattutto pare che nessuno, al di fuori di magistrati e tecnici si ponga il problema di come risolvere la assoluta mancanza di posti. All’inizio della riforma si insisteva sulla teoria che la responsabilità della mancanza di posti fosse determinata dalla neghittosità dei Dipartimenti di Salute Mentale secondo alcuni molto restii a prendere in carico pazienti con storia di reato. Il dato è infondato, perlomeno nel Lazio, ove l’86% dei pazienti in Rems ha un riferimento di un Dsm territoriale. Si chiede, allora, che il turn over dei pazienti si velocizzi. Richiesta bizzarra. La letteratura scientifica internazionale afferma già dai primi anni ‘80 che per ottenere un cambiamento misurabile in psicoterapia (per un disturbo psicologico comune) il tempo minimo sia di 6 mesi. Per i disturbi di personalità il tempo minimo va da 1 a 3 anni. Per pazienti come quelli ospiti nelle Rems è logicamente maggiore, non comprimibili in meno di 3-5 anni di trattamenti intensivi e consecutivi. È utile ricordare che non si può affrontare il problema delle Rems senza affrontare quello del carcere e non si può affrontare il problema del carcere senza entrare nel merito della valutazione dell’attività psichiatrica e psicologica in ambiente penitenziario. Sperare di scorporarli è l’ennesimo inganno del pensiero. A nostro parere è necessario rivedere profondamente la riforma, colmare i gravissimi buchi legislativi, e sviluppare programmi di salute mentale che tengano conto delle linee guida richieste dalla legge Gelli basate su evidenze scientifiche. Giuseppe Nicolò, Psichiatra Direttore Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche Asl Roma 5 Stefano Ferracuti, Professore Associato Psicologia Clinica, Uoc Medicina Legale e Risk Management, Azienda Ospedaliera Sant’Andrea Franco Veltro, Direttore Dipartimento di Salute Mentale Campobasso L’espulsione dello straniero in carcere e la funzione rieducativa della pena di Dario Di Cecca openmigration.org, 14 marzo 2017 La storia di un cileno, detenuto modello, espulso alla vigilia della sua scarcerazione, è tipica del carattere spesso inumano e insensato del comportamento dell’Italia nei confronti dei detenuti stranieri. La storia di A.S.R.D., cileno espulso da Regina Coeli in maniera insensata, è emblematica delle difficoltà e contraddizioni in cui incorre il legislatore italiano nell’affrontare lo spinoso problema del rapporto tra stranieri e carcere. A. S. R. D. è un cittadino cileno, detenuto presso la Casa Circondariale "Regina Coeli" di Roma. Durante la detenzione ha sempre tenuto una condotta esemplare e dato prova di partecipare all’opera di rieducazione, tanto che gli era stata concessa la detrazione dei giorni di pena prevista dall’istituto della liberazione anticipata (art. 54 dell’Ordinamento Penitenziario) e l’ammissione al beneficio del lavoro esterno (art. 21 O.P.). Lavoro che, come testimoniato da tutto il personale dell’istituto, ha sempre svolto con attenzione e puntualità. Il detenuto, inoltre, è ben radicato sul territorio italiano, dove ha forti legami affettivi e familiari: ha una moglie e dei figli, l’ultimo dei quali nato tre anni fa, durante la detenzione. A.S.R.D. avrebbe finito di scontare regolarmente la sua pena il 7 marzo di quest’anno. Tutto questo non impedisce che venga raggiunto da un decreto di espulsione emesso dal Magistrato di Sorveglianza di Roma nell’ottobre del 2016. A nulla sono valse le impugnazioni contro il provvedimento, presentate dal suo avvocato al Tribunale di Sorveglianza e alla Corte di Cassazione. La sera di venerdì 24 febbraio A. S. R. D. è stato prelevato dalla sua cella e accompagnato alla frontiera con l’ausilio della forza pubblica, in esecuzione di un provvedimento di "espulsione come misura alternativa alla detenzione". Detenzione che sarebbe finita soltanto pochi giorni dopo. Gli stranieri e il carcere - Per quanto questo caso possa sembrare straordinario e inspiegabile, è in realtà emblematico delle difficoltà e contraddizioni in cui incorre il legislatore italiano nell’affrontare lo spinoso problema del rapporto tra stranieri e carcere. Analizzando i più recenti dati ufficiali provenienti dal Ministero della Giustizia, possiamo farci un’idea di come la presenza degli stranieri nelle carceri italiane sia un fatto ormai consolidato e con cui occorre il prima possibile approcciare con atteggiamento diverso da quello della rincorsa affannosa a provvedimenti spot e legislazione emergenziale. Secondo le ultime rilevazioni, infatti, su 55.381 detenuti presenti, a vario titolo, negli istituti di pena italiani, 18.825 sono di origine straniera, pari al 33,99% della popolazione carceraria complessiva. Leggendo le analisi che coprono il periodo dal giugno 1991 al dicembre 2016, scopriamo che questo dato non costituisce un record né in termini assoluti, né in termini percentuali, ma si inserisce comunque in una tendenza di crescita costante e inarrestabile. Nel 1991 gli stranieri in carcere sono 5.356, pari al 15,13% del totale; il loro numero raddoppia già nel 1997, passando a 10.825 (22,32%); quadruplica nel 2008 arrivando a 21.562 (37,09%); il picco di presenze percentuali viene raggiunto nel 2007 (37,48%); quello delle presenze assolute alla fine del 2010, con 24.954 unità (36,72%). Le espulsioni - Per far fronte alla crescente presenza degli stranieri in Italia, nel 1998 il legislatore emana il c.d. "Testo Unico sull’Immigrazione" (Decreto Legislativo n. 286 del 25 luglio). Ad esso si aggiungeranno, modificandolo, numerosi successivi interventi normativi, ultimo dei quali il già controverso Decreto Legge n. 13 del 17 febbraio 2017 ("Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale"), entrato in vigore dal 18 febbraio e in attesa di conversione in legge. Il risultato è un intricato reticolato di norme, molte delle quali volte ad allontanare dal territorio dello Stato gli stranieri che non hanno (o hanno perso) il diritto di soggiornarvi: lo strumento principale sono le espulsioni. Esistono, semplificando, due diversi tipi di espulsioni, che, tuttavia, non di rado finiscono per lambirsi e sovrapporsi: quelle di carattere amministrativo, disposte dal Ministro dell’interno per motivi di ordine pubblico, sicurezza o contrasto al terrorismo, e dal Prefetto, per irregolarità nell’ingresso o nel soggiorno e violazioni delle norme sull’immigrazione; e quelle demandate all’autorità giudiziaria. Sono le espulsioni a titolo di misura di sicurezza, decise dal giudice per il soggetto condannato e ritenuto socialmente pericoloso; a titolo di sanzione sostitutiva della pena, detentiva, se non superiore a due anni o, pecuniaria, se comminata per ingresso o soggiorno irregolare o inosservanza dell’ordine di allontanamento del Questore; come misura alternativa alla detenzione, destinata allo straniero privo dei requisiti per il soggiorno, che sia identificato o identificabile e abbia una pena detentiva, anche residua, non superiore ai due anni. La legge, in alcuni casi, stabilisce limiti e garanzie. L’art. 19 del T.U. sull’immigrazione, ad esempio, prevede il divieto di espulsione e di respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione (per motivi razziali, linguistici, religiosi, politici, sociali e di genere) o in cui non sia protetto da tale persecuzione. Così come vieta, salvo esigenze di ordine pubblico e sicurezza dello Stato, l’espulsione dello straniero minore o convivente con parenti stretti purché di nazionalità italiana o delle donne in stato di gravidanza o madri di figli neonati. Quale rieducazione? - Ci sono casi, tuttavia, in cui queste tutele appaiono solo formali e sembrano perdersi in una asettica burocratizzazione delle procedure, che comporta un’attuazione delle espulsioni secondo rigidi automatismi. Soprattutto nei confronti degli stranieri detenuti, infatti, non si tiene conto del vissuto del soggetto, della sua storia di cambiamento e riscatto, del suo percorso personale di inclusione e integrazione. Tutti sappiamo che, secondo l’art. 27 della Costituzione, le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. E tale obiettivo vale sia per gli italiani sia per gli stranieri. Ma di tutto questo non c’è traccia nella disciplina delle espulsioni. Il caso di A.S.R.D., detenuto modello espulso a titolo di misura alternativa alla detenzione a pochi giorni dalla sua fine, è un esempio di come, per le leggi italiane, non importa se lo straniero condannato abbia reagito positivamente ai trattamenti penitenziari, dando prova di aver aderito al progetto di reinserimento; non importa che abbia ottenuto benefici e misure premiali, né che dal carcere abbia trovato un lavoro; non importa che abbia vissuto per anni in Italia e che qui abbia costruito una famiglia. Se una norma prevede l’espulsione, questa deve essere eseguita. Ed è un esempio di come, troppo spesso, un’applicazione meccanica di leggi lontane dalla realtà possa, non solo vanificare il faticoso recupero di un condannato, ma anche dimenticare la funzione rieducativa della pena prevista dalla nostra Costituzione. Suicidio in carcere: azione intima e imprevedibile di Evelina Cataldo articolo21.org, 14 marzo 2017 Il suicidio del giovane ventenne avvenuto ultimamente presso il carcere di Regina Coeli apre di nuovo la questione sulle criticità presenti negli istituti di pena, specie in merito al mantenimento in vita della persona quando marcati appaiono gli elementi di disagio personale o relazionale. Oltre all’obiettivo cui ogni operatore è chiamato, si chiede all’istituzione di tutelare l’incolumità del ristretto e il bene supremo della sua vita. Bisogna analizzare la questione secondo diversi ordini di problemi: l’impreparazione del personale, formato ad assolvere funzioni di diverso tipo: sicurezza e trattamento, che non implicano il mantenere in vita a tutti i costi una persona, e l’imprevedibilità dell’escalation di elementi critici, aggravati dalla carenza di operatori e personale, tale da riuscire ad assolvere già con difficoltà alle funzioni legalmente stabilite. Quanto sollevato, seppur riconosciuto e risaputo da tempo, genera malcontento e poca coesione tra chi istituzionalmente deve accompagnare il ristretto nell’esecuzione penale in ambito penitenziario visto che le carceri, in genere, sono sprovviste di un presidio sanitario h.24 che affronti, analizzi e supporti situazioni ravvisate di criticità psicologica o psichiatrica. E dove, anche il mancato rinnovo dei contratti agli psicologi penitenziari, figure di consulenza e sostegno ai reclusi, previste ex art.80 o.p., rappresenta una chiara decisione in controtendenza. Non si può richiedere al personale, educativo o della sicurezza, (non specificamente formato) di aggiungere altri compiti emergenziali che avrebbero solo come effetto di rendere ancora più complesso l’assolvimento di quanto la legge stabilisce nell’ordinamento, ovvero accompagnare il reo nel processo di reintegro sociale a seguito di osservazione scientifica della personalità. Situazioni di questo tipo generano una grave conseguenza: l ‘attenzione si focalizza su elementi di difformità a livello di condotta obbligando a spostare dalle priorità quei reclusi in via di recupero o in corso di avanzato trattamento penitenziario, con il rischio di perdere credibilità nell’assolvimento del mandato. Tra l’altro, si potrebbe sollevare un’altra questione, da tempo