Se la scuola entra in carcere e cambia le vite per sempre di Chiara Bert Il Trentino, 12 marzo 2017 Ottanta studenti trentini al Due Palazzi di Padova: i detenuti si raccontano "Io, chirurgo, così sono arrivato a uccidere". Giovanni "Di qui non uscirò". "Io pensavo che in carcere ci fossero solo persone cattive, che quelli che si pentono lo fanno solo per uscire prima", confessa Giulia, 16 anni. "Uno di loro sembrava mio padre, erano normalissimi, non come vengono raccontati", aggiunge sorpreso Giacomo, della 3G del Da Vinci. Guido: "All’ergastolo io non ci avevo mai pensato". "Mi ha colpito come parlavano della scuola". Alice: "Io resto della mia idea, mi fanno pena ma penso alle famiglie di chi hanno ucciso, hanno privato altri della libertà". Giorgia: "Bisogna investire di più sul Sud, fare prevenzione". Alessandro: "No, la responsabilità è di chi ha scelto quella vita, lo Stato ha altri mille problemi da risolvere". Da una visita in carcere si esce diversi da come si è entrati. Con meno certezze, se non altro. Tre volte alla settimana nel carcere Due Palazzi di Padova i detenuti incontrano gli studenti. Qui sono rinchiusi ergastolani e detenuti con pene molto pesanti, 18 sono "sopravvissuti" alla chiusura - nel 2015 - delle sezioni cosiddette ad alta sicurezza. E tuttavia questa struttura, che attualmente conta quasi 600 reclusi per 380 posti, si è fatta conoscere negli anni per alcune esperienze che l’hanno resa un modello: la pasticceria Giotto che nel 2005 ha trasferito qui il suo laboratorio artigianale e sforna panettoni, biscotti e praline; l’attività scolastica; la redazione di un giornale, "Ristretti Orizzonti", dove lavorano detenuti, ex detenuti e volontari. Ma soprattutto questo è un carcere che da tempo ha fatto una scelta forte e faticosa, quella di aprirsi all’esterno: momenti di incontro tra chi sta dentro e chi sta fuori, tra i colpevoli e le vittime, per far sì che la prigione esca dalla sfera di rimozione in cui troppo spesso è confinata. Giovedì 2 marzo è toccato a 80 studenti trentini e ai loro insegnanti, del Liceo Da Vinci di Trento e del Martini di Mezzolombardo, entrare al Due Palazzi, tappa del progetto "Storie dal carcere per crescere insieme. Dalla viva voce", promosso da Il Gioco degli Specchi con il contributo della Fondazione Cassa Rurale di Trento. Si varcano 11 cancelli per arrivare all’auditorium, il pass che si riceve all’entrata va tenuto rigorosamente al collo - ricorda l’agente - "perché potrebbe usarlo qualcuno che non deve uscire di qui". Quando le porte di ferro rosso si chiudono, i detenuti si raccontano. E i ragazzi, in silenzio, li ascoltano. Gianluca era un chirurgo specializzato nei trapianti di fegato. Era molto bravo nel suo lavoro: "Ero sicuro di me, abituato a prendere decisioni". Una persona per bene, diremmo noi, "pensavo - dice - di sapere esattamente dove sta il bene e dove il male". Sua moglie, psicologa, si ammala di depressione post-partum quando nasce il loro primo bambino. Pensano di uscirne da soli, nascondono agli altri e a loro stessi la realtà. Lui si porta il cellulare anche in sala operatoria, quando serve ricovera la moglie, le procura i farmaci. Ma la malattia non guarisce, anzi si aggrava con la nascita della seconda figlia. Gli amici si accorgono che le cose non vanno: "Io li allontanavo". Il suo distacco dalla realtà diventa delirio di onnipotenza: un progetto di famiglia da difendere a tutti i costi, finché un giorno, dopo un aborto spontaneo, il castello crolla. La coppia si separa, litiga sempre di più sulla gestione dei figli. "Non riconoscevo più la donna che amavo". Un giorno Gianluca uccide sua moglie. "Sono tanti anni che racconto questa storia, non posso tornare indietro". Previene una domanda: "No, il tempo non alleggerisce il peso, anzi. Non cerco giustificazioni, non ci sono. È qualcosa di terribile. Ho capito quanto coraggio serve per chiedere aiuto, io questa forza non l’ho avuta". Guido ha una storia molto diversa. Viene da Pozzuoli, aveva 10 anni quando ha lasciato la scuola. È cresciuto per strada: "Ho imparato quello che vedevo, a rubare". A 16 anni scappa di casa, arrivano le rapine. "Finché - racconta - viene ammazzato mio padre, e io inizio a cercare vendetta. Uccido l’uomo che lo ha ucciso, ma non mi fa stare meglio". Passa per la latitanza, poi l’arresto, anni a girare per le carceri d’Italia, lunghi periodi di isolamento "perché non sopportavo le regole". "Un giorno Francesca, un’insegnante, mi propone di frequentare la scuola. Io penso che con l’ergastolo è inutile. Ma lei insiste e alla fine accetto". Ecco, la scuola. "Prima non sapevo leggere e scrivere e non rispondevo alle lettere di mia figlia". La figlia di Guido, quella bambina che ai colloqui non poteva tenere sulle ginocchia, questo mese si laurea. "A Padova ho scoperto la sezione con le celle aperte, non ero abituato. Ho chiesto di poter lavorare, non l’avevo mai fatto, sono stato tra i pochi fortunati. Ho iniziato a parlare, io che per anni ero stato in silenzio". Guarda i ragazzi: "Le vostre domande mi fanno pensare. Raccontandomi ho imparato a non sentirmi più vittima. Le vittime sono quelli che hanno avuto la sfortuna di incontrarmi". Raffaele quando era piccolo andava a trovare la mamma e gli zii in carcere. I primi guai con la giustizia li ha avuti a 13 anni, a 17 è entrato in un carcere minorile: "Ma non capivo per cosa". La sua carriera criminale prosegue: "Volevo essere qualcuno, fare soldi. Usavo droga". Partecipa a un regolamento di conti, uccide. La sua pena è di 30 anni: "Quest’anno ne faccio 10, la mia vita l’ho buttata". "Non so se qui dentro una persona può migliorare. So che può peggiorare". Quando ha visto "Robinù", il documentario di Michele Santoro sui bambini-soldato di Napoli, ha pianto: "Non credo a chi si pente per avere sconti di pena, ti penti se ti confronti con le tue vittime". Ornella Favero, la direttrice di "Ristretti Orizzonti", da anni entra al Due Palazzi per fare volontariato. "Se nasci a Trento o a Padova essere onesti e fare scelte di vita giuste è abbastanza facile, in altre parti del nostro Paese non è così", incalza i ragazzi. "Ma queste persone non sono perse. Il carcere cattivo, dove i detenuti marciscono senza fare niente, non ci rende più sicuri". Esistono i predestinati? Forse sì, "ma oggi in carcere entrano tossicodipendenti, figli di avvocati e di insegnanti", ricorda Ornella, "è un’illusione che il carcere non ci riguarderà mai". Ci sono storie che colpiscono più di altre. Giovanni è un ergastolano "ostativo", è dentro per reati di criminalità organizzata e non potrà mai uscire perché non ha accettato di collaborare con la giustizia. Ha passato anni in isolamento al 41 bis, oggi per lui il "fine pena mai" è qualcosa di concreto che non mette in discussione neppure per un secondo: "Ma io credo moltissimo a questo progetto, è un lavoro lungo, le vostre domande a volte ci fanno male. Ma è l’unica strada". Agli studenti che potrebbero essere suoi nipoti affida un solo consiglio: "Non abbandonate mai la scuola". E se poteste uscire per un giorno, cosa fareste?, chiede a bruciapelo una ragazza. Biagio: "Il primo giorno che sono uscito, dopo tantissimi anni, quando si sono aperte le porte del furgone della polizia penitenziaria e ho visto mia mamma, mi è venuto un attacco di panico. Fuori è un mondo che non ti appartiene più". I ragazzi riconsegnano i loro pass, i cancelli si richiudono alle spalle. Risalgono sui pullman, dove giocano a carte, ascoltano musica ma discutono anche, animatamente, sulla pena, il pentimento, l’ergastolo, il riscatto. Sono passate solo due ore da quando sono entrati in carcere, ma sono bastate per cambiarli. Processo penale, arriva la riforma infinita di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 12 marzo 2017 È servito meno tempo per approvare la riforma costituzionale (due anni e un mese in parlamento, poi il referendum l’ha cancellata) e la riforma della legge elettorale (un anno e quattro mesi per l’Italicum, ma la Consulta l’ha decapitato) che per condurre in porto la riforma del processo penale, la cui discussione è cominciata alla camera nel gennaio del 2015, un anno e due mesi fa. Questa settimana, mercoledì, dovrebbe chiudersi la lettura del senato, con quel voto di fiducia che il ministro della giustizia Orlando non era riuscito a farsi autorizzare durante il governo Renzi e ha invece ottenuto dal governo Gentiloni. Con una parte della maggioranza, Ncd, che rimane contraria per il complessivo allungamento dei termini di prescrizione (non abbastanza, secondo l’Associazione magistrati). Ma che certo non farà mancare i suoi voti al governo, anche perché ha ottenuto un impegno su uno degli altri aspetti della riforma, la stretta sulle intercettazioni. La legge dovrà comunque tornare alla camera - anche se per pochi articoli - prima del varo definitivo. Le intercettazioni sono uno dei due capitoli la cui soluzione è solo annunciata nel ddl Orlando. È prevista infatti in una delega al governo, così come la riforma dell’ordinamento penitenziario (che prevede un maggior ricorso alle misure alternative al carcere). Per le intercettazioni le novità si annunciano importanti, il ministro - impegnato nella corsa per la segreteria Pd - le ha sempre presentate come una stretta sulla pubblicazione indiscriminata delle registrazioni e non come una limitazione all’uso dello strumento investigativo. Tant’è vero che ha intenzione di procedere nell’esercizio della delega ascoltando le proposte delle maggiori procure italiane, mentre sembra essersi persa per strada la promessa che sarebbero stati coinvolti i direttori dei giornali. La delega è molto ampia e comprende un limite all’esercizio dei software spia (Trojan), interrompe la pratica della trascrizione automatica di tutte le conversazioni da parte della polizia giudiziaria e affida al pm l’onere di selezionare quelle strettamente necessarie a sostenere l’accusa e chiudere in cassaforte le altre (gli avvocati difensori potranno ascoltarle ma non copiarle). È compresa nella delega anche la novità del carcere (fino a 4 anni) per chi diffonde riprese video non autorizzate, salvo però il diritto di cronaca. Secondo il testo uscito dalla commissione del senato - ormai sette mesi fa - la delega sulle intercettazioni (come sull’ordinamento penitenziario) andrebbe esercitata entro un anno, ma Ncd ha ottenuto tempi più stretti (tre mesi) e Orlando ha intenzione di accelerare al massimo; prima però bisogna che anche la camera confermi il testo. Intanto da domani se ne dovrà occupare di nuovo la commissione giustizia di palazzo Madama, perché il governo solo all’ultimo momento si è ricordato di voler aggiungere un articolo che punta a ridurre il costo delle intercettazioni, a carico soprattutto delle compagnie telefoniche che dovranno tagliare della metà le tariffe che continuano a chiedere alle società private che realizzano gli ascolti per conto della polizia giudiziaria (285 milioni di fatturato annuo). Sia i magistrati che gli avvocati contestano altri aspetti della legge. I primi ritengono troppo rigido l’obbligo per i pm di chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione entro tre mesi dalla conclusione delle indagini (pena l’avocazione immediata dei fascicoli da parte dei pg), mentre gli avvocati ritengono eccessivamente lunghi i tempi di prescrizione (e per questo sciopereranno, ma la prossima settimana). Giustizia, il garantismo contagia il Lingotto di Mario Ajello Il Mattino, 12 marzo 2017 Al Lingotto c’è Emma Bonino. E se avesse parlato di giustizia, ma non l’ha fatto, avrebbe probabilmente riscosso gli applausi della platea. Su un tema che ha sempre diviso la sinistra dai radicali. Il ripensamento culturale, sulle pene e soprattutto sull’uso politico dell’arma giudiziaria, nel Pd ogni giorno fa un passo avanti. Ieri, al Lingotto, erano pronti a dire a Lotti: "Luca non mollare". Avevano già preparato il motto: "Viva la civiltà, abbasso la barbarie giudiziaria". E invece, niente. Il ministro finito nella bufera Consip aveva ieri da celebrare il battesimo della figlia. E dunque, non è potuto ancora assurgere, al Lingotto, a star dell’accanimento giudiziario. Però c’è Padoan, il ministro convinto che Marroni, numero uno Consip, debba restare al suo posto. È la giornata del garantismo Pd in scena nella kermesse renziana. Fuori dal Lingotto, ma proprio qui dietro, al mercato di via Nizza, c’è un gazebo M5S. Passano lì davanti due militanti renziani e la conversazione con i grillini si svolge cosi: "Siete diventati ormai dei nemici dei pm esattamente come ilBerlusconi",diconoiM5S.Risposta:"Macché! Avete mai sentito parlare di un certo