Il Papa mette sotto esame il ministro Orlando Il Mattino di Padova, 13 marzo 2017 Ansa, 5 marzo 2017: "Mi ha chiamato il Papa per chiedere le condizioni dei detenuti nelle nostre carceri. Non mi ha chiesto a quale cultura politica appartengo, ma se i bambini possono vedere i genitori, come funzionano gli orari di visita, e così via. E ho capito che la parola misericordia è l’altra faccia della medaglia della parola dignità". Ministro della giustizia Andrea Orlando. Questa telefonata del Papa, che si informa con il ministro della Giustizia su come vivono i detenuti, e soprattutto sui loro figli, sulle difficoltà che incontrano le famiglie a colloquio, ha emozionato le persone che stanno in carcere e si sentono spesso abbandonate del mondo. Ma il ministro Orlando, si sono chiesti tutti, cosa gli avrà detto, al Papa? Gli avrà detto che la situazione sta di nuovo peggiorando a vista d’occhio, i numeri del sovraffollamento sono tornati a crescere e ancora troppo poco è stato fatto per le famiglie? E così, due detenuti hanno provato a scrivere una lettera aperta al ministro della Giustizia, proprio per ricordargli tutto quello che le loro famiglie vorrebbero fargli sapere. Buongiorno Ministro Orlando, siamo dei redattori detenuti della rivista interna al carcere di Padova, Ristretti Orizzonti. Tramite la nostra news-letters abbiamo appreso da questa notizia ansa che Papa Francesco ha voluto sapere le nostre condizioni di vita detentiva, ma soprattutto le condizioni dei nostri familiari. È sempre molto confortante e stimolante sapere e sentire il nostro Papa vicino anche alle persone che hanno commesso degli errori nella propria vita e siamo sicuri che anche per i nostri familiari è così. Leggendo questa breve notizia c’è venuta una curiosità, ci siamo chiesti quali fossero stati i contenuti della sua risposta. Personalmente la riteniamo uno dei migliori ministri della giustizia che abbiamo avuto negli ultimi anni, quindi siamo certi che lei gli avrà risposto con la verità. Noi che viviamo da anni in queste patrie galere conosciamo la sofferenza che regna in questi posti, una sofferenza che molto probabilmente è causata da un sistema penitenziario che troppe volte fa assumere alle pene caratteristiche più vendicative che rieducative. Ci piace pensare che lei abbia avuto il coraggio di dire al nostro Pontefice che ancora oggi le condizioni di tante carceri italiane, molto spesso, sono prive di dignità e non ci riferiamo esclusivamente alla vita detentiva del detenuto, ma soprattutto pensiamo alle migliaia di persone che ogni giorno si accalcano dietro a un cancello per affrontare interminabili file e lunghe ore d’attesa per effettuare un’ora di colloquio con il proprio caro detenuto. Pensiamo all’umiliazione delle perquisizioni che sono costretti ad affrontare e, pensando a questo, non possiamo nasconderle che ci fa molta rabbia. Il detenuto è perquisito sia all’ingresso della sala colloqui e sia in uscita dalla sala, perché quindi far provare queste umiliazioni a persone che come unica colpa hanno quella di continuare ad amare un familiare carcerato? Quando si sono svolti gli Stati Generali dell’esecuzione penale da lei indetti, erano stati anche individuati molti punti critici nella vita detentiva, dove si potevano attuare subito dei cambiamenti tramite circolari e disposizioni del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Ad esempio pensiamo all’utilizzo di Skype, uno strumento che aiuterebbe a mantenere dei rapporti con i propri cari lontani centinaia di chilometri, e in caso di stranieri migliaia di chilometri. È vero che molte carceri si stanno adoperando per introdurre la videochiamata ma, purtroppo, se non ci sono direttive chiare che obbligano le direzioni delle carceri a introdurre questo strumento, il detenuto deve sempre sperare nell’umanità del direttore o della direzione nel concedergli un diritto sacrosanto, cioè quello di mantenere vivi in maniera dignitosa i rapporti con i propri cari. Le telefonate, signor Ministro. Le telefonate ancora oggi sono ogni mese una a settimana più due in caso il detenuto abbia dei figli. Ci chiediamo perché noi a Padova ne abbiamo otto al mese e per tutti. Molti dicono che esistono direttori illuminati, ma non siamo d’accordo, esistono direttori che rispettano la Costituzione e rispettano la dignità delle persone. Rimaniamo sconcertati da soli quando facciamo un elogio a questo carcere per le otto telefonate da dieci minuti l’una, perché è vero che è molto più che nelle altre carceri, però è comunque sempre una gran miseria, ma siamo in Italia e ci stiamo abituando a ragionare costantemente con il concetto del "meno peggio". Signor Ministro un grosso problema che ha il nostro sistema penitenziario è che c’è troppa disparità tra un carcere e un altro, noi qui a Padova, per alcune cose, ci sentiamo dei privilegiati, per altre vorremmo essere in altri carceri e questo non è giusto perché la possibilità che noi oggi abbiamo qui o che altri hanno altrove, le devono avere anche nel carcere di Parma, Poggioreale, Agrigento, le devono avere tutte le persone detenute, e soprattutto le loro famiglie. Ci sono uomini che non potranno mai uscire dal carcere e il piacere di pranzare allo stesso tavolo con la propria famiglia fanno fatica a ricordarselo, perché sono richiusi da oltre vent’anni, altri anche trent’anni. Un momento di ricongiungimento familiare, come il pranzo domenicale, non capiamo proprio in cosa potrebbe incidere su quella formula che molto spesso accompagna tante privazioni ingiustificate nella nostra vita: "motivi di sicurezza". La maggior parte della popolazione detenuta è lontana dalla propria regione, quindi lontana dai propri cari. Molti di questi detenuti avanzano richieste di avvicinamento colloquio o, in altri casi, trasferimenti definitivi vicino a casa. Quando il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria risponde, il più delle volte, rigetta queste richieste. Su questo punto ci vengono in mente tutti i suicidi che magari non si sarebbero verificati se le persone detenute, che evidentemente erano in un periodo di grande sofferenza, fossero state vicine a un proprio caro. Con la parola "caro" ci piace sottolineare che ci riferiamo anche ai colloqui con le cosiddette "terze persone", non parenti stretti quindi, ma amici preziosi e generosi che hanno voglia di dedicarci un po’ del loro tempo. Il carcere, in alcuni casi, con il tempo logora e finisce per distruggere i rapporti, per questo risultano davvero importanti anche i colloqui con le terze persone. Sappiamo che molto si sta provando a fare in tema di giustizia e soprattutto sugli affetti, sappiamo anche che il tema giustizia non porta consensi elettorali, però oggi la società ha bisogno di persone migliori di quelle persone che siamo stati noi detenuti, ma purtroppo ancora oggi il carcere produce un tasso di recidiva troppo alto per un paese che ha la Costituzione più bella del mondo. Allora perché non partire da quelle piccole cose che si potrebbero fare subito con circolari chiare che obblighino le carceri a introdurre dei significativi cambiamenti? Noi non vogliamo tirarci indietro di fronte alle nostre responsabilità per quello che siamo stati in passato, però ci poniamo una domanda: se in tutta la nostra vita detentiva avessimo trovato dall’altra parte, dalla parte delle istituzioni, il riconoscimento della dignità che meritavamo di avere e il rispetto che le nostre famiglie meritavano, forse le responsabilità che riusciamo a riconoscerci oggi saremmo riusciti ad assumercele molti anni addietro, senza rovinarci la vita definitivamente e senza dover arrivare a condanne come le nostre, 30 anni di carcere presi quando di anni ne avevamo poco più di venti. Lorenzo Sciacca e Raffaele Delle Chiaie È la figura del direttore a dare unitarietà alle esigenze di sicurezza e trattamento di Antonio Gelardi* Ristretti Orizzonti, 13 marzo 2017 E la devitalizzazione di questa figura sarebbe letale per la prosecuzione di un processo di riforma. Due fra i tavoli tematici degli Stati generali dell’esecuzione penale riguardano argomenti di sistema. Il primo riguarda gli spazi ed è oggetto per me di riflessione quotidiana, dal momento che un ostacolo per fare passi avanti nel regime aperto e nella sorveglianza dinamica, non semplice da superare, è dato dalla conformazione dell’Istituto in cui opero e di quelli che ho avuto modo di visitare per conto del Provveditorato regionale. Il ripensamento degli spazi, la loro riscrittura, quantomeno il loro utilizzo in modo profondamente diverso è essenziale per fare di un carcere una piccola città dove assicurare una tendenziale libertà di movimento. Sarebbe fondamentale a questo proposito che gli obiettivi del tavolo 1 venissero perseguiti con una operazione estesa a tutti gli istituti. L’altro settore di sistema è quello del personale, affrontato fra l’altro in modo non univoco nel tavolo 15, la cui relazione finale non perviene peraltro ad una sintesi. E già questo di per sé è stato un segnale che dà da pensare. Sul tema credo che motivi di preoccupazione derivino dalla recente approvazione, in aula al Senato, di un disegno di legge delega di unificazione dei corpi di polizia. In questo ambito scompare la polizia penitenziaria e il servizio di sorveglianza interna ed esterna viene svolto da una sezione specializzata della polizia del territorio. Tale personale dipenderebbe dal Ministero degli Interni e non dipenderebbe né gerarchicamente né funzionalmente dal direttore dell’Istituto e dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Questo personale secondo quanto recita il testo "collabora" con il direttore (bontà loro ci sarebbe da dire, ci mancherebbe che nel testo si scriva che ostacola l’operato del direttore; la stessa espressione adoperata, obbligo di collaborare, dà l’idea di un qualcosa di forzato). Verrebbe così scisso il nesso fra sicurezza e trattamento che è alla base dell’Ordinamento penitenziario, si creerebbero a mio parere gravi incertezze gestionali date le innumerevoli interconnessioni fra sicurezza e trattamento e la necessità che l’autonomia delle aree trovi un punto di sintesi. A ciò si aggiunge un altro elemento di deriva del sistema, dato dal fatto che la categoria dei direttori è obiettivamente ad esaurimento, poiché non si svolgono concorsi da più di vent’anni e la categoria vede un invecchiamento e un depauperamento. È ragionevole quindi il timore che la categoria dei dirigenti, oltre ad andare nel lungo periodo verso la scomparsa, sia nell’immediato, da un lato schiacciata sempre più da adempimenti e compiti di gestione amministrativa in carenza di risorse e di linee guida, dall’altro privata di leve di intervento nella gestione della vita detentiva. Non si tratterebbe di essere confinati in ufficio a girare carte giusto perché si va verso la dematerializzazione ed il superamento del cartaceo. Naturalmente con ciò non si intende negare la giusta aspirazione di spazi autonomi della polizia penitenziaria e di valorizzazione del ruolo apicale, quello dei commissari (ed in questo senso va il riordino delle carriere in questi giorni in dirittura d’arrivo), ma di mantenere l’equilibrio del sistema, affinché esso non viaggi verso un carcere di polizia (senza che a ciò beninteso si attribuisca una accezione dispregiativa, dal momento che non si dubita che la forza di polizia operante dentro gli istituti operi in piena conformità ai principi dell’Ordinamento penitenziario; non vi è dubbio tuttavia che nel nostro Ordinamento e nella nostra storia è la figura del direttore a dare equilibrio al sistema ed unitarietà alle esigenze di sicurezza e trattamento e che la devitalizzazione di questa figura sarebbe letale per la prosecuzione di un processo di riforma). Si auspica quindi che il processo riformatore avviato dal Ministro Orlando non sia ostacolato da iniziative legislative che vanno in tutt’altro senso e che appaiono poco compatibili con una visione del carcere costituzionalmente orientata. *Direttore della Casa di reclusione di Augusta Intercettazioni, prescrizione e carcere: ecco come cambia il processo penale di Marvin Ceccato e Simona Olleni Agi, 13 marzo 2017 La settimana che si apre sarà, con ogni probabilità, quella decisiva per il disegno di legge di riforma del processo penale, da settembre arenato in Senato. Il provvedimento, una delle riforme che sta più a cuore al Guardasigilli Andrea Orlando, attende ora il nuovo passaggio in Commissione Giustizia di Palazzo Madama per il vaglio dell’emendamento del Governo sulle spese per le intercettazioni: l’obiettivo è un risparmio di costi di circa 80 milioni in tre anni. Il ddl, dunque, tornerà in Aula già martedì pomeriggio e il Governo, in una delle recenti riunioni del Consiglio dei ministri, ha anche autorizzato la questione di fiducia. La riforma del processo penale contiene alcuni snodi importantissimi per il sistema giustizia: prima di tutto, la delega sulle intercettazioni, i cui confini sono stati rivisti in commissione Giustizia, che il ministro Orlando ha assicurato di voler esercitare in "tempi strettissimi", nonché quella sull’ordinamento penitenziario, con un ricorso maggiore alle misure alternative al carcere, ritenuta fondamentale dal Guardasigilli. Cosa cambia per le intercettazioni - Sono previsti principi a tutela della riservatezza delle comunicazioni ed é prevista una nuova fattispecie penale (punita con la reclusione