dibattuta, ovvero l’impossibilità di prevedere oggi a livello normativo un differimento pena nel caso di grave malattia psichiatrica, seppur debitamente certificata. Mantenere in un’istituzione totale un soggetto palesemente in difficoltà, tale da non avere margini di ravvedimento con gli strumenti canonicamente intesi, grave da non comprendere neppure il significato della restrizione della sua libertà personale, pone non solo gli operatori interni nel paradosso dell’inabilità del processo rieducativo istituzionale ma pone a rischio quella persona come conseguenza sistematica di un contesto che mal si concilia con i suoi bisogni. E proprio Basaglia sottolineò quanto fosse necessario concordare col malato psichiatrico un progetto di cura adeguatamente vagliato e validato nel tempo. Se l’istituzione totale in termini scientifici ancora stigmatizza e categorizza un essere sociale mal compiuto all’interno della comunità, essa può decifrare le criticità, può delineare compiutamente un quadro personologico, ma poco può fare compiutamente viste le scarse progettualità terapeutiche in corso. La salute penitenziaria è materia regionale, sarebbe opportuno che Dap, provveditorati e istituzioni regionali giungessero a un confronto sulle emergenze, favorendo progettualità ad ausilio di chi quotidianamente è chiamato a lavorare in carcere. Perché se il rischio di suicidio vale, lo è per tutti: operatori, poliziotti, direttori, volontari. Ripensare al ruolo dell’istituzione penitenziaria significa non arretrare su posizioni di controllo e di mera custodia ma aprire a contenuti normativi che favoriscano orientamenti di reintegro mediante lavoro di pubblica utilità e riconoscimento come valido ed urgente dell’attualità della giustizia riparativa. Firenze: 4 direttori in tre anni al carcere "detenuti ammassati e spesso scontri" Il Secolo XIX, 14 marzo 2017 "Profondo stupore" e "forti perplessità" per "la notizia dell’ennesimo cambio di vertice" al carcere fiorentino di Sollicciano dove negli ultimi tre anni si sono avvicendati "ben quattro direttori" mentre le "gravi criticità, ulteriormente aggravatesi" nel tempo, "sono rimaste senza soluzione, pur a fronte dei numerosissimi progetti annunciati". Così, in una nota, l’Osservatorio carcere della Camera penale di Firenze secondo il quale "è ormai evidente come i problemi" che affliggono la struttura", "più volte e in tutte le sedi possibili" evidenziati e denunziati, "interessino soltanto gli "addetti ai lavori". Neppure la solerte visita del sottosegretario Ferri - prosegue la nota - è riuscita a fare breccia nel muro dei problemi che la struttura vive, e che evidentemente riflette sulla popolazione detenuta e tutti coloro che ivi lavorano e si impegnano per i soggetti ospitati". I detenuti, si spiega, "sono ammassati in celle umide e fatiscenti, costretti a non svolgere attività di alcun tipo, esposti al rischio di gravi patologie e tensioni che sfociano molto spesso in scontri anche fisici. Esistono fondi ingenti stanziati da oltre due anni, ma allo stato non sono mai stati concretamente utilizzati". L’Osservatorio rileva anche che il nuovo direttore di Sollicciano, Carlo Berdini, attuale direttore del penitenziario di Parma, "sarà presente nella struttura fiorentina solo per qualche giorno la settimana". Il carcere fiorentino, si spiega, ha già sperimentato "un direttore part time, e sicuramente (sebbene non certo per incapacità della persona) non è questa la soluzione che ci aspettavamo". Alessandria: "situazione drammatica, con questi numeri non garantiamo la sicurezza" di Irene Navaro alessandrianews.it, 14 marzo 2017 I Sindacati di Polizia penitenziaria chiedono aiuto alle istituzione: "con questi numeri non riusciamo a garantire la sicurezza all’interno e all’esterno delle carceri". Lo sciopero della mensa, durato più di un mese, è finito. Ma la situazione all’interno delle carceri alessandrine Cantiello e Gaeta e San Michele, unificate dallo scorso gennaio, resta "allarmante". A dirlo sono ancora una volta i rappresentanti sindacali delle guardie carcerarie: "Siamo sotto organico e sottoposti a turni di 16 ore". Uno stress da lavoro che ha portato in quattro mesi trentatré casi di malattia causata da ansia e, nel giro di due anni "a quindi casi di attacchi cardiaci". Lo hanno fatto presente Silvestro Digirolamo del Sappe, Pino Cataldo di Osapp, Andrea Mancaiello di Uspp e Saverio Panaris di Cgil nel corso della commissione Politiche per la Sicurezza del comune di Alessandria. "Con queste forze, dicono, non riusciamo a garantire la sicurezza all’interno e all’esterno del carcere", dicono. La dotazione organica dipende però dal Ministero di Grazia e Giustizia. È per questo che i sindacati chiedono alla politica di appoggiare le loro richieste. Il comune di Alessandria lo farà, in prima battuta, attraverso una lettera e, a breve, con l’approvazione di un ordine del giorno, si spera approvato all’unanimità, come ha suggerito il consigliere comunale Francesco Di Salvo. Anche perché, annunciano già i sindacati "da aprile ad agosto, quando in personale ruoterà per le ferie, sarà sempre più difficile operare per la sicurezza della città". Cataldo e Mancaiello fanno presente come "il carcere non sia una realtà avulsa dalla città". "Ci sono, ad esempio, quaranta detenuti che ogni giorni prestano servizio volontario per le strade della città insieme agli operatori Amag, in forza di una convenzione siglata con l’amministrazione comunale e l’azienda di raccolta rifiuti. Un’iniziativa lodevole, che appoggiamo, ma non riusciamo a garantire la sorveglianza dei detenuti in servizio per quattro ore in strada". A vigilare sui detenuti in regime di semilibertà ci sono i tutor di Amag Ambiente, in base alla convenzione. Però, "in caso di un tentativo di evasione, non esiste neppure un piano di sicurezza per la città", fa presente il consigliere comunale Maurizio Sciaudone che, nel mese di gennaio, aveva presentato un ordine del giorno da sottoporre all’attenzione del Consiglio Comunale. Il documento è ancora fermo nei cassetti. Ora, dopo l’allarme lanciato in commissione, "sarà messo in discussione a breve", assicura l’assessore Marica Barrera, presente alla discussione. I temi messi sul tavolo da Sciaudone sono anche altri: "i detenuti accompagnati in ospedale per visite mediche o al pronto soccorso restano per ore in sala d’attesa. Una situazione che crea imbarazzo a tutti. Su questo fronte, come su quello dell’illuminazione all’esterno del carcere, l’amministrazione può intervenire", sostiene il consigliere comunale. Piena solidarietà ai colleghi della Polizia penitenziaria da parte del comandate vicario di Polizia municipale Alberto Bassani: "anche il nostro corpo è sotto organico di circa settanta unità e i nostri compiti spaziano dal controllo della viabilità alle azioni anti accattonaggio. Svolgiamo anche servizio presso lo stadio, ma a noi non è concessa l’indennità per l’ordine pubblico". Collaborazione e coordinamento diventano, allora, una necessità. Orvieto (Pg): viaggio nel carcere dove i detenuti realizzano lenzuola, letti e comodini umbria24.it, 14 marzo 2017 La visita del sottosegretario Cosimo Ferri: "Risparmio per lo Stato e impegno dei reclusi in vista del reinserimento nella società". "Il carcere di Orvieto rappresenta un modello esemplare di cooperazione, avanguardia e ruolo del lavoro per il reinserimento sociale dei detenuti. Qui si realizzano armadi, comodini, letti e lenzuola, oggetti che vengono utilizzati nelle varie strutture del circuito penitenziario con un notevole risparmio per le casse dello Stato e un impegno costante per i reclusi". Lo ha detto il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri, in visita stamani nella casa di reclusione di via Roma a Orvieto. All’incontro, tra gli altri, era presente il sindaco Giuseppe Germani. Riabilitazione nella società "Questa struttura - spiega Ferri - si inserisce nella direzione giusta rappresentando un modello efficace per la cooperazione tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e la città umbra per le attività svolte ma anche per il contatto interno/esterno con l’istituto che si è dimostrato un positivo strumento per attivare una vera rieducazione sociale". Infatti "la formazione, l’orientamento e l’assistenza fornita alle persone ristrette nella libertà non si esauriscono con la fine della pena detentiva ma si completano con interventi mirati di reinserimento nella società. La riabilitazione sociale dei reclusi - prosegue il giudice del governo Gentiloni - continua con la prospettiva di poter beneficiare delle opportunità lavorative offerte soprattutto dalle cooperative sociali che fanno parte del sistema, mettendo a frutto e valorizzando il percorso di crescita intrapreso dai detenuti. Un recluso che lavora produce ricchezza e allo stesso tempo si incrementa l’occupazione aumentando la contribuzione fiscale". Sicurezza nelle carceri Secondo il sottosegretario "le attività lavorative svolte all’interno degli istituti di pena aiutano ad aumentare la sicurezza delle carceri, riducendo potenzialmente i costi di sorveglianza, così come un detenuto che non torna a delinquere diventa un valore per la società e un rischio in meno per la comunità". Conclude Ferri: "La responsabilità del reinserimento dei detenuti nella società non è prerogativa della sola amministrazione penitenziaria ma deve essere posta a carico di tutti gli attori pubblici e privati che operano sul territorio. Risulta quindi fondamentale valorizzare il ruolo delle Regioni e degli Enti locali a sostegno delle politiche di reinserimento. È perciò indispensabile conoscere il tessuto sociale nel quale si vuole collocare e rieducare il detenuto". Busto Arsizio: ex-detenuti dietro il bancone del Bistrot del teatro di Orlando Mastrillo varesenews.it, 14 marzo 2017 Il bar del teatro Sociale "Delia Cajelli" ha riaperto i battenti grazie alla cooperativa 3B e alla Fondazione Comunitaria del Varesotto. Il coordinatore Corrado: "Una grande opportunità di reinserimento lavorativo". Il Bistrot del Teatro Sociale ha cambiato gestione. Il nuovo corso è stato inaugurato venerdì sera con una festa-aperitivo a cui hanno partecipato circa 300 persone tra musica, buon cibo e ottimi aperitivi. Dietro il bancone c’erano (ci sono e ci saranno) gli ex-detenuti della cooperativa 3B che si occupa del reinserimento lavorativo delle persone che escono dal carcere. In futuro potrebbero esserci anche dei disabili. A volere questa nuova gestione è stata la Fondazione Comunitaria del Varesotto, proprietaria del teatro, insieme al nuovo coordinatore delle attività Antonio Corrado, ormai inserito a pieno regime nell’organizzazione delle attività della struttura di piazza Plebiscito nonostante le dimissioni dal ruolo di direttore: "Continua il nostro lavoro per far rinascere il teatro Sociale e restituirgli quel ruolo sociale, appunto, che deve avere per essere aperto alla città - spiega Corrado che conclude - l’affidamento della gestione del bar ad ex-detenuti è un passo importante proprio in questa direzione. Abbiamo testato la cooperativa coinvolgendola nella pulizia e nella manutenzione del teatro e, quando abbiamo capito la serietà di chi ci lavorava, abbiamo deciso di affidare la gestione". La storia recente del bistrot del teatro racconta una gestione quantomeno dubbia che ha creato