Riforma delle intercettazioni. La legge sarà scritta dai pm di Liana Milella La Repubblica, 11 marzo 2017 Il ministro Orlando chiama i maggiori procuratori del Paese a scrivere il testo in previsione del varo della delega al Senato sulla riforma penale. L’intenzione è quella di estendere a tutti le norme in uso nelle città principali. Saranno i procuratori più importanti d’Italia - di Torino, Milano, Firenze, Roma, Napoli, Palermo - a collaborare a scrivere il testo definitivo della riforma delle intercettazioni. Una mossa, neppure tanto a sorpresa, che il Guardasigilli Andrea Orlando sta preparando in vista del voto di fiducia al Senato sulla riforma penale che contiene anche la delega al governo proprio sulle intercettazioni. I procuratori, o pubblici ministeri da loro espressamente delegati, faranno parte di una commissione, composta anche da professori di diritto e avvocati, che avranno 45 giorni di tempo per scrivere le nuove regole sull’uso delle intercettazioni, siano esse telefoniche o ambientali. Il ministro della Giustizia Orlando ha fretta di portare a casa al più presto la delega, tant’è che la commissione potrebbe cominciare a lavorare già dopo il voto di fiducia al Senato - mercoledì prossimo, dopo quello in commissione Giustizia del giorno prima - senza aspettare la definitiva conferma della Camera, dove il governo è deciso a procedere con la massima fretta anche perché il testo non dovrà più subire cambiamenti. Orlando ha sempre ribadito la sua intenzione di approvare la delega subito dopo il voto definitivo in aula. Per questo, anche in queste ore, in via Arenula viene vissuta come del tutto inutile la polemica sui tempi scritti espressamente nella delega, 12 mesi secondo il testo attuale, tre mesi secondo Ncd, quasi che l’intenzione del governo sia quella di prendere tempo. In realtà Orlando, una volta votato il testo, ha intenzione di portare subito la delega in consiglio dei ministri. Ma qual è la logica della commissione con i procuratori? Confermare quello che in questi ultimi mesi Orlando è andato ripetendo in difesa delle nuove regole sulle intercettazioni, e cioè che "l’intervento non va letto come una mossa per censurare né la possibilità di mettere le microspie, né tanto meno di utilizzarne i testi, ma semplicemente come lo strumento per estendere a tutte le procure le regole che alcune di esse, come Torino, Firenze, Roma, Napoli e altre, già si sono date con le circolari interne, circolari che stabiliscono le nuove regole sull’utilizzo delle registrazioni". In questa logica, mettere i procuratori nella commissione che formalizzerà il testo della delega ha il valore politico di contestare chi sostiene che l’intervento del governo sulle intercettazioni equivale a un bavaglio. Se, ragionano nell’entourage del Guardasigilli, sono magistrati di spicco come Spataro, Pignatone, Lo Voi e Creazzo a scrivere il testo, è impossibile che da loro possa arrivare una censura. Dunque, secondo Orlando, né bavaglio, né tanto meno una riduzione dei soldi per poter intercettare, come pure è stato detto a proposito della modifica alla legge che impone alle ditte un prezzario standard valido in tutta Italia. Dice il Guardasigilli: "L’emendamento sulla razionalizzazione delle spese delle intercettazioni consentirà certo un risparmio di spesa pubblica, ma non inciderà per nulla sulla quantità di intercettazioni che gli uffici giudiziari intenderanno effettuare. Nel rispetto delle autonome scelte della magistratura, che continuerà a fare uso delle intercettazioni secondo le esigenze che riterrà, si ridurrà la spesa, regolando razionalmente le procedure per l’affidamento dei servizi funzionali alle operazioni di intercettazione". In pratica i magistrati potranno intercettare quanto vogliono, non ci sarà un tetto di spesa per gli ascolti superato il quale non si potrà poi più intercettare. Anche in questo caso, come spiegano i magistrati che lavorano con Orlando in via Arenula, alla stesura delle nuove regole sui costi delle intercettazioni hanno collaborato nei mesi scorsi, e in numerosi incontri, i più importanti procuratori italiani. L’obiettivo è stato quello di eliminare singolari anomalie per cui la stessa ditta applicava prezzi anche di molto differenti ai vari uffici. Ma, come dicono i collaboratori di Orlando, "non c’è mai stata una voglia di censura nei confronti delle intercettazioni, semmai di razionalizzazione della spesa". È improbabile comunque che politicamente possano bastare le puntualizzazioni e gli obiettivi di Orlando per placare le polemiche sulla riforma che si agitano dentro e fuori la maggioranza. All’interno del governo c’è la fronda dei centristi. Ncd, al Senato, voterà la fiducia per "ragioni di poltrona". Alla Camera il ministro della Famiglia, l’alfaniano Enrico Costa, già annuncia che voterà contro la prescrizione, un intervento che "si risolverà solo nell’allungare i tempi dei processi". L’altro focolaio di polemica è in mano a uno dei relatori, l’ex giudice istruttore Felice Casson, adesso sui banchi di Mdp con Bersani. Casson già dice che "non voterà la fiducia" perché "il testo potrebbe ancora essere migliorato con emendamenti in aula". Per Casson i punti negativi sono la prescrizione, che "non garantisce processi come quelli sull’amianto e le vittime di Viareggio". Non vanno neppure le nuove regole sull’avocazione dei fascicoli ai pm, il divieto di usare i Trojan horse anche per la corruzione, i Rems che prenderanno il posto degli ospedali psichiatrici. Ma la maggioranza andrà avanti. Riforma del processo penale. L’Anm: "con le nuove regole sarà il collasso" di Liana Milella La Repubblica, 11 marzo 2017 Le norme sui tempi di chiusura delle indagini preliminari e sull’avocazione sono irrazionali che porteranno al collasso il sistema giudiziario. La giunta dell’Associazione nazionale magistrati lancia un grido di allarme su una delle norme contenute nel disegno di legge delega del processo penale che dovrebbe essere approvato la settimana prossima. Scenario che inquieta molto le toghe. "Apprendiamo che la prossima settimana - scrive l’Anm - sarà votato al Senato, con lo strumento della fiducia, il ddl di riforma del processo penale e che nessun emendamento è stato presentato in ordine alla norma che obbliga il pm a esercitare l’azione penale o chiedere l’archiviazione entro tre mesi dalla fine delle indagini preliminari e a quella che prevede l’obbligatorietà dell’avocazione da parte del procuratore generale presso la Corte d’appello". Ora, ricordano i magistrati, "l’Anm ha da sempre denunciato l’irrazionalità di queste norme, che sono destinate a creare un pericoloso imbuto negli uffici giudiziari, norme che non daranno alcun beneficio al sistema, ma che al contrario rallenteranno il lavoro delle Procure, fino a bloccarlo completamente e a portarlo al collasso". Ipotesi fosche che fanno dire ai vertici dell’Associazione: "Lanciamo un grido d’allarme e chiediamo al legislatore un ripensamento sul punto, perché queste modifiche normative avranno come unico risultato quello di vanificare migliaia di indagini, soprattutto quelle più impegnative e delicate; in primo luogo le inchieste relative ai reati commessi a danno dei soggetti deboli, quelle di corruzione e quelle a rischio prescrizione. Se queste norme verranno approvate, i cittadini avranno minore tutela". Rischi e problemi che Walter Verini, capogruppo del Pd in commissione giustizia alla Camera non vede. "La posizione della giunta dell’Anm mi sembra esagerata e non fondata sulla reale portata delle norme", dice Verini. Secondo il deputato, la riforma "ha lo scopo di evitare ingorghi o addirittura collassi del sistema giudiziario, rafforzando ed estendendo, ad esempio, forme di giustizia riparatoria. La possibilità di appellarsi ai processi sarà più rigorosa". E sul punto dei tempi di indagine, Verini spiega: "La riforma li garantisce adeguati alle inchieste più complesse, come quelle contro la criminalità organizzata o per il terrorismo. Per non parlare di un altro aspetto cardinale della riforma: le indispensabili norme sull’ordinamento penitenziario". Il patto tra Csm e Procure contro la regola che obbliga la polizia a violare il segreto di Errico Novi Il Dubbio, 11 marzo 2017 Lite Legnini-Woodcock? Mai stati così d’accordo. Entrambi segnalano i rischi del decreto che obbliga la polizia giudiziaria a informare le "scale gerarchiche" su notizie di reato e sviluppi delle indagini. Con toni diversi, il vicepresidente del Csm e il titolare originario dell’inchiesta Consip dicono che la fuga di notizie può venire da lì. Adesso Consiglio superiore e magistratura inquirente si preparano a stabilire un’alleanza per spingere il governo a rivedere le norme. L’appuntamento è per il 16 e il 23 marzo, date in cui a Palazzo dei Marescialli sono previste le audizioni dei capi delle Procure. Con loro saranno sentiti anche il superprocuratore Antimafia Franco Roberti e i procuratori generali di tutte le Corti d’Appello. Le riunioni sono propedeutiche a una circolare sugli uffici inquirenti che, per Legnini, dovrebbe cercare soluzioni alle "numerose patologie", in particolare rispetto alla tutela del segreto d’indagine. Ma visto che dai pm di tutta Italia sale il grido d’allarme per gli effetti sulle norme che di fatto impongono alla polizia giudiziaria la violazione del segreto, è chiaro che la richiesta dei magistrati sarà innanzitutto una: il Csm si unisca a noi nell’invitare il governo a rivedere quelle norme. Richiesta destinata a cadere nel vuoto? Non è detto. L’esecutivo su altri versanti ha mostrato di tenere in gran conto il parere della magistratura inquirente impegnata "sul campo". Lo ha fatto, di recente, in vista dell’emanazione delle nuove regole sulle intercettazioni. Prima di arrivare allo schema inserito nel ddl penale, il capo di Gabinetto del guardasigilli Andrea Orlando, Giovanni Melillo, ha incontrato più volte una delegazione di procuratori della Repubblica di cui hanno fatto parte tra gli altri Armando Spataro (Torino) e Giuseppe Pignatone (Roma). E molta attenzione aveva avuto, il ministro della Giustizia, per le circolari diffuse dai capi di una ventina di uffici inquirenti per garantire la riservatezza delle intercettazioni. L’esecutivo potrebbe dunque ascoltare i pm e correggere il famigerato provvedimento: per la precisione il decreto legislativo 167 dell’agosto 2016 che, nascosto al quinto comma dell’articolo 18, stabilisce l’obbligo per i vertici di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza di dare ordine affinché "i responsabili di ciascun presidio trasmettano alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria". Non solo per l’avvio ma anche per "tutto ciò che rappresenta uno sviluppo" e "fino alla conclusione dell’indagine preliminare". Alla fine il governo dovrebbe trovare una linea di mediazione. Altrimenti ogni pretesa di maggiore riservatezza sulle indagini rischia di sbattere contro obiezioni analoghe a quelle di Woodcock: "Solo un cretino potrebbe bruciarsi l’indagine con la pubblicazione di atti altrimenti inconoscibili all’indagato: il problema è quel decreto". Il procuratore di Torino Armando Spataro ha già messo per iscritto il problema in una direttiva rivolta ai propri sostituti e inviata per conoscenza anche al ministero della Giustizia. Nella disposizione Spataro invita i suoi pm a "comunicare motivatamente i casi in cui ritengano di dover segnalare" alla pg "il rispetto assoluto del segreto" anche nei confronti delle "rispettive ‘ scale gerarchiché". In tutti quei casi, lo stesso Procuratore di Torino ha previsto di invitare la polizia giudiziaria a "comunicare formalmente" di "non poter aderire alla richiesta" perché vincolata dal decreto sulle informative. In tal modo lo stesso procuratore potrebbe sollevare "conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato" davanti alla Corte costituzionale. Un’estrema ratio. Che il procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo, in una riunione di inizio febbraio, ha condiviso con i capi di tutte le altre Procure ordinarie del distretto di Torino, che hanno "replicato" la direttiva Spataro. Quest’ultimo e lo stesso Saluzzo hanno trasmesso