Cesare Beccarià". E vanno via questi due signori di mezza età con tessera Pd in tasca. Intanto alla kermesse furoreggia la proposta Graziano, che è pronta a diventare uno degli asset del Pd versione Matteo. Stefano Graziano, ex presidente dei dem campani, costretto a lasciare l’incarico a causa di una inchiesta di camorra che lo ha riguardato e da cui è uscito pulitissimo, la riassume così: "L’avviso di garanzia non può più essere il primo ingresso del malcapitato nel tritacarne politico-giudiziario, ma deve restare una cosa privata. Non divulgabile come un marchio d’infamia". Da Ermini (responsabile giustizia del Pd) e Verini (il veltroniano presente al Lingotto e specializzato in queste materie) e a tutti gli altri, il lodo Graziano viene preso come base della svolta garantista del Pd. Ma ecco sul palco il filosofo Biagio De Giovanni. Migliorista doc da oltre mezzo secolo. Iscritto al Pd dopo la sconfitta referendaria. Renzi nel retropalco lo guarda e approva, mentre il filosofo parla in mezzo ad applausi continui e ed ovazioni della platea. "C’è uno squilibrio tra politica e giustizia avverte il filosofo napoletano - che va corretto". Primo battimani. E il secondo: "L’Italia è l’unico Paese occidentale in cui si è verificata questa anomalia tutta nostrana: l’eliminazione per mano giudiziaria di una intera classe politica". Tesi eretica fino a qualche tempo fa. De Giovanni incalza: "No a una repubblica illegale. No alla repubblica giudiziaria. Le continue intrusioni dei magistrati nella vita politica rappresentano una stortura di cui tutti i democratici devono preoccuparsi profondamente". Ovazione. Poi interviene la Bonino, il garantismo fatta persona, considerando la storia dei Radicali, e se avesse parlato di giustizia la platea sarebbe esplosa in un entusiasmo pari all’odio che i vecchi comunisti rivolgevano a Marco Pannella quando parlava di garanzie. Ma da allora è cambiato tutto. E Emma avrebbe potuto dire, ma non lo ha voluto fare, che ogni svolta anti-giustizialista va salutata con gioia ma diventare garantisti per necessità, perché i pm hanno puntato il mirino a sinistra, è atteggiamento un po’ fragile e posticcio. E comunque sul tema giustizia i radicali stanno avendo in queste ore con il ministro Orlando, un dialogo che Rita Bernardini e anche la Bonino considerano proficuo. Ed è una sorta di rottura di un muro storico. Ma guai a farsi eccessive illusioni. Tommaso Nugnes, il figlio dell’assessore napoletano della Margherita che si tolse la vita nel 2008 perché sprofondato in una inchiesta giudiziario, da cui post mortem sarebbe risultato innocentissimo, doveva essere qui al Lingotto il piccolo grande testimonial della barbarie inquisitoriale, un po’ lo è stato (e il deputato orlandiano Khalid Chaouki polemizza: "Vergognoso tentare di strumentalizzare Nugnes") ma poi si è deciso di non esporlo troppo. Per un fatto umano, naturalmente, che attiene alle sofferenze personali sue e della sua famiglia. Ma forse anche per altre ragioni. Salvatore Margiotta, senatore dem lucano, stritolato da una inchiesta giudiziaria da cui è uscito vivo e pulito dopo grande travaglio, spiega: "Il sentimento della nostra gente sta cambiando a proposito dei magistrati. Non sono più eroi senza macchia e senza paura ma persone che possono sbagliare e talvolta lo fanno. Ma questa nuova consapevolezza, questa maturità culturale, nel pensiero delle persone di sinistra, è un processo non ancora completato". Lo dice anche Stefano Esposito, a sua volta senatore, a sua volta renziano, mentre il filosofo De Giovanni riscuote i suoi applausi garantisti: "Luciano Violante, che fu alfiere del giustizialismo, è tra i pochi che ha concluso il percorso verso il garantismo. Nel nostro popolo e nella nostra cultura resiste in parte l’atteggiamento per cui, se la magistratura apre un’indagine su qualcuno, scatta il riflesso condizionato: qualcosa di male quello deve aver fatto". Il che spiega forse una cosa: non è mai piena la riabilitazione politica, in casa dem, di chi è infangato da inchieste e poi però risulta estraneo. Vedi il caso Penati. Giustizia. Affondo renziano "l’avviso di garanzia resti segreto, basta gogne mediatiche" di Goffredo De Marchis La Repubblica, 12 marzo 2017 Anche se Matteo Renzi evita qualunque riferimento alla giustizia e all’inchiesta Consip, al Lingotto si respira uno spirito di rivincita contro i magistrati. E si farà sentire già oggi. A un tavolo di ospiti del sud, davanti al bar, siede Stefano Graziano, il presidente del Pd campano accusato di concorso con i casalesi e poi prosciolto sia dalla direzione antimafia che dalla procura. Dice che oggi quasi sicuramente parlerà dal palco. Per raccontare il suo calvario? Non solo. Sempre oggi è atteso Tommaso Nugnes. Suo padre Giorgio si tolse la vita a causa di due inchieste. Era assessore della giunta Jervolino, a Napoli. Fu arrestato in un’indagine che coinvolgeva Alfredo Romeo, lo stesso imprenditore oggi in carcere per la Consip. Romeo, per quella vicenda, fu assolto. Ma Giorgio Nugnes si era già suicidato. Dunque, la questione giustizia, il contrattacco ai magistrati esploderà nella sala torinese, con le testimonianze forti e dirette di due vittime del cortocircuito indagine- colpevolezza e soprattutto della "gogna mediatica" come la chiama Graziano. Il politico campano vuole mettere nero su bianco una proposta destinata a far discutere. "Come in Inghilterra l’avviso di garanzia non deve essere reso pubblico. Un indagato viene messo in piazza solo quando c’è il rinvio a giudizio". Non è la voce isolata di chi ha vissuto sulla sua pelle un’inchiesta conclusa con un nulla di fatto. "Se Stefano parla al Lingotto è solo un bene. Sostengo da molto tempo che vanno separate la carriere tra pm e giornalisti", dice il renzianissimo sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore. E la proposta di Graziano? "Ne discuteremo, è una delle soluzioni per rompere quella catena". Così il tavolo programmatico sulla giustizia è diventato il più interessante, il più esplosivo. Coordinato dal capogruppo in commissione alla Camera Walter Verini, un "moderato", con la relazione affidata a Davide Ermini, troppo renziano per polemizzare direttamente con la magistratura, può trasformarsi nell’occasione di riscossa grazie ad altre voci, compresa quella di Graziano. "Sono l’esempio di una giustizia che funziona. Ma anche la vittima di un sistema che può rovinare una persona innocente. E va fermato". Tra i molti interventi di oggi, da Bonino a Franceschini a Recalcati a Chiamparino al vice Maurizio Martina, quelli di Nugnes e Graziano rischiano di essere i più evocativi e di spezzare la cappa di silenzio che ieri ha regnato sulla vicenda Consip, dopo giorni di carte, rivelazioni, polemiche. Oggi sarà a Torino anche Luca Lotti, il braccio destro di Renzi, anch’egli indagato per rivelazione di segreto e sul quale pende la mozione di sfiducia 5stelle che verrà votata mercoledì in Senato. Che si dice tranquillo: "Nessuna preoccupazione per la sfiducia". Il Pd renziano ha voglia di difendersi pubblicamente dalle inchieste e di rilanciare contro il rapporto troppo stretto tra inchieste e notizie giornalistiche. L’antipasto del dibattito a Palazzo Madama potrebbe esserci al Lingotto. La storia di Nugnes ha un precedente "politico" nel percorso di Silvio Berlusconi. Il Cavaliere nel 2000 portò in Parlamento Chiara Moroni, la figlia di Sergio, deputato socialista che si tolse la vita e mandò il suo testamento morale al presidente della Camera di allora Giorgio Napolitano. Nugnes, oggi consigliere circoscrizionale a Napoli, ha affidato il suo pensiero a un post su Facebook: "Ringrazio Matteo Renzi per la sensibilità verso una storia dolorosa che portiamo ancora dentro di noi", scrive il figlio di Giorgio. Il suo non è un atto di accusa alla magistratura. Ma lo è al cortocircuito delle inchieste che finiscono sui giornali. Troppo presto e con troppa enfasi. "Purtroppo, le condanne spesso arrivano dalle prime pagine dei giornali, senza alcuna garanzia per gli indagati. Il mondo dei mass media deve interrogarsi sulla responsabilità da mantenere a tutela della dignità delle persone e del rispetto scrupoloso della verità", dice Tommaso Nugnes. ll Pd è tentato di girare la battaglia garantista contro Grillo. In questo senso la vicenda di Graziano è indicativa e può essere valida anche per il caso Lotti. Messo alla sbarra da Luigi Di Maio, campano come lui. Nel suo caso la responsabilità non era né politica né giudiziaria, anche se si autosospese dalla presidenza del Pd campano. Ma garantismo alla fine è solo una parola, un principio. Qui al Lingotto potrebbe diventare una proposta del Pd renziano. Legittima difesa. La legge controversa bloccata in Parlamento di Antonio Calitri Il messaggero, 12 marzo 2017 Le opposizioni vanno all’attacco sulla mancata riforma delle legittima difesa dopo il caso dell’oste di Casaletto Lodigiano, indagato per omicidio volontario, per aver sparato contro quattro ladri entrati nel suo locale e colpito mortalmente alla schiena un romeno di 28 anni. Un coro di protesta che va da Matteo Salvini a Silvio Berlusconi per una legge che un anno fa era approdata all’aula di Montecitorio per la votazione e poi tornò in commissione giustizia per ulteriori approfondimenti e lì rimasta ferma per 10 mesi. Dallo scorso 16 febbraio però, fanno notare dalle parti della presidenza della stessa commissione, la proposta di legge ha ripreso il percorso. Seppur al rallentatore. Ieri sulla questione della legge sulla legittima difesa è intervenuto Silvio Berlusconi, spiegando che si tratta di una sconfitta "prima di tutto per lo Stato, che non è in grado di svolgere la sua prima funzione" ovvero quella di "difendere la vita, la sicurezza e la proprietà dei cittadini. Quando una persona è costretta a difendersi da sola sarebbe assurdo che venisse perseguita per questo. La responsabilità di questa morte non è certo di chi si è difeso, è prima di tutto di chi ha aggredito la proprietà di una persona, e poi dello Stato che non ha saputo impedirlo". E poi, ha precisato che "non vogliamo certo un sistema nel quale ci si faccia giustizia da soli, è il contrario dello stato liberale, ma il diritto di difendere la propria incolumità, quella dei propri cari e delle proprie cose è un diritto naturale dell’uomo. Forza Italia vuole passare dalla legittima difesa al diritto alla difesa". Un gioco di parole al pari di quello coniato dal leader leghista Matteo Salvini, per il quale "la difesa è sempre legittima" e poi spiegando sulla sua pagina Facebook che "il Parlamento approvi subito la proposta della Lega sulla legittima difesa, sempre e comunque. Un morto è sempre una brutta notizia, ma se invece di rubare fosse andato a lavorare, quel tizio oggi sarebbe vivo. Io sto con il ristoratore, io sto con chi si difende!". D’accordo con Salvini anche la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni che dà la sua "solidarietà al ristoratore di Lodi" e spiega che "per Fratelli d’Italia la difesa è sempre legittima e se entri nella mia proprietà di notte per rubare, nella migliore delle ipotesi, io ho il diritto di difendermi". Anche lei poi ricorda che "per sancire questo sacrosanto principio, abbiamo già da anni depositato alla Camera una proposta di legge, arenata dalla sinistra che è sempre troppo impegnata a difendere i delinquenti e a farli uscire della galera piuttosto che a fare leggi per tutelare la sicurezza degli italiani". Anche la coordinatrice forzista della Lombardia, Maria Stella Gelmini, nella mattinata di ieri ha chiesto che "il Pd calendarizzi la mia proposta di legge sulla legittima difesa ferma in commissione da due anni. Basta tenere nel cassetto provvedimenti importanti per il Paese". Di fatto la legge sulla riforma delle legittima difesa calendarizzata in conto dell’opposizione era stata già discussa in commissione e il 21 aprile del 2016 approdò in aula. Una legge partita dalla proposta del leghista Nicola Molteni che prevedeva un solo articolo, considerato molto permissivo dalla maggioranza di centrosinistra che alla vigilia dell’arrivo in aula lo stravolse completamente tra le proteste del centrodestra. In aula poi Antonio Marotta di Area Popolare chiese il ritorno in commissione per ulteriori approfondimenti, richiesta passata con 160 voti di scarto e tra le proteste della Lega Nord che gridò all’insabbiamento. Ed effettivamente per 10 mesi, di questa legge si sono perse le tracce. Fino al 16 febbraio scorso quando la commissione giustizia, su pressioni della Lega Nord, ha di nuovo avviato l’esame della proposta Molteni, insieme alle altre proposte presentate sull’argomento