diversi problemi a causa del marito della donna che l’aveva preso in gestione. Cosimo Modugno, accusato di duplice tentato omicidio, venne arrestato esattamente un anno fa dalla Dda di Bari con l’accusa di duplice tentato omicidio. Dopo l’agguato si era trasferito a Busto Arsizio dove aveva l’obbligo di dimora e qui aveva avviato l’attività, acquistando la licenza del vecchio gestore all’interno di un contratto di gestione in essere con la Fondazione. C’è grande soddisfazione da parte del presidente della fondazione Luca Galli, del vicesindaco Stefano Ferrario e dell’assessore alla Cultura Paola Magugliani che hanno preso parte all’inaugurazione insieme al sindaco di Gallarate Andrea Cassani e alla collega di Castellanza Mirella Cerini. Il sindaco Emanuele Antonelli, assente per malattia, è passato domenica a fare il classico "in bocca al lupo" ai nuovi gestori. Roma: da detenuti a birrai, "Vale la pena", la birra prodotta a Rebibbia di Sonia Ricci puntarellarossa.it, 14 marzo 2017 Una birra preparata mentre si sconta una pena, per aiutare i detenuti a ridurre il rischio di recidiva, ovvero per evitare che chi esce dal carcere commetta un nuovo reato. È il fine che nel 2011 ha portato Paolo Strano, insieme ad altre tre persone, a creare "Semi di Libertà", un’associazione no profit da cui un anno dopo è nato il progetto di inclusione "Birra Vale la Pena". Il progetto ha portato nove persone recluse nel carcere di Rebibbia, con accesso a misure alternative (permessi e semilibertà) ad avvicinarsi alla produzione della birra, grazie gli insegnamenti di noti birrifici (da Birra del Borgo a Turan, da Birradamare fino a Stavio). E così nel piccolo laboratorio situato nei locali dell’Istituto agrario "Sereni" di Roma, concesso tre anni fa in comodato d’uso alla onlus, vengono prodotte diverse etichette: dalla Fa er bravo alla A piede libero, dalla Drago n’cella fino alla Er fine pena. Ipa, Apa, Blanche, Stout e così via, che trovate da Eggs Roma, il nostro bistrot di Trastevere aperto a marzo 2017 in collaborazione con Zum, la bottega del tiramisù e Puntarella Rossa. "L’obiettivo - spiega Strano a Puntarella - è di non far tornare in carcere chi ha già scontato una pena. La nostra mission è appunto quella di combattere la recidiva", che ad oggi riguarda il 70% delle persone che non hanno accesso alle misure alternative al carcere, "e solo il 2% tra coloro che vengono inseriti in progetti produttivi come il nostro". Semi di Libertà è nata nel 2011 a seguito di una esperienza personale a Regina Coeli". Lì, insieme ad altre tre persone, "ho scoperto il mondo carcerario con tutte le sue storture e tensioni". "Molto spesso - aggiunge Strano - non si tratta di reinsegnare un lavoro o di professionalizzarli ma di ricostruirli, perché la detenzione, in certe condizioni, è destrutturante". Dopo quella esperienza, con l’obiettivo "di dare una nuova opportunità ai detenuti" di Rebibbia, "abbiamo deciso di creare un nuovo progetto". Così è nata "Birra Vale la pena". Nel 2012 l’associazione partecipa e vince un bando con cui riesce a finanziare il progetto, tramite risorse stanziate dal ministero dell’Istruzione. Viene così finanziato l’Istituto agrario "Sereni" per l’acquisto e l’installazione degli impianti per produrre la birra. Mentre il ministero della Giustizia si è occupata dei costi dei corsi di formazione ai nove detenuti di Rebibbia. Il mini-birrificio però ha dovuto quasi subito far i conti con problemi burocratici. Dopo appena sei mesi di produzione infatti ne è stata bloccata la produzione. Motivo? L’impianto di depurazione della scuola, utilizzato per la produzione, non era a norma. Ci sono voluti venti mesi per capire di chi fossero le responsabilità e per adeguare gli impianti alla produzione. "Abbiamo attraversato grandi difficoltà - dice Strano - perché senza un impianto stabile i costi sono aumentati e non è stato possibile né assumere tutti i detenuti ipotizzati né formarne degli altri". La onlus ha comunque continuato a produrre birra, ma non con poche difficoltà. Da una parte affittando diversi laboratori in cui produrre e, dall’altra, inventando forme alternative di commercio, come i carretti mobili per la vendita su strada. A gennaio 2017 l’impianto finalmente è stato riaperto. "Ora stiamo lottando - aggiunge Strano - per avere un altro fermentatore, per allargare la produzione", in quanto al momento la capacità produttiva è circa 200 ettolitri ma l’obiettivo è quello di aumentarli. Le birre in produzione sono una decina. E, come detto, le trovate anche da Eggs in vicolo del Cedro 26. Quattro sono "fisse", altre otto si alternano (invernali ed estive) e alcune sono dette "speciali". Tra le "fisse" troviamo la Fa er bravo, stile American Pale Ale (prodotta in collaborazione con Orazio Laudi di Turan), A Gatta Buia, Schwarzbier (Ioan Bratuleanu di Birradamare) e Er Fine Pena, Golden Ale (Marco Meneghin di Birra Stavio). Tra le estive ci sono una Belgian Session Ipa, LegAle (prodotta in collaborazione con Leonardo di Vincenzo di Birra del Borgo), Saison al Farro biologico (a Piede Libero), Blanche (Stamo ‘n Banche) e American Lager (Opena Poho). E ancora: le invernali sono due: Sèntite Libbero, ossia una Saison d’Hiver, e Chiave de Cioccolata, una Milk chocolate stout. Infine, le speciali: Drago ‘n Cella (Belgian Specialty Ale) e Amarafemmena (Harvest Ipa). L’etichettatura delle bottiglie e il packaging vengono realizzati in team con i ragazzi autistici di L’emozioneNonHaVoce onlus. Porto Azzurro (Li): via al lavoro dei detenuti nella zona umida di Mola Il Tirreno, 14 marzo 2017 Entra in azione oggi una squadra di detenuti impegnati dal Parco per un progetto di recupero della zona umida di Mola. Inizieranno dal debellare i canneti infestanti. "Abbiamo firmato - segnala Franca Zanichelli, direttore - una convenzione con l’amministrazione penitenziaria e la casa di reclusione di Porto Azzurro, per una rapida manutenzione dello specchio acqueo terminale nella zona di Mola. Il lavoro manuale urgente riguarda l’asportazione dei rizomi delle canne infestanti, Arundo donax, per contenerne l’espansione. Vogliamo ridare spazio alle specie selvatiche tra cui le carici, l’iris d’acqua, i giunchi, oggi compromesse". Col decespugliatore via i rovi, lavori manuali senza mezzi meccanici che danneggerebbero la biodiversità, un intervento al termine dello svernamento e prima delle nidificazioni. "La zona umida - spiega Zanichelli - è dominata dalle cannucce palustri Phragmites australis, graminacee molto importanti come ambienti di rifugio per avifauna, un luogo, seppure compromesso dall’incuria, utile per gli uccelli migratori come Tarabuso, Schiribilla, Porciglione, specie rare". Vi saranno altri lavori e il progetto a Mola nel Pit, con il supporto del dipartimento di agricoltura dell’Università di Firenze e il consorzio di bonifica. Il Parco inoltre sistemerà il rudere di proprietà per farvi un punto informazione cercando di gestire il territorio con maggiore cura e custodia. Mola è una zona umida di importanza internazionale e ricade entro un sito Sic/Zps di rete Natura 2000 - tutelato dalla Direttiva europea Habitat. Sotto la superficie vi sono rifiuti stoccati nel passato da discariche e in superficie, tanti i rifiuti dell’incuria odierna e la foce del canale è occupata da barche abbandonate. Milano: carcere senza filtri per il Pontefice "vuole incontrare tutti i detenuti" di Giampiero Rossi Corriere della Sera, 14 marzo 2017 A San Vittore sperano che lo studio certosino di labirintici percorsi interni possa davvero permettere al Papa di incontrare "tutti" i detenuti. Alle Case bianche di via Salomone, invece, la speranza è che sabato 25 marzo quei dannati ascensori facciano il loro dovere. Perché papa Francesco intende visitare due o tre famiglie del caseggiato e non si fermerà al piano terra. C’è grande attesa e fibrillazione organizzativa in carcere e nel quartiere popolare che il Pontefice ha voluto inserire nel suo itinerario milanese di sabato 25 marzo. "Abbiamo lavorato tanto per rendere possibile l’incontro di tutti con il Papa - racconta il cappellano di San Vittore, don Marco Recalcati - e lì dentro non si tratta di una cosa scontata". Per questo è stato deciso che quel giorno non saranno ammesse figure esterne, ma soltanto la abituale popolazione di San Vittore: operatori, personale sanitario e una ridotta rappresentanza dei volontari, oltre naturalmente a detenuti e agenti di custodia. Ammessi in via eccezionale soltanto i bambini di alcune detenute. È stato studiato anche un percorso che dovrebbe consentire al Papa di incontrare tutti i diversi gruppi di carcerati e le aree in cui è suddivisa la struttura: dal popoloso terzo raggio al reparto dei cosiddetti "protetti", cioè accusati di reati contro donne o bambini e gli ex agenti delle forze dell’ordine. Per il pranzo prevista una tavolata unga cinquanta metri, dove il Pontefice, insieme con un centinaio di commensali, mangerà risotto giallo, cotoletta con patate e panna cotta, cucinata dagli stessi detenuti. "Non c’è stato alcun abbellimento - spiega il cappellano - solo una mano di vernice. E i detenuti non si aspettano amnistia o altri benefici, ma soltanto un incontro con qualcuno che li guardi negli occhi, musulmani compresi, sono tutti entusiasti". Anche in via Salomone c’è grande attesa e la macchina organizzativa, che fa perno sulla parrocchia di San Galdino, sta girando a pieno ritmo da settimane. "Ci stiamo preparando da tempo a questa giornata - dice il parroco don Augusto Bonora - sia dal punto di vista logistico sia sul piano spirituale". L’area adiacente il "Lotto 64", cioè il caseggiato al centro della visita di Jorge Mario Bergoglio, sarà suddivisa in settori per i quali sono stati già distribuiti oltre quattromila pass. Il Papa andrà a trovare due o tre delle 474 famiglie che abitano alle Case bianche, scelte come rappresentative della vita tra quelle mura esposte alle infiltrazioni: "Una in cui c’è la sofferenza causata dalla malattia - rivela don Augusto - una di musulmani e una di anziani". Poi ci sarà la preghiera nel parcheggio che costeggia il parco Guido Galli, dove saranno i rappresentanti del vivace volontariato locale a porgere doni al papa Francesco. Anche in via Salomone non ci sono stati interventi di abbellimento da parte dell’Aler. "Anzi - dice il parroco sorridendo - speriamo nella benedizione papale per vedere risolti finalmente i problemi di questi edifici". Milano: Papa Bergoglio nel ventre del carcere, visiterà anche il raggio dei "protetti" di Zita Dazzi La Repubblica, 14 marzo 2017 In carcere i primi a mettersi in lista d’attesa per avere la possibilità di vedere il Papa sono stati i musulmani. Ma arriveranno anche le detenute che vivono all’Icam (l’istituto esterno con custodia attenuata) con i loro bambini. "Vogliono la benedizione di Francesco. Poi sì certo, tutti sperano che arrivi anche l’amnistia, ma l’importante per i 900 di San Vittore è vederlo, toccarlo, farsi toccare. Questo è il Pontefice dell’incontro e della speranza: nessuno vuole perdersi il momento. Sono emozionati e felici, dopo esser stati inizialmente sorpresi e increduli di tanta fortuna", spiega il cappellano don Marco Recalcati. Bergoglio il 25 farà la tappa più lunga della sua visita pastorale a Milano e Monza, proprio dietro le alte mura grigie del penitenziario, visitando