il testo anche alla Procura generale della Cassazione e al Csm. Non a caso nell’intervento in plenum di mercoledì scorso Legnini ha ricordato che Saluzzo e Spataro hanno espresso "osservazioni critiche" e sollecitato "l’apertura di una pratica". Detto fatto: lo stesso vicepresidente del Csm ha investito sul punto la Sesta e la Settima commissione. Quando giovedì 16 i capi degli uffici, incontreranno l’organo di autogoverno, il lavoro delle commissioni non sarà ancora avviato. Ma l’esito pare segnato: far arrivare, e in fretta, l’invito all’esecutivo affinché corregga il decreto sull’obbligo di informare le scale gerarchiche (e quindi, potenzialmente, lo stesso governo, come potrebbe essere tranquillamente avvenuto, norme alla mano, nel caso Consip). La modifica potrebbe far decadere l’obbligo nei casi in cui il pm lo chieda. In modo da non violare il principio, indirettamente sancito dalla Costituzione, secondo cui coordinare le indagini è compito che spetta ai magistrati, non ai corpi di polizia. Basterà a convincere l’esecutivo? Si vedrà. Se non bastasse, rischia davvero di doverci pensare la Consulta. Spara e uccide il ladro. Applausi e qualche critica di Simona Musco Il Dubbio, 11 marzo 2017 È accaduto vicino a Lodi: lo avrebbe colpito alle spalle dopo una colluttazione. "L’ho preso". Sarebbe stata questa la frase pronunciata da Mario Cattaneo, 67 anni, proprietario di un ristorante che l’altra notte ha sparato una fucilata alla schiena ad un ladro per sventare un furto. È finita nel sangue l’irruzione di un gruppo di stranieri nell’Osteria dei Amis a Gugnano, frazione di Casaletto Lodigiano (Lodi). Il proprietario del bar, sentiti i rumori provenire dal locale, ha afferrato il fucile da caccia, raggiungendo assieme al figlio l’entrata del locale. Il 67enne, cacciatore, ha poi sparato, mentre la moglie e il figlio tentavano di dissuaderlo, colpendo mortalmente uno dei ladri. Il titolare del locale è stato accompagnato poi in ospedale per una contusione ma non ha riportato ferite gravi. Tutto è avvenuto alle 3.40 della notte tra giovedì e venerdì. Secondo una prima ricostruzione, Cattaneo, che abita proprio sopra il ristorante, sarebbe stato svegliato dall’allarme e dal rumore della saracinesca. Non era la prima volta che qualcuno provava a derubarlo, così non ha faticato a riconoscere quei rumori. È sceso nel ristorante assieme al figlio Gianluca, caricando il fucile prima di trovarsi faccia a faccia con i ladri. Prima di sparare l’uomo avrebbe avuto una colluttazione con i malviventi, finendo per esplodere un colpo col fucile calibro 12, legalmente detenuto. I ladri hanno tentato di portare via il compagno ma, ormai in fin di vita, lo hanno abbandonato poco fuori dal locale, assieme ad un sacco pieno di sigarette portato via durante il furto. La vittima è stata trovata seminuda, in una stradina che porta al cimitero, dopo aver tentato, nonostante la ferita, di mettersi in salvo. Il colpo lo avrebbe raggiunto alla schiena. Cattaneo ha riportato lesioni a un braccio e a una gamba dovute a una caduta. Frastornato, dopo aver messo in fuga i ladri, ha poi chiamato i carabinieri. A raccontare la frase pronunciata da Cattaneo è stato un vicino di casa, che avrebbe assistito alla scena. L’uomo, un 76enne, in preda all’insonnia, ha sentito l’allarme del ristorante in tempo reale, raccontando di aver poi sentito un forte rumore, quello della saracinesca che veniva alzata. "Immediatamente sono andato ad aprire la finestra della mia sala e ho visto quattro persone che urlavano: Mario Cattaneo, l’uomo che ha sparato, la moglie, la nuora e il figlio - ha raccontato -. In quel momento in particolare, la moglie gridava al marito spingendolo in casa: "Metti giù questo fucile". E il figlio gridava al padre: "Perché hai caricato il fucile?". Sarebbe stato lui stesso a chiedere a Cattaneo se avesse centrato o meno il ladro, domanda al quale l’uomo avrebbe risposto per ben due volte "Sì, l’ho preso". Le immagini recuperate dalle telecamere di sicurezza della zona hanno immortalato l’auto utilizzata dai malviventi, probabilmente originari di un paese dell’Est, secondo quanto percepito dai familiari di Cattaneo, già sentiti dai carabinieri. La vicenda ha subito scatenato la solidarietà del paese, a partire dal sindaco, Giorgio Marazzina, che si è detto vicino ai ristoratori. L’amministrazione comunale ha sottolineato di "essere al fianco di Mario e Luca e delle loro famiglie". In questo "drammatico momento", rappresentato dalla morte del ladro, ha aggiunto Marazzina, "diamo loro la nostra piena solidarietà e la vicinanza di tutta la nostra gente" Il limite al Far West di Carlo Bonini La Repubblica, 11 marzo 2017 L’omicidio di Gugnano racconta il baratro su cui balla il Paese e, come una profezia, indica dove è destinato a terminare il viaggio di una comunità che, prigioniera della sua oggettiva insicurezza, vive immersa nella dimensione paranoica della Paura, dell’odio di prossimità, del Nemico. Che a Gugnano aveva il volto (non ancora il nome) di un est-europeo e, altrove, potrà avere quello di un migrante nord-africano. O di un "albanese", di uno "slavo". Abbattere con un colpo alla schiena un uomo che ti ha appena derubato non ha nulla a che vedere con la legittima difesa. Ma somiglia più a una vendetta. Alla giustizia privata, per definizione insondabile e insindacabile, se non a "sentenza eseguita". È la riappropriazione da parte del singolo del monopolio della forza, che, nelle democrazie, è devoluto allo Stato, perché unico legittimato a farne uso in una cornice di regole e garanzie date. Che non prevedono la pena di morte, ad esempio. Sono principi di convivenza civile ovvi. Che, come tali, dovrebbero appartenere alla coscienza di ciascuno, quali che ne siano le convinzioni politiche. In quanto tali, non revocabili in dubbio. Proprio perché fondanti le ragioni dello "stare insieme". Al contrario, prima la voce del sindaco di Casaletto Lodigiano, quindi quella di Matteo Salvini, segretario della Lega Nord, hanno voluto testimoniare che la "comunità sta con chi si difende". Perché, in