non superiore a 4 anni) a carico di quanti diffondano il contenuto di conversazioni fraudolentemente captate, al solo fine di arrecare danno alla reputazione. La punibilità è esclusa quando le registrazioni sono utilizzabili in un procedimento amministrativo o giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca. Cosa cambia per l’ordinamento penitenziario - Semplificare le procedure; valorizzare gli uffici dell’esecuzione penale esterna e potenziare i controlli sui soggetti in libertà. Ma anche revisione dei presupposti di accesso alle misure alternative (limite di pena 4 anni); accesso ai benefici penitenziari più rigido; previsione di attività di giustizia riparativa; valorizzazione del lavoro, in ogni sua forma e del volontariato; riconoscimento del diritto all’affettività; al dibattimento e interventi specifici per i detenuti stranieri. Previste anche misure alternative per i detenuti minorenni per il loro reinserimento sociale. Cosa cambia per la prescrizione - L’accordo raggiunto durante i lavori parlamentari ha portato alla previsione di 3 anni per la sospensione dei termini, in caso di condanna in primo grado, con uno stop di un anno e mezzo tra il processo di primo grado e l’appello, e la medesima sospensione tra secondo grado e Cassazione. L’aumento dei termini di prescrizione, con uno stop fino a 18 anni, è poi previsto per i reati contro la pubblica amministrazione, come la corruzione. Ma l’Associazione magistrati non è convinta - Alcune norme contenute nel provvedimento continuano a destare perplessità da parte della magistratura: in particolare, l’Associazione nazionale magistrati è tornata, in vista del possibile voto di fiducia sul ddl nei prossimi giorni, a ribadire la sua contrarietà alla previsione di un obbligo per il pm di esercitare l’azione penale o chiedere l’archiviazione entro 3 mesi dalla fine delle indagini preliminari, pena l’avocazione obbligatoria dell’inchiesta da parte della Procura generale. Una norma, questa sull’avocazione, che già mesi fa il presidente del sindacato delle toghe, Piercamillo Davigo, aveva definito "inutile e dannosa", e che l’Anm, sottolineando che nessun emendamento è stato presentato sul punto, ha di nuovo bollato come "irrazionale", lanciando un allarme sul rischio di "vanificare migliaia di indagini". Anche la maggioranza è divisa sulla riforma - La riforma continua ad essere divisiva per la maggioranza di Governo, tant’è che lo scorso 3 marzo, in Consiglio dei ministri, c’è stata polemica tra il Guardasigilli e il responsabile degli Esteri Angelino Alfano proprio sul voto di fiducia che il Governo di Paolo Gentiloni ha autorizzato: anche l’esecutivo a guida Renzi aveva dato il via libera alla fiducia, salvo un successivo stop dell’allora premier a fronte delle critiche della magistratura associata. Sono in tutto 42 gli articoli contenuti nel disegno di legge, compreso l’emendamento sulle spese per le intercettazioni. Nella riforma si prevedono anche aumenti di pena per furti e rapine, per scambio elettorale politico-mafioso, nonché maggiori paletti per le impugnazioni nei diversi gradi di giudizio. Processo penale. Mercoledì il primo via libera del Senato alla riforma di Valentina Errante Il Messaggero, 13 marzo 2017 Tra le principali novità, la delega al governo sulle intercettazioni.. Prescrizione, 18 mesi di stop tra i giudizi Diciotto mesi di sospensione della prescrizione del reato per ogni singolo grado di giudizio: tra la sentenza emessa dal tribunale e quella della Corte d’appello, e poi tra quest’ultima e quella della Cassazione. È questa la novità che il governo vuole introdurre nel codice di procedura penale. Si tratta di un calcolo che punta a favorire anche la ragionevole durata dei processi. I termini ricominceranno però a decorrere nel caso di sentenze riformate o annullate. Verso pene più severe per furti e rapine - Il disegno di legge prevede l’innalzamento delle pene edittali e di quelle detentive per i reati di furto in abitazione, rapina e scippo. Ma anche per lo scambio elettorale politico-mafioso. Per i topi di appartamento e gli scippatori il minimo edittale passerà da uno a tre anni. I rapinatori adesso rischieranno un minimo di quattro anni (prima era soltanto uno). Dopo gli interventi di tre anni fa sulla definizione del reato di voto di scambio, adesso si interviene sulle pene che passeranno da sei a dodici anni. Pm, solo 3 mesi per le indagini preliminari - Cresce il potere dei procuratori capo. Le nuove disposizioni attribuiscono infatti ai procuratori della Repubblica "il potere-dovere" di assicurare l’osservanza delle disposizioni relative alle iscrizioni delle notizie di reato. Si accorciano invece i tempi previsti per le indagini preliminari: il termine (di sei mesi, prorogabili) viene fissato in tre mesi, ed è prorogabile per altri tre. Quindici mesi è invece la durata d’indagine per i reati di mafia. Intercettazioni, stretta per garantire la privacy - La delega al governo in materia di intercettazioni punta a riformare la norma per garantire la riservatezza degli indagati o delle persone coinvolte in un’inchiesta. In primo luogo, i pubblici ministeri, nelle richieste di misure cautelari, dovranno selezionare il materiale da inviare ai gip, escludendo tutte le conversazioni che contengano dati sensibili e non siano utili al procedimento. Dovranno essere escluse anche quelle delle persone occasionalmente coinvolte. Inoltre, i famosi trojan (il virus che consente attraverso cellulari e computer di captare i dialoghi) potranno essere utilizzati solo per reati di mafia e terrorismo. Carceri, lavoro retribuito e tutele alle detenute madri - La delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario prevede interventi sull’accesso ai benefici da parte dei detenuti, e un incremento delle opportunità di lavoro retribuito, specialmente all’interno delle carceri. Viene considerato inoltre il potenziamento dell’assistenza psichiatrica. Dovranno anche essere previste norme per l’integrazione dei detenuti stranieri, con modifiche sulla libertà di culto nelle carceri e sui diritti connessi. In programma nuove misure per la tutelare le donne e madri costrette nei penitenziari. Va in vigore l’abolizione dei manicomi giudiziari - L’annunciata abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari. Per chi è gravato da una sentenza passata in giudicato, in cui vengano accertati lo stato di infermità mentale e la pericolosità sociale, saranno attive le cosiddette Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). In caso di vizio parziale di mente o di infermità sopravvenuta dopo un delitto, invece, saranno istituite delle sezioni specializzate all’interno degli istituti penitenziari. "La sicurezza è di sinistra". Il ministro Minniti detta la linea al Pd di Francesca Schianchi La Stampa, 13 marzo 2017 Serracchiani replica a Bonino: "La gente ha paura degli immigrati". "Sicurezza è una parola di sinistra". Ovazione della platea, il ministro dell’interno Marco Minniti si guarda intorno compiaciuto e prosegue: "La sicurezza è un bene comune che coinvolge direttamente la vita della gente: è troppo importante per lasciarla alla destra, che non la sa utilizzare". Due giorni prima, nel discorso di apertura del Lingotto, Matteo Renzi scandiva: "Sicurezza non è un concetto di destra". Eccola tornare, una parola d’ordine tradizionalmente associata all’altra parte politica, in un’assemblea di centrosinistra. Sicurezza, legalità. Un tema carsico, nel Pd: posto già dieci anni fa dal primo segretario Walter Veltroni ("la legalità non è di destra né di sinistra: è un diritto fondamentale dei cittadini"), e poi a tratti e spesso tra le polemiche da amministratori esasperati (dal primo cosiddetto "sindaco-sceriffo" Cofferati alle recenti prese di posizione del milanese Sala). Mai veramente risolto, e negli ultimi anni sempre più intrecciato ai temi dell’immigrazione e dell’accoglienza. Gli immigrati sono una risorsa, pagano le pensioni, non bisogna avere paura, vanno integrati e non si può aver cuore di rispedirli in campi all’estero di dubbio rispetto dei diritti umani, è andata sabato a dire la leader radicale Emma Bonino. I battimani ci sono stati, ma a giudicare da quelli venuti dopo per chi l’ha garbatamente smentita, si direbbe che fossero più per l’autorevolezza della figura che per i contenuti. Perché ci ha pensato prima il presidente della commissione Difesa Nicola Latorre a ricordare che però "alla paura bisogna dare una risposta", e con più veemenza il governatore campano Vincenzo De Luca: "La gente ha paura, e di fronte a chi non vuole rispettare la legge ci vuole la repressione da parte dello Stato". Ieri, poi, la ex vicesegretaria Pd Debora Serracchiani: "La gente ha paura degli immigrati, non ci possiamo prendere in giro. Quello che ha detto la Bonino è importante, ma noi non possiamo trascurare la paura della gente". "La sicurezza non è ordine pubblico, come vuole la destra, ma è una cosa più impegnativa, e per farla la sinistra ha più frecce al suo arco", predica Minniti in un discorso punteggiato da applausi calorosi. Alla Camera, questa settimana va in votazione il suo decreto sulla sicurezza urbana per dare più poteri ai sindaci e Daspo per i violenti. Al Senato, si lavora invece al decreto immigrazione che riordina i Cie sulla base del principio che "l’accoglienza ha un limite in sé nella capacità di integrare" e l’integrazione è riservata solo "a chi è dentro la legge e rispetta la legge". "Altro che tema di destra: la sicurezza è stato un asse centrale del governo Renzi e poi di quello Gentiloni", garantisce il responsabile di questi temi nella segreteria Pd appena scaduta, Emanuele Fiano. Tra le leggi in lavorazione in Parlamento, l’aumento delle pene per rapine e furti in appartamento e l’inasprimento del trattamento per chi compie truffe ai danni degli anziani. Giace anche una proposta del Pd per regolare in modo più certo la legittima difesa. "Dobbiamo far sì che i cittadini vivano tranquilli", commenta il responsabile giustizia David Ermini. Sicurezza e legalità. Tanto che, proclama Renzi, "non possiamo fare alleanze con chi non accetta il principio di legalità". Senza aver paura di passare per uomini di destra. Il ministro Orlando sfida Renzi. "In piazza per difendere i migranti" di Carlo Bertini Il Secolo XIX, 13 marzo 2017 Orlando sulle orme di Walter Veltroni propone una grande marcia degli italiani insieme ai migranti, "come tema identitario di una sinistra che riconosca dignità alle persone". Una marcia come a Barcellona, magari anche come sfida alle politiche più prudenti di Matteo Renzi e dei suoi fedelissimi. Ieri alla convention del Lingotto Debora Serracchiani ha appoggiato la linea del governo di fronte a una Emma Bonino che richiamava al rispetto dei diritti umani: "La gente degli immigrati ha paura", ha detto. Quanto a Renzi, ha contrattaccato sul M5S, invitandone i parlamentari a rinunciare all’immunità in vista di querele. "Io posso vincere questa sfida contro Emiliano e Renzi", sostiene Andrea Orlando. I sondaggi, che pure lo danno in crescita, preoccupano il Guardasigilli "solo perché dicono che verranno a votarci poche persone", non perché fotografano una larga distanza tra lui e il segretario uscente. "Al fronte di un leader che si è consolidato in questi anni, vedo che il mio messaggio, non gridato, che non parla alla pancia, viaggia. Su un pezzo di mondo deluso e politicizzato, ma anche molto tra i giovani, che seguono le mie iniziative". Quanto può farle gioco la rete di appoggi che le vengono attribuiti, come Prodi o Letta? "Non nascondo che conto in qualche modo di rappresentare una prosecuzione di capitoli positivi della storia del Pd. Se siamo qui è perché qualcuno ci ha fatto arrivare fin qui. Dobbiamo tenerlo sempre presente. Ma se mi richiamo all’Ulivo è perché ho fatto sempre parte della sinistra che ha scommesso su questa prospettiva, quella dell’unità dei riformismi che ci ha portato fino al Lingotto e poi qui. Credo in un Pd che con tutte le sue culture faccia i conti con la questione sociale. Noi non dobbiamo spostare l’asse a sinistra in senso geometrico, un centro riformista e una sinistra riformista possono lavorare insieme". È un’apertura ad un’alleanza con Alfano alle politiche? "Alfano, al quale va dato merito di aver rotto con Berlusconi in un momento difficile per il Paese, ha sempre rivendicato il raggiungimento di obiettivi di centrodestra. Non escludo che al centro si organizzi un campo di forze. Il problema è se accettano o no la questione sociale come discrimine e l’esigenza di andare oltre a logiche che siano di pura accettazione di dinamiche di mercato. Non mi dimentico mai il fatto che in Italia il welfare in larga parte sia stato costruito dal centro. Ma ci deve essere una rottura molto netta con la stagione del liberismo e un’adesione esplicita ad una prospettiva di centrosinistra". Ma in un’alleanza bisogna anche fare i conti con il tema più scottante, l’immigrazione. Concorda con la proposta di Veltroni di tenere una manifestazione a favore dei migranti, come quella fatta a Barcellona? "Sì, senza esitazioni. È un tema identitario e forte che deve caratterizzare una sinistra che riconosca la dignità delle persone. È una sfida che lancio a tutto il partito, facciamola presto. Sarebbe un modo per dare un senso politico alle primarie, farle diventare un momento di grande mobilitazione. La cosa che mi preoccupa dei sondaggi