tutti i raggi. Compreso quello dei protetti: "Sono quelli che hanno commesso reati contro le donne e i bambini, non sono molto ben visti dagli altri - spiega il cappellano - ma il Pontefice vuole parlare anche con loro. Nessuno sarà escluso, a parte le autorità e i giornalisti". Sarà un lungo viaggio nelle viscere di quel mondo chiuso e pieno di umanità che è il carcere più antico d’Italia, per Francesco, che alle 12.30 si siederà per il pranzo, al tavolo lungo 50 metri con 100 carcerati commensali. E un piatto di risotto giallo, una cotoletta e una panna cotta. Menù uguale per tutti per il giorno più atteso, in tutti i raggi e in tutte le sezioni, cucinato da una squadra di reclusi che stanno studiando da cuochi, con il loro chef-educatore alla cabina di regia. Studiano e scrivono testi da settimane, i 900 dietro alle sbarre, sapendo che questa non è la prima visita di un Papa in un carcere, ma che quella del 25 sarà una data da ricordare per chi spera in una riabilitazione sociale. "Si dice spesso che fuori stanno i buoni, e dentro i cattivi - dice don Recalcati - ma a noi le posizioni sembrano molto più sfumate". Hanno già fatto stampare un libretto, con i testi utili a prepararsi alla visita, e nell’ultima pagina la preghiera "aspettando un amico" dove si capiscono le aspettative: "Ci ha stupiti la buona notizia, che insegna a sperare e a dare ali ai desideri più veri. Signore insegnaci a sperare. I suoi passi si intrecciano ai nostri, e percorrono dolori e distanze, il tratto è breve ma ci basta per guardare il suo esempio. Signore insegnaci l’umiltà di imparare". In carcere ci sarà anche una parte dei 300 volontari delle 18 associazioni che lavorano nei raggi. Fra loro anche "la Maria", 92 anni, la veterana. E la giovane suor Gianna che rivela: "Non mi sono mai sentita così rispettata e amata come dentro a San Vittore". Ma in attesa fremente del 25 c’è anche un altro angolo di città, un luogo meno circondato da misure di sicurezza e poliziotti, ma non meno problematico. È quello che si chiamava "Lotto 64", un pezzo di terra al confine est, fra via Salomone e piazza Ovidio, dove abitano 475 famiglie. Francesco arriverà alle Case Bianche alle 8, subito dopo lo sbarco a Linate. Don Augusto Bonora, il parroco di San Galdino, ha già distribuito 4mila pass e altri 3mila li darà nelle prossime ore. Poi ha scelto - fra centinaia - i tre campanelli a cui suonerà il Papa. In una casa troverà due anziani coniugi, nella seconda un disabile gravissimo e nella terza una nidiata di bambini musulmani con i loro genitori. "Ci avevano chiesto di farlo andare solo da chi sta al piano terra - rivela - perché gli ascensori non sempre funzionano. Ma io ho risposto che dicano all’Aler di metterli a posto, una volta per tutte. E spero che la benedizione di Francesco faccia rinascere l’Aler, che ne ha tanto bisogno per fare la manutenzione dei quartieri popolari come il nostro". Poi Bergoglio parlerà da un piccolo palchetto, vicino a Scola e a una Madonnina, mentre 80 coristi del decanato e altrettanti chitarristi faranno l’animazione musicale. Da queste parti c’è il racket degli abusivi e dello spaccio che non ha tanto gradito l’accelerazione dei controlli avvenuta nelle ultime settimane: "Qualche macchina è stata bruciata, qualche atto vandalico è arrivato - sorride Bonora - Ma siamo abituati, ci protegge la Provvidenza". D’altra parte, siamo alla "Trecca", quartiere della mala, nato negli anni Trenta con le "case minime" poi abbattute, per far posto a quelle "bianche". Una terra di frontiera dove fino al ‘99 fu parroco il mitico don Giuseppe Rimoldi, amico di Carlo Maria Martini. Anche qui, sono tutti al lavoro da tempo per la visita. I sarti della cooperativa sociale creata dalla parrocchia hanno tessuto una stola per il Pontefice; le suore che abitano dentro al ghetto delle "case bianche", dal civico 28 al 66, in mezzo agli altri inquilini ed occupanti abusivi, sono andate porta a porta a raccogliere le parole degli abitanti. Le speranze che affideranno al Papa. Ne è nato un quaderno che verrà regalato quel giorno. Verona: visita dei Radicali al carcere di Montorio "realtà veramente interessante" veronasera.it, 14 marzo 2017 Si è tenuta l’altro ieri, 12 marzo, la visita nel carcere veronese di Montorio di Rita Bernardini, presidente d’onore dell’associazione radicale Nessuno tocchi Caino, accompagnata da una delegazione di radicali veneti. Un visita che ha fatto seguito a quella nella casa circondariale di Vicenza e tra le due strutture Rita Bernardini ha notato molte differenze: "A Vicenza ci sono pochissime attività di lavoro o di formazione, mentre a Verona la realtà è veramente interessante - ha dichiarato la Bernardini - Molto dipende dal volontariato locale e dalle capacità della direttrice e del corpo di Polizia Penitenziaria. I detenuti quindi sono occupati". Questo però non significa che non esistano problemi. "Anche qui a Verona, moltissimi detenuti che hanno scontato quasi del tutto la loro pena potrebbero finire di scontarla con una misura alternativa al cercere - ha spiegato Rita Bernardini - Questo ridurrebbe la recidiva. Inoltre i detenuti ci hanno fatto presente i rapporti difficili con la magistratura di sorveglianza. Il sovraffolamento, infine, è un problema comune sia a Vicenza che a Verona, ma a Montorio si sente un po’ di meno perché le celle sono quasi tutte aperte". Al termine della visita sono stati forniti anche alcuni dati particolari. Nel carcere di Montorio sono presenti 10 casi psichiatrici gravi conclamati e di questi 5 sono molto gravi. E su un totale di 438 detenuti, 125 sono tossicodipendenti. La popolazione carceraria veronese è maggiormente straniera (quasi il 70%). "Io spero che molti progetti presentati dalla direttrice del carcere veronese vengano finanziati - ha concluso Rita Bernardini - Perché questo aiuterà il reinserimento dei carcerati. Anche perché i soldi per retribuire il lavoro dei carcerati ci sono, ma mancano ad esempio i soldi per i materiali. E questo è un problema". Sassari: l’Università fa studiare i detenuti, firmata convenzione con il Prap uniss.it, 14 marzo 2017 È stata firmata nei giorni scorsi la convenzione per il Prestito Bibliotecario tra l’Università di Sassari e il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Sardegna, alla presenza del Provveditore Dr. Maurizio Veneziano, del Prorettore dell’ateneo turritano Prof. Luca Deidda e del Delegato Rettorale per i rapporti con l’Amministrazione Penitenziaria Dr. Emmanuele Farris. Questo accordo integra il Protocollo d’Intesa attivo tra l’Università di Sassari e il Provveditorato dal 26 marzo 2014 e regolamenta l’accesso al patrimonio librario dell’ateneo da parte degli studenti in regime di detenzione. Grazie ai fondi erogati annualmente dall’Ente Regionale per lo Studio Universitario (Ersu Sassari), l’Ateneo acquisterà una parte dei libri di testo che saranno accessibili nelle biblioteche del Sistema bibliotecario di Ateneo tramite il servizio di prestito esterno, da esercitare con delega, e il prestito inter-bibliotecario. In pratica, i volumi vengono trasferiti nelle biblioteche carcerarie e poi restituite alle biblioteche universitarie alla fine del prestito. La stipula di questa nuova convenzione, fortemente voluta dalle due istituzioni, è finalizzata a migliorare la fruizione dei servizi didattici da parte dei detenuti che in numero sempre maggiore decidono di iscriversi ai corsi dell’Università di Sassari. Nell’anno accademico 2016/17, sono circa 40 gli studenti detenuti nelle case di reclusione di Alghero, Nuoro, Sassari-Bancali e Tempio-Nuchis iscritti all’ateneo sassarese, in 12 Corsi di Laurea che interessano complessivamente 6 dipartimenti (Agraria; Giurisprudenza; Scienze Economiche e Aziendali; Scienze Politiche, Scienze della Comunicazione e Ingegneria dell’Informazione; Scienze Umanistiche e Sociali; Storia Scienze dell’Uomo e della Formazione). Il 44% degli studenti risulta immatricolato al primo anno (16). I dipartimenti prevalenti risultano Agraria, Giurisprudenza e Scienze Politiche, Scienze della Comunicazione e Ingegneria dell’Informazione, che insieme accolgono più dell’80% del totale. Alcuni dipartimenti sono più radicati in una determinata sede, come Agraria ad Alghero e Scienze Politiche a Tempio-Nuchis. Questa esperienza conferma come la sinergia tra istituzioni (Università di Sassari, Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Sardegna, Ente Regionale per lo Studio Universitario) sia di vitale importanza per il reinserimento sociale dei detenuti attraverso lo studio. Rovigo: alla Caritas diocesana corso di formazione per volontari del carcere Rovigo Oggi, 14 marzo 2017 Un corso di formazione organizzato dal coordinamento dei volontari del carcere di Rovigo, per formare persone in grado di agire come volontari nell’esecuzione penale, che andrà dal 23 marzo all’11 maggio prossimi. Il Coordinamento dei volontari del carcere di Rovigo in collaborazione con il Centro di servizio per il volontariato organizza un corso di formazione per "Volontari nell’esecuzione penale", sette lezioni per altrettanti giovedì dal 23 marzo all’11 maggio presso la Caritas Diocesana. L’avvento della nuova Casa Circondariale con una capienza che può arrivare sino a 408 ristretti ha determinato la necessità di ricercare altri operatori volontari che si aggiungano a quelli in servizio per le aumentate necessità di intervento, il tutto però solo dopo una necessaria formazione di base e un accompagnamento iniziale. Le lezioni vedranno la presenza di Dario Fortin, coordinatore generale coop. Villa Sant’Ignazio di Trento; Antonella Reale, direttore della Casa Circondariale di Padova; Linda Arata, magistrato di sorveglianza del Tribunale di Padova; Cristina Selmi, assistente sociale dell’Uepe di Padova; Marcello Mazzo, direttore del Serd Asl 5; don Marco Pozza, cappellano della Casa di Reclusione di Padova; Livio Ferrari, direttore del Centro Francescano di Ascolto di Rovigo. L’iscrizione al corso deve essere fatta entro il 10 marzo attraverso un modulo scaricabile dai siti internet csvrovigo.it - centrofrancescanodiascolto.it e prevede il versamento di una quota di 10 euro. Milano: presentazione del libro "Giustizia e carceri secondo Papa Francesco" di Patrizio Gonnella evensi.it, 14 marzo 2017 Domani, mercoledì 15 marzo a Milano presenteremo il libro "Giustizia e carceri secondo papa Francesco" che ho curato insieme al prof. Marco Ruotolo, ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università Roma Tre. Insieme a noi interverranno: Adolfo Ceretti (Scienze Criminologiche e Psichiatrico Forensi - Università Milano Bicocca), Giuliano Pisapia (Avvocato - Già sindaco di Milano) e Nicolò Zanon (Giudice Costituzionale). A coordinare l’incontro sarà Alessandra Naldi (Garante delle persone private della libertà - Comune di Milano). Saranno presenti gli editori Sante Bagnoli e Vera Minazzi. Un discorso potente e radicale quello di papa Francesco sulla giustizia e sulle carceri. Indignata è la sua critica alla giustizia, definita selettiva, populista con tendenze razziste. Il carcere viene definito luogo di produzione di dolore. La tortura è un plus di sofferenza, l’ergastolo una pena di morte nascosta. Papa Francesco non si accontenta di offrire una prospettiva di salvezza, come spesso la Chiesa si è limitata a fare. Non