fondo, un ladro se la cerca. Si potrebbe liquidare la sortita con l’alzata di spalle che si deve allo spettacolo indecoroso di chi non si fa scrupolo nel fare cassa di consensi con la paura e il sangue del prossimo. Ma sarebbe un errore. Perché significherebbe ignorare la profondità dello scasso prodotto con certosina e quotidiana applicazione dai populismi nelle loro diverse ma convergenti declinazioni. E significherebbe, soprattutto, abbandonare all’abbraccio con l’oscena sirena della legge del taglione, della vendetta privata, alla disperazione della solitudine civica, prima ancora che repubblicana, una parte sempre più consistente del Paese che, nelle province, così come nelle periferie delle grandi aree metropolitane, vive la difesa del tinello della propria casa, bottega, automobile, come l’ultima e definitiva trincea identitaria. È una dinamica non inedita nella storia recente del Paese. I cosiddetti reati predatori, il senso di violazione intima che producono nelle vittime, amplificata dalla consapevolezza che quei reati non avranno in nove casi su dieci colpevoli, sono stati, nel ventennio berlusconiano, arma di propaganda e insieme di governo. Oggi sono il carburante dei populismi. Per la sinistra e le culture riformiste di questo Paese - se ne sono rimaste - sta suonando la campana dell’ultimo giro. Come ebbe a dire non molto tempo fa il ministro dell’Interno Marco Minniti, la sicurezza è un diritto costituzionale che può essere difeso in due modi. Comprimendo le nostre sfere di libertà, trasformando le nostre esistenze e le nostre città in ordinate galere videosorvegliate. O, al contrario, coniugando i diritti con le garanzie. Strappando alla loro solitudine le migliaia di Gugnano d’Italia. Ricostruendo quel tessuto connettivo che, nel cuore della notte, consiglia di comporre il 112 e non di imbracciare un fucile da caccia. Ma questo sarebbe compito della Politica. Con la P maiuscola. La violenza non dà frutti. In America sparano e i furti aumentano di Piero Sansonetti Il Dubbio, 11 marzo 2017 Il diritto alla vita non può essere messo sullo stesso piano del diritto alla proprietà. E del resto i dati parlano chiaro: negli usa 33 mila morti e nessun beneficio. urgente correggere la legge sulla legittima difesa? A me non pare. L’articolo 52 del codice penale, che regola questa materia, è stato modificato una decina di anni fa dal governo di centro-destra, quando ministro della Giustizia era il leghista Castelli, allo scopo di rendere più esteso il diritto a usare armi, anche da fuoco, per difendersi dai ladri. L’articolo 52 afferma dei principi molto chiari e piuttosto ragionevoli. Dice che il cittadino che spara al ladro non è punibile se "ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionale all’offesa". Cosa vuol dire proporzionale? L’articolo 52 precisa che "sussiste la proporzionalità" se chi usa l’arma (legittimamente posseduta) lo fa all’interno di una sua proprietà (abitazione o negozio, o garage) e lo fa per difendere "la propria o l’altrui incolumità, i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione". Proviamo a dirlo con parole più semplici: puoi sparare se ti senti direttamente aggredito, o se sorprendi un ladro mentre ruba, a meno che il ladro non stia scappando e non abbia rinunciato al furto. A me sembra una legge molto liberale nei confronti di chi esercita la legittima difesa. Che semplicemente pone un limite concettuale: che si tratti effettivamente di difesa e non di vendetta. Perché la difesa e la vendetta sono cose molto diverse, anzi, forse, opposte. Puoi usare un’arma per impedire un reato non per punirlo. Quali sono le obiezioni di chi ritiene che la legge attuale non sia sufficiente a difendere i cittadini? La prima è la necessità di combattere l’aumento dei furti avvenuta negli ultimi anni. La seconda è il principio che ciascuno è padrone in casa sua, e dunque che bisognerebbe consentire l’uso libero delle armi per "reagire" a un reato che avviene in questo ambito. Pongo due domande. La prima è questa: concedere il dritto di fuoco in casa propria, e dunque incentivare l’aumento del possesso e dell’uso di armi da parte dei privati, aiuterebbe a risolvere il problema sociale dei furti in appartamento? Poi c’è una seconda domanda, meno pratica, più di tipo, diciamo così, "etico": possiamo considerare che l’uccisione di una persona sia un prezzo accettabile da pagare per evitare un furto? E dunque possiamo mettere sullo stesso piano, da un punto di vista ideale, il diritto alla vita e il diritto alla proprietà? O addirittura dobbiamo pensare che comunque questi due diritti siano relativi, cioè variabili, e il loro peso aumenti o diminuisca a seconda di chi lo eserciti o lo perda? (Cioè, ad esempio, che il diritto alla proprietà di un cittadino incensurato è più alto del diritto alla vita di un cittadino che sta commettendo un reato?). Cominciamo dalla prima domanda. Io non credo, sulla base dei dati sperimentali che si conoscono, che l’aumento delle armi e del diritto di fuoco possa ridurre i furti. In molti Stati dell’America del Nord - dove circa un terzo dei cittadini è armato, e dove è legittimo sparare contro chi viola il proprio domicili - il numero dei furti è molto superiore (sia in cifra assoluta, naturalmente, ma anche in pro- porzione) al numero dei furti in Italia; e il numero di omicidi è incomparabilmente superiore. Negli Stati Uniti, nel corso del 2013, sono stati commessi circa 8 milioni di furti (dati Fbi) contro il milione e cento circa commessi in Italia. Siccome gli Stati Uniti sono solo 5 volte più popolosi dell’Italia, vuol dire che lì ci sono circa un terzo di furti più che da noi. E gli omicidi, o comunque i morti provocati dalle armi da fuoco? Negli Stati Uniti sono circa 33 mila all’anno (approssimato per difetto) da noi circa 400, compresi tutti gli omicidi di mafia e camorra (come anche in Francia, in Germania, in Spagna). Il rapporto tra loro e noi, considerata la differenza di popolazione, è di 1 a 15. Da brividi. Non credo che ci sia qualcuno in grado di sostenere la tesi che non esiste una