presentate da La Russa (Fdi), Marotta (Ap) Faenzi (Ala), Gelmini (Fi), Fontana (Fi), Formisano (Mdp) ed Ermini (Pd). Da allora però, tutto è fermo perché nel frattempo la commissione si è dedicata ad altre leggi richieste dal calendario dell’aula, da quella sugli orfani degli omicidi domestici a quella sui testimoni di giustizia. Garantisti alla guerra del populismo di Tommaso Cerno L’Espresso, 12 marzo 2017 È il romanzo dell’Italia: crisi politica e giudiziaria. Una storia già vista. Orwell e chi è più uguale degli altri. Mentre Trump avanza. E resiste solo Draghi. Per ora. Tutto già visto. Il romanzo dell’Italia. Crisi politiche e giudiziarie. Caos e dibattiti auto-avvolgenti. Mentre il mondo cambia. Ma può essere davvero che nel 2017 un cittadino si senta confuso fra Trump e í pizzini con la "T" dell’inchiesta Consip? Fra le guerre nel mondo e una gita a Medugorje? E può essere che il Pd separi l’anima come l’Horcrux di Harry Potter fra clima globale e amici di tizio-caio che si intrufolano negli appalti? Fra garantismo e pena doppia per il babbo? Magari spalleggiati da Silvio Berlusconi. Delle due l’una: o la situazione in casa Renzi è così traumatica da dover ricorrere alla consulenza di un vero esperto in fatto di commistioni politico-giudiziarie, oppure la sinistra si è abituata negli anni a fare la "manettara" tanto da non ricordare bene cosa significhi in italiano la parola "garantismo" Il diritto cioè del cittadino comune, uguale davanti alla legge, dí avere garanzie costituzionali che gli consentano di difendersi di fronte all’ipotetico attacco di un potere dello Stato, nel caso specifico giudiziario. Bene, il caso Consip è il contrario. E andrebbe affrontato subito e solo in maniera politica. Liberando il campo da circoli di amici e vicini di casa. E ripetendo come un mantra che proprio nel nome del garantismo, il primo dovere di un ministro della Repubblica sarebbe quello di riprendersi lo status di cittadino normale, godere di tutte le garanzie costituzionali previste per la sua difesa, dimostrarsi innocente, riassumere l’incarico. Altrimenti potremmo sembrare la fattoria di George Orwell, nel suo cinismo più andreottiano, tutti a dire che siamo uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri. Facendo così non si batte il populismo. Anzi, facendo così là fuori si alimenta l’ondata di rabbia nel momento in cui la crisi (economica e valoriale) dell’Occidente costringe milioni di persone, in solitudine, a ripensare vita e futuro. Ecco perché il dibattito italiano suona così stonato. Ecco perché nessuno in Europa è credibile con le sue ricette, sembrano i conti alla ragionier Fantozzi mentre le famiglie arrancano inghiottite da una mutazione profonda del nostro essere società, del nostro diritto a un domani, del nostro mutarci in sindacato di esistenza contro poteri e mondi che sembrano prendersi tutto e non lasciare nulla. Vi state godendo il week end? Il Pd al gran ballo delle primarie partendo dal Lingotto. Con Renzi che cambia trama al film. E un effetto cinemascope: voto Emiliano e cambio canale, voto Orlando e metto in pausa, voto Renzi e chissà cos’altro può capitare, nel bene e nel male, in questa saga hollywoodiana a ritmi da action movie. Intanto, a occuparsi di fare da diga, ultima e solitaria, a un trumpismo dilagante, spalleggiato da Vladimir Putin (le montagne russe della nostra copertina) resta Mario Draghi, che in questo numero cerchiamo di raccontare. Ultimo - incredibilmente italiano - a tenere una rotta, almeno economica, in questa Europa senza unità politica. Mentre in Italia stiamo sospesi fra la guerra dei poveri e pizzini con la "T". Che non sappiamo a chi si riferisce. Ma certo non è la "T" di Trump. Chi critica l’ingiustizia dei giudici in politica di Aldo Grasso Corriere della Sera, 12 marzo 2017 Diceva Piero Calamandrei: "Quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra". Sante parole. Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia, bacchetta a dovere il governatore Michele Emiliano: "È un caso limite. Per un magistrato un conto è partecipare attivamente alla vita politica, mettendosi ovviamente in aspettativa. Altro è non solo iscriversi a un partito, ma entrare nella sua direzione, al punto da candidarsi alla guida". Difficile darle torto. C’è un però. Anche la Ferranti è magistrato. Prima al Csm ai tempi di Rognoni e Mancino e poi il salto in politica nel 2008: capolista Pd nel collegio Lazio 2. Non sono pochi i magistrati in aspettativa che siedono al Parlamento: Felice Casson, Anna Finocchiaro, Doris Lo Moro, Stefano Dambruoso, Cosimo Ferri, Domenico Manzione… In aspettativa, ma con avanzamenti di carriera! Una vera ingiustizia. La Costituzione all’articolo 51 garantisce l’elettorato passivo a tutti i cittadini, anche ai magistrati, ma prevede, all’articolo 98, che la legge limiti per le toghe, come per i militari, le forze dell’ordine, i diplomatici (di mio aggiungerei i giornalisti), l’iscrizione a un partito. Si può, certo, ma poi uno cambia mansione. Per certe professioni occorre essere e apparire al di sopra delle parti. E qui sta la fatale distinzione fra ciò che è legale e ciò che è legittimo. Si può imporre la legge, ma non la prudenza. Se torna di moda l’uomo forte di Romano Prodi Il Mattino, 12 marzo 2017 Per qualche decennio abbiamo vissuto nella convinzione che il progresso della democrazia fosse inarrestabile. Nei Paesi che già adottavano un sistema democratico si pensava che i diritti e i poteri del cittadino fossero destinati a crescere, insieme alla crescita di un sempre più stretto legame fra i cittadini stessi e i loro governi. Quando poi riflettevamo sui Paesi a regime autoritario o dittatoriale pensavamo che, in un tempo non infinito, si sarebbero anche loro incamminati verso un regime democratico, con una progressiva estensione dei processi elettorali. Osservando quanto sta accadendo oggi questa sembra essere più la descrizione del secolo scorso che di questo in cui viviamo: la politica mondiale si orienta quasi ovunque verso un aumento e non una diminuzione della concentrazione del potere. E sempre più spesso con un crescente consenso e sostegno popolare. Vediamo come stanno le cose in giro per il mondo. In Cina tutti gli osservatori concordano sul fatto che il presidente Xi Jinping ha accentrato in sé una somma di poteri superiore a quella che nessuno dei suoi predecessori aveva accumulato negli ultimi trent’anni. Un’evoluzione simile si è verificata in Russia dopo la fine dell’Unione sovietica. Parallelo è il cammino della politica turca, mentre la concentrazione del potere si fa strada anche in India e in molti altri paesi asiatici. Lo stesso avviene nel continente africano, indipendentemente dall’esistenza di formali consultazioni elettorali. Molti di noi hanno seguito con interesse e approvazione le statistiche dell’Onu che plaudivano all’aumento del numero di paesi africani che finalmente avevano adottato un sistema di competizione elettorale, salvo poi accorgerci che le elezioni sono sempre più spesso servite per autorizzare il vincitore (o presunto tale) ad esercitare un potere personale assoluto sull’intero paese. Tanto è vero che i conflitti politici più frequenti nel continente africano riguardano capi di stato formalmente eletti che non vogliono scendere dal trono dopo latine del mandato previsto dalla Costituzione. Negli Stati Uniti e in Europa le cose stanno diversamente ma il cammino procede nella stessa direzione, cioè verso l’accentuazione della delega del potere ad una singola persona e quindi verso una crescita della prospettiva autoritaria. L’elezione di Trump è il caso più significativo ma evoluzioni ancora più spinte avvengono in molti paesi europei, cominciando dalla Polonia e dall’Ungheria dove il processo di attenuazione delle regole democratiche ha già raggiunto il suo compimento. L’indebolimento dei partiti tradizionali spinge ad accelerare il cammino verso questa concentrazione di autorità anche nelle democrazie più consolidate della nostra Europa, dove le sfide politiche sono sempre più personali e tendono a perdere ogni contenuto programmatico. In questa linea si collocano in pieno i nuovi movimenti populisti che (escluso forse il caso della Germania) nascono e crescono affidandosi ad un unico, indiscusso e intoccabile leader come Marie Le Pen in Francia, Bepp e Grillo in Italia o Gert Wilders in Olanda. Quello che più sorprende è che molti partiti tradizionali tendono a imitarli, scavandosi così la fossa! Come giustamente scrivono autorevoli scienziati-politici (Yascha Mounk e Roberto Foa) stiamo assistendo ad un radicale cambiamento della democrazia: da una fase in cui il sistema democratico viene ritenuto naturalmente legittimo per il fatto che i cittadini possono discutere e votare, stiamo passando ad una fase in cui la gente non è più legata alle istituzioni in quanto può partecipare alla loro costruzione, ma solo per i risultati concreti che esse promettono in termini di crescita economica e sicurezza, qualsiasi sia il modo con cui questi risultati sono ottenuti. Nei periodi di crisi e di insicurezza, come quello in cui viviamo, l’insoddisfazione per i risultati ha naturalmente raggiunto livelli più elevati: si afferma sempre più la spinta verso l’abbandono delle tradizionali espressioni della volontà popolare e verso l’affidamento del ruolo di guida ad una sola persona. Salvo poi accorgersi, in molti casi troppo tardi, che il tutto si reggeva su ipotesi non realistiche e non verificate. Nel frattempo, però, l’affievolimento delle tradizionali regole democratiche porta al potere leader sempre più improbabili, leader che, sostenuti da un contesto democratico fragile e solo apparentemente partecipativo, sono spinti a fare affidamento esclusivamente sul proprio carisma, con la quasi certezza di compiere proprio quegli errori che ancora più allontanano il raggiungimento dei risultati promessi. Non è facile prevedere dove questa tendenza ci porterà in futuro, anche se essa non può che indebolire ulteriormente i già deboli poteri che la tradizionale democrazia ha affidato ai cittadini. È tuttavia un fatto chiaro ed assodato che, in questo modo, le nostre democrazie hanno perso tintala capacità attrattiva che in passato avevano nei confronti dei regimi autoritari. È infatti difficile predicare agli altri le virtù di un sistema dal quale ci stiamo allontanando. Marche: "Oltre le sbarre", il volontariato in carcere alla ricerca di una nuova identità di Teresa Valiani Redattore Sociale, 12 marzo 2017 Ieri la prima riunione dell’organismo promosso dal Garante dei diritti delle Marche. I temi: la carenza di risorse, la necessità di una formazione comune e il riconoscimento del ruolo dei volontari. Il presidente del Consiglio regionale Mastrovincenzo: "Interventi per garantire i fondi" Riunire intorno a un Tavolo tecnico le diverse anime del carcere, dai direttori ai volontari, dagli operatori agli amministratori regionali, dal Prap (provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria) all’Uepe (ufficio esecuzione penale esterna) per avviare una rete di contatti e collaborazioni che possa offrire una nuova identità al volontariato carcerario e un sostegno più incisivo agli istituti penitenziari alle prese con il delicato momento storico e i problemi mai risolti. Non ultimo, quello del sovraffollamento, tornato d’attualità anche nelle Marche. È l’intento del Garante regionale dei diritti, Andrea Nobili che questa mattina ha dato il via al nuovo organismo attraverso una prima riunione che ha visto protagonista una rappresentanza del mondo del volontariato carcerario. "Ci troviamo - ha detto Nobili - in un momento estremamente complicato anche per il nostro sistema carcerario, caratterizzato da vecchie e nuove criticità. Quello svolto dal volontariato è un lavoro importante, che permette di concretizzare un significativo ponte verso l’esterno". L’invito a realizzare una rete "che poggi le basi sulla collaborazione e sullo scambio di esperienze" è stato esteso ad associazioni, ministri di culto di diverse confessioni religiose, rappresentanti della stessa amministrazione penitenziaria, assessori e consiglieri regionali. Entrando nel merito delle criticità, Nobili ha evidenziato che "qualche anno fa, grazie ad alcune misure tampone, il sovraffollamento era rientrato nei parametri della normalità. Oggi, cessati quegli interventi, gli indicatori tendono a segnalare la possibilità di un aumento della popolazione carceraria anche nelle Marche. Il sistema ha delle lacune molto evidenti, i tassi di recidiva sono in Italia tra i più alti in Europa, la finalità rieducativa della pena segna il passo". Problemi