è che rischiano di andare ai gazebo poche persone. Se riusciamo a fare delle cose insieme per rappresentare un progetto politico". Cosa lascia sul campo questo Lingotto 2017? "È uno dei luoghi simbolo patrimonio di tutti, che converrebbe frequentare tutti insieme. Detto questo, la grande partecipazione ai tavoli sul programma conferma che fosse giusto quello che dicevo: se si fosse fatta una conferenza programmatica di tutto il partito, saremmo arrivati alle primarie con un progetto più robusto. Poi registro un riconoscimento tardivo del tema del partito, il grande assente di questi anni. Sul campo resta pure il tentativo di coprire a sinistra. Che mi preoccupa, ma non per le primarie. Si affronta il problema in modo anacronistico, rimettendo in moto parole come Frattocchie, citazioni di Lenin, ricette economiche di altre stagioni. Invece credo dovremmo discutere tutti insieme quale debba essere il nuovo asse". Che speranze ha il Pd di battere i 5Stelle alle politiche? "Io penso dovremmo avere toni e argomenti radicalmente diversi rispetto ai populisti. Che si nutrono dell’incapacità della politica di affrontare la questione sociale. E c’è pure il tema della costruzione di un sistema di alleanze". Se vincesse le primarie, farebbe il segretario del Pd. Chi dovrebbe essere il candidato premier? "Sarebbe ragionevole prima costruire la coalizione e poi scegliere un candidato con le primarie". Pensa di poter essere solo lei il segretario Pd in grado di unire il centro sinistra con Pisapia, vista la pregiudiziale dei "compagni" nei confronti di Renzi? "Sì penso di essere in grado di farlo e di avere una cultura del dialogo e dell’ascolto, che deve essere al primo posto per costruire una coalizione". La mozione di sfiducia a Lotti sarà respinta? "Penso e spero proprio di sì". E la riforma del processo penale, passerà con la fiducia, malgrado le resistenze di Alfano? "È stata autorizzata dal Consiglio dei ministri e credo si procederà così". Renzi attacca giustizialisti e scissionisti. Orlando: niente avvisi di garanzia segreti di Maria Teresa Meli Corriere della Sera, 13 marzo 2017 Renzi ha chiuso al Lingotto dí Toríno la Convention del Pd in vista delle primarie. E lo ha fatto attaccando. Prima i giustizialisti ("Noi siamo per la giustizia giusta, che qualcuno ha confuso con il giustizialismo"), e poi gli scissionisti ("Qualcuno ha cercato di distruggere il Pd perché c’è stato un momento di debolezza, soprattutto mia. Ma si mettano il cuore in pace"). Il suo competitor alle primarie, il ministro Andrea Orlando, ha detto di essere d’accordo sul "contenimento del clamore dei processi", ma ha ribadito di essere contrario a strette sugli avvisi di garanzia. "Vi voglio bene anche io": Matteo Renzi chiude così il suo discorso al Lingotto, mentre la platea, la cui età media è scesa in questo ultimo giorno di convention dedicato al suo discorso, si spella le mani. L’ex segretario vuole lanciare pochi, chiari, messaggi. Rivolti al suo popolo più che ai giornali. Il primo riguarda la vicenda Consip: "Noi siamo per la giustizia giusta, che qualcuno, anche nel nostro campo, ha confuso con il giustizialismo". E ancora: "La Costituzione dice che un cittadino è innocente fino a sentenza passata in giudicato. I processi si fanno nei tribunali, non sui giornali, e le sentenze le fanno i giudici, non i commentatori". La platea applaude. In modo insistito. Da Roma il suo sfidante, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, fa sapere di essere d’accordo: "Contenimento del clamore dei processi". Però niente stretta sugli avvisi di garanzia, come qualcuno ipotizzava, perché "rischia di ledere i diritti della difesa". Però non è solo sulla giustizia che l’ex segretario vuole mandare dei messaggi al suo partito. Nel mirino, ora, gli scissionisti: "Nelle scorse settimane qualcuno ha cercato di distruggere il Pd perché c’è stato un momento di debolezza, soprattutto mia. Ma non si sono accorti che c’è una forza, c’è una solidità, che vengono espresse dalla comunità del Pd, indipendentemente dalla leadership. Si mettano il cuore in pace: il Pd c’era prima, ci sarà dopo e ora cammina con noi". Già, la sinistra, avverte Renzi, è il Partito democratico. Se ne facciano una ragione Bersani e D’Alema: "Essere di sinistra non significa rincorrere un totem del passato, andare sul palco con il pugno alzato cantando Bandiera rossa. Quella è una macchietta non è politica". Ma è soprattutto D’Alema, l’uomo che da due anni preparava la scissione e che ha convinto Bersani e Speranza ad accodarsi, il bersaglio di Renzi: "Tanti oggi parlano di Ulivo, gli stessi che lo hanno segato, che hanno contribuito a far cadere Prodi. Sono esperti di Xylella, più che di Ulivi...". Ma per questo Pd, che ha resistito alla scissione e alla bufera giudiziaria, e che adesso è al Lingotto, ci sono altri messaggi. L’ex segretario vuole far capire che con il governo non ci sono tensioni. E infatti accoglie Paolo Gentiloni, salutato da una standing ovation, con queste parole: "Bentornato a casa, lavoriamo insieme". Il premier, che l’ex segretario fa salire sul palco, a fine comizio, insieme a Martina, aveva preannunciato la sua presenza al Lingotto con questo tweet: "Con Renzi, più forza al Pd per il futuro dell’Italia". Ed è una grande prova di forza, per il leader, avere con sé non solo la maggior parte dei ministri, ma anche il premier, che volendo avrebbe potuto non schierarsi per mettere al riparo il governo. Dopo un ringraziamento al popolo del Pd, Renzi esalta "la generazione Lingotto": i quarantenni del partito, ma anche i millennial che vuole conquistare. L’ex segretario evita di attardarsi sul tema delle alleanze: è "politichese". "La prima alleanza che dobbiamo fare - dice - è coni milioni di cittadini che credono in noi". Già, "non è possibile replicare i modelli del passato". Quindi Pisapia e compagni dovranno attendere: del resto, "senza il Pd non si va da nessuna parte" e nessuno può pensare di condizionare il Partito democratico, perché, come dice Orfini, "la sinistra siamo noi". Ma quale sinistra? Renzi la spiega così: "Siamo noi, siamo una forza tranquilla". Lo slogan coniato da Mitterrand, l’uomo che rese vincente il partito socialista in Francia, mandando in soffitta i comunisti d’Oltralpe. Cantone: "Per battere la corruzione via i politici da bandi e appalti" di Liana Milella La Repubblica, 13 marzo 2017 La politica continua a occuparsi di gare e appalti. La corruzione nasce qui". Il presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone parla di Consip e di Romeo. E sui politici sotto inchiesta dice: "Si valuti, a prescindere dagli interventi giudiziari, se sono compatibili con ruoli di responsabilità per il Paese". Lei è qui da tre anni. Sempre sulla ribalta. Troppo, dicono i suoi detrattori. Non è pessimista sulla corruzione in Italia. Ma come la mette con Romeo e l’inchiesta Consip? "Non ho mai detto che il contrasto alla corruzione sarebbe stata una passeggiata e non ho neppure lontanamente pensato che potessero bastare tre anni di Anac per invertire il trend. Abbiamo avviato un percorso, che è ancora lungo, tortuoso, irto di ostacoli. Vicende come quelle di Consip non saranno certo le ultime che emergeranno in questo Paese. La corruzione è tutt’altro che vincibile domani o dopodomani". Decine di politici nelle carte giudiziarie su Consip. Dopo averle lette lei vede ancora positivo? "Resto ottimista e mi attengo ai fatti. C’è un’indagine molto seria tra Napoli e Roma che ha fatto emergere allo stato un unico, seppur grave, episodio di corruzione che potrebbe lasciar intravedere altro. Per parlare di sistema c’è bisogno di attendere gli sviluppi giudiziari". Non sta sminuendo troppo? "Assolutamente no, sono abituato a ragionare da magistrato e a pensare che i fatti sono quelli accertati giudiziariamente, mentre le ricostruzioni sono utili sul piano sociologico". Da quegli atti non emerge un sistema in cui corrono in parallelo appalti e politica? "Il vero problema è che una parte della politica continua a occuparsi di appalti e gare pubbliche. Se questo non ci fosse tutto sommato avremmo una corruzione fisiologica". Avremmo pure imprenditori che cercano sempre di corrompere… "Contesto assolutamente quest’affermazione. Se fosse davvero così dovremmo rinunciare a qualsiasi possibilità di scardinare la corruzione. Il punto vero è garantire agli imprenditori onesti ed estranei alla politica la possibilità di accedere agli appalti importanti, quelli che contano". Guardi Bocchino, un ex politico usato da Romeo che arriva a lamentarsi degli appalti troppo concentrati nella Consip perché le chance di dividere la torta si riducono. "Questa storia evidenzia un’enorme ipocrisia. I grandi imprenditori hanno bisogno di utilizzare meccanismi lobbistici per promuovere la loro attività. Ma la parola lobby in Italia è sempre stata intesa in senso negativo perché non si è mai avuto il coraggio di affrontarla e regolarla". Bocchino vuole arrivare a lei e ottenere la sua benevolenza. "Sui giornali ho letto cose fantasiose, per esempio che mi avrebbe cercato Fini, falso perché per telefono non ci ho mai parlato, né l’ho mai incontrato tranne in un’occasione pubblica in cui ci siamo appena salutati". La lettura delle intercettazioni di Bocchino però è chiara… "Quello poteva essere il loro intendimento, ma non ci sono riusciti. Su questo sfido chiunque a dimostrare che il tentativo di avvicinamento a me sia anche solo iniziato". Il sindaco di Napoli De Magistris dice di aver tolto a Romeo la gestione del patrimonio. Perché Consip non lo ha fatto? "Romeo ha partecipato e vinto gli appalti, in molti casi oggetto di ricorsi al Tar che li ha confermati. Romeo è stato assolto con formula piena nel caso Global Service. Se non ci sono condanne, un soggetto non può essere escluso. Il singolo può decidere di non frequentare un imprenditore chiacchierato, e l’uomo delle istituzioni fa bene a non farlo, ma sul piano formale il soggetto assolto è definitivamente riabilitato". Pure lei ha notato anomalie nelle gare Consip di Romeo. Perché non le ha fermate? "Le abbiamo evidenziate anche pubblicamente, ma si trattava di rischi che di per sé non erano tali da far pensare alla corruzione". È giusto che l’ad di Consip Marroni resti al suo posto? "I magistrati lo considerano fino a oggi un testimone attendibile. E chi collabora con la giustizia in modo corretto e leale fa il suo dovere; non spettano a me valutazioni diverse, di opportunità connesse anche alla serenità di svolgere un ruolo tanto difficile; è compito del ministro dell’Economia e dello stesso Marroni". Ha parlato con lui? "Anac ha fatto accertamenti su molte gare di Consip. Ora Marroni ci ha chiesto alcuni pareri. Risponderemo analizzando le questioni giuridiche, ma non ci sostituiremo certo alle valutazioni che spettano a Consip". E Lotti? Dovrebbe farsi da parte come Renzi aveva chiesto per Idem e Cancellieri? "Su questo non ho nulla da dire perché sono in ballo valutazioni politiche da cui è necessario che mi tenga lontano. In generale, come ho detto tante volte, non basta un avviso di garanzia per imporre il passo indietro, ma la politica deve valutare se i fatti, a prescindere perfino da interventi giudiziari, siano più o meno compatibili con ruoli di responsabilità per il Paese". Renzi ha puntato molto su di lei. Ora che il padre è indagato e Lotti pure, vede ricaschi negativi? "Renzi, da premier, non ha in nessun modo interferito nella mia attività. Personalmente credo sia giusto aver rispetto per una persona che sta vivendo un momento difficile. Le valutazioni complessive sulla vicenda potranno essere fatte quando si diraderà la cortina fumogena delle chiacchiere e i fatti saranno portati all’attenzione dei giudici". Lei è napoletano come Romeo. Come si comportava con lei? "Non ho avuto alcun rapporto con lui che non fosse puramente formale e l’ho conosciuto quando la sede dell’Avcp passò all’Anac e avemmo l’esigenza di rescindere il contratto". Possibile? Per anni a Napoli senza conoscerlo? "Ho saputo dell’esistenza di Romeo solo quando è stato arrestato per la vicenda Global Service e ho visto la sua foto per la prima volta sui giornali". A leggere le carte dell’inchiesta risulta evidente il suo tentativo di avvicinarla. Il convegno del Cresme, la consulenza a suo fratello Bruno, le telefonate di Bocchino con Fini. Lei cosa ha fatto? "Da quando sono magistrato sono attentissimo alle frequentazioni, non vado a feste, pranzi o cene con nessuno. I rapporti istituzionali sono sempre pubblici o passano per l’Anac. Al convengo del Cresme sono andato e ci tornerei perché si discuteva di un tema di grande interesse per l’Anac, c’erano relatori importanti, mi sono trattenuto per il mio intervento e sono andato via. Credo sia doveroso per una persona che ha la mia carica esprimere la propria opinione non certo in conventicole private ma in convegni pubblici. Quanto alla vicenda di mio fratello, Bruno ha avuto un incarico professionale per pochi mesi per aver conosciuto Romeo per via della vicinanza dei rispettivi studi, ma non si è mai occupato di vicende che neanche lontanamente interferivano con Anac. E io ne ho avuto notizia solo quando ne hanno parlato i giornali". Una sua "nemica", Carla Raineri, ci vede un conflitto di interesse. "Non considero la dottoressa Raineri una mia "nemica". A titolo personale non ho fatto nulla contro di lei. Il consiglio dell’Anac ha espresso