relazione diretta tra possesso di armi da parte dei privati e numero di morti. Per avere un’idea più chiara del problema si può paragonare il numero dei morti da armi da fuoco e il numero dei morti da incidenti stradale. Da noi i morti da incidente sono circa 3500 all’anno, quindi più o meno otto volte e mezzo più dei morti da arma da fuoco. Negli Stati Uniti i morti su strada sono lo stesso numero di quelli uccisi a revolverate. La seconda domanda che mi sono posto (quella "etica") è più semplice, e richiede meno dati. Non credo che sia possibile porre sullo stesso piano vita e proprietà. Né che si possa mettere in discussione lo Stato di diritto, che prevede diritti uguali per tutti i cittadini, a prescindere dalla loro onestà, dai loro meriti o dalle loro colpe. Significherebbe stabilire che lo sviluppo della civiltà e dei suoi principi, che ha reso grande l’Europa e il nostro paese, è un bene secondario e commerciabile, e che può essere sospeso. Io penso che se noi accettassimo questa possibilità politica accetteremmo il rischio della barbarie. Ps. Sulla base di questa considerazione io mi permetto casomai di mettere in discussione l’articolo 52 del codice penale, perché eccessivamente permissivo nei confronti ci chi spara. Non ho obiezioni a rendere legale l’uso dell’arma contro l’aggressore e contro chi minaccia l’incolumità delle persone. Mi pare non del tutto convincente mettere sullo stesso piano il diritto all’incolumità e difesa del patrimonio. Come è attualmente. Ma può darsi che questo mio dubbio sia un "estremismo" dovuto all’influenza fortissima che il cristianesimo ha avuto su tutta la cultura italiana, e anche su di me. Perquisizioni al Sole 24 Ore. Indagati il direttore e nove manager di Paolo Colonnello e Francesco Spini La Stampa, 11 marzo 2017 I giornalisti protestano: sciopero a oltranza finché Napoletano non se ne va. Quando a metà mattinata una pattuglia in borghese della Guardia di Finanza è entrata nell’ufficio del direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano per una perquisizione, si è capito che per quella che fu la corazzata editoriale della Confindustria - arrivò a vendere più copie del Financial Times - per decenni Bibbia del capitalismo italiano, un’epoca era tramontata. Le copie gonfiate - Nel provvedimento firmato dai pm Fabio De Pasquale e Gaetano Ruta, spiccano infatti i nomi di ben nove persone che per almeno tre anni, dal 2013 al 2016, hanno retto le sorti del giornale. Truffando il mercato, ipotizzano gli inquirenti. Gonfiando cioè le copie vendute digitalmente a una società inglese controllata da una fiduciaria dietro la quale si nascondevano "amici degli amici" che avrebbero guadagnato da queste vendite fittizie (almeno 100 mila abbonamenti) circa tre milioni di euro. Un’operazione in perdita nascosta tra le pieghe di bilancio di un giornale che avrebbe dovuto essere, per sua natura, lo specchio della trasparenza. E invece i reati contestati sono da società spazzatura: false comunicazioni sociali e appropriazione indebita. La spoliazione di un gruppo che negli anni d’oro fatturava decine di milioni ed era un marchio di qualità. Giornalisti in rivolta - Così nel pomeriggio un’assemblea dei giornalisti ha ratificato quello che le carte dell’inchiesta avevano già messo nero su bianco: Napoletano non è più considerato un direttore credibile. Dunque sarà sciopero a oltranza finché non si dimetterà. Il direttore, ritenuto amministratore di fatto, è indagato per false comunicazioni sociali per aver ratificato i bilanci degli ultimi anni sapendo bene che erano falsi, o comunque alterati dalla storia delle vendite farlocche. Insieme a lui devono rispondere dello stesso reato l’ex presidente della casa editrice Benito Benedini, e l’ex ad del gruppo quotato in Borsa, Donatella Treu. Gruzzolo da tre milioni - Per la parte relativa alle copie gonfiate e in particolare per il reato di appropriazione indebita, stimata in circa 3 milioni di euro, sono indagati l’ex direttore dell’area digitale del Sole 24 ore, Stefano Quintarelli, attuale deputato di Scelta civica e professore tra i più attivi nella legislazione sul web; l’ex direttore del gruppo editoriale, Massimo Arioli e l’ex direttore dell’area vendite, Alberti Biella. Secondo le accuse sarebbero stati perfettamente al corrente delle vendite fittizie alla società inglese Di Source Limited che a sua volta controllava la Fleet Street News Ltd diretta da Filippo Beltramini, e i cui soci occulti sarebbero stati il commercialista Stefano Poretti e il fratello del deputato, l’imprenditore Giovanni Quintarelli. Il Sole avrebbe venduto in modo fittizio a questa società tra il 2013 e il 2016 abbonamenti per 15 milioni e mezzo di euro, pagandoli però 18,5 milioni, con una "cresta" netta di 3 milioni. Le copie digitali multiple, in tutto 109.500, vennero dichiarate nel marzo 2016 dalla casa editrice ma poi, in seguito ai sospetti di essere "fantasma", vennero tolte dal computo della diffusione dalla società Ads che certificale vendite dei giornali. Alcuni degli indagati sono già stati interrogati. Il caos in Confindustria - La sensazione è che questa sia soltanto la punta dell’iceberg, in grado di squassare anche gli equilibri di Confindustria in un intreccio tra vecchi e nuovi consiglieri d’amministrazione dal quale potrebbero presto scaturire nuovi indagati. Ieri Viale dell’Astronomia, che negli ultimi mesi ha sempre confermato la fiducia a Napoletano, ha espresso "piena fiducia nella magistratura", annunciando che "valuterà tutte le azioni necessarie a tutela propria e degli altri azionisti". Parole simili anche dal Gruppo 24 Ore, da dove si promette "massima collaborazione". E dove è in allarme anche l’organismo di vigilanza presieduto dall’ex pm Gherardo Colombo, con l’ex colonnello della Gdf Federico D’Andrea e il commercialista Arrigo Berenghi: vista la situazione di deficit (il patrimonio netto è negativo per 7 milioni) la stessa società potrebbe finire indagata. Verso l’aumento - La prima riunione del cda è prevista per giovedì: licenzierà i conti e darà corpo al piano finanziario (cui lavora, come consulente, Vitale & Co) con un aumento di capitale da circa 100 milioni. Senza escludere altre iniezioni di denaro. Un cda straordinario è previsto invece nel caso in cui Napoletano decidesse di fare un passo indietro. Qualcuno gli ha consigliato una formula già sperimentata dal sindaco di Milano Sala, ovvero di autosospendersi. Lui, per il momento, ha espresso fiducia nella magistratura, dicendosi certo "di poter dimostrare in tutte le sedi la piena linearità dei miei comportamenti che è quella di una vita". Roma: 40enne in detenzione domiciliare non risponde, i carabinieri lo trovano impiccato di Flamina Savelli La Repubblica, 11 marzo 2017 Lo hanno trovato impiccato a una sbarra di ferro attaccata al soffitto del corridoio di casa dove stava scontando ai domiciliari gli ultimi mesi di una condanna per spaccio. Così A.L., 40 anni, con precedenti per spaccio e detenzione di droga, si è tolto la vita. A far scattare l’allarme nell’appartamento è stato il padre che non riusciva a mettersi in contatto con lui già da diverse ore. I carabinieri sono quindi entrati in casa, trovando il corpo dell’uomo appeso alla sbarra. Del caso si occupano ora i militari del comando San Paolo anche se, secondo una prima perizia, sembrerebbe confermato il suicidio. Proprio il padre avrebbe dichiarato che nelle ultime settimane il figlio gli aveva manifestato un forte stato di malessere tanto da assumere dosi di tranquillanti e di sonniferi. Tuttavia non sono stati trovati biglietti o lettere d’addio per i familiari. Nelle prossime ore verrà eseguita l’autopsia per escludere altre cause. Siracusa: detenuto morì in carcere, rinviati a giudizio i medici e un perito Ansa, 11 marzo 2017 Otto medici e un perito del Tribunale sono stati rinviati a giudizio per la morte di un detenuto avvenuta nel 2012 nel carcere di Siracusa. Lo rende noto l’associazione "Antigone" che attraverso il suo avvocato, Simona Filippi, presentò un esposto alla Procura della Repubblica di Siracusa affinché fossero individuati i responsabili della morte dell’uomo, richiedendone il rinvio a giudizio. Per la morte di Alfredo Liotta, 41 anni, in attesa di giudizio della Cassazione dopo la condanna per mafia e omicidio, avvenuta nel carcere di Cavadonna a Siracusa nel luglio del 2012 sono indagati il Direttore sanitario e sette medici del carcere, nonché il perito nominato dalla Corte d’Assise d’Appello di Catania. "Il caso venne portato a conoscenza del Difensore Civico di Antigone - spiega l’associazione - da parte di alcuni familiari del detenuto. Dalle carte emerse come il personale medico e infermieristico che si succedeva dal detenuto, non avesse saputo individuare e comprendere i sintomi né il decorso clinico di Alfredo Liotta e che tali carenze conoscitive ne avessero determinato il decesso". Secondo Antigone "la scarsa lucidità del paziente avrebbe dovuto allarmare il personale sanitario e far considerare diversamente i rifiuti reiterati della terapia e del cibo che invece furono interpretati come rifiuti volontari". "Il rinvio a giudizio - aggiunge l’associazione - è arrivato ad oltre quattro anni di distanza. "Per il Direttore sanitario e i medici - spiega Antigone - l’accusa della Procura di Siracusa è quella di aver cagionato con colpa, nelle loro posizioni di garanzia sulla salute dei detenuti ‘il decesso del detenuto Liotta Alfredo, avvenuto a seguito di collasso cardiocircolatorio causato da evento emorragico innestato in una grave condizione anoressica". "Colpa consistita - si legge nella richiesta di rinvio a giudizio, riferisce Antigone - in mancanza di una scelta espressa, inequivoca ed intenzionale del Liotta di rifiutare il cibo e le azioni diagnostiche e terapeutiche necessarie per la salvaguardia della sua salute e, a partire dal 13.07.2012 in assenza di capacità di autodeterminazione del Liotta in relazione a tale scelta". C’è, inoltre "una diagnosi non corretta in ordine alle effettiva patologia del Liotta e di conseguenza non aver posto in essere un’adeguata gestione intramuraria dello stesso". Per quanto riguarda il perito invece l’accusa è quella di ‘non aver correttamente rappresentato alla Corte d’Assise d’Appello di Catania la patologia da cui il Liotta era affetto e non averne specificato le conseguenze in ordine alla capacità di determinarsi consapevolmente". Una condotta che, riferisce Antigone, "non avrebbe permesso alla Corte di impartire all’Amministrazione Penitenziaria le corrette direttive per la gestione del detenuto, compresa anche la possibilità di prevedere una diversa misura alla detenzione. L’udienza preliminare si terrà il prossimo 6 aprile e Antigone interverrà come parte offesa, insieme alla moglie e al figlio dell’uomo, e presenterà la richiesta di costituzione come parte civile. Salerno: la morte in carcere di Alessandro Landi, infarto o pestaggio? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 marzo 2017 Ancora mistero sulla morte di Alessandro Landi avvenuta alla casa circondariale di Salerno nella notte tra Natale e Santo Stefano scorso. Una morte sospetta con una versione ufficiale che non convince i parenti della vittima, tantomeno la magistratura che aveva aperto un’inchiesta. Secondo il primo esame autoptico avvenuto a pochi giorni dal suo decesso, Landi non avrebbe ricevuto nessun pestaggio. Ma in politica non esistono vuoti. I Cinque Stelle occupano gli spazi che centrodestra o centrosinistra non difendono. Una voragine politica e culturale momento non si esclude ancora nessuna pista visto che la sua morte sarebbe stata causata dal tamponamento cardiaco causato dalla rottura dell’aorta ascendente. Si dovrà attendere a fine mese il risultato degli esami tossicologici e istologici per chiarire la causa della rottura. Per il suo decesso sono stati iscritti sul registro degli indagati i due medici dell’Asl G.B. 33 anni di Battipaglia e N.C. 33 anni di Pagani, entrambi di guardia al carcere salernitano di Fuorni. Spetta ora alla magistratura verificare se nel loro operato vi siano responsabilità o se ci siano stati ritardi o omissioni nelle cure e nei