strutturali, comuni alle carceri di tutta Italia, a cui si aggiunge la carenza di risorse. "La Regione - ha sottolineato il Garante - tenta, per quanto di sua possibilità, di fornire alcune risposte, ma i trasferimenti nazionali sono sempre di meno. Senza risorse vengono meno progettualità e percorsi da seguire, non si possono sostenere strumenti adeguati per le attività trattamentali e per il reinserimento lavorativo". In questa direzione, da parte del presidente del Consiglio, Antonio Mastrovincenzo, presente all’incontro, l’impegno di portare all’attenzione dell’Assemblea legislativa le istanze e le proposte provenienti dal mondo del volontariato, nonché la convinzione di sostenere altre iniziative per le attività trattamentali, ritenute indispensabili: "Dobbiamo dare la possibilità a chi vuole cambiare di poterlo fare. Abbiamo già segnalato numerosi problemi attraverso una mozione approvata dall’Aula, continueremo a monitorare la situazione e ad intervenire affinché nei capitoli del bilancio regionale non vengano a mancare risorse in questa direzione". Presente al Tavolo, denominato "Oltre le sbarre", anche il Cardinale Edoardo Menichelli che ha focalizzato l’attenzione sul volontariato come fattore educativo, sorretto da motivazioni personali e pubbliche. I lavori, che hanno visto anche la partecipazione del consigliere regionale Gianni Maggi, sono proseguiti con un esame della situazione dei diversi istituti di pena: numeri, dati, progetti e criticità si sono alternati alle esperienze dei volontari che hanno portato il proprio contributo raccontando lo svolgimento dell’opera quotidiana e avanzando proposte su come migliorare la collaborazione con il carcere. Tra queste: la richiesta di avviare un percorso di formazione comune, la necessità di attivare momenti di confronto, di cui la riunione odierna potrebbe essere un primo avvio, e il riconoscimento del valore e del ruolo del volontariato. "È fondamentale - ha detto il Cardinale Menichelli - rovesciare la cultura della pena totale, della repressione, del marchio di Caino. Dobbiamo far capire, intervenendo a partire dalla scuola, che la pena non basta. Il volontariato non può essere interpretato come supplenza. Va motivato umanamente e socialmente". Calabria: Ruffa (Pr), sciopera per la legge regionale sul Garante dei detenuti lameziaoggi.it, 12 marzo 2017 "Mentre il progetto di legge regionale per l’istituzione del garante dei detenuti marcisce ormai da due anni nei cassetti della partitocrazia calabrese, personalmente continuerò a digiunare per lo Stato di Diritto e perché almeno si discuta la legge che consentirebbe di avere carceri più umane e tese al dettato costituzionale che prevede che la pena abbia come fine la rieducazione e il reinserimento sociale delle persone private della libertà". Così Rocco Ruffa, militante del Partito Radicale Nonviolento, da 15 giorni in sciopero della fame, aggravato per un giorno con uno sciopero della sete, per sostenere l’ex parlamentare Rita Bernardini (pure lei ha digiunato per oltre un mese interrompendo lo sciopero dopo aver incontrato il Ministro della Giustizia Andrea Orlando) e per chiedere al presidente della regione Oliverio e al presidente del Consiglio Regionale Nicola Irto, di almeno discutere il progetto di legge regionale per l’istituzione anche nella nostra terra del Garante regionale delle persone private della libertà personale. "Parlare di carcere" - si legge ancora nel comunicato- "è estremamente impopolare, lo è sempre stato da quando esistono i mezzi di informazione, eppure -nostro malgrado -, nonostante i Diritti Umani stiano a cuore a tutti, troppo spesso succede che anche nelle carceri calabresi, alla privazione della libertà si aggiunge la privazione del diritto alla salute, allo studio, alla rieducazione mediante attività lavorative e, in sostanza, della dignità umana. Nelle visite in tutte le nostre dodici carceri fatte con Giuseppe Candido come delegazione del Partito Radicale, spesso abbiamo incontrato celle stracolme, detenuti costretti ad oziarvi 22 ore al giorno, carenza cronica di cure mediche, di educatori, di agenti e la conseguente impossibilità di accedere a percorsi di recupero prima di rientrare da cittadini liberi nella società. È per tutte queste ragioni - conclude Ruffa - che urge anche in Calabria l’istituzione del Garante dei detenuti e per questo non molliamo quella che consideriamo una battaglia per un ulteriore passo di civiltà della nostra terra". Trento: "Niente maltrattamenti al carcere di Spini. Ma i detenuti sono 380 per 240 posti" trentotoday.it, 12 marzo 2017 Con una nota unitaria i sindacati di polizia penitenziaria (Sinappe, Cisl, Uspp e Cgil), rispondono alle notizie di presunti maltrattamenti nei confronti dei detenuti nel carcere di Spini di Gardolo. "Ci sembra superfluo evidenziare che vivendo in un clima di restrizione sproporzionata di questo tipo - dai 240 detenuti che può accogliere la struttura ai 380 attuali - anche i detenuti sono sofferenti e non godono come potrebbero delle attività sportive, ricreative, lavorative e scolastiche che offre l’istituto penitenziario, ma tutto il personale che vi opera, sia civile che appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria si adopera oltre le loro possibilità per rendere vivibile al meglio la restrizione dei detenuti, Ma da qui a parlare di maltrattamenti, aggressioni, ce ne vuole". Con una nota unitaria dei sindacati di polizia penitenziaria (Sinappe, Cisl, Uspp e Cgil), rispondono alle notizie di presunti maltrattamenti nei confronti dei detenuti nel carcere di Spini di Gardolo a Trento nord. Il riferimento è al sondaggio organizzato dalla camera penale di Trento tra i carcerati del locale istituto penitenziario: 170 detenuti, su 370 totali, si sarebbero prestati ad un questionario sulle loro condizioni di vita in carcere, definite di sofferenza da alcuni e di maltrattamenti da altri, ad opera del personale di polizia penitenziaria. A Trento prestano servizio 125 Poliziotti Penitenziari e i detenuti sono 380 (rapporto di oltre 1 a 3). Volendo rimanere vicini alla realtà trentina, nella Casa Circondariale di Verona, prestano servizio 300 Poliziotti Penitenziari e i detenuti sono 460 (rapporto di 1 a 1,5). I Poliziotti scaligeri, nel rispetto del contratto di lavoro espletano tranquillamente servizio per 36 ore settimanali nel pieno rispetto del contratto di lavoro di categoria. Quelli trentini inevitabilmente, considerata la carenza di personale, per 48 ore settimanali e con un carico di lavoro pressoché triplo. La reazione dei sindacalisti è ferma: "Noi non possiamo più accettare che persone presumibilmente a caccia di visibilità o molto più probabilmente di pubblicità, si permettono di rappresentare situazioni di maltrattamenti da parte dei poliziotti penitenziari, lamentati da detenuti che nell’anonimato non descrivono giorno e fatti in cui sarebbero stati perpetrati i maltrattamenti. Ma di cosa parliamo allora? Se non di buttare fango gratuitamente su onesti uomini e donne in divisa che di giorno e di notte, nei giorni feriali e nei giorni festivi, in condizioni lavorative non più descrivibili continuano in modo encomiabile a prestare la loro attività al servizio dello stato per la sicurezza dei cittadini", si legge nella nota. Trieste: domani il Partito radicale in visita al carcere Coroneo triesteprima.it, 12 marzo 2017 Sarà presente Rita Bernardini del Partito Radicale e presidente di Nessuno tocchi Caino, che è stata per 32 giorni in sciopero in favore della riforma dell’ordinamento penitenziario. Una delegazione del Partito Radicale condotta da Rita Bernardini visiterà il carcere di Trieste: lunedì 13 marzo alle 11 e sarà accompagnata da Andrea Michelazzi e Marco Gentili. Rita Bernardini, componente della presidenza del Partito Radicale e presidente d’onore di Nessuno tocchi Caino, è stata per 32 giorni in sciopero della fame (oggi sospeso dopo l’incontro con il Ministro Orlando) per chiedere che la discussione e l’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario venga estrapolata dal complessivo pacchetto giustizia. Una riforma importante perché prevede punti essenziali per rendere legale l’esecuzione penale: incremento della possibilità d’accesso alle pene e alle misure alternative anche per i recidivi, maggiori possibilità di lavoro, di formazione e di studio sia in carcere che una volta usciti, giustizia riparativa e apertura del carcere alla società esterna, accesso alle cure, particolare attenzione e riguardo ai tossicodipendenti e ai malati psichiatrici, effettivo diritto all’affettività affinché la persona reclusa mantenga rapporti stabili con i familiari, in particolare con i figli minori. San Gimignano (Si): quando il cibo rompe le sbarre di Chiara Affronte Il Tirreno, 12 marzo 2017 Quando il cibo non è solo nutrimento ma è passione, studio, ricerca, cura e sperimentazione conditi con una buona dose di visionarietà, allora può accadere che riesca a far sentire libero anche chi, invece, fisicamente, si trova dentro ad un carcere, dove i cancelli si chiudono dietro le spalle, ogni volta che li oltrepassi. Quando, poi, questa visione del mondo, osservato dal punto di vista dei sapori e del gusto, si traduce in un blog che, attraverso la rete, permette un dialogo e uno scambio con l’esterno, allora la libertà appare più forte, dentro, nel profondo. È quanto accade a Renza, nei pressi di San Gimignano, dove da sei anni, dentro alla Casa di reclusione, è attiva una scuola, l’Istituto enogastronomico Ricasoli, in cui studiano un’ottantina di detenuti - dai 24 ai 60 anni - che stanno scontando una pena definitiva nelle sezioni di media e alta sicurezza del carcere. l’Istituto enogastronomico Ricasoli a Renza, nei pressi di San Gimignano, da sei anni è attivo nella locale Casa di reclusione. Il suo blog è scriviamo con gusto Lì, tra quelle mura, studiano seriamente, come i loro colleghi che stanno all’esterno, più giovani, nella sede centrale dell’istituto, perché "ciò che da subito abbiamo voluto per questa scuola nel carcere, è la serietà del percorso didattico, che ha un ruolo fondamentale nel processo di rieducazione. Non facciamo sconti a nessuno, il fatto di essere in carcere per noi non può essere una scusa per frequentare una scuola in cui sia facile prendere un diploma, che sia spendibile una volta fuori - ci tiene a precisare Gilda Penna, la referente per il carcere della scuola, dove insegna italiano e storia. Siamo convinti che l’istruzione e la cultura possano davvero rendere liberi, pretendiamo molto dai nostri studenti che sono molto motivati, si impegnano tantissimo e le soddisfazioni sono loro e nostre. Ed è proprio grazie a questo loro impegno che possiamo anche andare oltre a ciò che richiedono i programmi e pensare ad altri progetti come quello del blog". Un primo ciclo di cinque anni si è già concluso con i primi diplomati e l’esperienza non solo prosegue, ma si irrobustisce con la nascita del blog Scriviamo con gusto, ideato dalla professoressa Penna con insieme alla collega Laura Staiano che insegna francese: uno "spazio" condiviso in cui i detenuti-chef comunicano all’esterno le loro nuove creazioni culinarie, raccontandone la genesi, le motivazioni culturali e le emozioni che le hanno prodotte. Una brigata di cuochi in carriera "Mentre eravamo presi dalla preparazione del piatto, ci è sembrato di non essere in carcere, ma di far parte di una brigata di cuochi in carriera… E chi lo sa, forse un giorno lo saremo!", raccontano i ragazzi del IV anno mentre parlano e descrivono il loro "Sushi ellenico", un piatto pensato per unire luoghi lontani del mondo: "La scelta di preparare il sushi nasce da un nostro grande desiderio: vivere la vita nel tentativo di riscoprire i piaceri e i sapori del mondo". Quei piaceri che, quando si è costretti tra quattro mura recintate ogni giorno, si avvertono ancora più vivi e forti, soprattutto se producono un’emozione: "Quando in cucina assemblavamo il piatto siamo stati tutti assaliti da un’inaspettata emozione, difficile da spiegare anche a giorni di distanza… Forse quell’emozione era dovuta al fatto che, nonostante le difficoltà iniziali, siamo ugualmente riusciti a raggiungere l’obiettivo prefissato". L’obiettivo, appunto, uno scopo, ciò che spesso manca nel carcere, perché se il fine ultimo è la rieducazione, è difficile costruirsi una ragione quotidiana necessaria per raggiungere quell’obiettivo finale. Ed ecco che la scuola e, in più, quel "dialogo virtuale", tra dentro e fuori, può avere un ruolo molto importante sotto vari aspetti: "Le ricette pubblicate sul blog sono frutto di un lavoro di gruppo completo, anche