si affida alla retorica della rieducazione del reo. Il suo è un manifesto contro le derive securitarie degli ultimi decenni e contro un diritto penale che tratta le persone come nemici. La giustizia per papa Francesco deve essere sempre una giustizia "pro homine". In questo volume i curatori e altri ventuno autori, tra loro molto diversi per storia e professione, commentano le parole del Pontefice. Roma: pregando in quattro mura, don Vittorio e il crocifisso di Regina Coeli di marzia coronati napolimonitor.it, 14 marzo 2017 L’ingresso per i visitatori è da via della Lungara. Un portone qualsiasi di una delle strade più trafficate di Trastevere. "Abbiamo appuntamento con il cappellano". Dall’altra parte del vetro ci squadrano tre vigilanti annoiati. "Avete il tesserino da giornalisti? Senza non si può entrare". "Ma come? Abbiamo parlato con la direttrice. Ci siamo scritti più volte. Sa già tutto". Inizia la catena di telefonate. Aspettiamo venti, forse trenta minuti nella sala spoglia giallo canarino, seduti su una fila di sedie in plastica, accanto a una ragazza che si torce le mani. Non c’è né una macchinetta del caffè, né un distributore d’acqua. Ci fanno un cenno dal gabbiotto di vetro. "È tutto a posto. Il cappellano vi aspetta. Entrate". Spegniamo i telefoni e li infiliamo negli zaini, stipiamo tutto negli armadietti e chiudiamo a chiave, passiamo sotto al metal detector, attraversiamo una porta a vetri doppia e saliamo cinque scalini. "Non sono i famosi tre scalini di Regina Coeli, ma quasi". Padre Vittorio Trani sorride. "Se sei di Roma, da oggi, varcata questa soglia, hai un marchio in più che attesta la tua vera romanità!". Ha un volto disteso, cammina tra i corridoi con un pacco di taralli nella mano che non manca di offrire a chi incontra. Saluta e chiama per nome le persone che ci sfilano accanto. Dopo trentotto anni e mezzo di cappellania nella casa circondariale romana non ha esaurito la curiosità e la voglia di fare conoscere il suo carcere. Valichiamo enormi portoni di ferro, camminiamo lungo androni dai soffitti altissimi bianco azzurri e attraversiamo enormi patii a volta dove si affacciano i cancelli di ingresso alle sezioni. La struttura al suo interno è affascinante e colorata, ma i passi di chi la attraversa sono strascicati e pesanti. Vedo gente in tuta e scarpe sfondate, volti stanchi e sguardi annoiati. Il cappellano ci parla di Gramsci, De Gasperi e degli altri politici detenuti tra queste mura. Ci indica la sezione dove erano rinchiusi. Poi alza lo sguardo verso un dipinto colorato. "Questo Cristo lo ha restaurato un regista, detenuto per storie di droga". Padre Vittorio è orgoglioso di mostrarci un crocifisso posto d’avanti a un quadro a tinte accese, appeso nell’enorme disimpegno nel cuore della Casa circondariale. "Diceva che il capo doveva avere il "perizoma" color terra… così chiamava Cristo, "il capo". Diceva che non doveva essere bianco, perché il capo era povero. Ma poi un giorno si è svegliato dopo un’apparizione, una visita notturna del Signore. La mattina era elettrico e preoccupato: "Don Vittò, lo dobbiamo fare bianco, il perizoma. Lui lo vuole bianco!"". Nella casa circondariale di Regina Coeli oggi ci sono circa duecento detenuti, di sessantotto nazionalità diverse. Ma il numero cambia di giorno in giorno, sino ad arrivare a circa mille presenze. In fondo alla struttura c’è una piccola cappella illuminata dal sole, con un grosso crocifisso e qualche panca di legno scuro. Ci sediamo assieme a due detenuti selezionati per l’occasione dalla direzione. Sono entrambi italiani. Spieghiamo loro che siamo un gruppo di giornalisti radiofonici e scrittori, che siamo interessati a sapere come si vive la spiritualità in un carcere, se il loro bisogno di fede è sempre soddisfatto o se ci sono cose che potrebbero migliorare, se gli spazi di preghiera o meditazione sono sufficienti. Padre Vittorio si siede in mezzo a noi. "Il problema di questo posto è che è una casa circondariale, con persone che in teoria dovrebbero essere solo di passaggio, perciò non vengono realizzati progetti a lunga scadenza, ma in pratica le cose sono diverse. Considerate che il 70% qui dentro è straniero, soprattutto di fede musulmana". Il nostro primo intervistato è gentile, pondera bene le parole, ha una buona dialettica, gli occhi carta da zucchero e un tao appeso al collo. Dopo un breve confronto si allontana. Lo vedremo prima di andare via, sul palco della sala chiamata "polifunzionale", impegnato nelle prove del coro. Mentre parliamo si aggiungono alla conversazione altri detenuti. Si siedono in silenzio attorno a noi. "Io vengo dal carcere di Viterbo. Ho trascorso lì più di un anno. Sono stato in isolamento per quindici giorni. In quel periodo mia sorella mi aveva inviato dei libri sul buddhismo, ma io non li avevo mai aperti". Chi parla viene dalla Campania. Giovane, poco più che ventenne, mani con piccoli tatuaggi sbiaditi, barba incolta e occhi tondi azzurro cielo. "Quando mi hanno trasferito qui stavo male, non mi ritrovavo con me stesso, reagivo a tutto, ero sempre impulsivo. Poi un compagno di cella mi ha parlato del buddhismo, così mi sono ricordato dei libri di mia sorella e da lì in poi è stata tutta una cosa improvvisa, inaspettata". Racconta di essere cattolico, di andare ancora a messa, ma di meditare tutti i giorni ormai da più di quattro mesi. "Anche tre, quattro, cinque ore al giorno, tra un momento e l’altro della giornata, trovo spazio per la mia meditazione". La timidezza iniziale lascia il passo alla parola e al flusso di pensieri. Dalla porticina della cappella entrano le voci del coro. Si preparano per un concerto, sarà il giorno successivo. "Qui dentro hai tempo per pensare a tutto quello che fuori non hai mai costruito. Valori, principi… fuori ci sono solo le rate e i problemi". Sono le parole di un romano dalla pelle ruvida e le mani rosse. Occhi stanchi e un sorriso che pare rassegnato. "Qui ognuno di noi è una miniera di potenzialità. Questo posto potrebbe diventare una risorsa inesauribile. Invece siamo in una società che ancora considera il detenuto un uomo da punire per il suo reato". Si sono aggiunti al gruppo un ragazzo musulmano convertito al cristianesimo e due ortodossi di origine rumena. Parliamo con loro di fragilità, di cura, di multi- religiosità. Ne esco piena di storie e di pensieri. Penso soprattutto alla necessità di cura e di ascolto profondo che chiede, senza parole, chi attraversa un periodo critico, chi non può tornare indietro, chi fatica ad andare avanti. Mentre ci avviamo verso l’uscita chiediamo al cappellano perché non esiste uno spazio fisico per la preghiera dedicato a chi fa parte di altre confessioni. "C’era un progetto di costruzione di una moschea e di altri spazi, ma poi non ci sono stati più i finanziamenti". Così oggi a volte un Imam riesce a entrare e guidare le preghiere, ma il più delle volte i detenuti musulmani si organizzano da soli. Per le altre fedi, ancora molto poco, qualche visita di un centro buddhista e i testimoni di Geova, che cercano adepti anche qui. Ripercorriamo a ritroso la strada dell’andata. Nella sala polifunzionale è in corso una lezione di filosofia, in biblioteca qualcuno sfoglia un libro e nei lunghi corridoi si passeggia in attesa della mensa. Ascolto il rimbombare dei passi, la voce alta di una guardia che chiama due persone per cognome, sento l’odore del pranzo in preparazione e ripenso alle ultime parole di uno degli uomini che ha parlato con noi. "La mattina, quando ci svegliamo, nella mia cella c’è da ridere!". E sorride, di una felicità autentica. "C’è chi srotola il tappetino e si mette giù in ginocchio, chi medita e recita parole in indiano, chi stringe il rosario. Così, mi lavo i denti e penso che in fondo questa convivenza, questo comunicare e stare insieme, è possibile. E se è possibile qui dentro, dovrà essere possibile pure lì fuori". Parma: proiezione documentario "Un altro me" e incontro con il regista Claudio Casazza oggiaparma.it, 14 marzo 2017 Nell’ambito delle iniziative legate all’8 marzo, "Festa della donna", e realizzate da diversi soggetti ed associazioni con il patrocinio dell’assessorato alle Pari Opportunità del Comune di Parma, guidato da Nicoletta Paci, si segnala la proiezione del film "Un altro me", in programma giovedì 16 marzo, alle 21, al Cinema Edison in largo 8 Marzo, e l’incontro con il regista Claudio Casazza. Sergio, Gianni, Giuseppe, Valentino, Carlo, Enrique, sono alcuni tra i condannati per reati sessuali detenuti nella Casa di reclusione di Bollate e sono i protagonisti del film documentario di Claudio Casazza "Un altro me" (83’, Italia, 2016, prodotto da GraffitiDoc) I "sex offender" sono isolati in strutture separate dentro la stessa struttura penitenziaria perché sono considerati ‘infamì dagli altri detenuti. Una rappresentazione non molto diversa da quella diffusa nell’opinione pubblica che tende a considerarli "anormali" o semplicemente "malati". Dopo anni di isolamento, questi detenuti rischiano, una volta usciti dal carcere, di commettere nuovamente lo stesso crimine. Un’equipe di psicologi e criminologi del Cipm (Centro italiano per la mediazione) sta portando avanti con loro un lavoro di confronto e rielaborazione per evitare il rischio di recidiva. Il regista Claudio Casazza ha passato un anno accanto a loro per capire chi sono, cosa pensano e quali sono le spinte che li portano a commettere simili crimini. Lo sguardo discreto ma ravvicinato ci aiuta a comprendere da dove nascono questi comportamenti violenti, a considerare quanto certe mentalità o certe logiche siano diffuse e offre spunti per una riflessione sulle relazioni tra uomini e donne. Il film racconta il confronto tra operatori e operatrici del Cipm e i detenuti, dalle più conflittuali fasi iniziali alla progressiva rimozione delle barriere difensive, mostrando come anche per queste persone un cambiamento sia possibile. Secondo i dati del Cipm ad oggi dei 248 uomini seguiti solo 7 hanno compiuto nuovamente un reato. Alla proiezione del documentario seguirà un confronto con la partecipazione del Vicesindaco Nicoletta Paci, del regista Claudio Casazza, di alcuni operatori e operatrici del Cipm Emilia, Silvia Merli, Luca Bollati, Morena Landini, e un volontario del gruppo Maschi che si immischiano. La giornalista Chiara Cacciani condurrà la discussione. È previsto un biglietto d’ingresso al costo ridotto di 5,50 euro. L’evento rientra nel cartellone di iniziative promosse per l’8 marzo 2017 e nasce dalla collaborazione tra diverse realtà del territorio: il gruppo Maschi che si immischiano, l’Associazione Le orme del bruco, il Cinema Edison, Solares - Fondazione delle Arti, assieme al Comune di Parma e all’Assessorato alle Pari Opportunità. Napoli: detenuti e detenute in biciletta per "spezzare le catene della quotidianità" Agenparl, 14 marzo 2017 "Il Parlamento Europeo con l’emanazione della Risoluzione 15 dicembre 2011, n. 2897 ha spronato gli Stati membri ad adottare ogni misura necessaria ad assicurare il rispetto e la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti, in particolare "riabilitare e preparare con successo i detenuti per il rilascio e l’integrazione sociale, promuovere il miglioramento delle strutture carcerarie negli Stati membri, al fine di dotarle di idonee attrezzature tecniche, ampliare lo spazio