soccorsi. Sembra infatti che nei giorni precedenti al decesso, l’uomo abbia accusato dei malori. Inoltre è ancora tutto da chiarire cosa accadde in carcere dalle 2 e 40, ora del decesso, fino alle 7 e 30 del mattino quando il corpo ormai privo di vita è stato portato all’ospedale San Leonardo di Salerno. Landi, 36enne, era un padre di famiglia, alla sua prima esperienza detentiva, da tre mesi, a seguito dell’arresto scattato nell’ambito dell’operazione dell’antimafia denominata "Italo" che, attraverso l’emissione di 62 misure cautelari, sgominò cinque gruppi criminali dediti alle rapine e allo spaccio di droga. Landi doveva rispondere delle accuse di sfruttamento della prostituzione, aggravato dallo stato di necessità della vittima, dipendente da sostanze stupefacenti. Al carcere salernitano di Fuorni faceva parte del gruppo dei detenuti lavoratori, in qualità di idraulico. L’uomo, in base alla prima ricostruzione, intorno alle 2 della notte tra il 25 e il 26 dicembre, sarebbe andato alla toilette, e qui il suo cuore avrebbe smesso di battere. Erano stati gli agenti di turno a ritrovare il trentaseienne seduto sul wc della cella, appoggiato su se stesso. Una posizione che aveva immediatamente insospettito uno degli agenti, il quale si è avvicinato per accertarsi sulle condizioni dell’uomo. Troppo tardi, ogni tentativo di soccorso si era rivelato inutile: Alessandro Landi era già morto. I famigliari non credono alla morte naturale. Alcuni lividi e un grumo di sangue sul labbro rivenuti sulla salma del detenuto hanno insospettito i genitori, per questo hanno presentato un esposto presso la Procura di Salerno che ha aperto un fascicolo. A fine mese il quadro sarà più chiaro. Trento: il Garante nazionale dei detenuti per la prima volta parte civile in un processo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 marzo 2017 Era venuto a conoscenza di violenze nei confronti di un detenuto, e aveva fatto direttamente l’esposto in procura. Il giudice deve decidere sul rinvio a giudizio di due agenti. È accaduto a Trento, dove Mauro Palma ha partecipato come persona offesa. Per la prima volta il garante nazionale dei detenuti, una figura istituzionale, interviene in un procedimento penale come persona offesa in merito ai presunti abusi avvenuti in carcere. Si è discussa, davanti al giudice delle indagini preliminari del tribunale di Trento, la richiesta di archiviazione del procedimento penale relativo a ipotesi di maltrattamenti e violenze ai danni di detenuti della carcere di Spini, a Trento. Il garante nazionale Mauro Palma, rappresentato dalla componente del collegio Emilia Rossi, ha partecipato all’udienza in qualità di "persona offesa" con l’assistenza legale dell’avvocato Nicola Canestrini del foro di Rovereto. La vicenda risale allo scorso anno tramite un esposto alla procura presentato dal garante stesso. Nel corso di una visita effettuata da Mauro Palma e dal sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, un detenuto aveva riferito di essere stato oggetto di percosse da parte di due agenti in un particolare locale dell’Istituto e di essere in grado di identificarli. In merito a questo, il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva comunicato, con una lettera datata 6 luglio 2016 che "la Casa circondariale di Trento ha evidenziato la posizione di incompatibilità ambientale del detenuto con l’Istituto trentino a causa delle esternazioni effettuate dal detenuto in ordine a presunti abusi da parte del personale di Polizia penitenziaria e la necessità di un trasferimento in altra sede penitenziaria". Pertanto ne è stato predisposto il trasferimento il 20 giugno verso un Istituto di altra regione. Una situazione che ha destato perplessità e preoccupazione. Soprattutto perché risulta al garante nazionale che già in passato alcuni responsabili sanitari abbiano trasmesso alla direzione dell’istituto informazione scritta relativa a presunte violenze subite da alcuni detenuti e da questi riportate nel corso di visite mediche specialistiche. Tali informazioni, corredate di referti del presidio ospedaliero, erano state trasmesse al direttore del periodo in cui verificatesi per essere trasmesse alla procura per le relative indagini. Esse riportarono dichiarazioni circa le violenze subite quali causa dei traumi che hanno richiesto l’intervento medico. La delegazione del garante aveva potuto appurare che almeno nelle date 18 marzo, 21 maggio, 3 ottobre 2014, 19 giugno 2015 e 15 aprile 2016 erano stati redatti referti con tali informazioni. A detta del personale medico, ogni informazione di questo tipo ricevuta viene trasmessa alla direzione dell’Istituto. Tuttavia, al garante nazionale non risultava che alcuno di questi casi sia stato portato a conoscenza della procura della Repubblica per la doverosa indagine né che sia stato adeguatamente indagato all’interno dell’Istituto. Anche per questo motivo è stato il garante in persona a fare l’esposto in procura. A maggio del 2016 si aprì finalmente l’indagine, ma i pm hanno alla fine scelto di archiviare. Il garante nazionale ha fatto opposizione e il 7 marzo la discussione davanti al gip sulla richiesta di archiviazione. "È la prima occasione in cui il garante nazionale interviene in un procedimento penale come persona offesa - sottolinea Emilia Rossi - e si tratta di un importante riconoscimento del ruolo istituzionale del garante e della sua funzione di tutela dei diritti delle persone detenute". Il difensore avv. Canestrini ha evidenziato la necessità che le segnalazioni e gli esposti relativi a ipotesi di violenze all’interno di un carcere siano "esplorati fino in fondo, accogliendo le indicazioni di fonti di prova provenienti da atti e rapporti istituzionali quali sono quelli del garante nazionale e che gli accertamenti siano condotti da autorità diverse e indipendenti rispetto a quelle coinvolte nell’indagine". Tra qualche giorno il giudice renderà nota la sua decisione di archiviare oppure di ordinare che l’indagine vada avanti. Trento: il carcere visto dai detenuti "alienante" di Marta Romagnoli Corriere del