didatticamente", spiega Gilda Penna. Si sceglie un tema e si lavora su quello: il mondo, il limite, i sensi, alcuni degli esempi. "Poi attorno a questo tema i ragazzi costruiscono una ricetta in base alla quale, a partire dagli ingredienti, incrociano le altre materie, la storia, l’italiano, la scienza dell’alimentazione. Si studiano le origine degli alimenti, si riflette sui concetti per comunicare le emozioni e si fanno ricerche dal punto di vista nutrizionale". "Limiti di paura, limiti d’amore, limiti inconsapevoli mettono in catene i miei sentimenti… Ricordo i mille baci di mia madre, i passi incerti da bambino, l’amore perduto, il calore di un saluto sincero, il rumore del mare, il colore e i sapori del mondo. Non sento più dolore né il peso delle mie catene perché so di oltrepassare i miei limiti stringendo un felice pensiero". Già in questi pochi versi pubblicati da un detenuto-studente sul blog è racchiuso, in fondo, il senso di questa esperienza, che a partire dal cibo costruisce un ponte ideale e un dialogo con l’esterno, molto utili per diventare persone nuove. Ed è proprio il tema del processo rieducativo uno di quelli emersi con forza durante la competizione culinaria che si è svolta lo scorso anno scolastico tra i ragazzi dell’Istituto ‘fuorì dal carcere e gli studenti-detenuti del Ricasoli, che, per pochi punti, si sono aggiudicati la vittoria. "È’ stata un’esperienza molto bella che ripeteremmo volentieri - il giudizio dei giovani studenti: entrare nel carcere all’inizio ci ha messo un po’ di ansia, ma poi conoscendoli e chiacchierando insieme, i detenuti ci sono sembrate persone normali, come noi", che hanno fatto degli errori, ha aggiunto un membro della commissione, Claudia Cerati proprietaria di un ristorante di San Gimignano, ma che oggi "dicono di sentirsi persone diverse, nuove, e sembra proprio che sia così". Aversa (Ce): canzoni e cabaret per celebrare la festa del Papà con i detenuti contrastotv.it, 12 marzo 2017 Canzoni e cabaret per celebrare la festa del papà anche all’interno della Casa di Reclusione di Aversa (ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario). Ancora una volta istituzioni, associazioni e artisti scendono in campo per testimoniare con l’arte vicinanza e solidarietà a quelle persone che la vita ha riservato un percorso di sofferenza e tristezza. Un senso di malinconia e smarrimento che si accentua ancor di più con l’approssimarsi di particolari ricorrenze che esaltano i valori della famiglia e l’amore delle persone care. Proprio come avviene, ad esempio, in occasione della festa del papà. Una celebrazione che vissuta tra le mura della Casa di Reclusione di Aversa assume ben altri significati alla luce di una situazione di privazione e di allontanamento dal proprio contesto affettivo suscitando in ciascuno uno stato di angoscia e quasi di impossibilità di riscatto. Al contrario eventi come quello che si terrà giovedì 16 marzo ‘17, a partire dalle ore 17.00, presso il teatro della struttura aversana dell’Amministrazione Penitenziaria, vogliono offrire ai detenuti - che per l’occasione godranno della compagnia dei loro familiari - la consapevolezza di un orizzonte di speranza e di un affrancamento possibile dal "male" che li attanaglia. L’iniziativa è promossa d’intesa tra l’Associazione Casmu, presieduta da Mario Guida, la Rassegna Nazionale di Teatro scuola PulciNellaMente, guidata dal direttore Elpidio Iorio, i vertici della casa di Reclusione normanna, ovvero la direttrice Elisabetta Palmieri, il comandante commissario Luigi Mosca, il capo dell’area pedagogica Angelo Russo. Si avvale, inoltre, del patrocinio dei Comuni di Aversa, rappresentato dal sindaco Enrico De Cristofaro, Sant’Arpino, dal sindaco Giuseppe Dell’Aversana, Cesa, dal sindaco Enzo Guida, e Carinaro, dal sindaco Marianna Dell’Aprovitola. Lo spettacolo prevede un originale quanto coinvolgente "viaggio" alla ricerca delle gemme lucenti e intramontabili della musica classica napoletana. Ad accompagnare i presenti in questo emozionante cammino sarà l’artista Gino Da Vinci (figlio dell’indimenticabile Mario Da Vinci e fratello del più noto Sal). Ospite d’onore sarà Antonio Buonomo, l’ultimo artista vero della tradizione partenopea, maestro della sceneggiata. Il cabarettista Sasà Ferrara regalerà momenti unici di comicità autentica e di qualità che renderà ancora più coinvolgente l’evento che sarà presentato dalla bravissima Patrizia Mazzola. La direzione artistica della serata è affidata al maestro Sio Giordano, quella tecnica a Salvatore Conte. Nicola Perfetto curerà gli addobbi floreali, mentre l’Associazione Artistica "Borgo e Musica - Aversa" si occuperà di animazione. Dell’organizzazione fanno parte anche la psicologa Anna Costanzo e la sociologa Enza Barbato. Un buffet di prodotti tipici della tradizione enogastronomica aversana, gratuitamente offerto da "La fonte del Dolce" e dal Ristorante "Re del Gusto" di Aversa, concluderà piacevolmente l’evento. Un plauso infine per il prezioso supporto va ai volontari della Protezione Civile di Cesa e alla "M. Music" di Trentola Ducenta per la fornitura gratuita di strumenti musicali. Rai4: "La scuola della notte", prima web serie girata nel carcere minorile Beccaria ufficiostampa.rai.it, 12 marzo 2017 È la prima web serie girata nel carcere minorile Beccaria di Milano, cinque episodi on line e un’unica puntata per la tv, che racconta la storia di Federico, un ragazzo di 16 anni pronto ad affermarsi nel mondo del microcrimine del suo quartiere: è "La Scuola della Notte", nuovo progetto multicanale di Rai Fiction in onda domani domenica 12 marzo alle 00.15 su Rai4. Non potendo uscire dal penitenziario, gli attori-detenuti hanno girato tutte le scene su green screen, cioé in uno spazio in cui gli ambienti della storia erano stati ricreati digitalmente. Il risultato è un trattamento fumettistico ispirato ai classici della graphic novel noir, ma anche alla fantascienza lisergica di pellicole quali "Blade Runner" e "A scanner darkly". In un quartiere di periferia in cui le prevaricazioni e l’illegalità sono all’ordine del giorno, la storia racconta la scelta di Federico di replicare gli stessi meccanismi criminali del suo giro, senza accontentarsi di entrare nella banda dello spaccio, ma cercando lo scontro direttamente con il boss del quartiere. Ma nella "Scuola della Notte" ci sarà un colpo di scena… Alessandro D’Alatri, regista di cinema, già vincitore nella sua lunga carriera di due David di Donatello, ha saputo dirigere con passione i ragazzi del Beccaria, completamente digiuni o quasi di recitazione. La colonna sonora è composta dal riarrangiamento di brani rap scritti dai giovani detenuti che rappresentano bene gli stati d’animo descritti dalla fiction. Al progetto hanno voluto partecipare anche due attori professionisti: Marco Palvetti, che ha partecipato alla serie televisiva "Gomorra", e Mino Manni, interprete per grandi registi italiani, quali ad esempio Marco Bellocchio e Michele Placido. Quando i salvatori entrarono nei Lager. Storia di una liberazione senza felicità di Corrado Stajano Corriere della Sera, 12 marzo 2017 La mortale apatia dei detenuti e lo "strano imbarazzo" di Alleati e sovietici: l’indagine di Dan Stone Si immagina la fine della Seconda guerra mondiale nei Lager nazisti come una festa, un tripudio di voci, le mani dei sopravvissuti vicino ai cancelli, sotto quell’indecente scritta Arbeit macht frei (il lavoro rende liberi) ad applaudire i soldati russi, americani, inglesi, di altre nazionalità finalmente arrivati. Il sogno esaudito. Non fu così. Quegli scheletri di uomini e di donne dei Lager, con ancora una fiammella di vita nei corpi macerati, erano passivi, incapaci di provare anche un barlume di gioia. Il libro di uno storico inglese, Dan Stone, uno dei maggiori studiosi di quell’obbrobrio, lo documenta nel suo nuovo saggio, "La liberazione dei campi. La fine della Shoah e la sua eredità" (Einaudi). È un libro atroce, che riempie di angoscia e ripropone le eterne amare domande prive di risposta: che cosa accadde mai nel Novecento nel cuore d’Europa? Come fu possibile una simile tragedia senza modelli? Il britannico Dan Stone, che sull’argomento ha scritto una quindicina di libri, non è un accademico schizzinoso nei confronti della storia orale, come spesso accade. Il suo libro è fondato su un’infinità di voci scritte e parlate, diari, fotografie. Ne fa buon uso: "Non mi sono servito, scrive, delle testimonianze in maniera acritica, bensì ispirandomi al principio generale di accogliere quelle che, nel novero delle numerosissime disponibili, tendono a concordare fra loro. Inoltre alle testimonianze s’accompagnano i rapporti e le relazioni ufficiali, i resoconti giornalistici, le dichiarazioni dei soldati liberatori e del personale incaricato dell’accoglienza, la documentazione fornita dalle organizzazioni assistenziali (...). Non ci sono molte ragioni per temere che i racconti dei testimoni oculari siano fasulli". "Alcuni aspetti della Shoah rimarranno sempre oscuri o comunque sfuggiranno alla nostra completa comprensione (...). Una sensazione è destinata a rimanere immutata nel tempo: l’alone di mistero che continua ad avvolgere l’enormità dei misfatti e di chi collaborò con loro". Quel giorno, dunque, nei Lager liberati, i più noti Auschwitz, Dachau, Mauthausen, Bergen-Belsen, Buchenwald, Treblinka, nei meno noti, Gross-Rosen, Gusen, Theresienstadt, Flossenbürg, Ravensbrück, Sachsenhausen e negli innumerevoli piccoli campi e sottocampi che coprirono la Germania, la Polonia, l’Austria, l’Ungheria, la Slovacchia e i commissariati del Reich in Ucraina e nei Paesi baltici: che cosa accadde? "Soldati in uniformi straniere osservavano a bocca aperta, sbigottiti, dalle torrette dei loro carri armati la massa di rinsecchiti e spettrali spaventapasseri avvolti in luridi stracci a strisce (...). I soldati all’interno e sopra i carri armati sembravano spaventati. Si guardavano intorno come se non volessero scendere tra noi e mescolarsi con noi (...). Noi sembravamo troppo per loro. Questi occhi incavati e questi corpi scheletrici. Questi subumani puzzolenti. Noi" (Max R. Garcia, nederlandese, internato nel campo di Ebensee, vicino a Mauthausen). "Non sorridevamo, non eravamo felici, eravamo apatici... e i russi arrivarono. Entrò un generale, era ebreo. Ci disse di essere molto lieto perché questo era il primo campo in cui aveva trovato delle persone ancora in vita. Scoppiò a piangere, noi no. Lui piangeva e noi no" (Bela Braver, polacca trentenne, internata a Lichtewerden in Cecoslovacchia). "Avevo sempre pensato e immaginato tra me e me che questo momento avrebbe avuto qualcosa di particolarmente entusiasmante, magari di sconvolgente, ma soprattutto di festoso. Non provai nulla di tutto ciò. Nessuna felicità, nessun entusiasmo, solamente un vuoto disperante e una paura terribile, paura di andare a casa, paura suscitata dalla domanda di che cosa vi avrei trovato, chi avrei atteso invano. Questo occupava la mia testa (...). Ero incapace di essere felice" (Lisa Scheuer, liberata a Mauthausen dagli Alleati). È un libro crudo, questo di Dan Stone, un verbale della memoria. Nei campi raggiunti dai russi il numero dei sopravvissuti era minore rispetto a quello dei campi raggiunti dagli Alleati. L’Armata Rossa liberò gli ebrei della Transnistria, in Ucraina, tra i fiumi Dnestr e Bug dove 380-400 mila internati erano stati trucidati, liberò Auschwitz dove era prigioniero Primo Levi, Häftling numero 174517 tatuato sul braccio sinistro. Nel suo La tregua ricordò così il momento della liberazione: "Quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi coi mitragliatori imbracciati (...). Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi". I nazisti, per tentar di distruggere le prove dei loro misfatti alla fine della guerra avevano fatto saltare in aria gli edifici di certi Lager e avevano organizzato le "marce della morte", come poi verranno chiamate, tremendi trasferimenti a piedi per giorni e giorni dei prigionieri malati, affamati, deboli - una nuova Shoah - anche per evitare che finissero in mano al nemico. Per questo l’Armata Rossa che avanzava da Est trovò certi campi deserti o semideserti. Ai tempi della Guerra fredda, si fece di tutto poi per cancellare l’importanza dell’Unione Sovietica, coi suoi 15 milioni di morti nella "guerra patriottica". Dan Stone affronta l’argomento: "Poiché l’Armata Rossa aveva effettivamente sconfitto il fascismo, è deplorevole che questo fatto sia stato obliterato seppure in un contesto di peraltro legittima condanna del comunismo. Diventa così necessario narrare la fine della Shoah per garantire il giusto riconoscimento del ruolo avuto dall’Armata Rossa". Il libro tocca e approfondisce un’infinità di problemi legati alla Shoah. Gli ebrei furono il bersaglio del nazismo, ma non vanno dimenticate le altre vittime, i milioni di soldati russi uccisi, i politici, gli antifascisti, i comunisti, i militari, gli omosessuali, i rom. L’economia del Lager era profondamente intrecciata con le economie locali, nazionali e internazionali. Pochi storici, scrive Dan Stone, continuano a credere che la popolazione civile tedesca, austriaca e polacca delle zone vicine non sapesse cosa fossero quei campi coi loro fumi che uscivano dai camini. E non si capisce neppure come mai gli Alleati che possedevano minuziose piante aeree dei Lager non abbiano fatto nulla o quasi negli anni della guerra. Dan Stone racconta le differenze tra i campi di lavoro coatto, i campi di concentramento e quelli di sterminio, spiega chi furono i Kapo e i prigionieri-funzionari, fa rivivere l’orrore del Lager, le camere a gas, la fabbrica della morte, il suo odore. Racconta anche il dopo, i campi degli sfollati dove furono accolti i reduci dai Lager, soprattutto gli ebrei senza patria fino alla proclamazione dello Stato d’Israele, spiega le questioni del sionismo, i sospetti e i rispuntati conflitti tra le nazioni. Ma sono le voci delle vittime a restare impresse nella mente e a far male al cuore. Alisah Shek, una ragazza di 17 anni, prigioniera ad Auschwitz, due giorni prima della liberazione, il 27 gennaio 1945, scrive sul suo diario: "C’è ancora silenzio in me... Sono stanca, il mondo mi ha stancato per sempre". Se dopo gli Opg il rischio è avere nuovi manicomi di Margherita De Bac Corriere della Sera, 12 marzo 2017 Le due associazioni che più si sono battute per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, StopOpg e Antigone, segnalano il pericolo di un ritorno al passato. Le residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria (le Rems), create per accogliere i detenuti con problemi di mente, rischiano di trasformarsi in nuovi manicomi criminali. Questi centri, infatti, a pochi giorni dalla completa applicazione della riforma del 2014 (abolizione dei cosiddetti ergastoli bianchi) si stanno riempiendo di persone che non dovrebbero finire lì. I giudici tendono a utilizzare le 30 Rems italiane, deputate al recupero terapeutico, come parcheggio di indagati sottoposti a misure di detenzione provvisoria la cui infermità mentale non è stata ancora accertata. Il fenomeno ha creato lunghe liste di attesa. In circa 200, segnala nella sua relazione l’ex commissario per la chiusura degli Opg Franco Corleone, su ordinanza della magistratura aspettano di entrare nelle residenze senza possedere i requisiti. Non finisce qui. La situazione diventerebbe ancora più grave se fosse approvato l’attuale testo del ddl giustizia, ora in Senato, che propone di ricoverare nelle Rems anche detenuti con problemi psichiatrici sviluppati in carcere. Esattamente come accadeva nei vecchi Opg. Un emendamento depositato su iniziativa della senatrice Emilia Di Biasi vorrebbe correggere la doppia stortura per non alterare l’identità dei nuovi centri. Così come viene interpretata adesso la riforma non può decollare. Decreti sicurezza e immigrazione, il Pd continua a inseguire le destre di Andrea Colombo Il Manifesto, 12 marzo 2017 In nome del decoro urbano si colpiscono i writers come fossero criminali. Passano gli anni, anzi i decenni, cambiano i nomi del partito e spuntano nuovi segretari. Però il vizietto di inseguire la destra titillando gli umori del suo peggior elettorato il partito che oggi si chiama democratico e ieri era Ds non se lo toglie. Dagli indimenticati "decreti sicurezza" di D’Alema contro la microcriminalità, quelli che "fa più scalpore uno scippo a Milano che tre omicidi in Sicilia", sino alle conferenze stampa improvvisate da Veltroni per chiedere più galera, per arrivare agli attuali exploit di Marco Minniti: "La sicurezza è pane per i denti della sinistra", da quel punto di vista non cambia mai niente, nonostante le smentite dei responsi elettorali. Tanto che la cosa dà persino un certo senso di stabilità nell’imprevedibile caos della vita contemporanea. Un senso di sicurezza. L’idea di rispolverare a Napoli norme varate per le emergenze assolute in modo da concedere al ringhioso Salvini lo spazio comunale desiderato è ancora il meno. Già più pesante quel decreto sicurezza con tanto di Daspo per i writers che attentano al decoro urbano, neanche fossero patiti del jihad. Ma il guaio grosso, uno di quelli che oltre a costare i voti di chi forca per forca sceglie i forcaioli di antica tradizione rischia di far ballare il governo anche in aula, è il decreto immigrazione, attualmente in discussione al Senato. Per la disperazione dei neo-sinistrorsi freschi di scissione, porta la firma non solo di Minniti ma anche del guardasigilli nonché grande speranza della sinistra Pd, quella interna e quella limitrofa, Andrea Orlando. Il decreto invece di cancellare la vergogna dei Cie la moltiplica però cambiando il nome che fa tutto un altro effetto. Da Centri di identificazione ed espulsione a Centri di permanenza per il rimpatrio. Da 6 a 20, uno per regione. Da una capienza complessiva di circa 700 detenuti, pardon rimpatriandi, a 2mila. Per il resto non cambia niente: identica inutilità, medesima vergogna. Il peggio arriva quando si passa alle norme che dovrebbero accelerare le espulsioni, e a tal nobile fine squartano i princìpi basilari del diritto, tipo il desueto "La legge è uguale per tutti". Per i richiedenti asilo sarà invece decisamente diseguale. Potranno contare non su tre gradi di giudizio, come chiunque altro dai ladri di galline all’aristocrazia del crimine, ma solo su due. Via l’appello che il tempo corre e bisogna cacciare gli irregolari in fretta. Sulla loro sorte, che spesso vuol dire sulla loro vita o sulla loro libertà, data la natura dei regimi da cui fuggono, non deciderà una corte ma un giudice monocratico, e lo farà senza contraddittorio, cioè senza convocare il soggetto interessato, ma solo basandosi sulle registrazioni dei colloqui con la commissione che ha respinto la domanda di asilo. Ove fosse avanzata richiesta di confronto diretto il monocratico può scegliere se accedere o se accontentarsi del video, che al solito si fa molto prima. Significa fare a brandelli garanzie e diritti della difesa, ma il cronometro e gli umori dell’elettorato più incarognito va da sé che pesino di più. Per un partito neonato e che si vuole diverso e più a sinistra di quello che ha appena abbandonato non sarà facile votare un decreto che incide a fondo sulla concezione stessa del diritto, che per questo è già stato oggetto di critiche spietate da parte dell’Anm e che è a forte rischio di incostituzionalità. Ma bocciare un decreto che porta la firma anche di Andrea Orlando sarà per l’Mpd altrettanto difficile, tanto più se, come è possibile, quei 14 voti fossero al Senato decisivi. E se il prof più bravo d’Italia insegnasse in carcere? di Sara De Carli Vita, 12 marzo 2017 Ecco i dieci migliori prof d’Italia, finalisti alla prima edizione dell’Italia Teacher Prize. Settimana prossima verranno rivelati i cinque vincitori. Eraldo Affinati è nella commissione che ha selezionato i finalisti: "In Italia abbiamo tanti buoni maestri, la nostra classe docenti è mediamente buona, solo che solo le buone pratiche vanno evidenziate, così da stimolare nuove energie propostive" C’è un’insegnante che l’alternanza scuola lavoro (ante litteram) ai suoi ragazzi la fa fare sin dal 1984, nel porto di Livorno. Si chiama Maria Lina Saba, insegna discipline economico-aziendali al ITCG Enrico Fermi di Pontedera e le imprese che collaborando con la sua scuola sono ormai 300. Con i soldi del premio farebbe "un laboratorio multimediale per la realizzazione di video e un laboratorio dotato di una stampante 3D utile per gli studenti che si cimentano con percorsi di imprenditorialità che prevedono la realizzazione dei prototipi dei prodotti ideati". Nei laboratori sarebbero coinvolti anche i genitori che hanno competenze in materia, disposti a dedicare del tempo alla scuola dei propri figli. Un altro, Antonio Silvagni, è cieco: ha perso la vista in pochi giorni, nel 1990, fra gli scritti e gli orali del concorso a cattedra. Insegna materie letterarie e latino al IIS Leonardo Da Vinci di Arzignano ed p un esperto di multimedialità nella didattica: "Colgo la stima degli studenti, dei genitori e di molti colleghi per attività che svolgo convivendo con naturalezza con la mia fragilità", si legge nella sua scheda. Saba e Silvagni sono due dei dieci finalisti dell’Italian Teacher Prize, i cui nomi sono stati rivelato oggi. Sono stati scelti fra 11mila candidati e alla fine della prossima settimana fra loro saranno proclamati i cinque vincitori del Premio. L’Italian Teacher Prize è alla sua prima edizione: lo lanciò lo scorso maggio la ministra Stefania Giannini, sul modello del Global Teacher Prize. "Non è una gara per miglior prof, ma un grande racconto della comunità dei nostri docenti", spiegò la ministra: "con il Premio vogliamo raccontare storie di insegnanti che fanno la differenza nelle nostre scuole". Prova ne è il fatto che la vincita non va all’insegnante (sono 50.000 euro per il primo classificato e 30.000 euro ciascuno per gli altri quattro) ma alla scuola del vincitore, per la realizzazione di attività e progetti. Lo scrittore Eraldo Affinati è nella commissione che ha scelto i dieci finalisti: non si sbilancia sui nomi ma afferma che "gli insegnanti italiani hanno ottime capacità, nonostante un’immagine sociale non sempre prestigiosa. Abbiamo tanti buoni maestri, la nostra è una classe docenti mediamente buona, le capacità e le eccellenze degli insegnanti vanno evidenziate: in questo senso il Premio è una buona iniziativa, per mettere in evidenza e le tante buone pratiche e anche per stimolare nella scuola italiana nuove energie propositive. È importante infatti sottolineare che i premi economici serviranno a finanziare altri progetti nelle scuola, non vanno alle persone, servono per esaltare le capacità dei docenti italiani". Un altro elemento che Affinati evidenzia è il fatto che nella top10, accanto a insegnanti innovativi, tecnologici, aperti al territorio, fundraiser, quelli che hanno fondato concorsi e premi (Marco Ferrari, ad esempio, che insegna Filosofia e Storia al Liceo Malpighi di Bologna, oltre ad aver curato la prima edizione del TedXYouth la prossima settimana radunerà 900 studenti per parlare di filosofia e tecnologia, nelle Romanae Disputationes, il concorso di filosofia che si è inventato) ci sono anche docenti che insegnano in luoghi "diversi" dalla scuola tradizionale: il carcere e l’ospedale. "Sono esempi virtuosi e anche coraggiosi. È importante che ci siano, perché ci ricordano che è possibile uscire dalla scuola tradizionale, che le esperienze di conoscenza possono essere portate anche altrove, al di fuori dal luogo canonico e chiuso delle aule e della scuola. La scuola può andare ovunque, anche in altri luoghi, questo è importantissimo". Sono esempi virtuosi e anche coraggiosi. È importante che ci siano, perché ci ricordano che è possibile uscire dalla scuola tradizionale, che le esperienze di conoscenza possono essere portate anche altrove, al di fuori dal luogo canonico e chiuso delle aule e della scuola. La scuola può andare ovunque, anche in altri luoghi, questo è importantissimo Forse è per loro che facciamo il tifo. La prima, in ordine alfabetico, è Annamaria Berenzi, prof di matematica al IIS Castelli di Brescia e lavora per scelta nei reparti degli Spedali Civili di Brescia, con ragazzi ricoverati soprattutto in oncoematologia pediatrica e in neuropsichiatria, per disturbi alimentari o psichiatrici. La sezione ospedaliera della scuola, un istituto superiore, esiste dal 2002 e segue circa 150 alunni l’anno e al Premio la prof Berenzi è stata candidata proprio da una sua ex alunna: la scuola diventa parte integrante della terapia, verso la guarigione (qui un video di presentazione). La seconda è Daniela Ferrarello, di ruolo all’istituto alberghiero Karol Wojtyla di Catania: lei insegna matematica in un istituto di alta sicurezza, il Bicocca e il premio lo utilizzerebbe proprio per attrezzare le scuole carcerarie del materiale necessario, spesso carente. Da molti anni più di settanta detenuti nel carcere Bicocca frequentano i corsi dell’alberghiero Karol Wojtyla e diverse persone, grazie a questa opportunità, una volta scontata la pena si sono inseriti positivamente nel mondo del lavoro. Infine la prof Consolata Maria Franco, che insegna Italiano, Educazione