un parere sulle modalità della nomina a capo di gabinetto che la dottoressa avrebbe ben potuto contestare in via giudiziaria o amministrative. Quelle sul conflitto di interesse sono insinuazioni prive di ogni fondamento e sull’incarico sia io che mio fratello, come fanno le persone per bene, abbiamo riferito tutto quello che c’era da dire all’autorità giudiziaria di Napoli". Quanti Romeo ci sono in giro che cercano di circuire Cantone? "Credo ce ne siano tanti, ma io sono tranquillo, e sono sicuro che gli eventuali tentativi non vanno da nessuna parte". Sarà la Procura nazionale anticorruzione il suo prossimo incarico? "Non credo che una simile struttura sia necessaria. E al mio prossimo incarico in magistratura penserò a partire dalla fine del 2019 quando si avvicinerà l’aprile 2020, mese in cui scade il mio mandato non rinnovabile all’Anac". Politica e tribunali. Cancellare "l’effetto avviso di garanzia" e stop all’alibi dell’onestà di Carlo Nordio Il Messaggero, 13 marzo 2017 Su un punto le conclusioni della convention del Lingotto sono chiare: la giustizia non può e non deve essere strumento di lotta politica. Non è un’affermazione nuova, ma è un’affermazione chiara e solenne. Per l’autorevolezza di chi l’ha enunciata, e la vastità del consenso ottenuto, possiamo ritenere, o almeno sperare; che sia ormai un patrimonio acquisito del Partito Democratico. Tenuto conto che il centrodestra ne ha sempre fatto una questione di principio, e che il leader in pectore della nuova sinistra, Giuliano Pisapia, ne ha sempre sostenuto la validità, potremmo auspicare che, almeno in questo ambito, si trovino, nel prossimo futuro, fruttuose convergenze. I punti potrebbero essere i seguenti. Primo. Posto che l’informazione di garanzia è un atto dovuto, finalizzato a tutelare le prerogative difensive del destinatario, esso, è politicamente neutro, e non può compromettere in alcun modo né le funzioni presenti né le aspirazioni future di chi lo riceve. Tutti i passaggi successivi di un eventuale procedimento penale, dalla richiesta di rinvio a giudizio fino alla sentenza definitiva, dovrebbero essere valutati caso per caso, tenendo presente la presunzione di innocenza e i tempi della nostra giustizia penale. La pretesa di un "passo indietro" in attesa del chiarimento finale - futuro e incerto - non può costituire un espediente per liberarsi di un avversario. Secondo. La statistica dimostra che le probabilità di essere indagati aumentano in modo esponenziale per chi esercita cariche pubbliche. I maligni possono leggervi una tendenziale attitudine della magistratura a condizionare l’attività politica o amministrativa dello Stato. In realtà si tratta solo della sciagurata combinazione di leggi contraddittorie, formulate in modo tecnicamente imperfetto, con l’obbligatorietà dell’azione penale. I reati di abuso d’ufficio e di traffico di influenze, ad esempio, sono così generici e onnicomprensivi da legittimare un’indagine preliminare contro qualsiasi sindaco, assessore o ministro. Quindi, osi smette di far politica o ci si rassegna a questo inevitabile rischio giudiziario. Ma almeno finiamola con la sua strumentalizzazione. Terzo. Il presenzialismo elettorale di magistrati che hanno acquisito notorietà per aver condotto indagini nei confronti di politici ha ormai raggiunto livelli incompatibili con il principio della separazione dei poteri. Si aggiunga che questi signori, attualmente in aspettativa, potrebbero un giorno reindossare la toga. Questo vulnera il buon senso, più ancora che l’immagine della stessa giustizia. La loro risposta è che la legge lo consente. Verissimo. Allora si cambi la legge. Ultimo. L’effetto più perverso di questa selezione per via giudiziaria, consiste nella convinzione che l’onestà sia il requisito essenziale per accedere alle cariche pubbliche. No. L’onestà è necessaria, ma non è affatto sufficiente. Un amministratore efficiente e capace, ancorché di costumi chiacchierati, può perseguire l’interesse pubblico meglio di un onestissimo cretino dissipatore. Non è una conclusione simpatica, ma è certamente realistica. Se l’onesta - vera o autocertificata - costituisse titolo esclusivo a governare - diventerebbe un alibi per tutti gli inetti con la fedina penale immacolata. E questo sarebbe il più colossale degli errori, perché la politica, a differenza della morale, non guarda alle buone intenzioni della coscienza, ma ai risultati utili per la collettività. La tentazione di nuovi bavagli all’informazione e l’alt della Fnsi overthedoors.it, 13 marzo 2017 Esponenti Pd vorrebbero rendere segreti gli avvisi di garanzia. Contrari il ministro della Giustizia e il procuratore Gratteri. La Fnsi ha reagito immediatamente, con un netto "no", alla proposta di rendere segreti gli avvisi di garanzia fino al rinvio a giudizio dell’imputato, per impedire la pubblicazione di notizie esagerate sulle accuse nei loro confronti, ancora non provate. La proposta è emersa domenica 12 marzo 2017 al Lingotto di Torino, durante la conferenza organizzativa del Partito Democratico. "Nessuno pensi di risolvere i problemi della giustizia penale e della tutela del segreto istruttorio con l’introduzione di bavagli alla stampa", hanno dichiarato congiuntamente il presidente e il segretario della Fnsi, Giuseppe Giulietti e Raffaele Lorusso. Contro la proposta si sono schierati anche il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, il capogruppo del Pd alla commissione Giustizia della Camera, David Ermini, e il procuratore della Repubblica Nicola Gratteri. Il segretario uscente Matteo Renzi non si è pronunciato ma ha attaccato i giornali per il modo in cui riferiscono le notizie sulle persone sulle quali la magistratura sta indagando. Renzi ha detto: "No alla giustizia di chi ha confuso a giustizia con il giustizialismo. La Costituzione dice che un cittadino è innocente fino a sentenza passata in giudicato. Sempre, non a giorni alterni. I processi si fanno nei tribunali, non sui giornali. Gli articoli sono del codice penale. Le condanne le emettono i giudici, non i commentatori". La proposta di segretare l’avviso di garanzia è nata dalla tensione politica creata dall’inchiesta della magistratura sui tentativi di influenzare illegalmente le decisioni della Consip, la centrale degli appalti pubblici. Nell’ambito dell’inchiesta è stato notificato al ministro Luca Lotti un avviso di garanzia ed è stata presentata una mozione di sfiducia nei suoi confronti che attende il voto parlamentare. Fra gli indagati c’è il padre di Renzi. La proposta di rendete segreti gli avvisi di garanzia è stata formulata da Stefano Graziano, ex deputato e attualmente presidente del Pd a Napoli. "Serve una legge perché qui avvenga come in Inghilterra: l’avviso di garanzia rimane segreto e lo si rende pubblico solo quando c’è il rinvio a giudizio. È un meccanismo che serve a rendere tranquilli sia i magistrati che indagano e sia l’indagato". Graziano ha parlato della sua esperienza di indagato per concorso esterno in associazione camorristica per dieci mesi, fino a quando l’accusa nei suoi confronti è stata archiviata. "In quei dieci mesi - racconta - ho vissuto un dramma personale, mia moglie ha perso il latte quando mia figlia aveva cinque mesi. L’avviso di garanzia è un avviso di garanzia dell’indagato, non può diventare una gogna mediatica". Da Roma il ministro della giustizia, Andrea Orlando, ha commentato che una stretta sugli avvisi di garanzia, in modo che non siano divulgabili, "rischia di ledere i diritti della difesa. Noi, comunque, tutti i passi che vanno nella direzione di un contenimento del clamore del processo li abbiamo fatti e li facciamo: va in questa direzione il ddl sulla riforma del sistema penale". "Ossigeno esprime preoccupazione - ha commentato Alberto Spampinato - per la tentazione di fronteggiare le conseguenze politiche di alcune inchieste della magistratura riducendo la libertà di informazione e il diritto dei cittadini di essere informati. Il Governo italiano ha assunto davanti alle Nazioni Unite l’impegno di legiferare in modo da rendere più libera l’informazione, in modo da proteggere i giornalisti dai frequenti attacchi violenti e dai numerosissimi gravi abusi del diritto che subiscono e che la legislazione vigente consente e lascia impuniti. Sono questi gli impegni legislativi da onorare". Avvisi di garanzia e intercettazioni. Nessuno sogni nuovi bavagli alla stampa di Raffaele Lorusso articolo21.org, 13 marzo 2017 Guai ad abbassare la guardia. Nessuno pensi di risolvere i problemi della giustizia penale e della tutela del segreto istruttorio con l’introduzione di bavagli alla stampa. Il riaccendersi del dibattito, nelle ultime ore, su avvisi di garanzia e intercettazioni non può diventare un alibi per immaginare misure restrittive per i giornali e per i giornalisti. È singolare che, quando si occupa di giustizia, la politica non riesca ad immaginare nulla di diverso che un accanimento sul diritto di cronaca. Come se i problemi della giustizia, fossero i giornali e i giornalisti. Semmai, è paradossale che in un Paese che non riesce a risolvere il problema delle querele temerarie, sarebbe paradossale, ci si sforzi di immaginare nuove censure alla stampa. Per questo chi, in queste ore, si sta esercitando pubblicamente a preconizzare forme di limitazione del diritto di cronaca farebbe bene a desistere. Non tocca ai giornalisti mantenere il riserbo sulle notizie coperte da segreto istruttorio. Se si vuole evitare la fuga di notizie, bisogna agire su chi, per dovere d’ufficio oltre che per legge, è obbligato a non rivelare le notizie coperte da segreto. Ogni azione diretta a limitare il diritto di cronaca o a colpire i giornalisti è destinata a cadere nel nulla. I giornalisti, come ricordano le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, hanno il dovere di pubblicare le notizie di cui vengono in possesso, anche se coperte da segreto, ogni qualvolta esiste una rilevanza pubblica delle stesse perché è diritto dei cittadini esserne correttamente informati. Sicilia: Apprendi (Pd): "chiusa sede Garante dei detenuti a Catania, governo intervenga" siciliainformazioni.com, 13 marzo 2017 Il deputato all’Ars Pino Apprendi ha dichiarato: "Vengo a conoscenza che, finalmente, l’Amministrazione regionale ha deciso la chiusura della superflua struttura periferica di Catania dell’Ufficio del Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti. Immagino che tale decisione preceda altre, mirate e corpose, iniziative, a livello governativo regionale, dirette a ridurre gli esosi costi di mantenimento dell’elefantiaco apparato politico-burocratico con l’obiettivo, da tutti auspicato, di reperire risorse e personale da destinare all’attuazione di efficaci politiche di promozione e tutela dei diritti umani e della dignità della persona. In Sicilia, a Statuto speciale vigente, sussistono tutti i presupposti giuridici, amministrativi e politici, idonei a consentire all’Ente Regione di pianificare interventi, anche con il concorso dello Stato e della U.E., per il presente e per l’immediato futuro, a favore dei disabili, delle persone private della libertà personale ed ex detenuti, dei minori a rischio e abbandonati, dei ristretti negli istituti di pena minorili, degli indigenti e degli anziani non autosufficienti. Dopo l’assenza di adeguate azioni, amministrative e legislative, e dopo le recenti confuse e sussultorie proposte esternate dal Presidente della Regione solo a seguito di giustificate pressioni mediatiche (senza precedenti), è arrivato il momento per il Governo regionale (e per lo specifico assessorato regionale ancora privo del vertice politico) di occuparsi, seriamente e concretamente, della drammatica problematica afferente la tutela dei diritti umani e della persona senza improvvisazioni e con la preventiva consultazione di tutti i soggetti interessati (organizzazioni del volontariato, dei diritti umani, operatori penitenziari ecc.). Aggiungo, data la rilevanza della questione, che non appare superfluo convocare, al più presto, un’apposita Conferenza Regionale di settore con lo scopo di fornire al Governo Regionale e all’Ars utili elementi di valutazione per quanto di competenza". Belluno: il Sappe "la sezione semi-infermi del carcere è da chiudere" di Gigi Sosso Corriere delle Alpi, 13 marzo 2017 Il Sindacato della Polizia penitenziaria Sappe ha ottenuto un incontro a Padova Vona: "I fatti dicono che non possiamo gestirla e ci vuole l’impegno dell’Usl". La Polizia penitenziaria incontra il Provveditorato. Chiederà la chiusura del settore "Articolazione salute mentale" del carcere di Baldenich o, comunque, la costituzione di un presidio medico fisso, con il coinvolgimento del reparto di Psichiatria dell’ospedale San Martino. Il Sappe, Sindacato autonomo polizia penitenziaria, ha ottenuto per mercoledì, alle 11.30, a Padova il faccia a faccia con il provveditore dell’amministrazione penitenziaria Enrico Sbriglia, incontro che era stato chiesto dopo il sequestro e l’aggressione di domenica scorsa a un agente, da parte di un nigeriano detenuto per omicidio e arrivato nella struttura riservata ai semi-infermi di mente da Reggio Emilia, soltanto la sera prima. Tra l’altro il giorno dopo un ergastolano di origine veronese ha incendiato la propria cella. La firma sul documento che certifica l’appuntamento è quella di Salvatore Pirruccio, il direttore del carcere Due Palazzi di Padova: "Era molto