disponibile e renderle funzionalmente in grado di migliorare le condizioni di vita dei detenuti, garantendo comunque un elevato livello di sicurezza, lottare contro il suicidio nelle carceri e contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti". In particolar modo l’art. 27 della nostra "Costituzione Madre" sancisce che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Alla luce della normativa vigente nasce l’iniziativa "Un giro per spezzare le catene della quotidianità". Una gara in bici, un progetto che coinvolge in prima persona detenuti e detenute delle carceri campane, attraverso un lavoro sinergico con i vari comuni. Pozzuoli, Posillipo, Mergellina, potrebbero rappresentare le tappe salienti di una sana competizione, per arrivare uniti al traguardo della vita e creare un ponte per la solidarietà, tra la società e la comunità dei detenuti. Una corsa a scopo benefico per sostenere la ricerca e la lotta al tumore, perché la vita spesso va salvata al volo, con premiazione e consegna all’arrivo dei fondi ricavati dalla manifestazione. Una gara in maglia rosa, affinché nell’animo degli uomini fiorisca sempre più anche il rispetto per le donne. Al traguardo, si potrebbe svolgere una manifestazione canora, con protagonisti gli stessi detenuti, con maggiori doti musicali. Reintegrazione è soprattutto sentirsi utili per il prossimo ed il Nucleo Traduzioni e Piantonamenti della Polizia Penitenziaria svolgerebbe in questa occasione un ruolo determinante per garantire la sicurezza e fornire nei massimi termini l’immagine di operatività a cui è adibito". Così in una nota di Francesca Accetta Giurista Assistente di Polizia Penitenziaria Esperta in Criminologia Psicologia Forense e Scienze Giuridiche. Teatro in carcere: il 27 marzo si celebra la quarta Giornata nazionale di Teresa Valiani Redattore Sociale, 14 marzo 2017 Il Comitato nazionale invita direzioni degli istituti, operatori e volontari a promuovere eventi tra il 20 marzo e il 30 aprile. Anteprima a Pesaro con "Yo soy Rivera" e "Amleto dei bassi". Quaranta esperienze teatrali diffuse su tutto il territorio nazionale con più di 100 istituti penitenziari coinvolti, 3 edizioni di successo e una serie di appuntamenti che ogni anno contribuiscono a cementare il rapporto tra il dentro e il fuori, facendo del teatro italiano in carcere un’eccellenza nel mondo per diffusione e qualità artistica ed educativa. Il Coordinamento nazionale Teatro in Carcere annuncia la IV edizione della Giornata nazionale teatro in carcere, fissata al 27 marzo, in concomitanza con il World Theatre Day 2017 (giornata mondiale del teatro), promosso dall’International Theatre Institute (Iti) Worldwide-Unesco e dal Centro italiano dell’Iti. Tra gli appuntamenti che apriranno la rassegna, una anteprima nel carcere di Pesaro con lo spettacolo ‘Yo soy Riverà, la Compagnia teatrale dell’università di Caldas (Manizales/Colombia) e il regista Daniel Ariza che racconterà un’esperienza inedita realizzata in carcere in Colombia. Sempre nell’istituto penitenziario di Pesaro, il 27 marzo sarà presente Carlo Formigoni, maestro del teatro italiano che si è formato al Berliner Ensemble negli anni Sessanta e che con la Compagnia dell’Altopiano presenta lo spettacolo Amleto dei bassi". Il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere è un organismo costituito da oltre 40 esperienze teatrali diffuse su tutto il territorio nazionale, con il sostegno del ministero di Giustizia - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). All’edizione 2016 della Giornata Nazionale avevano aderito 59 istituti penitenziari, 10 altre istituzioni, tra università, scuole, uffici di esecuzione penale esterna e teatri, ed erano stati realizzati 75 eventi in 17 regioni italiane, con una iniziativa fuori dal territorio nazionale, nella Repubblica democratica del Congo, "ciascuno - si legge in una nota del Coordinamento - con la propria autonomia e la propria forza, sia all’interno che all’esterno delle carceri italiane in uno scambio tra ‘dentro e fuorì che evidenzia l’importanza di costruire ponti tra il carcere e il proprio territorio, utilizzando proprio l’arte del teatro. La IV edizione si inquadra in un più ampio e articolato programma di collaborazione previsto dal Protocollo d’Intesa sottoscritto nel 2013 e rinnovato nel 2016 insieme al ministero di Giustizia - Dap e all’università Roma Tre. Con la sottoscrizione del Protocollo si condivide e si promuove l’idea che i tempi sono maturi per cercare in modo organico una pratica più consapevole nei metodi, nelle funzioni, negli obiettivi delle arti sceniche negli istituti penitenziari. Considerata l’importanza e il rilievo nazionale e internazionale dell’iniziativa, il Coordinamento nazionale Teatro in Carcere, con il sostegno del Dap, invita le direzioni degli istituti penitenziari, le associazioni, le compagnie teatrali, i singoli operatori, gli enti e gli organismi che operano negli Istituti, a promuovere e ideare eventi, spettacoli, incontri, iniziative di confronto e dibattito ‘dentro e fuorì dagli Istituti. Per consentire la massima partecipazione si potranno promuovere manifestazioni nel periodo dal 20 marzo al 30 aprile 2017. Sarà a cura del Coordinamento redigere il programma/cartellone nazionale di tutte le iniziative realizzate, pubblicandole costantemente sul sito www.teatrocarcere.it. Il programma sarà pubblicizzato inoltre dai canali istituzionali del Dap e dall’Iti". "Le manifestazioni - sottolinea la nota - saranno seguite con attenzione anche dall’associazione nazionale dei Critici di Teatro e dalla rivista europea ‘Catarsi-Teatri delle diversità’, animatrice della nascita del Coordinamento tra le esperienze. Le direzioni degli istituti penitenziari e i soggetti proponenti, sono invitati a comunicare il proprio programma di iniziative ed eventi ai seguenti indirizzi: stampa.dap@giustizia.it, teatrocarcereitalia@libero.it. Per informazioni è possibile contattare il segretario del Coordinamento, David Aguzzi, all’indirizzo: teatrocarcereitalia@libero.it". "Yara, Dna di un’indagine", un documentario che non convince di Aldo Grasso Corriere della Sera, 14 marzo 2017 La vera vittima dei talk è ancora una volta Yara, sempre usata, sempre al fondo delle nostre coscienze. Però, da un’inchiesta marcata Bbc, mi sarei aspettato qualcosa di più. Brembate di Sopra, Bergamo: una sera di novembre del 2010, Yara Gambirasio, 13 anni, sparisce senza lasciare traccia. Nevica da giorni, e Maura, la mamma, non vedendola rientrare a casa, chiama la Procura. Il pm Letizia Ruggeri, che non sarebbe dovuta essere di turno quella notte, prende la chiamata. La famiglia e la comunità sono in ansia: Yara non torna a casa. Tre mesi dopo il corpo della ragazza viene trovato in un campo incolto. I media, e in particolare certi talk televisivi, hanno fatto presto a trasformare il caso di Brembate di Sopra in uno show, esattamente come era successo con Garlasco, Novi Ligure, Cogne, Erba, dando sempre l’impressione di essere assetati più di sensazionalismo che di giustizia. In un vortice infernale, le trasmissioni sui delitti hanno colonizzato i palinsesti, sono diventate rubriche fisse dei contenitori pomeridiani e domenicali, si sono serializzate, dando vita a un racconto che da anni sta ossessionando l’Italia. La vera vittima dei talk è ancora una volta Yara, sempre usata, sempre al fondo delle nostre coscienze. "Ignoto 1. Yara, Dna di un’indagine" è invece un documentario in quattro parti, nato da un’idea di Bbc e prodotto dall’inglese Amber Tv e l’italiana Run to Me Film in collaborazione con Sky e Bbc (Sky Atlantic e Sky Tg24, domenica, ore 21.15). Nella prima puntata il racconto è affidato a Letizia Ruggeri che dal 2010 ha guidato l’indagine e che fino alla fine del processo non ha mai voluto parlare con la stampa (anzi era molto infastidita dai media, ancora oggi chiama "codazzo" il gruppo di giornalisti che cercava di carpirle qualche notizia). La Procura ha in mano un solo elemento su cui investigare: sul corpo della ragazza viene trovata una traccia di Dna maschile. È l’inizio di una delle indagini più complesse e sorprendenti dei nostri tempi, condotta per quattro lunghi anni. Però, da un’inchiesta marcata Bbc, mi sarei aspettato qualcosa di più. Migranti. I renziani contro Orlando di Alessandro Di Matteo La Stampa, 14 marzo 2017 Serracchiani respinge l’idea di scendere in piazza sul modello di Barcellona. Pd dubbioso, solo Gianni Cuperlo la giudica "un’ottima proposta da sostenere". Roma non è Barcellona, se Andrea Orlando accoglie con entusiasmo l’idea di una manifestazione pro-migranti tipo quella che ha sfilato per i viali della città catalana, molto più fredde sono le reazioni di buona parte del Pd e anche della ex sinistra del partito ora in Mdp. Ieri era stato il ministro della Giustizia, sulla "Stampa", a riprendere un’idea di Walter Veltroni: "Sì, senza esitazioni - aveva detto il Guardasigilli - è una sfida che lancio a tutto il partito, facciamola presto". Sfida che, appunto, al momento sembra destinata a non essere raccolta, per tanti motivi. Dentro al Pd pesa il clima congressuale, ma non solo. "Nessun candidato alla segreteria dirà mai che apprezza l’idea di uno sfidante", dice uno dei parlamentari vicini a Michele Emiliano. Ma poi c’è la consapevolezza di toccare un tema delicato "che può solo farci perdere voti", dice un dirigente vicino a Renzi. Solo Gianni Cuperlo la giudica "un’ottima proposta da sostenere". Debora Serracchiani già domenica al Lingotto aveva parlato soprattutto dell’esigenza di "sicurezza" dei cittadini, bilanciando l’intervento pro-immigrati di Emma Bonino. "A Debora Serracchiani - ha replicato il segretario dei radicali Riccardo Magi - diciamo che il compito della politica non è certo assecondare quella paura e farla così diventare l’alibi della propria inerzia". Ma la presidente del Friuli su questo ha un’idea netta e con la "Stampa" commenta così l’ipotesi della manifestazione: "Il diritto d’asilo è sancito nella Costituzione ed è legittimo chiedere che continui a essere garantito a chi spetta. Non credo che l’Italia abbia nulla da rimproverarsi in fatto d’accoglienza, anzi, e forse non è urgente manifestare per i profughi". Piuttosto "la sinistra dovrebbe forse occuparsi di più della preoccupazione di tanti cittadini che sono disorientati da un cambiamento epocale. Io non vorrei mai che, mentre manifesta in centro in nome dei principi e per i migranti, la sinistra si allontanasse dal popolo, dalle periferie, dal disagio di chi aspetta una parola da noi". Emiliano, poi, nel 2015, in piena campagna elettorale per la presidenza della Puglia, aveva scatenato un putiferio arrivando a dare quasi ragione al leader della Lega: "Mi divide tutto da Matteo Salvini - disse allora Emiliano - ma devo riconoscere che coglie un aspetto cruciale quando dice che gli immigrati non devono essere trattati meglio degli italiani". Il presidente della Puglia è attento a tenere insieme il tema dell’accoglienza con quello della sicurezza. Dario Ginefra, uno dei parlamentari schierati con Emiliano, spiega: "Non avrei difficoltà a partecipare a una manifestazione del genere", premette. "Certo - aggiunge - il tema dell’immigrazione credo abbia bisogno di un giusto equilibrio, bisogna coniugare il tema dei diritti a quello dei doveri. Per noi la parte dei doveri è al centro