civica, Storia e Geografia all’Istituto Penale Minorile di Nisida. Ha sempre lavorato qui, sperimentando diversi percorsi linguistici e di educazione alla legalità, avviando progetti innovativi: nel stata nominata Cavaliere al merito della Repubblica dal Presidente Napolitano nel 2011. "A Nisida, ho imparato a insegnare, sperimentando sulla mia pelle tutte le difficoltà di avviare curiosità e interessi culturali nei ragazzi dalle pesanti esperienze di vita, che dalla scuola si sono, o sono stati, allontanati", ha detto a Repubblica. "Ho sempre provato a far maturare, negli allievi, la consapevolezza che tra l’urlo e il silenzio, tra il gesto violento e il nulla, è sempre possibile la parola: quella detta e quella pensata. E che il finale della loro storia non è già dato, ma può essere, appunto, riscritto, con nuove parole". Un gesto di orrore quotidiano. Ci stiamo abituando agli atti di violenza contro i "diversi" di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 12 marzo 2017 Il rogo di Palermo. Dalle Rom imprigionate a Follonica alle aggressioni sempre più frequenti contro i clochard c’è un unico filo rosso: ci stiamo lentamente abituando agli atti di violenza contro chi è diverso da noi. Non sappiamo se il senzatetto di Palermo sia stato bruciato per una ritorsione dopo un alterco o per una vendetta privata o puro e semplice odio verso i marginali. Ma sta di fatto che episodi simili non sono infrequenti. Basta fare una rapida ricerca in rete e balzano agli occhi i delitti contro gli ultimi, senzatetto, immigrati o entrambi, fatti che suscitano un’indignazione di maniera di qualche giorno e poi finiscono nell’oblio. È successo qualche tempo fa a Conegliano e ancora prima a Nettuno. Nove anni fa, a Rimini, quattro adolescenti bruciarono una panchina in cui dormiva un senzatetto, il quale si salvò per miracolo. Presi, furono condannati a pochi anni di prigione e a risarcire la vittima con alcune decine di migliaia di Euro. Poi, si è saputo che l’avvocatessa del senzatetto, nominata amministratrice delle sue sostanze, gliele ha sottratte per soddisfare il proprio bisogno di lusso, poverina. Ai domiciliari, ha patteggiato due anni con la condizionale. Se si va in rete, si possono leggere i post e i commenti dei suoi amici avvocati. Ma perché arrestarla, è una brava madre, ha due figli piccoli… Cercare di bruciare un senzatetto o pestarlo a sangue, gettare molotov contro un campo Rom o un dormitorio di migranti, aggredire insomma chi non è considerato uno normale, ma un insetto o un disturbo da eliminare, è tipico di un certo neo-nazismo. Talvolta è una bravata di ragazzi che poi, inevitabilmente, si pentono e piagnucolano sui pochi mesi di prigione che li attendono. Gesti pre-politici, li si potrebbe definire, se non fossero anche effetto di un coro generalizzato contro Rom, profughi, rovistatori di cassonetti, vagabondi, poveracci di ogni provenienza. Se una parte consistente dell’opinione pubblica trasforma queste vittime in responsabili del "degrado", e cioè colpevoli, non c’è da meravigliarsi se i più scalmanati tentino di trasformare le parole in fatti. Prendete il caso delle donne Rom di Follonica, rinchiuse da due addetti di un supermercato nella gabbia dei rifiuti. Salvini offre solidarietà e sostegno legale ai due responsabili. Era solo uno scherzo, come no. E ora lo scherzo finisce in un corteo di Carnevale. Una donna si maschera da "Rom in gabbia" e un uomo da dipendente del supermercato, dicono le cronache. Commento della sindaca leghista di Cecina: "Maschera di carnevale ieri a Cascina! A me fa ridere!!! A carnevale ogni scherzo vale! Se siete tristi e di sinistra, peggio per voi!". Ma non è la sola ad avere un singolare senso dell’umorismo. Salta fuori l’avvocato dei due mattacchioni di Follonica e sostiene che nel video non c’è una sola parola di razzismo e che comunque dovrebbe essere ritirato dalla rete perché era destinato a un gruppo chiuso. I due hanno rinchiuso le Rom tra i rifiuti e poi le hanno filmate per far divertire gli amici. Dove sarà mai il reato, dove sarà mai lo scandalo? L’assassino di Palermo, quali che siano state le sue motivazioni, non si è curato della telecamera di sorveglianza del sito. Può essere stupidità, certo. Ma può anche essere la convinzione che il suo gesto non sia così impopolare. Un paio d’anni fa, ci fu un attentato contro un campo Rom a Padova. Ed ecco uno dei commenti online: "Dopo tante brutte notizie finalmente una notizia che trova il consenso dei lettori". E così, di scherzo in scherzo, di aggressione in aggressione, di rogo in rogo, l’orrore diventa quotidiano, abituale e quindi accettabile. Significa che una linea è stata tracciata tra il mondo del "noi" e quegli altri che non esistono, non sono esseri umani e quindi si possono irridere, sequestrare e al limite cospargere di benzina. Giornata mondiale contro la censura online. Arrestati internauti in 55 paesi nel 2016 di Riccardo Noury articolo21.org, 12 marzo 2017 Secondo l’ultimo Rapporto annuale di Amnesty International, nel 2016 persone che avevano espresso in forma del tutto pacifica le loro idee online sono state arrestate in 55 paesi. Di anno in anno, i governi stanno limitando sempre di più la libertà su Internet. Col sistema di blocco degli indirizzi IP, oggi Turchia e Arabia Saudita possono chiudere rispettivamente oltre 50.000 e 400.000 siti, compresi i portali di notizie e i social media. Il "Grande firewall" cinese continua a limitare l’accesso a Internet a oltre 800 milioni di utenti. Sempre più spesso i governi chiudono l’accesso a Internet durante le rivolte e le proteste, come è successo in Etiopia lo scorso anno in più di un’occasione. Nel 2016 diversi governi hanno impedito l’accesso ad app di messaggistica dotate di crittografia, come Signal in Egitto e Whats App in Brasile. L’anno scorso Yahoo ha confermato di aver collaborato con l’Agenzia per la sicurezza nazionale Usa per sviluppare un particolare software di sorveglianza che consentisse la scansione delle email dei suoi utenti a beneficio dell’agenzia. Ecco come un potente mezzo per favorire la libertà di parola e l’attivismo può diventare uno strumento di repressione. Anno dopo anno, la gamma di strumenti di censura e di sorveglianza online impiegati dai governi diventa sempre più sofisticata, con gravi conseguenze per la libertà d’espressione, per la creatività e per lo sviluppo scientifico, indispensabili per un futuro migliore. La censura online è ulteriormente rafforzata dall’indifferenza di alcune tra le più grandi aziende rispetto alla privacy dei loro utenti. Il 21 ottobre 2016 Amnesty International ha segnalato che aziende come Snapchat e Microsoft non stanno adottando le protezioni basilari in materia di privacy sui loro servizi di messaggistica, mettendo così a rischio i diritti umani dei loro utenti. Solo tre delle 11 aziende prese in esame da Amnesty International nella sua "Classifica della privacy dei messaggi" prevedono la crittografia end-to-end di default su tutte le loro app di messaggistica. In occasione del 12 marzo, Giornata mondiale contro la censura online, Proton Mail e Amnesty International hanno deciso insieme di far conoscere l’impatto globale delle restrizioni su Internet. Proton Mail, il principale servizio di e-mail criptate, è lo strumento privilegiato da giornalisti, attivisti, dissidenti e persone consapevoli dell’importanza della privacy. Oggi, quando i due milioni di utenti di Proton Mail residenti in 150 paesi faranno login, potranno leggere le ultime ricerche di Amnesty International sulla censura online. L’Onu: "la peggiore crisi umanitaria dal 1945 per 20 milioni di persone" di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 12 marzo 2017 "La peggiore crisi umanitaria dal 1945" così il capo degli Affari Umanitari dell’Onu, Stephen ÒBrien, si è appellato al Consiglio di sicurezza chiedendo lo stanziamento urgente di 4,4 miliardi di dollari che "devono essere dati adesso e portati al più presto alle popolazioni inermi. Basteranno solo fino a luglio - ha spiegato l’incaricato Onu - ma potrebbero aiutare migliaia di persone". "Più di 20 milioni di uomini, donne e bambini in quattro Paesi rischiano di morire di fame" ha sottolineato ÒBrien. Gli occhi sono puntati su Sud Sudan, Somalia, Yemen e sul Nord-Est della Nigeria dove ogni giorno si registrano decessi a causa di mancanza di cibo, d’acqua o di medicine. "Serve uno sforzo globale collettivo e coordinato - ha insistito Ò Brien Senza l’arrivo di nuovi fondi i bambini non potranno più andare a scuola e saranno malnutriti, qualsiasi progresso raggiunto nello sviluppo economico sarà cancellato". L’Onu utilizza il termine carestia quando in una zona coesistono certi livelli di mortalità, malnutrizione e fame. La situazione peggiore è nello Yemen dove i due terzi della popolazione, circa 14,1 milioni di persone, hanno bisogno di aiuti umanitari immediati. Dal 2015 il Paese è dilaniato dalla rivolta degli Houthi contro il governo. L’embargo imposto dalla coalizione guidata dai sauditi, i continui scontri intorno al porto di Aden controllato dal governo e gli attacchi aerei contro il porto di Hudaydah in mano ai ribelli hanno ridotto di gran lunga le importazioni. I civili abbandonano i loro villaggi bombardati ma non possono che rimanere all’interno dei confini yemeniti, "schiacciati" tra l’Arabia Saudita e il mare. In Sud Sudan, la nazione più giovane al mondo, "la situazione peggiora di giorno in giorno". Anche qui tre anni di guerra civile hanno portato la carestia: 4,9 milioni di persone, il 40% della popolazione, rischiano di perdere la vita per mancanza di cibo. L’ultima volta che c’è stata la carestia in Somalia, appena sei anni fa, sono morte quasi 25o mila persone. Nel 2017 in sole 48 ore se ne sono andate no persone. Le Nazioni Unite pensano che questo sia solo l’inizio. La mancanza di acqua ha distrutto i raccolti e il bestiame. Sono almeno 2,9 milioni i cittadini che hanno bisogno di urgenti aiuti umanitari. Quest’anno si prevede che un milione di bambini sarà malnutrito. Il gruppo terrorista di Al Shabaab blocca le strade impedendo ai camion di aiuti di passare e ruba addirittura il cibo per la popolazione. Nel Nord della Nigeria, dove gli integralisti di Boko Haram hanno ucciso 15 mila persone, la malnutrizione è così diffusa che alcuni adulti non riescono più a camminare e ormai non si vedono più bambini. Sono quasi tutti morti. Grecia. Il flop umanitario più costoso di sempre di Ottavia Spaggiari Vita, 12 marzo 2017 Centinaia di milioni di euro per fare fronte ad un’emergenza umanitaria in cui non si è riusciti a garantire nemmeno i servizi basilari ai profughi arrivati negli ultimi due anni. È l’emergenza migranti in Grecia il più costoso flop umanitario di sempre, secondo un’inchiesta del sito di approfondimento Refugees Deeply. Persone costrette a vivere per mesi dentro fabbriche abbandonate in condizioni disumane, bambini accampati nelle tende sotto la neve, con un’alimentazione razionata, che non tiene conto delle esigenze dei più piccoli nella fase dello svezzamento, tanto che, camminando tra le tende dei campi profughi, non è raro sentire le lacrime di bebè affamati. Eppure la cosiddetta "emergenza migranti" in Grecia rappresenta il più costoso sforzo umanitario di sempre e anche il più inefficace. A spulciare tra i conti dell’emergenza, il sito di approfondimento Refugees Deeply che, in una lunga inchiesta ripresa dal quotidiano britannico The Guardian, analizza i fondi arrivati nel Paese cercando di capire perché, a fronte di uno stanziamento di centinaia di milioni di euro, non si sia riusciti a garantire l’accesso ai servizi di base, e a sistemazioni dignitose, ai 57mila profughi rimasti bloccati nel Paese dopo la chiusura delle frontiere, di cui circa il 40% sono bambini. Secondo Refugees Deeply, dal 2015 sono confluiti in Grecia 803 milioni di dollari, circa 760 milioni di euro, una somma che comprende i fondi per ora allocati e quelli già spesi, le donazioni private e i fondi bilaterali. La Commissione Europea che controlla il Fondo asilo migrazione e integrazione (Fami) e il Fondo per la sicurezza interna (ISF) avrebbe destinato 541 milioni di dollari, circa 510 milioni di euro, alla Grecia per coprire i costi di controllo delle frontiere, l’asilo e la protezione dei rifugiati. Questi fondi, resi disponibili nel 2014, avrebbero dovuto essere utilizzati anche per l’allestimento degli hot spot nelle isole dell’Egeo e per quello dei centri di accoglienza. In realtà però, poiché il governo greco non aveva implementato tempestivamente il piano strategico necessario per sbloccare i finanziamenti, l’accesso a questi