importante avere questo faccia a faccia", sottolinea il delegato triveneto Giovanni Vona, "vogliamo chiedere a gran voce la chiusura di questo settore della casa circondariale di Baldenich, che come polizia penitenziaria non siamo in grado di gestire. Non ne abbiamo le competenze, trattandosi di detenuti psichiatrici. Meno male che da lunedì gli agenti di servizio erano saliti da uno a due e questo ci ha permesso di dare l’allarme e spegnere l’incendio. Diversamente sarebbe stato molto più complicato. Vero che tutto il materiale è ignifugo, ma provoca un fumo che può essere tossico. Quello che bisogna fare è coinvolgere pienamente l’azienda sanitaria, perché noi abbiamo compiti di sorveglianza e non siamo in grado di fare gli psichiatri". L’agente sequestrato e aggredito L.P. è di nuovo in buone condizioni e sta ultimando la settimana di malattia, che gli era stata accordata dal medico del pronto soccorso del San Martino che l’ha visitato dopo le percosse sofferte con un manico di scopa alle braccia, al costato e a un’anca: "Ho apprezzato il fatto che la direttrice del carcere Tiziana Paolini mi abbia chiamato, per rendersi conto personalmente della mia salute", sottolinea l’agente, "non è mancato il suo conforto. Ci lamentavamo del silenzio da parte del provveditorato, che alla fine ha deciso di darci ascolto". Il nigeriano non gode più del regime aperto, ma rimane in cella e a sorvegliare lui e gli altri ospiti ora sono in due. Parma: in Via Burla un direttore a metà, doppio incarico per Berdini di Roberto Cavalieri* parmaquotidiano.info, 13 marzo 2017 Il direttore del carcere di Parma, dr. Carlo Berdini, ha assunto incarico anche di direttore pro tempore del carcere di Firenze. Questa scelta del Dap è, a mio avviso, contraddittoria rispetto ai bisogni del carcere di Parma e a quanto lo stesso Dap indica come priorità ovvero il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti del nostro istituto che ancora risultano essere critiche. Ora non solo il carcere di Parma non ha ancora dopo anni un direttore in servizio con assegnazione fissa ma risulta averne uno in servizio in condivisione con un altro istituto altrettanto importante ed impegnativo. Si ritiene che i due ruoli, anche se rivestiti per un periodo limitato di tempo - si parla al momento di "alcuni mesi" -, non porteranno altro che ad un ulteriore rallentamento di tutti i processi avviati per tentare di migliorare le condizioni di vita dei detenuti di Strada Burla. *Garante delle persone sottoposte a misure limitative della libertà personale Varese: la cooperativa aiuta i detenuti a sentirsi ancora parte della società di Mario Catania La Provincia di Varese, 13 marzo 2017 La Quadrifoglio, in collaborazione il carcere di Bollate, offre diversi lavori come occasione di reintegro sociale in vista della fine della pena. Con il motto "condividere per crescere" la cooperativa sociale La Quadrifoglio offre un lavoro ai detenuti per dar loro la possibilità di tornare ad integrarsi nella società in vista della fine della pena. Il punto di partenza è che la valenza sociale del lavoro sia lo strumento adatto per affrontare insieme un percorso che possa essere una seconda possibilità. La cooperativa nasce come parte operativa dell’azienda Insubria post - che si occupa di comunicazione - dedicandosi al volantinaggio e il percorso con i detenuti è iniziato 3 anni fa grazie alla collaborazione con il carcere di Bollate. Il carcere è una delle realtà più attive per quel che riguarda il percorso di reinserimento dei detenuti e, accanto a numerose realtà che gestiscono il lavoro all’interno, ce ne sono altre, come appunto La Quadrifoglio, che si occupano invece del lavoro dei detenuti che hanno il permesso di uscire dal carcere per svolgere le proprie mansioni, per farvi poi ritorno in serata. Grazie all’articolo 21 della legge sull’ordinamento penitenziario, essi possono essere assegnati a lavori esterni al carcere. "Nessun trattamento speciale - sottolineano dalla cooperativa - Il carcerato diventa a tutti gli effetti un lavoratore come gli altri e questo è un aspetto fondamentale perché a livello psicologico si sente reintegrato a tutti gli effetti nella società". Secondo i responsabili "il lavoro è uno strumento con cui poter ritrovare la dignità persa". Dalla cooperativa tengono inoltre a precisare che la loro competitività nasce dalla capacità di essere presenti sul mercato, senza cercare sussidi esterni o finanziatori e che chi intendesse affidarsi a La Quadrifoglio per le proprie attività di volantinaggio, grazie all’ex articolo 14 (convenzione Api), assolverebbe l’obbligo relativo all’assunzione di disabili. "Decidere di affidarsi a noi significa fare del bene - raccontano - ma non tramite la classica donazione di denaro: chi contribuisce fa del bene comunitario dando lavoro a carcerati che usano il lavoro come strumento che li riabilita alla vita". Riguardo ai dati può essere utile sottolineare come i detenuti che non lavorano né in carcere né fuori hanno una recidiva più alta dell’80%; per coloro che lavorano solo all’interno del carcere la recidiva scende intorno al 60% mentre per i detenuti che collaborano con l’esterno la recidiva scende al 30%. Padova: figli in carcere dal papà, visite tra lacrime e giochi di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 13 marzo 2017 Telefono Azzurro gestisce al Due Palazzi tre ludoteche, luoghi d’incontro speciali. Concetta Fragasso: "Aiutiamo i detenuti a entrare in confidenza con i figli". "Oggi ho visto due mani toccarsi attraverso il vetro di una porta "pesantissima". Le mani erano quelle di una bimba speciale e del suo papà. La porta che li divideva, dopo due ore passate insieme all’interno di una ludoteca, quella di un carcere. Mi sono sembrati davvero una cosa sola, come se non esistesse nessun altro dentro quella ludoteca, come se non ci fossero agenti ad aspettarli per portarli via, una a casa e l’altro in cella. Mi sono sentita piccola piccola a guardarli". È Ambra a raccontare, una dei 50 volontari della sezione padovana di Telefono Azzurro che, coordinati dall’inesauribile passione di Concetta Fragasso, 55 anni, operano in carcere accogliendo padri e figli piccoli in tre ludoteche, una al penale e due al circondariale. "Mi piace sottolineare" spiega Concetta "lo spirito di collaborazione in atto con la direzione e gli educatori che spesso ci chiamano ad aprire la ludoteca anche in orari non in calendario per incontri "speciali". Ci capita di assistere ad incontri con padri che non vedono da anni il loro bambino. Bambini che vengono accompagnati dall’assistente sociale. Bambini che hanno il padre detenuto a Padova e la madre detenuta a Venezia". Bambini per i quali la normalità del carcere è una mesta sala colloqui e la mamma che parla con il papà. Loro spesso se ne stanno in un angolo: magari sono piccoli e quel padre l’hanno visto poco, non c’è confidenza, non c’è storia da riallacciare. C’è solo tutto da costruire. Ma le forze di un piccolino, quelle di un uomo ingabbiato e quelle di una donna che sola si porta un mondo sulle spalle, non bastano. Rimangono le distanze e i silenzi, fondi come voragini. Ecco il senso delle ludoteche. Un luogo protetto, allegro, dove persone formate fanno da ponte attraverso un gioco, un racconto, un’attività, tra i padri e i bambini; un luogo dove i sentimenti hanno spazio per sciogliersi e ossigeno per crescere. "Molte mamme ci dicono che portano in carcere i bambini solo perché c’è la possibilità di usare la ludoteca per gli incontri. Questo ci dà la forza e l’entusiasmo di continuare sempre con più impegno" continua Concetta. "Mi piace ricordare una bimba che ormai è cresciuta e che io personalmente ho accompagnato al primo incontro con il padre detenuto. Un ragazzo credo tunisino che non conosceva la bambina che era accompagnata da assistente sociale e educatrice. I pianti delle prime volte e le timide proposte di un giovanissimo padre che voleva avvicinarsi a sua figlia. I primi incontri li ho assistiti io, poi la bimba pian piano ha familiarizzato con il papà ed ora, a distanza di anni, hanno un bel rapporto. In questo caso la nostra presenza e la nostra bella ludoteca hanno fatto un lavoro unico e speciale". Come ogni anno, Telefono Azzurro organizza la festa del papà in carcere: ieri al penale i detenuti hanno potuto incontrare le famiglie, e potranno farlo anche domenica prossima, in uno spazio quasi "normale", l’enorme grigia palestra, con i clown dell’associazione Montà Attiva, gli scout del gruppo Neruda, le pizze dell’associazione Piccoli Passi e i dolci di Iperlando di Camin. Un’ultima festa sarà organizzata al Due Palazzi circondariale lunedì 20 marzo. San Severo (Fg): lezioni di pasticceria in carcere, un mestiere per il riscatto sociale lagazzettadisansevero.it, 13 marzo 2017 Anche in carcere si può imparare un mestiere che, oltre a tenere il detenuto lontano dalla cella per alcune ore della giornata, gli dà la possibilità di imparare una professione. Accade alla Casa circondariale di San Severo, dove il progetto di pasticceria di "Autoimprenditorialità", dopo pochi giorni, comincia a sfornare le prime leccornie direttamente da dietro le sbarre. L’iniziativa è nata grazie alla Scuola C.P.I.A. di Foggia 1 in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale di San Severo. Il Progetto, avallato con grande entusiasmo dal Dirigente Scolastico dr.ssa Antonia Cavallone, è diretto dalla prof.ssa Maria Soccorsa De Letteriis e dall’addetto all’Ufficio Giuridico Pedagogico Antonio Azzellino, e vede la partecipazione di detenuti iscritti al corso di scuola di alfabetizzazione e corso di scuola media. Gli allievi impareranno le tecniche basilari legate al mondo dell’arte pasticcera. "Il progetto - dice la direttrice del Carcere dr.ssa Patrizia Andrianello - è stato ideato, strutturato e articolato con il preciso intento di favorire il processo di inclusione sociale e di adozione di modelli di vita socialmente accettabili da parte dei soggetti in esecuzione di pena". La ristorazione è un ambito che offre opportunità di lavoro reali. "L’obiettivo di questo progetto - spiega il dr. Giovanni Serrano, Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria - è quello di valorizzarne le potenzialità all’interno del carcere, dando la possibilità ai detenuti che già frequentano la scuola di acquisire nuove competenze". Roma: "Gabbie", detenuti scrittori a Montecitorio. Il progetto presentato a Orlando toscanalibri.it, 13 marzo 2017 Sarà presentato lunedì 13 marzo, davanti al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e al Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Giovanni Legnini, alla Camera dei deputati (sala Aldo Moro, ore 15.30), il libro "Gabbie", scritto dai detenuti del carcere Don Bosco di Pisa insieme a giornalisti, scrittori, filosofi e imprenditori. Un importante appuntamento per la casa editrice pisana Mds che ha creduto da subito al progetto nato dopo un un corso di scrittura, ideato e sostenuto dall’editore con la giornalista Antonia Casini e i curatori Michele Bulzomì, e Giovanni Vannozzi, che tuttora prosegue all’interno della casa circondariale, grazie alla fattiva collaborazione con il direttore Fabio Prestopino e l’area educativa. Grazie all’impegno dell’Onorevole Paolo Fontanelli, questore della camera che ha sostenuto il corso di scrittura fin dalla prima edizione, "Gabbie" esce dai confini di Pisa e del carcere in cui è nato per approdare a Montecitorio e iniziare il tour che lo porterà al Salone del libro di Torino, a Pistoia, a Volterra. Il percorso che ha portato a questo riconoscimento è stato sostenuto e patrocinato dal consiglio dell’ordine degli avvocati di Pisa e dalla Camera Penale di Pisa. Il progetto - Fra i motivi d’interesse di questo progetto uno si riferisce alla scrittura stessa che, come sostiene Alfonso Maurizio Iacono, professore ordinario di storia della filosofia all’università di Pisa ed autore egli stesso, - "è la risultante fra vincolo e libertà, vincolo istituito dalle regole grammaticali che non possono essere eluse, e la libertà di combinare in maniera infinita un numero finito di parole" - "la scrittura induce una ricerca di ordine e di rigore e permette di guardare alla propria vita e dentro di se allo stesso modo". Il titolo del libro viene dal tema che è stato proposto: la gabbia non è solo una struttura coercitiva che limita la libertà e il movimento; è anche un "carcere d’invenzione", struttura mentale, onirica, una paura, un pregiudizio, è tutto ciò che limita e condiziona la libera espressione della persona e questa condizione umana è comune a chi è recluso come a chi sta fuori. Taranto: tavola rotonda "Il nuovo ambiente di detenzione alla luce delle pronunce Cedu" di Marcella D’Addato canale189.it, 13 marzo 2017 Mercoledì 15 marzo, alle ore 8.30, presso la Casa Circondariale di Taranto, si svolgerà una Tavola Rotonda sul tema "Il nuovo ambiente di detenzione alla luce delle pronunce Cedu", organizzata dalla Sezione di Taranto della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo, dall’Ordine degli architetti e dall’Ordine degli avvocati di Taranto. Dopo i saluti istituzionali, interverranno nel dibattito - moderato dal giornalista Vittorio Ricapito e dall’avvocato Maurizio Romano, Presidente della Sezione di Taranto della Lidu - Stefania Baldassari, Direttore della Casa Circondariale di Taranto; Lydia Deiure, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Taranto; Massimo