come quella dei diritti. Ma non è in discussione il fatto che per noi l’immigrazione è un valore non solo economico". A sinistra del Pd, poi, c’è il timore che sia solo una mossa legata al dibattito congressuale. Arturo Scotto spiega: "Più che l’ennesima manifestazione, alla quale parteciperemmo volentieri, vorremmo scelte politiche: da un ministro non ci si aspetta l’organizzazione di un corteo ma atti: sul decreto Minniti che produce una stretta e sullo ius soli". E Davide Zoggia aggiunge: "Siamo all’interno del congresso Pd, qualsiasi cosa venga fatta o detta in questo periodo... Preferirei che ci fossero provvedimenti che vanno nella giusta direzione". Crisi diplomatica con Ankara, a rischio l’accordo sui migranti di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 14 marzo 2017 Tensioni elettorali. La Turchia minaccia Bruxelles dopo il no ai comizi di due ministri turchi in Olanda. Meeting negati anche da alcune città tedesche e dall’Austria, mentre in Francia non ci sono stati ostacoli. Ue e Nato cercano di calmare il clima. Erdogan attacca ancora la Germania: "Sostiene i terroristi". La Turchia alza la voce contro la Ue in un’escalation. Il presidente Erdogan ieri sera ha accusato Angela Merkel di "sostenere i terroristi". Qualche ora prima, aveva mandato avanti il ministro degli Affari europei, Omer Celik, per minacciare gli europei di un "riesame" dell’accordo sui rifugiati siriani, che la Ue ha concluso con la Turchia un anno fa, un subappalto europeo gestito da Ankara in cambio di un finanziamento. Ankara vieta il rientro dell’ambasciatore olandese e vieta lo spazio aerei a tutti i diplomatici dei Paesi bassi. L’escalation turca fa seguito a ore di forte tensione diplomatica con alcuni paesi Ue - Olanda, Germania e Austria - che ha causato divisione nell’Unione. Il governo olandese, nell’imminenza delle legislative di domani 15 marzo, ha impedito l’atterraggio dell’aereo del ministro degli esteri turco, Mevlut Cavusoglu, e riportato alla frontiera la ministra della Famiglia (entrambi volevano parlare a dei comizi pro Erdogan in vista del referendum turco del 16 aprile). I due ministri - ha annunciato Erdogan - si appelleranno alla Corte europea dei diritti umani per il trattamento ricevuto. In Germania alcuni comuni hanno annullato dei meeting pro-Erdogan e in Austria sono state proibite quattro riunioni (una anche in Svizzera). La Francia ha autorizzato un incontro a Metz, previsto da tempo. Per il ministro degli Esteri, Jean-Marc Ayrault, "in assenza di minacce comprovate all’ordine pubblico, non c’erano ragioni per proibire questa riunione", domenica 12 marzo nella capitale della Lorena. Anche la Francia è in campagna elettorale, così destra e estrema destra hanno attaccato il governo. Per François Fillon (candidato Républicains), Hollande sarebbe venuto meno "in modo flagrante alla solidarietà europea". La Danimarca solidarizza con i vicini: il premier Lars Lokke Rasmussen ha chiesto al collega turco Binali Yildrim di posticipare la visita a Copenhagen prevista a fine marzo per via degli "attacchi" all’Olanda. A Bruxelles, un comunicato di mrs. Pesc, Federica Mogherini, firmato assieme al commissario alle politiche di vicinato, Johannes Hahn, ha cercato di calmare la situazione, invitando a evitare "l’escalation". Di fronte alle accuse di "nazismo" e di "fascismo" rivolte da Ankara a tedeschi e olandesi e alle minacce di "far pagare le conseguenze" all’Aja, la Ue chiede alla Turchia di "evitare ogni dichiarazione eccessiva", oltre ad "azioni che rischierebbero di esacerbare ancora la situazione". Mogherini ricorda che la decisione di permettere o meno dei comizi elettorali stranieri "riguarda gli stati membri", in conformità con il diritto internazionale e quello nazionale. Ma mrs. Pesc afferma di aver "preso nota" delle conclusioni del Consiglio d’Europa (istituzione intergovernativa nata nel 1949, che comprende 47 stati e difende i diritti umani, la democrazia e lo stato di diritto), dove sono espresse "serie inquietudini" sulla riforma proposta da Erdogan, che propone un "eccessivo concentramento dei poteri" e che avrà "effetti gravi sui necessari contrappesi e sull’indipendenza della giustizia". Reazioni anche alla Nato, organizzazione a cui appartiene anche la Turchia. Il segretario generale, Jens Stoltenberg, ha invitato tutti al "mutuo rispetto" e ha ricordato che "lavoriamo con la Turchia per opporci alle violenze in Siria e in Iraq" e che "la coalizione contro l’Isis è al centro dei nostri interessi". Le relazioni tra la Ue e la Turchia sono sempre più tese. Già nel 2016, come conseguenza alla feroce repressione e agli arresti che hanno fatto seguito al fallito "colpo di stato" dell’estate, il Parlamento europeo aveva chiesto il "congelamento" dei negoziati di adesione, avviati in seguito alla domanda turca dell’87. Questi negoziati sono in corso dal 2005 e sono già stati sospesi a varie riprese. L’ultimo capitolo aperto è stato il numero 33. Dal 1963 la Turchia ha un accordo di associazione con Bruxelles e nel ‘95 è stato firmato un accordo doganale. La reazione del governo olandese di proibire i comizi tra gli immigrati turchi con la presenza di ministri di Erdogan si spiega con motivi ben precisi di politica interna: Geert Wilders (estrema destra) aveva lasciato il partito liberale del premier Mark Rutte nel 2004 proprio sulla questione turca, dopo l’approvazione in via di principio da parte di questo partito del processo di adesione della Turchia alla Ue. In Germania, le decisioni di annullare i comizi sono state prese a livello comunale (come ad Amburgo), mentre Angela Merkel è rimasta prudente, a causa dell’accordo sui rifugiati, tanto voluto dalla cancelliera e anche perché un sondaggio dice che un’importante maggioranza di tedeschi (62%) rifiuta di rispondere in modo troppo violento alle provocazioni turche. In Francia, la presenza di immigrati turchi è meno importante che in Olanda, Germania o Austria. Il grande gioco nucleare in Europa di Manlio Dinucci Il Manifesto, 14 marzo 2017 Il siluro lanciato attraverso il New York Times - l’accusa a Mosca di violare il Trattato sulle forze nucleari intermedie (Inf) - ha colpito l’obiettivo: quello di rendere ancora più tesi i rapporti tra Stati uniti e Russia, rallentando o impedendo l’apertura di quel negoziato preannunciato da Trump già nella campagna elettorale. Il siluro porta la firma di Obama, che nel luglio 2014 (subito dopo il putsch di Piazza Maidan e la conseguente crisi con la Russia) accusava Putin di aver testato un missile nucleare da crociera, denominato SSC-X-8, violando il Trattato Inf del 1987 che proibisce lo schieramento di missili con base a terra e gittata compresa tra 500 e 5.500 km. Secondo quanto dichiarano anonimi funzionari dell’intelligence Usa, ne sono già armati due battaglioni russi, ciascuno dotato di 4 lanciatori mobili e 24 missili a testata nucleare. Prima di lasciare l’anno scorso la sua carica di Comandante supremo alleato in Europa, il generale Breedlove avvertiva che lo schieramento di questo nuovo missile russo "non può restare senza risposta". Taceva però sul fatto che la Nato tiene schierate in Europa contro la Russia circa 700 testate nucleari statunitensi, francesi e britanniche, quasi tutte pronte al lancio ventiquattr’ore su ventiquattro. E man mano che si è estesa ad Est fin dentro la ex Urss, la Nato ha avvicinato sempre più le sue forze nucleari alla Russia. Nel quadro di tale strategia si inserisce la decisione, presa dall’amministrazione Obama, di sostituire le 180 bombe nucleari B-61 - installate in Italia (50 ad Aviano e 20 a Ghedi-Torre), Germania, Belgio, Olanda e Turchia - con le B61-12: nuove armi nucleari, ciascuna a quattro opzioni di potenza selezionabili a seconda dell’obiettivo da colpire, capaci di penetrare nel terreno per distruggere i bunker dei centri di comando. Un programma da 10 miliardi di dollari, per cui ogni B61-12 costerà più del suo peso in oro. Allo stesso tempo gli Usa hanno realizzato in Romania la prima batteria missilistica terrestre della "difesa anti-missile", che sarà seguita da un’altra in Polonia, composta da missili Aegis, già installati a bordo di 4 navi da guerra Usa dislocate nel Mediterraneo e Mar Nero. È il cosiddetto "scudo" la cui funzione è in realtà offensiva: se riuscissero a realizzarlo, Usa e Nato terrebbero la Russia sotto la minaccia di un first strike nucleare, fidando sulla capacità dello "scudo" di neutralizzare la rappresaglia. Per di più, il sistema di lancio verticale Mk 41 della Lockheed Martin, installato sulle navi e nella base in Romania, è in grado di lanciare, secondo le specifiche tecniche fornite dalla stessa costruttrice, "missili per tutte le missioni", comprese quelle di "attacco contro obiettivi terrestri con missili da crociera Tomahawk", armabili anche di testate nucleari. Mosca ha avvertito che queste batterie, essendo in grado di lanciare anche missili nucleari, costituiscono una violazione del Trattato Inf. Che cosa fa l’Unione europea in tale situazione? Mentre declama il suo impegno per il disarmo nucleare, sta concependo nei suoi circoli politici quella che il New York Times definisce "una idea prima impensabile: un programma di armamenti nucleari Ue". Secondo tale piano, l’arsenale nucleare francese sarebbe "riprogrammato per proteggere il resto dell’Europa e posto sotto un comune comando europeo", che lo finanzierebbe attraverso un fondo comune. Ciò avverrebbe "se l’Europa non potesse più contare sulla protezione americana". In altre parole: qualora Trump, accordandosi con Putin, non schierasse più le B61-12 in Europa, ci penserebbe la Ue a proseguire il confronto nucleare con la Russia. Siria. 