fondi è stato solo parziale, e l’incremento degli sbarchi nel 2015 ha reso necessario ricorrere ad altre risorse economiche per l’emergenza, sempre provenienti dalla Commissione Europea. Nel febbraio 2016, circa 70 milioni di euro sono stati destinati al Ministero della difesa greco incaricato di gestire gli hot spot sulle isole, a maggio dello stesso anno, dopo la chiusura del campo informale di Idomeni, nel nord del Paese, sempre al Ministero della difesa è stata affidata la gestione in collaborazione con Unhcr, dei circa 34 campi governativi, sistemazioni di fortuna, la maggior parte ricavati in ex complessi industriali, fabbriche e magazzini abbandonati. Per ogni 100 dollari spesi, 70 sono stati sprecati - Eppure 803 milioni di dollari, come fa notare Refugees Deeply sono moltissimi soldi, contando che, se 1.03 milioni di profughi sono entrati nel Paese dal 2015, la maggior parte dei fondi sono stati invece destinati ai circa 57mila migranti rimasti intrappolati nell’emergenza causata dalla chiusura delle frontiere a fine febbraio 2016, quando il blocco ha provocato un vero e proprio imbuto umanitario nel nord della Grecia. Un investimento quindi da 14.088 dollari a persona, nettamente superiore alla media delle risorse impiegate nelle emergenze, basti pensare che i fondi arrivati ad Haiti per gli aiuti destinati ai 3 milioni di abitanti colpiti dal terremoto del 2010 sono ammontati a 3.5 miliardi di dollari secondo la piattaforma online delle Nazioni Unite specializzata nelle crisi umanitarie Relief Web, per una media di circa 1.166 dollari a persona. A confermare il dispiego di risorse senza precedenti in Grecia, delle fonti interne alla Direzione generale per gli Aiuti umanitari e la protezione civile della Commissione europea. Un funzionario rimasto anonimo ha dichiarato a Refugees Deeply che "per ogni 100 dollari spesi, 70 sono stati sprecati". Diverse le ragioni dietro questa débacle. Primi tra tutti, i problemi di comunicazione e coordinamento tra istituzioni ed enti diversi. Se da una parte l’Unhcr, nella scomoda posizione di dover gestire un’emergenza su suolo europeo, ha condotto una campagna di advocacy per i migranti giudicata da molti esponenti della società civile troppo timida nei confronti dell’Unione (che è anche tra i principali sostenitori dell’Agenzia a livello globale), dall’altra è stato costretto a confrontarsi costantemente con il governo greco. Un delicato equilibrio diplomatico che, spesso, secondo molti, non ha funzionato: "Il coordinamento degli aiuti è stato uno degli ostacoli principali, con l’Unhcr che non è stato in grado di lavorare in modo produttivo con il governo e il governo che non è stato in grado di prendere decisioni strategiche, urgenti e veloci." Ha dichiarato Oxfam. Problemi organizzativi, rapporti diplomatici delicatissimi, e a rendere più complessa e la gestione delle risorse, l’arrivo nel Paese dei giganti dell’assistenza umanitaria e di decine e decine di piccole associazioni. Da Medici Senza Frontiere, a Save the Children, all’International Rescue Committee (IRC), fino a migliaia di volontari indipendenti, sono arrivati in Grecia nell’ultimo anno e mezzo. E se l’emergenza umanitaria era sicuramente reale, secondo Refugees Deeply ad aver giocato un ruolo decisivo in questa enorme mobilitazione è stata anche l’ondata emotiva. Il 2 settembre 2015 la tragedia dei migranti in fuga dalla guerra aveva preso un nome, quello del piccolo Alan Kurdi, annegato nella tragica attraversata tra la Turchia e la Grecia. L’immagine di quel bambino, inerme riverso sulla sabbia aveva reso impossibile voltarsi dall’altra parte, almeno per molti. Nella settimana successiva alla pubblicazione della foto, condivisa oltre 20 milioni di volte sui social network, la Croce Rossa Svedese aveva ricevuto 55 volte l’ammontare medio di donazioni e Carolyn Miles, Presidente di Save the Children, aveva dichiarato al New York Times che, mentre nei primi 8 mesi del 2015 l’organizzazione aveva raccolto 200mila dollari per i progetti in Siria, solo nella settimana successiva alla diffusione della foto del piccolo Alan, le donazioni avevano raggiunto gli 800mila dollari. Difficile percepire l’entità dei fondi disponibili, camminando tra le tende dei campi allestiti dal governo. Lo scorso giugno, Amy Frost, responsabile di Save the Children in Grecia, aveva raccontato di "Famiglie costrette a dormire in tende vuote su una coperta che avevano disteso sulla terra nuda.", sottolineando che, "Per l’Europa del 2016 questo è assolutamente inaccettabile", mentre Antonio Nicolini, un volontario intervistato da Vita.it, tra i pochissimi ad essere riusciti ad entrare a Sindos, uno dei campi militari dove erano state trasferite le prime famiglie, dopo lo sgombero di Idomeni, aveva descritto una situazione sconvolgente. "Ci sono tre hangar polverosi dove l’aria è irrespirabile, c’è poca luce e ci sono appena 18 bagni per 600 persone, tra cui moltissimi bambini e diverse donne incinte". Particolarmente difficili le condizioni proprio per le donne in attesa. Moltissime hanno dichiarato di non avere avuto accesso all’assistenza sanitaria durante la gravidanza e di non avere nemmeno mai fatto un’ecografia prima del parto. Ad oggi, secondo i dati di Unhcr, sono 40mila i migranti bloccati in Grecia sulla terraferma, 10mila quelli rimasti sulle isole. Da maggio 2016 il numero dei campi profughi allestiti sulla terraferma è cresciuto fino a raggiungere la quarantina, ma negli ultimi mesi, fortunatamente, sempre più persone sono state ricollocate negli alberghi e negli appartamenti, dove stati resi disponibili 24mila posti letto, per chi ha figli piccoli o disabili e per i più fortunati, quelli in attesa della re-location in altri paesi europei. Sempre di più, invece, i profughi che decidono di rimanere nel Paese. Nel 2015 erano 13.200 le persone che hanno fatto richiesta di asilo in Grecia, una cifra salita a 38.100 lo scorso anno. Un numero imprecisato di migranti invece è riuscito a ripartire, proseguendo per la rotta balcanica, molti sono rimasti intrappolati in un altro limbo, ancora più duro: sono circa 12mila i migranti bloccati in Serbia, oggi. "Qualcuno", racconta un volontario indipendente in un campo governativo greco, "ha addirittura deciso di abbandonare il Paese, ripercorrere il percorso a ritroso, tornare in Turchia e poi, chissà, forse in Siria". D’altronde è proprio questa la frase che si sente ripetere più spesso dai profughi: "Meglio morire subito a casa propria, che morire lentamente qui". Stati Uniti: L’affondo di Trump sulla giustizia: via 46 procuratori nominati da Obama di Flavio Pompetti Il Messaggero, 12 marzo 2017 Pulizia di primavera per il Dipartimento di Giustizia del governo Trump. Il neo segretario Jeff Session ha chiesto venerdì pomeriggio le dimissioni del 46 procuratori nominati da Obama e ancora rimasti in carica dopo la transizione. La sostituzione dei 93 procuratori (in media due per ogni Stato, con poche eccezioni per i territori a scarsa popolazione) è un rito di passaggio obbligato ma mai eseguito con la forza, nel rispetto di un’etichetta non codificata, ma imperativa per ogni amministrazione. Dopo la fine di un’elezione presidenziale, i servitori della giustizia di ogni distretto rimettono il mandato nelle mani del capo del loro ministero. Chi non ha urgenze processuali in corso lo fa subito; chi invece è nel mezzo di un’inchiesta di rilievo, aspetta di chiudere il fascicolo prima di lasciare la poltrona. Nei rari casi in cui il procuratore gode della fiducia del nuovo presidente e del suo segretario per la Giustizia, gli viene chiesto di restare al suo posto e proseguire il lavoro. L’ultimo presidente a esigere il rinnovo completo dei ranghi è stato Bill Clinton, il quale lasciò però ampio tempo a ognuno degli inquirenti per decidere quando dimettersi. Trump invece ha affrettato il passaggio con l’ordine impartito venerdì da Session. Nella ricostruzione fatta dagli analisti di Washington, la decisione ha a che vedere con l’urgenza di tappare le tante falle dalle quali sono uscite nell’ultimo mese le rivelazioni più imbarazzanti per la nuova amministrazione. Cinque giorni dopo il giuramento al Campidoglio la prima fuga di notizie sulla probabile riapertura del "black sites" dell’epoca Bush, le prigioni segrete fuori dagli Usa dove si torturavano i sospetti di terrorismo. Una settimana dopo i dettagli delle conversazioni telefoniche tra Trump e i presidenti messicano e australiano. Fino alle tante ramificazioni del Russiagate che sono già costate la poltrona a uno dei suoi uomini di fiducia: l’ex generale Michael Flynn., costretto a lasciare l’incarico di capo consulente per la Sicurezza Nazionale. Trump ha denunciato più volte tramite Twitter il sospetto che ci sia un complotto ordito ai suoi danni da Barack Obama. Giovedì sera l’accusa è stata rilanciata dal giornalista delle Fox News Sean Hannity, uno dei più fedeli estimatori del nuovo presidente. "È ora di passare alle purghe - aveva detto Hannity nell’editoriale che apre il suo programma - Trump deve liberarsi di tutti i traditori, i fedeli di Obama che infestano la sua amministrazione". Il deputato conservatore Duncan Hunter ha aggiunto che la scure dei licenziamenti deve colpire un’area più vasta, che va dal ministero degli Interni alle agenzie dell’Intelligence, a cominciare da Cia e da Fbi. Chiunque ostacoli l’azione del governo deve essere allontanato, e la giustizia deve individuare e colpire i responsabili delle fughe. Tra le procure colpite dall’ordine ci sono quelle di Seattle e Boston, entrambe artefici del contenzioso giudiziario che ha bloccato la prima versione del bando dell’immigrazione da paesi a prevalenza musulmani. A New York il bersaglio a sorpresa è Preet Bharara, stella ascendente dell’ordinamento giudiziario nazionale, nonché castigatore imparziale delle malefatte degli esponenti dei due partiti. Bharara aveva ricevuto dallo stesso Trump e da Session tre mesi fa la richiesta di restare al suo posto, poi evidentemente mutata, e nonostante una dura presa di posizione ("Non mi dimetto, mi cacci pure", aveva detto) - non è riuscito ugualmente a salvarsi di fronte all’ondata purificatrice. "Poco fa sono stato licenziato", ha ammesso, laconico, su twitter. Iraq. L’Isis tenta l’ultima mossa per prendere tempo a Mosul: apre le carceri di Francesco Bussoletti difesaesicurezza.com, 12 marzo 2017 Isis prova un ultimo tentativo per cercare di prendere tempo a Mosul. Miliziani Daesh hanno liberato i prigionieri detenuti nelle carceri nei territori ancora sotto il loro controllo. L’obiettivo è duplice: da una parte far sì che almeno una parte di loro decida di combattere per lo dello Stato Islamico, incrementando le fila di una forza ormai allo stremo. Dall’altra, mostrare - per la prima volta - un segno di umanità nei confronti dei civili. Ciò per sperare di ottenere qualche tipo di sostegno da parte della popolazione locale. Non solo nella battaglia per il controllo della città. Ma anche in futuro, quando i jihadisti superstiti - soprattutto quelli locali - saranno costretti a nascondersi e a cercare rifugio nelle zone da cui provengono. Nelle carceri Isis ci sono civili, jihadisti e soldati iracheni. Arrestati per qualsiasi motivo. Nelle carceri Isis di Mosul e di tutti i territori controllati erano finiti in molti. Si parla di migliaia di persone. Peraltro, per i motivi più diversi. Da quelli che erano stati sorpresi a fumare a coloro scoperti in possesso di un telefono cellulare. Passando anche per i civili "colpevoli" di vedere in tv trasmissioni occidentali. Soprattutto i giovani. È stato emblematico l’arresto qualche anno fa, avvenuto in un bar, di decine di persone, che stavano assistendo a una partita di calcio. I miliziani Daesh fecero un rastrellamento e incarcerarono tutti. Non è chiaro, invece, se saranno rilasciati anche i soldati iracheni fatti prigionieri in questi anni. La mossa potrebbe rivelarsi un boomerang per Isis. L’apertura delle carceri, però, potrebbe rivelarsi controproducente per Isis. Daesh, infatti, perderà numerosi possibili ostaggi. Inoltre, si creerà nuovi nemici. Tutti gli ex detenuti in cerca di vendetta, che non esiteranno a imbracciare le armi contro lo Stato Islamico o ad aiutare le forze irachene, fornendo loro informazioni preziose sui jihadisti nella città. È praticamente impossibile, infatti, che qualcuno decida di combattere per i miliziani. Compresi i loro stessi compagni, imprigionati per i medesimi motivi dei civili. Questi, nella migliore dell’ipotesi cercheranno di fuggire alla prima occasione. Nella peggiore vorranno vendetta e attaccheranno gli altri fondamentalisti.