De Michele, Giudice del Tribunale di Sorveglianza di Taranto; Piero Rossi, Garante Regionale dei diritti dei Detenuti; Adriano Calzolaro dell’Ufficio Garante dei diritti dei Detenuti; Federico Olivo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria; Domenico Alessandro De Rossi, Architetto curatore del volume "Non solo carcere: norme, storia e architettura dei modelli penitenziari", che sarà presentato nel corso della tavola rotonda; Nicola Triggiani, Professore di Diritto Processuale Penale nell’Università di Bari "Aldo Moro" e avvocato; Pierluigi Marconi, Psichiatra; Vincenzo Sapia, Avvocato del Foro di Taranto. Agli avvocati e agli architetti partecipanti saranno riconosciuti 4 crediti formativi. Firenze: carcere e teatro, la funzione salvifica della cultura di Piero Meucci stamptoscana.it, 13 marzo 2017 Non poteva mancare la stazione del carcere lungo il percorso che stanno facendo gli artisti di Murmuris alla ricerca di un teatro che parli della sofferenza umana e la traduca nella forma che da sempre coinvolge l’intelletto e l’emozione degli spettatori. Come il teatro possa essere un veicolo importante di sensibilità e consapevolezza è stata la domanda che si sono poste alcune importanti esperienze fatte fino ad oggi a cominciare da quella di Armando Punzo e della "Compagnia della Fortezza" di Volterra, i cui allestimenti sono diventati un appuntamento di prima grandezza nella scena italiana. La questione chiave del rapporto fra detenzione e recupero e il ruolo che può avere la cultura per attuare l’articolo 27 della Costituzione ("le pene devono tendere alla rieducazione del condannato") resta tuttavia un compito etico e umano che è ben lontano da aver raggiunto i suoi obiettivi. Così i giovani del gruppo guidato da Laura Croce hanno posto queste riflessioni al centro della terza edizione di "materia prima 2017", "lo spazio - affermano - in cui prendono forma le visioni del teatro contemporaneo ". La circostanza favorevole di fronte alla quale si sono trovati è la presenza a Firenze di due esperienze di teatro in carcere di grande qualità. Nella casa circondariale di Sollicciano a Firenze è attiva la Compagnia Krill diretta da Elisa Taddei e in quella della Dogana di Prato la compagnia Teatro Metropopolare diretta da Livia Gionfrida. La prima presenta due pièce: "Malesigu" di Massimo Bono, detenuto-attore che ha scritto un monologo nel quale racconta della sua infanzia fatta di lotte, fughe, punizioni e vendette, nel tentativo di dare un senso alla propria esistenza (15 marzo) e "Dal Carcere" che cerca di raccontare a chi sta fuori come funziona o non funziona (14 marzo). Quella della Dogana sarà di scena il 16 marzo con "Proteggimi" ispirato a "Un tram che si chiama desiderio" di Tennesse Williams sulla fragilità delle relazioni e sulla perdita. Malesigu è l’unico dei tre spettacoli che viene rappresentato fuori delle mura del carcere, "in una delle più belle e prestigiose sale fiorentine", come afferma Laura Croce, la Sala Luca Giordano/Sala degli Specchi" di palazzo Medici Riccardi. Il monologo di Bono andrà in scena al termine di un dibattito (ore 16,30) che Murmuris ha organizzato per estendere ancora di più l’approccio di impegno sociale oltre che artistico del suo lavoro. Le due registe dialogheranno insieme con l’assessore al welfare del Comune di Firenze, Sara Funaro, al sostituto procuratore di Firenze Giulio Monferini, al consigliere comunale di Scandicci Daniele Lanini, alla professoressa del liceo Artistico di Firenze Elisabetta Bronzi e al rappresentante della Fondazione Marchi Sergio Chiostri sul ruolo che il teatro può avere nella rieducazione, cioè nel favorire un processo di maturazione positiva in chi sta scontando una pena. "Perché parlare di carcere a un mondo che fa di tutto per isolare chi sbaglia? - si chiedono i giovani di Murmuris - Perché pensiamo che la società si debba confrontare con le anse oscure della propria vita". Il teatro - aggiunge Laura Croce - porta il mondo a conoscere la vita in cercare e aiuta i detenuti a confrontarsi con il mondo esterno, e per questo "è uno strumento attivo di scambio e conoscenza". Teatro e carcere "non devono essere due mondi lontani". La cultura ha un valore salvifico. La "simpatia" evangelica di un Papa missionario di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 13 marzo 2017 In questi 4 anni Bergoglio ha rilanciato il ruolo anche diplomatico della Chiesa usando un linguaggio più vissuto e meno ecclesiastico, aperto alle diversità. Sono quattro anni dall’elezione di papa Francesco: la metà del pontificato di papa Ratzinger. Giovanni XXIII fu papa per nemmeno cinque anni. Quello di Bergoglio è un pontificato segnato dalla "sorpresa" a partire dal nome di Francesco. Una enorme popolarità ha accompagnato questo "cristiano sul trono di Pietro", per usare l’espressione di Hannah Arendt su Giovanni XXIII. Fin dall’inizio, il papa ha messo in primo piano il carattere attraente del cristianesimo con un linguaggio evangelico. Le battaglie per i "valori non negoziabili" sono state da lui accantonate. È convinto che affermarsi sul piano socio-politico non sia una vittoria per Chiesa, che deve attrarre e non "combattere contro". In questo senso, il conclave del 2013, eleggendo Bergoglio, ha ribaltato il modello di cristianesimo minoritario, coeso, valoriale, espresso dalla Chiesa italiana e da altre Chiese. I cardinali si sono rivolti all’America Latina, il maggior continente cattolico, dov’era maturata la visione della conferenza dei vescovi ad Aparecida. Questa, sotto l’influenza del cardinale e dei teologi di Buenos Aires (ma non solo loro), ha proposto una visione di cristianesimo di popolo, senza confini, sulla dimensione della città globale, non difensivo. Per Francesco, la Chiesa deve inaugurare una stagione di simpatia, nel senso profondo e evangelico del termine. Dal 2013, Bergoglio, da papa, è "missionario", come intendeva esserlo da giovane e come lo interpreta in modo complesso il suo pensatore di riferimento, Michel de Certeau: comunica il Vangelo con un linguaggio vissuto, rifugge quello ecclesiastico, incontra persone e mondi altri, non si trincera verso la diversità e l’alterità, anzi ne è attratto. È sereno, più allegro di com’era a Buenos Aires, a suo agio nel "mestiere impossibile" di papa, come lo definisce. Ha imposto all’attenzione, come mai nella Chiesa, i poveri e i fragili. I critici dicono che miete più consensi fuori dalla Chiesa che dentro. È un mito. Lo segue invece un popolo vasto di fedeli. Il suo pontificato scuote la Chiesa, ridandole vitalità, ma le critiche interne non mancano tra preti, vescovi, curiali. Anche perché esige cambiamenti. Ha creato un clima di maggiore libertà: così volano le critiche e il blog impazza, specie se tradizionalista. "L’obbedienza non è più una virtù" - scriveva don Milani in altri tempi. È vero oggi soprattutto negli ambienti conservatori e tradizionali. Una delle contraddizioni evidenti di un cattolicesimo tradizionale, che dovrebbe essere papale, è che non ama o attacca il papa. Così, tra i cattolicesimi dell’Est, quelli di Visegrad, esplodono perplessità, specie quando il papa parla di famiglia o di migranti. In varie Chiese africane, il suo messaggio è filtrato da vescovi preoccupati che si perdano l’identità cattolica e il prestigio dell’autorità in un mondo assediato dai movimenti settari e dalla teologia della prosperità. Mai si sono viste tante opposizioni al papa, nemmeno ai tempi di Paolo VI. Tuttavia la leadership papale è forte. Non si tratta di tracciare un bilancio. Certo, Francesco è un riferimento nel mondo internazionale. La cancelliera Merkel lo considera un grande leader. Tanti capi di governo lo visitano a Roma, dopo che la diplomazia ha trascurato il Vaticano prima di lui. L’Irlanda, dopo aver chiuso l’ambasciata in Vaticano nel 2011, l’ha riaperta con Francesco. In questo momento, il papa è preoccupato per il clima di tensione internazionale. Non è un segreto come tema una guerra più vasta e come noti che il mondo vada accettando come normale l’idea di combattere, anche se per ora solo "a pezzi". Francesco non crede a un progetto riformatore da attuare nella Chiesa. Quello, limitato, dei cambiamenti della Curia fatica ad attuarsi. Il papa governa con decisione ma, allo stesso tempo, è aperto ai suggerimenti. Il ruolo della Segreteria di Stato, vicina al papa, ha ripreso vigore. Alcune procedure, come la nomina dei vescovi, vengono spesso aggirate dal papa, perché non lo convincono per il carattere "di cordata" (come dice). Per la nomina del Vicario di Roma, ha promosso una vasta consultazione tra preti e laici. Pulsa in lui il senso di responsabilità personale del superiore gesuita, ma anche l’impegno (sempre gesuita) della consultazione. Non si tratta ancora di nuove istituzioni stabili. Francesco guida la Chiesa in una transizione delicata dentro la globalizzazione inoltrata, in cui vede prepotente il primato dell’economia e preoccupante l’involuzione del religioso nel culto della prosperità o dell’identità bellicosa. Non vuole il rifugio dietro i muri del sovranismo cattolico, che si presenta protettore di qualche nazione cristiana. Crede nella navigazione in mare aperto, convinto che le coscienze dei cristiani e la fede degli umili abbiano la bussola del futuro. Illuso o addirittura presuntuoso rispetto ai predecessori? Papa Bergoglio ricorda che venne a Roma quattro anni fa con il biglietto per tornare a Buenos Aires e la prospettiva della pensione. Non era il candidato della grande stampa. Lui fa capire che, se è stato scelto, un motivo "superiore" ci sarà stato. Così affronta il futuro pacificamente a ottant’anni, con un denso programma, tra cui viaggi in Egitto e in Colombia. Le sorprese non sono finite. Temute dagli uni e auspicate dagli altri. Quel vento gelido sui migranti di Gianluca Di Feo La Repubblica, 13 marzo 2017 Il clima sta cambiando, anche in Italia. Lo si capisce dalle parole, scritte nei documenti ufficiali ed evocate nel dibattito politico: quelli che erano semplicemente "migranti" adesso sempre più spesso vengono chiamati "irregolari" o "clandestini". Termini in voga negli anni di Silvio Berlusconi premier, con un governo apertamente sostenuto da un partito a vocazione xenofoba quale la Lega Nord. Dopo di lui però c’era stata una drastica inversione di rotta. Il dramma dei profughi in fuga dalla Siria, le tragedie dei naufragi al largo di Lampedusa avevano spinto l’intero Paese ad aprire le braccia: il 2014 è stato l’anno di Mare Nostrum, la più grande operazione umanitaria della storia recente, con 100 mila persone soccorse nel canale di Sicilia. Salvare e assistere gli esseri umani era l’unica priorità. Poi l’Europa ha cominciato a chiudere le porte. E adesso chi arriva sulle coste italiane difficilmente riesce ad andare oltre: le frontiere di Francia e Austria sono sbarrate, viene obbligato a rimanere in una nazione alle prese con una crisi economica e con una disoccupazione altissima. Soccorsi e sbarchi continuano - 181mila nel 2016, altri 15.760 dall’inizio del 2017 - ma l’accoglienza sta diventando insostenibile per le autorità di Roma. Un problema di natura finanziaria, con la scarsità di risorse per integrare altri immigrati, ma anche una questione politica, con la prospettiva di elezioni in tempi brevi e la crescita di partiti dichiaratamente ostili agli stranieri-la Lega Nord di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni - o comunque molto più chiusi su questo tema - il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. C’è pure una preoccupazione crescente dei sindaci di sinistra, su cui ricade la gestione diretta dei nuovi arrivati, quasi tutti africani. Così una delle prime decisioni di Paolo Gentiloni, premier di un esecutivo di centrosinistra, è stato il varo di un pacchetto di misure per incrementare le espulsioni di "migranti economici irregolari". "Non è assolutamente possibile continuare a ricevere chiunque sbarchi illegalmente sulle nostre coste senza imporre alcun criterio di accoglienza", ha dichiarato giovedì il ministro dell’Interno Marco Minniti. Questa svolta è incentivata e in parte finanziata dall’Unione Europea. La Commissione di Bruxelles però non sembra avere definito una strategia per affrontare la realtà dell’esodo: non è un’emergenza ma - ha sottolineato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella - "un fenomeno epocale che non si può rimuovere". Le radici sono nella situazione disastrosa del continente africano, ma l’impressione è che la Ue stia puntando solo a contenere gli effetti, cercando una maniera per ridurre le partenze dalla Libia. Un approccio tattico, carico di pericoli. Lo sfruttamento dell’esodo è l’unica industria che continua a crescere nello sfacelo libico, con una vera e propria catena di montaggio che oltre alle organizzazioni tribali della zona di Sabratha - l’epicentro degli imbarchi - coinvolge una rete di relazioni ramificata fino al cuore dell’Africa subsahariana. Più in Libia aumenta la confusione, più migranti vengono fatti salire sui gommoni. E in questi giorni il caos è massimo. Ci sono combattimenti tra milizie d’ogni genere, un po’ ovunque, con una escalation militare che vede in campo armamenti sempre più sofisticati: persino a Tripoli da settimane si segnalano scontri. Finora tutti gli interventi della comunità internazionale si sono rivelati velleitari. Come ha