6 anni di guerra: le storie delle famiglie che hanno trovato rifugio in Italia Avvenire, 14 marzo 2017 Oggi Ala Roumieh ha 23 anni ed è in Italia grazie ai corridoi umanitari della Comunità di Sant’Egidio e della Federazione Chiese evangeliche. Obiettivo? Portare in salvo migliaia di rifugiati siriani. "Avevo 17 anni quando la crisi è iniziata in Siria. Mio padre faceva il farmacista ed è stato arrestato 5 volte, torturato in carcere. Dopo 3 anni di guerra per noi non era più possibile vivere nel paese. Io stesso sono stato arrestato per tre volte. Ho perso il braccio per l’esplosione di una bomba. A Yabroud, vicino Damasco, dove vivevamo, era più facile trovare armi che latte in polvere e medicine. Non ho potuto proseguire gli studi in medicina". Sono le parole Ala Roumieh, 23 anni, con sua madre, sua moglie e due fratelli minorenni, è arrivato in Italia il 3 maggio 2016 grazie al progetto Corridoi umanitari realizzato dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Tavola Valdese e Comunità di Sant’Egidio, e completamente autofinanziato. Secondo le stime Nazioni Unite, sei anni di conflitto hanno causato oltre 300.000 vittime ma il conteggio effettivo potrebbe essere di gran lunga superiore. In questo quadro, quasi il 60% della popolazione ha bisogno di assistenza sanitaria, ma oltre la metà delle strutture pubbliche sono chiuse o solo parzialmente funzionanti. All’interno del Paese in questo momento circa 13 milioni e mezzo di uomini, donne e bambini, hanno bisogno di assistenza umanitaria e di protezione tra cui 5,7 milioni di persone hanno immediato bisogno di aiuto. L’esodo di 4,9 milioni di profughi nei Paesi confinanti. Nel sesto anniversario dall’inizio della crisi siriana, l’Unione europea revocherà la sospensione sul ritorno dei rifugiati in Grecia, ripristinando così il regolamento di Dublino (sospeso dal 2011), con la conseguenza che chi si troverà in altri paesi europei dopo quella data, rischierà di essere rimandato in Grecia per presentare la sua domanda di asilo. Tutto ciò, nonostante la stessa Commissione europea abbia ammesso che le politiche attuate sinora, creino un’enorme pressione sul sistema di asilo greco, costringendo decine migliaia di persone a vivere in condizioni disumane. Il 15 marzo coincide anche con l’anniversario dell’accordo UE-Turchia, che ha causato enormi sofferenze a tantissimi profughi, in buona parte siriani, che cercavano in Europa una possibilità di futuro. La scia che l’accordo si lascia dietro sono le migliaia di persone costrette a vivere in condizioni disumane nei campi sovraffollati delle isole greche, i ritorni forzati in Turchia, la volontà dell’Europa a non prendersi carico delle richieste d’asilo di chi è in fuga dalla guerra. A rendere il quadro ancora più sconfortante, un emendamento alla legge sull’immigrazione in Gran Bretagna, varato l’anno scorso, impedisce l’ingresso a minori migranti non accompagnati provenienti da altri paesi europei. Siriani in trappola. A sei anni dall’inizio della crisi che ha precipitato la Siria in una sanguinosa guerra civile, milioni di persone si ritrovano oggi intrappolate, vittime di politiche restrittive che innalzano muri e di fatto impediscono una chance di futuro a chi ha dovuto lasciarsi tutto alle spalle. I quasi cinque milioni di siriani che sono riusciti a scappare dal paese oggi vivono sulla propria pelle le conseguenze delle decisioni dei paesi più ricchi del mondo che si traducono per moltissimi nell’impossibilità di trovare un luogo sicuro in cui vivere: da inizio anno Stati Uniti, Unione europea e Gran Bretagna hanno variamente modificato, sospeso o cancellato tutte quelle politiche in grado di garantire accoglienza a decine di migliaia di rifugiati. Allo stato attuale, in condizione di grande vulnerabilità, ci sono 78.000 siriani bloccati al confine con la Giordania, centinaia di migliaia respinti alla frontiera con la Turchia, 640.000 in Siria, sotto l’assedio militare imposto dal governo e i suoi alleati, dai gruppi armati di opposizione e dal Daesh. Da aprile Oxfam aderisce al progetto Corridoi umanitari, inaugurato più di un anno fa dalla Diaconia valdese e dalla Comunità di Sant’Egidio, che ha già portato in Italia 700 rifugiati siriani vulnerabili, attraverso una via sicura e grazie a visti umanitari previsti dal diritto internazionale. Hadil Sabha, 46 anni, con suo marito Asad e il figlio Nabil di 7 anni, è arrivata in Italia il 1° dicembre 2016, grazie al progetto Corridoi umanitari realizzato dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Tavola Valdese e Comunità di Sant’Egidio, e completamente autofinanziato. Oxfam è partner dell’iniziativa ed ospiterà da aprile i rifugiati che arrivano attraverso i corridoi. L’obiettivo è ospitarne 1.000 entro la fine del 2017 in varie città italiane e il primo gruppo di rifugiati di cui Oxfam si farà carico, sarà accolto nel Comune di Rosignano Marittimo. Iran. Perseguitati gli attivisti che cercano la verità sulle esecuzioni di massa degli anni 80 di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 marzo 2017 Sono passati quasi 30 anni dall’esecuzione extragiudiziale di migliaia di prigionieri politici nelle carceri iraniane, con ogni probabilità pianificata ai più alti livelli di governo, e la verità continua a essere lontana. Il 1988 fu l’anno più terribile di un decennio segnato da tanti casi del genere. Da quando nell’agosto 2016 è stata diffusa una serie di registrazioni audio in cui alti funzionari dello stato iraniano discutono di come portare avanti quella carneficina e successivamente la difendono, la repressione nei confronti degli attivisti si è fatta ancora più pesante. In uno degli audio si sente, tra le altre, la voce dell’ayatollah Hossein Ali Montazeri, all’epoca vice Guida suprema: "Il più grande crimine commesso nella Repubblica islamica, per il quale la storia vi condannerà, è stato commesso dalle vostre mani. La storia vi ricorderà come criminali". L’ayatollah Montazeri avrebbe dovuto essere il successore dell’ayatollah Khomeini ma da allora cadde in disgrazia. Suo figlio, Ahmad Montazeri, per aver diffuso quelle registrazioni, è stato condannato lo scorso novembre a 21 anni di carcere per "diffusione di propaganda contro il sistema", "rivelazione di piani, segreti o decisioni riguardanti la politica nazionale o la politica estera in modo tale da costituire spionaggio". In considerazione della storia della sua famiglia, la pena è stata ridotta a sei anni e, alla fine di febbraio, è stata sospesa. C’è però sempre il rischio che venga ripristinata. Mansoureh Behkish fa parte delle "Madri e Famiglie di Kharavan", un’organizzazione di donne i cui mariti e parenti furono uccisi nelle stragi degli anni Ottanta. Lei stessa, in quel decennio, ha perso quattro fratelli e un cognato, oltre alla sorella. L’hanno messa sotto inchiesta per aver organizzato commemorazioni private e manifestazioni a Kharavan, una zona desertica a sud di Teheran dove venne sepolta parte delle migliaia di vittime delle repressioni di 30 anni fa. Deve rispondere di "associazione e collusione per compiere crimini contro la sicurezza nazionale" e "diffusione di propaganda contro il sistema". Maryam Akbari-Monfared sta scontando una condanna a 15 anni inflittale nel 2010 per vari reati, tra cui "atti ostili nei confronti di Dio", per aver avuto contatti con familiari in esilio in Iraq, appartenenti all’Organizzazione dei Mujahedin del popolo, fuorilegge in Iran. Dal carcere di Evin, nell’ottobre 2016, ha presentato denuncia contro ignoti chiedendo che venisse aperta un’indagine sui massacri degli anni Ottanta e per sapere dove furono sepolti suo fratello e sua sorella. La sua richiesta è stata ignorata e da allora le sono state negate le cure mediche per l’artrite reumatoide di cui soffre. Infine, Raheleh Rahemipour è stata condannata all’inizio del 2017 a un anno di carcere per "propaganda contro il sistema": aveva rilasciato interviste e firmato appelli per chiedere verità e giustizia per le migliaia di vittime dei massacri delle prigioni, tra cui suo fratello Hossein e la figlia di quest’ultimo, nata in carcere e da lì prelevata a 15 giorni di vita senza che se ne sia saputo più nulla. Raheleh Rahemipour attende a piede libero l’esito dell’appello contro la condanna. Medio Oriente. Sale la protesta contro la violenza della polizia palestinese di Michele Giorgio Il Manifesto, 14 marzo 2017 Domenica manifestanti pestati a Ramallah e Dheishe. Ieri corteo contro la cooperazione di sicurezza tra Anp e Israele. "Si fanno varie ipotesi sulla violenza della polizia palestinese contro i dimostranti. È possibile che l’Anp abbia voluto dare una dimostrazione di forza, per smentire la sua debolezza". Hamada Jaber, analista del Palestinian Center for Policy and Survey Research (Psr), offre chiave di lettura del brutale intervento due giorni fa dei reparti antisommossa dell’Anp, prima contro dimostranti e giornalisti a Ramallah e poi nei confronti di un corteo partito dal campo profughi di Dheisheh (Betlemme). "Abu Mazen - aggiunge - non vuole mostrarsi fragile ora che ha ricevuto da Trump l’invito ad andare alla Casa Bianca, segnala di avere il controllo della situazione e che non è in discussione il coordinamento di sicurezza tra l’Anp e Israele". Una ipotesi concreta, rafforzata dal prossimo arrivo alla Muqata, il quartier generale del presidente palestinese, di Jason Greenblatt, inviato di Trump per la questione israelo-palestinese, che ieri sera ha incontrato a Gerusalemme il premier israeliano Netanyahu, con il quale ha discusso degli insediamenti coloniali in Cisgiordania. La tensione generata dalla cooperazione tra i servizi dell’Anp e quelli israeliani, si è fatta acuta per la vicenda di Basel al Araj, prima arrestato dall’Anp e poi, dopo la sua scarcerazione, finito nell’elenco dei ricercati da Israele e infine ucciso qualche giorno fa a Ramallah dall’esercito di occupazione. Per Israele era un "terrorista" e nella sua abitazione-rifugio di Ramallah sarebbero state trovate delle armi. Tutto falso, ribattono i palestinesi. Al Araj era un intellettuale e un attivista che aveva preso parte a raduni, proteste, iniziative politiche e non ad attività armate. I suoi guai, ricordano molti, sono cominciati un anno fa quando fu arrestato assieme ad altri cinque palestinesi dalla polizia dell’Anp con l’accusa di possesso di armi e di aver progettato attacchi contro Israele. Accuse che l’Anp non accreditò con prove e i sei furono messi agli arresti "amministrativi" (la carcerazione senza processo). Liberati dopo sei mesi e un lungo sciopero della fame, quattro degli arrestati furono subito arrestati dall’esercito. Al Araj invece riuscì a darsi alla latitanza durata fino al blitz israeliano della scorsa settimana a Ramallah. La commozione generata dalla sua uccisione si è trasformata in rabbia dopo l’annuncio dell’inizio di un processo a Ramallah a carico degli altri cinque palestinesi arrestati e liberati un anno fa con al Araj (quattro sono in un carcere israeliano). Da qui le proteste di domenica davanti al Tribunale. Decine di persone sono state allontanate dalla polizia con violenti colpi di manganello e gas lacrimogeni. Presi di mira anche i giornalisti. Tra i contusi ci sono il padre di al Araj e Khader Adnan, un ex detenuto politico in Israele divenuto noto un paio d’anni fa per un lungo sciopero della fame contro la sua detenzione. Ad Artas dove, sempre domenica, era giunto un corteo di protesta partito da Dheisheh, la polizia palestinese avrebbe sparato anche munizioni vere contro i dimostranti. Centinaia di manifestanti ieri sono tornati a gremire Manara, la piazza centrale di Ramallah, per scandire slogan contro Abu Mazen e la cooperazione di sicurezza con Israele. Il premier dell’Anp Rami Hamdallah ha annunciato un’indagine sulle violenze della polizia ma non è servito a placare gli animi. Khalida Jarrar, deputata del Fronte popolare (Fplp), ha comunicato che, in segno di protesta, la sua organizzazione potrebbe rinunciare a partecipare alle amministrative palestinesi previste il 13 maggio. Egitto: la Procura ordina il rilascio dell’ex presidente Mubarak, detenuto in ospedale Ansa, 14 marzo 2017 Appena assolto in processo per morte manifestanti nel 2011. Il procuratore generale egiziano ha ordinato il rilascio dell’ex presidente Hosni Mubarak. Lo riferiscono fonti giudiziarie. Secondo il suo avvocato Farid El Dib, citato da alcuni siti egiziani, uscirà dall’ospedale militare del Cairo domani o dopodomani: uscita ritardata da motivi di salute. Poi andrà a vivere nella sua vecchia residenza a Heliopolis, sempre al Cairo, dove alloggia la consorte Susanne. Nei giorni scorsi, l’ex capo dello Stato, 88 anni, deposto nel 2011 in seguito alla rivolta di piazza Tahrir, era stato assolto dalla Corte di cassazione nell’ultimo processo che lo vedeva alla sbarra: quello per complicità nell’uccisione di 239 manifestanti. nei 18 giorni della rivoluzione egiziana morirono più di 800 manifestanti (o "quasi 900" secondo altre stime).