sottolineato sulle pagine del think tank Brookings Federica Saini Fasanotti, una delle migliori analiste del marasma tripolino: "La Libia ha bisogno di un piano d’azione realistico". Quale? La stessa ricercatrice in un’audizione alla Commissione affari esteri della Camera di Washington ha parlato di "destrutturare per ristrutturare" puntando a "uno stato federale, diviso in tre larghe regioni: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. I governi regionali potrebbero proteggere meglio gli interessi locali nella sicurezza, nella rinascita economica e nell’amministrazione". È una prospettiva circolata lo scorso anno pure in alcune cancellerie europee e in ambienti del governo italiano, poi abbandonata per il sostegno incondizionato all’esecutivo benedetto dalle Nazioni Unite e guidato dal premier Fayez Serraj. A un anno dall’insediamento, però, Serraj non è riuscito a creare strutture nazionali e stenta persino a imporre la sua autorità sull’intera capitale. Per questo è assurdo pensare di fermare la marcia verso Nord confinando i migranti sul territorio libico. In una zona di guerra, ogni azione delle forze locali, inclusa la nuova guardia costiera formata dalla missione navale europea, mette a rischio la vita di uomini, donne e bambini. Gli scafisti non esitano a sparare contro le vedette per difendere il loro carico umano. E obbligano a partire anche con il mare in tempesta, aprendo il fuoco contro chi si ribella: la scorsa settimana 22 persone sono state uccise e 100 ferite. Solo stabilizzando la Libia si potrà cominciare ad affrontare il problema. Ma questo richiede un impegno dell’intera Europa, con una visione chiara: siamo davanti a un esodo che impone una risposta globale. Vuole ospitare i profughi in casa sua. Il paese si ribella, rifugiati respinti di Anna Campaniello Corriere della Sera, 13 marzo 2017 Succede a Lambrugo, in provincia di Como. L’uomo che aveva messo a disposizione un appartamento per i migranti ha deciso di ritirare la proposta. Il sindaco: "Avevo mostrato subito il mio disappunto al prefetto". La protesta dei cittadini di Lambrugo sulla pagina Facebook del sindaco blocca l’arrivo dei profughi. La prefettura di Como ha annunciato l’arrivo in paese di alcuni richiedenti asilo in un appartamento messo a disposizione da un privato, ma il clamore suscitato dall’annuncio sui social ha spinto il proprietario della casa a fare retromarcia. Il caso è esploso nel giro di poche ore. Il sindaco di Lambrugo Giuseppe Costanzo, 37 anni, a capo di una lista civica, ha ricevuto una telefonata dal prefetto di Como Bruno Corda. "Mi ha fatto sapere che in paese sarebbero arrivati alcuni richiedenti asilo che avrebbero alloggiato in un appartamento in centro - spiega lo stesso primo cittadino. Ho precisato che non condividevo la gestione dei migranti e che avrei vigilato". Chiusa la telefonata, il sindaco informa i suoi cittadini su Facebook. E si scatenano i commenti, decine nel giro di poche ore, con numerose prese di posizione contrarie all’arrivo dei richiedenti asilo in un appartamento in centro paese. Il clamore arriva anche al proprietario dell’abitazione che dovrebbe accogliere i migranti e che ora medita di tornare sui suoi passi. Il proprietario in questione non vuole uscire allo scoperto, almeno pubblicamente. È un 30enne residente nel Lecchese che anni fa ha acquistato all’asta un appartamento al quinto piano di una palazzina che ospita 28 famiglie in centro a Lambrugo. Dopo esperienze negative con alcuni inquilini, aveva pensato di mettere l’immobile a disposizione di una cooperativa che fa parte del circuito dell’accoglienza ai profughi. Ieri mattina ha incontrato il sindaco. "Premetto che non gli ho chiesto di cambiare idea, è un privato che della sua abitazione fa quello che vuole", chiarisce Giuseppe Costanzo. Che, al termine della chiacchierata con il giovane, tranquillizza i suoi cittadini, sempre su Facebook. "Ho appena terminato l’incontro con il proprietario dell’appartamento che avrebbe dovuto ospitare i richiedenti asilo - posta il sindaco. Non è più intenzione di questa persona affittare l’abitazione alla cooperativa. Ha già provveduto a fornire comunicazione ufficiale di questa sua decisione al presidente dell’ente". I profughi dunque non entreranno a Lambrugo, paese di 2.400 abitanti che, fino ad ora, non ha mai accolto richiedenti asilo. "Visto il clamore suscitato dalla notizia dell’arrivo dei migranti, il proprietario della casa mi ha detto che ha riflettuto e, non volendo creare problemi alla comunità lambrughese, ha deciso di rinunciare - spiega lo stesso Costanzo. Personalmente, avevo mostrato subito il mio disappunto al prefetto. Non è una questione politica ma di buonsenso. Sono il sindaco di un piccolo paese e sono chiamato a risolvere i problemi del mio piccolo paese. Il fenomeno dei migranti deve essere risolto a livello nazionale ed europeo in altro modo. Quest’anno ci hanno tagliato 23 mila euro e poi pretendono di far ricadere sull’ente locale i problemi nazionali". "Accogliere una persona non è solo metterla in uno spazio e darle da mangiare - aggiunge Costanzo. I migranti sono persone, non pacchi da piazzare. Per accogliere bisogna avere gli strumenti per poterlo fare". Migranti. Fra i 3.500 nei ghetti della Puglia. "Le aziende chiamano al telefonino" di Carlo Vulpio Corriere della Sera, 13 marzo 2017 Se non fossero neri, li scambierebbero per olandesi o belgi, perché vanno quasi tutti in bicicletta. Mai nel Tavoliere, se non ai tempi dei braccianti di Peppino Di Vittorio, si erano viste tante biciclette scorrazzare per queste strade di campagna pianeggianti e rettilinee, eppure così malandate, come in Bosnia dopo la guerra. E come quei braccianti, anche questi "tulipani neri" non fanno sport, ma vanno a lavorare nei campi o a cercare lavoro, e alla fine della giornata, se la bicicletta non si è sfasciata, tornano a casa. Dove "casa" sta per baracca fatta di pezzi di legno, di plastica e di lamiera. Tutte le loro "case" sono così. È la loro bidonville. Il ghetto. Sono vent’anni che né lo Stato, né la Regione, né le associazioni dei grandi produttori agricoli e della grande trasformazione e distribuzione agroalimentare sono stati capaci di organizzare per loro villaggi di strutture mobili, prefabbricati come quelli installati dopo un terremoto, che li accolgano per i 7-8 mesi di lavoro agricolo e non li facciano vivere come bestie, tra montagne di rifiuti che nessuno va a raccogliere, e che loro sono costretti a bruciare e a respirare, altrimenti rischiano malattie peggiori, e senza alcun altro servizio minimo che faccia capire al mondo che la schiavitù è finita e non può essere un alibi per nessuna economia. E infatti, la Ue questo rimprovera all’Italia, le chiede come impiega i soldi che riceve per i suoi "gastarbeiter", i lavoratori ospiti, se i risultati sono questi. E non vale rispondere alla Ue che gli immigrati devono essere distribuiti equamente tra i diversi Paesi dell’Unione, perché qui stiamo parlando di immigrati che vengono in Italia per soddisfare la domanda italiana di lavoro agricolo. Mentre si insiste nel far "accudire" questa gente da costose cooperative di "volontariato", che, appunto perché costose, si occupano di una esigua minoranza di immigrati (ma perché poi, se hanno il permesso di soggiorno e sono persone libere e addirittura cittadini europei?). Li abbiamo visitati tutti, uno per uno, i cinque ghetti del Tavoliere, che attualmente "ospitano" all’incirca 3.500 persone. In quello di Macchia Rotonda, per esempio, a Stornara, vivono circa 350 Bulgari, tutti di etnia Rom e tutti, ohibò, che lavorano qui da anni, e non fanno più di quello che farebbero foggiani, napoletani, milanesi, italiani che decidessero di non rispettare le leggi. Pavlov Andonov, per dire, ha la carta d’identità italiana e viene qui da dieci anni coni suoi tre figli, che frequentano la scuola di Borgo Tressanti - dove c’è un altro ghetto, in cui abbiamo visto 70 bambini africani, bulgari, polacchi e italiani divertirsi insieme. Stesso discorso nel ghetto "misto" di Borgo Mezzanone e nel ghetto "Ghana" di Borgo Tre Titoli, dove le biciclette e i telefonini consentono ormai una contrattazione diretta tra datori di lavoro e braccianti immigrati che toglie enfasi e spazio all’attività dei "caporali", sempre meno mediatori illegali di manodopera e sempre più simili a una sorta di servizio taxi tipo Uber (5 euro a cranio, la tariffa). Mentre davvero paradossale, se non agitato ad arte, appare l’allarme per "infiltrazioni della criminalità organizzata nei ghetti", con tanto di new entry costituita ora dalla "mafia nigeriana", quasi che i nativi abbiano da prendere lezioni da personale straniero per attentare al già precario ordine pubblico. Nel Gran Ghetto di San Severo, "famoso" per gli incendi in cui due ragazzi del Mali sono morti carbonizzati, Alcim Djallogara, 34 anni, meccanico del Mali, tornato qui dopo che il ghetto è stato raso al suolo, sta rovistando tra le macerie. Cerca qualche piccolo oggetto personale a cui era affezionato e recupera qualche pezzo di legno e di lamiera per andare a ricostruire la sua capanna da qualche altra parte. Ci guarda e dice: "Ma quale malavita che abbia un po’ di cervello può pensare di venire qui? Se non fosse tutto così tragico, riderei". Mauritania. Cristian Provvisionato, da 10 mesi "ostaggio" del governo di Monica Mistretta lindro.it, 13 marzo 2017 La famiglia: "Lo hanno incastrato". È accusato di truffa informatica. Caso diplomatico? Spionaggio? È italiano ed è trattenuto dal Governo della Mauritania da dieci mesi, prigioniero in un’accademia della Polizia locale. Nella sua vicenda ci sono tutti: una società di intelligence che vende prodotti cyber tecnologici, sfuggenti intermediari internazionali, personaggi vicini ai servizi segreti italiani e uomini dell’apparato dei servizi segreti mauritani. Lui, "l’ostaggio", è Cristian Provvisionato, 42 anni. L’accusa che gli rivolge il Governo mauritano è di truffa informatica ai danni del Paese. La famiglia racconta che per Cristian, di mestiere bodyguard, tutto comincia nell’agosto del 2015, quando riceve, dall’italiano Davide Castro e dalla sua agenzia di consulenza spagnola, V-Mind, l’incarico di recarsi in Mauritania. Cristian non firma un contratto, ma conosce Davide Castro perché ha già lavorato per Vigilar Group, società di investigazioni, sicurezza e intelligence di Milano, di cui è socio il padre di Davide, e di cui Davide stesso è il responsabile divisione Estero. Il lavoro di Cristian, raccontano i famigliari, è apparentemente semplice: andare dieci giorni in Mauritania, dove la V-Mind ha preso accordi commerciali per rappresentare i prodotti di cyber security di una compagnia straniera, l’indiana Wolf Intelligence, e presenziare a un meeting. Serve un italiano per fare bella figura. Compenso: 1.500 euro alla settimana. A Cristian dicono che tutto è legale. "Il mio referente… mi disse che era tutto legale e che le persone di questa società erano affidabili dopo investigazioni svolte dal referente stesso. Ho una mail mandatami dallo stesso referente che lo prova", scrive Cristian in una lettera aperta dalla Mauritania. "Si rivolse a me dicendomi che l’altro italiano già presente in Mauritania doveva rientrare urgentemente… Inoltre mi disse di non preoccuparmi. Benché non fosse il mio settore lavorativo (mi occupavo da poco di close protection), il mio compito sarebbe stato solo di supporto al tecnico indiano che sarebbe dovuto arrivare per una dimostrazione, quindi non era richiesta una specifica conoscenza informatica da parte mia". In Mauritania non ci sarà nessun meeting, non arriverà nessun tecnico indiano. Cristian parte il 16 agosto 2015. All’arrivo a Nouakchott, la capitale, le Autorità locali, dopo avergli rilasciato il visto, trattengono il suo passaporto. Il 1° settembre lo arrestano. La famiglia in Italia perde i contatti con lui fino a dicembre 2015, quando dal Console italiano in Marocco viene a sapere che è detenuto in un’accademia della Polizia locale. Il 21 febbraio 2016 i familiari riescono ad incontrarlo per la prima volta in Mauritania: Cristian, che soffre di diabete, è irriconoscibile. Ha perso 30 chili, ha barba e capelli lunghi. Il 10 maggio Cristian ha avuto la sua prima udienza in Tribunale. A oggi ancora non è chiaro se le accuse di truffa informatica nei suoi confronti siano state confermate. Secondo il giornale locale al-Akhbar, la Mauritania avrebbe perso un milione e mezzo di dollari in un tentativo, poi fallito, di acquistare materiali di spionaggio. A supervisionare l’operazione sarebbe stato il Consigliere del Presidente della Mauritania, Ahmed Ould Bah. I primi contatti per l’acquisto dei materiali sarebbero stati presi con la società italiana Hacking Team, con sede a Milano, e l’affare sarebbe andato a monte per una questione di prezzo. I rapporti tra Hacking Team e Mauritania, in effetti, emergono quando un attacco hacker alla società milanese rivela al mondo l’elenco dei suoi clienti, tra i quali figura il Governo del Paese africano. Ed è qui che entra in gioco la società indiana Wolf Intelligence. Secondo una relazione depositata agli atti dalla famiglia di Cristian, Ahmed Ould Bah, nel luglio 2014, incontra a Doha, in Qatar, Manish Kumar, responsabile tecnico di Wolf intelligence, la società che fornisce i prodotti alla V-Mind. Nel dicembre 2014 Ahmed Ould Bah e Manish Kumar raggiungono un accordo di vendita: 13 soluzioni tecnologiche per il controllo remoto di dispositivi elettronici al prezzo di due milioni e mezzo di dollari. Ahmed Ould Bah paga una tranche iniziale per conto del Governo mauritano e le prime dodici soluzioni vengono consegnate. Poi qualcosa va storto. Secondo la relazione, la tredicesima soluzione tecnologica doveva essere consegnata da un tecnico in Israele. Per qualche ragione, Manish Kumar non riesce ad acquistarla e a portarla in Mauritania. Il Governo mauritano, che nel frattempo ha già pagato un milione e mezzo di dollari, si sente truffato. Nell’agosto del 2015 arresta l’unico uomo presente in quel momento nel Paese legato a una delle società con cui l’affare andato storto: Cristian Provvisionato. Attualmente la Farnesina sta seguendo il caso tramite l’Ambasciatore italiano a Rabat, in Marocco: è l’unico a poterlo fare perché in Mauritania l’Italia ha solo un Consolato onorario. Il 18 maggio, in occasione della Prima Conferenza Ministeriale Italia-Africa a Roma, accade qualcosa che forse non ci si aspettava. La Mauritania non invia alla conferenza un proprio Ministro e lascia che sia l’Ambasciatrice in Italia e presenziare l’incontro. La detenzione di Cristian Provvisionato e la vendita dei materiali per il monitoraggio remoto potrebbero essersi trasformate in un caso diplomatico. Tra l’altro, ci sono altri elementi su cui riflettere. La società spagnola V-Mind, di cui Wolf Intelligence è fornitrice, ha chiuso nel marzo 2016. Era stata avviata il 1 gennaio 2015, proprio quando era andato in porto l’affare tra Manish Kumar e il Governo mauritano. Cristian Provvisionato rimane ostaggio in Mauritania, preso nella rete di un gioco molto più grosso di lui. La famiglia ci dice anche che l’account email di Cristian, che conteneva tutte le tracce dei rapporti con chi lo aveva ingaggiato, è misteriosamente bloccato. Alla madre, Doina Coman e al fratello Maurizio, Cristian dopo alcuni giorni in Mauritania confidò che alcune delle persone per cui lavorava "dietro la facciata facevano intendere di agire per conto dei servizi segreti italiani". Doina non ha dubbi: "Lo hanno incastrato". Il 19 aprile 2016 la famiglia ha avviato un procedimento penale in Italia volto ad accertare se il trattenimento di Cristian Provvisionato possa costituire un reato perseguibile anche nel nostro Paese. Albania. Accusato di abusi sessuali, direttore dell’orfanotrofio passa 11 anni in carcere di Federica Macagnone Il Messaggero, 13 marzo 2017 Innocente. Per undici anni ha vissuto un incubo dietro le sbarre: accusato ingiustamente di violenze sessuali su minori ha continuato a professare la sua estraneità ai fatti. Ma mai nessuno ha voluto credere all’innocenza di David Brown, 66enne di Edimburgo, da anni in carcere in Albania con l’atroce accusa di aver abusato di quei bambini a cui era talmente devoto da spendere la sua esistenza cercando di salvarli dalla strada. Solo adesso la verità, quella rimasta sepolta per anni sotto cumuli di bugie, è venuta a galla: quei bimbi che lo avevano accusato hanno rivelato di aver mentito sotto la pressione di alcuni agenti di polizia e di uno psicologo. David, che per 35 anni si è messo al servizio dei bambini più disagiati, nel 2000 è andato in Albania per aiutare i piccoli rifugiati scappati durante la guerra del Kosovo. Per un anno ha lavorato in strada fornendo cibo e cure ai bimbi che mendicavano in strada e successivamente, con il supporto della chiesa albanese e quella del Regno Unito, ha aperto una casa famiglia dove accogliere i più sfortunati. Nel 2006, dopo anni di impegno sul campo, la polizia ha fatto irruzione nell’orfanotrofio e ha arrestato David: una decina di ragazzini, di età compresa tra i quattro e i tredici anni, avevano raccontato alle autorità di essere stati vittime di abusi sessuali da parte di alcuni operatori britannici che li avrebbero legati, imbavagliati e violentati. Oltre a David, sono finiti dietro le sbarre Dino Christodoulou, 52 anni e Robin Arnold, 63. David è stato condannato a 20 anni di carcere, ma ha sempre professato la sua innocenza: l’unico errore che ha ammesso di aver compiuto è stato quello di non essere riuscito a tenere sotto controllo tutti i suoi volontari. All’epoca molti ragazzi testimoniarono in suo favore, ma a incastrare David c’era il racconto di due ragazzi, Andon Qoshlli, che oggi ha 22 anni, e Denis Aliu che all’epoca dei fatti aveva solo sei anni. Solo adesso, dopo undici anni, si sono fatti avanti per ritrattare e raccontare la verità, che nei prossimi giorni diventerà ufficiale davanti ai giudici dell’Alta Corte albanese. "Lo psicologo e un agente di polizia mi spinsero a dire che David mi aveva abusato. Non lo ha mai fatto e mi dispiace che lui sia in carcere - ha detto Andon - Voglio vederlo fuori e abbracciarlo. David ci ha salvato dalla strada e ci ha dato la possibilità di studiare". Gli fa eco la madre Luisa, 53 anni, che non era con il figlio quando ha fornito la sua testimonianza: "David non dovrebbe essere in prigione. Ha salvato la vita di mio figlio e Andon mi ha detto più volte che era stato Dino ad aver abusato di lui". Una versione che combacia con quella di Denis Aliu, oggi 18enne, che ha raccontato di essere stato terrorizzato da chi lo ha costretto ad accusare David. "Ero troppo piccolo e terrorizzato da quello che stava succedendo. La polizia mi spaventava e lo psicologo mi regalava dolci, palloncini e denaro per farmi confermare la versione che loro volevano. Io chiamavo David "papà" e so di aver fatto un grosso errore che adesso ho l’opportunità di correggere. Per 11 anni ho vissuto nel senso di colpa". L’avvocato di David, Gjystina Golloshi, ha parlato di manipolazione e spera di far uscire il suo assistito dal carcere il prima possibile: "Entrambi hanno ritirato tutte le accuse nei confronti di David Brown e sono molto dispiaciuti per il tempo che ha trascorso in carcere per qualcosa che non ha fatto. Senza le loro testimonianze, ogni accusa decade e dovranno liberarlo dopo che l’Alta Corte avrà ascoltato tutte le prove". Per David quell’incubo lungo 11 anni si appresta a finire. Libia. La battaglia per i pozzi di petrolio e la mano russa che agita la Nato di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 13 marzo 2017 È sempre più aspra la battaglia che si sta combattendo tra Tripolitania e Cirenaica per il controllo dei terminali petroliferi di Ras Lanuf e Sidr. Gli scontri avvengono a ridosso delle raffinerie, lungo i gasdotti e oleodotti collegati con i giacimenti nel cuore del Fezzan, presso gli enormi depositi di greggio (in grado di contenere oltre mezzo milione di barili ciascuno) in larga parte già distrutti e dati alle fiamme da Isis nel recente passato, e sino ai moli per le petroliere nel Golfo della Sirte. Così in Libia tornano a primeggiare le tensioni e gli interessi, che da decenni dettano legge, per il possesso delle sue risorse energetiche. I soldati di Haftar si erano impossessati della regione in settembre e avevano mantenuto la promessa di passare i proventi energetici alle casse della compagnia petrolifera nazionale a Tripoli. La produzione complessiva di greggio era salita a 700 mila barili quotidiani (poco rispetto a quella pre-rivoluzione del 2011, pari a 1,6 milioni). Ma due settimane fa erano stati costretti alla fuga. Pare che abbiano subito oltre 5o morti. Una sfida dominante le lotte di potere interne condizionate dagli interventi stranieri, che ora vedono in crescita l’influenza di Egitto e Russia in sostegno del generale Haftar, l’uomo forte della Cirenaica e ministro della Difesa del governo di Tobruk. La Reuters pubblica un’intervista con Oleg Krinitsyn, direttore della compagnia privata di guardie del corpo russe Rsb, il quale ammette di avere impiegato alcuni suoi agenti nell’Est libico in coordinamento con il governo di Mosca. Una mossa che genera inquietudini tra i Paesi Nato e richiama alla situazione siriana. Contro Haftar sono schierate le milizie di Misurata, oltre a una non meglio definita "Brigata della difesa di Bengasi", composta da elementi del fronte religioso islamico aiutato da Qatar e Turchia, cui potrebbero non essere estranee unità di Isis. Anche il premier del governo di unità nazionale a Tripoli, Fayez Sarraj (sostenuto dall’Onu con il predominante ruolo italiano), dopo il recente fallimento della sua iniziativa di compromesso con Haftar si trova adesso più legato al fronte di Misurata. A complicare la situazione giunge la crescente valenza politica di Saif Al Islam, il figlio più noto del colonnello Gheddafi, che ha creato un proprio movimento, il "Partito repubblicano per la liberazione della Libia", sostenuto anche dalla comunità libica in Egitto. Russia. Minimo storico della popolazione carceraria, metà detenuti rispetto al 2000 sputniknews.com, 13 marzo 2017 Il numero dei detenuti nelle strutture penitenziarie della Russia si è ridotto di oltre la metà rispetto al valore massimo registrato a partire dal 2000. Lo segnalano le agenzia di stampa russe con riferimento ai dati dell’agenzia federale sull’esecuzione delle condanne. All’inizio del 2017 nelle carceri e nei centri di custodia cautelare della Russia si contavano circa 630mila persone. Si osserva che il maggior numero della popolazione carceraria era stato registrato nel 2000 con 1,92 milioni di persone. Allo stesso tempo, tenendo conto del numero di persone condannate a pene che non implicano l’isolamento dalla società, il numero totale dei condannati in questo periodo non è cambiato e continua ad essere dell’ordine di 1 milione. L’ufficio stampa ha osservato che attualmente l’obiettivo principale dell’agenzia federale è fornire degli standard per la comunicazione dei detenuti con i propri familiari durante la detenzione. Medio Oriente. Riham, 19 anni, comica a Gaza: "fare ridere è una cosa seria" di Davide Frattini Corriere della Sera, 13 marzo 2017 Gli oltranzisti hanno minacciato lei e la famiglia. La gag della poliziotta per svelare il sessismo della società (e di Hamas). Lo show ha raggiunto 100mila abbonamenti e 17 milioni di visualizzazioni su Youtube. Riham al Kahlout scherza su tutto tranne che sulla sua voglia di far ridere. I genitori l’hanno costretta a iscriversi alla facoltà di Legge, non credono nella carriera di comica, anche se i ruoli per una ragazza a Gaza non mancano: i fondamentalisti preferiscono vedere un uomo indossare la parrucca e il velo che una donna interpretare una donna. Così Riham a 19 anni affronta la paura del palcoscenico e quella degli oltranzisti. Hanno minacciato lei e la famiglia - che per ora la sostiene - l’accusa è quella di dare scandalo, una giovane da sola in mezzo a un gruppo di maschi. Sono gli altri attori di uno show satirico che da cinque anni viene trasmesso su YouTube, ha raggiunto quasi 100 mila abbonati e 17 milioni di visualizzazioni. A Gaza dove i semafori sono sempre spenti dalla mancanza di elettricità e gli autisti accesi dalla frenesia del traffico, le barzellette sui vigili possono diventare perfide. A Gaza dove le famiglie vivono accalcate in poche stanze, un matrimonio combinato può trasformarsi in farsa amara perché i tre cugini vogliono sposare la stessa ragazza (e lei ha scelto un altro). Riham e poche altre - come Serine al Barkooni, 21 anni - hanno scelto di mettere in ridicolo la società maschilista che le circonda. In una scenetta è Riham la poliziotta (nella realtà non ne esistono) che non riesce a gestire l’incrocio perché tutti si fermano a guardarla, i colpi di clacson come apprezzamenti. "Quello che mi deprime di più - dice al domenicale britannico Observer - sono i commenti su YouTube. Quelli che mi attaccano non ammettono di essere sessisti e allora mi accusano di non saper recitare. "Mandatela a casa" scrivono. Io non mollo, il mio sogno è che le donne siano libere di essere quello che vogliono". Nella Striscia schiacciata tra Israele e il Mediterraneo, il mestiere di giullare è pericoloso anche per gli uomini. Adel Meshoukhi è stato arrestato l’11 gennaio, ogni giorno la madre si è presentata alla prigione di Ansar per chiedere che fosse rilasciato, l’hanno tenuto per due settimane. Quel filmato in cui per un minuto e mezzo Adel urla a squarciagola "elettricità, elettricità, elettricità" per finire "basta con Hamas" è stato visto in poco tempo da 150 mila persone, troppe per i miliziani islamisti. Troppe e su una questione troppo sensibile: per mesi il gruppo al potere ha garantito solo tre ore di energia al giorno per i 2 milioni di abitanti. Per ragazze come Serine, laureata in Comunicazione all’Università Al Azhar, continuare a recitare è una forma di ribellione, voler impersonare l’umorismo nero che sbeffeggia la crisi economica e la miseria - a Gaza il 60 per cento dei giovani è disoccupato - è considerato vera insubordinazione. Il titolo del suo show "Nuvola estiva" ricorda i nomi in codice delle operazioni militari israeliane ("Piombo fuso" è stata chiamata dai generali quella tra luglio e agosto del 2014) ma le critiche sono soprattutto per Hamas, l’organizzazione che spadroneggia nella Striscia da quando sette anni fa ha strappato il controllo all’Autorità palestinese. Non sono pronta ad accettare - dice al giornale online Al Monitor - il ruolo tradizionale destinato alle donne, aspettare un marito che ti scelgono i genitori. Se interpretassi drammi, sarebbe più accettato dalla gente. Qui sono convinti che la satira guasti la femminilità".