Trentino, 11 marzo 2017 I giudizi dei detenuti in un questionario della Camera penale. I curatori: "Struttura alienante". "Una cattedrale nel deserto, una struttura spersonalizzante". È la fotografia del carcere di Trento scattata dagli avvocati della Camera penale che hanno fatto un sondaggio tra i detenuti. Una "cattedrale nel deserto", una "struttura fisicamente spersonalizzante" che però "potrebbe funzionare se ci fosse più personale". Lo è, secondo gli avvocati Stefano Daldoss (presidente della Camera penale Michele Pompermaier), Filippo Fedrizzi (consigliere e membro dell’osservatorio nazionale sulle carceri dell’Unione Camere penali) e Gabrio Stenico (curatore dell’iniziativa), il carcere di Spini. La valutazione nasce dalle risposte date dai detenuti a un questionario (anonimo) sulle loro condizioni di vita. Un quadro che fotografa luci e ombre della struttura, che indaga le condizioni di vita, l’esercizio dei diritti, le attività lavorative, i rapporti l’esterno. È quello che emerge dalle risposte al sondaggio che, grazie alla collaborazione del parlamentare Florian Kronbichler, è stato somministrato nel febbraio 2016 a 350 detenuti, 338 uomini e 12 donne. "Sono stati compilati 170 questionari in totale, tutte le donne hanno risposto" spiega Stenico. Oltre la metà degli intervistati, però, si è astenuto, un po’ per diffidenza, un po’ per "paura", un po’ perché "tanto tra poco esco". "I detenuti - ricorda Stenico - parlano di "troppa sofferenza", "monotonia della vita", del fatto che "non funziona niente"". "Ora sono in 370: una cifra che eccede quella pattuita tra la Provincia e Roma di 240 posti massimo" dice Daldoss. Visite mediche o sanitarie disposte velocemente (il 74% afferma di essere visitato su richiesta e il 39,41% già il giorno stesso), una biblioteca molto usata (dal 60% dei detenuti, il 24,71% vi si reca settimanalmente), una struttura che dal punto di vista delle funzioni (luce, acqua, riscaldamento, servizi) non ha problemi: questi i giudizi positivi. Le note dolenti riguardano invece i rapporti con l’esterno: il 48,24% dice di non aver mai ricevuto visite da parte dei familiari (il 45,29 sì ma attendendo nel 40,59% dei casi ma attendendo oltre due settimane, gli altri non rispondono), il 58,24% (99 persone) dice di non ricevere la corrispondenza con regolarità, il 43,53% ritiene che durante i colloqui intrattenuti non sia garantita la riservatezza (il 25,29% è soddisfatto). Il 62,35% del campione (106 persone) dice di non aver, all’ingresso in istituto, ricevuto informazioni sui propri diritti. I colloqui: in 44 casi (25,88%) un colloquio con un operatore del Serd richiesto non sarebbe mai stato effettuato; non sarebbe avvenuto quello con il magistrato di sorveglianza per il 34,71% dei richiedenti (59 detenuti). Il 24,12% (41 persone) avrebbe voluto incontrare il proprio avvocato, ma non ci sarebbe riuscito. "Paradossalmente quando si è nominati avvocato di fiducia di una persona in carcere non si viene avvisati" fa notare Fedrizzi. I contatti con l’educatore sarebbero invece favoriti. Il 54,71 (a non rispondere è il 14,71%) non apprezza l’alimentazione, mentre l’84,71% (in 144) dice di non aver mai votato durante la detenzione. Un periodo medio di permanenza di 8 mesi e 11,5 giorni in cui si lavora un mese e 11,22 giorni e in cui la formazione dura un mese e 5,21 giorni: queste le cifre in termini di tempo. "Il personale non è abbastanza per consentire di utilizzare gli impianti sportivi perché non è possibile il controllo - spiegano gli avvocati - parliamo di 63 agenti effettivi (tolti gli amministrativi) per 370 detenuti. La struttura sta deperendo enormemente e da Roma non arrivano più quattrini per personale e strutture. Se siamo arrivati a questi numeri è perché lo Stato trasgredisce i patti in maniera mostruosa: i detenuti non sono trentini o condannati per fatti commessi in Trentino. Sono persone che vengono da Venezia, Bergamo e dall’Emilia Romagna. Siamo terra di immigrazione carceraria. Sembra che uno dei motivi per cui non si investe sul recupero è perché ci siano persone in transito". Milano: sciopero della fame di Martina Levato: "rivoglio mio figlio" di Franco Vanni La Repubblica, 11 marzo 2017 Clamorosa protesta della donna condannata per le aggressioni con l’acido dopo la decisione dei giudici sull’adottabilità del piccolo nato nell’agosto del 2015. "Io e il mio bimbo siamo vittime di una grande ingiustizia". "Senza mio figlio non ho ragioni per vivere. Io e il bambino siamo vittime di una grande ingiustizia". Questo ha detto Martina Levato a chi la ha incontrata in carcere. La giovane - condannata come esecutrice di diverse aggressioni con lancio di acido nel 2014 - il 7 marzo scorso ha cominciato uno sciopero della fame. Una forma di protesta estrema, contro la sentenza emessa dalla sezione minorile Corte d’Appello di Milano il giorno precedente. I giudici di secondo grado hanno confermato che il figlio naturale di Levato e del suo ex compagno Boettcher (anche lui condannato e detenuto per i medesimi fatti) può essere dato in adozione. Martina Levato, che deve scontare una condanna a 20 anni di carcere, accetta la punizione che le hanno inflitto i giudici nel processo penale. Si ribella invece all’esito del procedimento in sede minorile che le ha negato la responsabilità genitoriale sul figlio, nato il 15 agosto 2015, mentre sia lei sia Boettcher erano già detenuti da quasi otto mesi. Entrambi furono infatti arrestati in flagranza di reato il 28 dicembre 2014, dopo avere sfregiato in volto con lancio di acido Pietro Barbini, ex compagno di classe della stessa Levato, con cui la giovane aveva avuto un incontro sessuale. Le indagini hanno chiarito come lo scopo dell’agguato fosse "purificare" Martina, proprio in vista del futuro parto. Al tempo delle aggressioni, Levato era infatti già incinta. Laura Cossar, legale che assiste Levato nel procedimento minorile, da mesi ripete che "non esiste una ragione giuridicamente valida per cui a Martina sia stato tolto il bambino, che oggi ha un anno e mezzo. I giudici non hanno valutato la sua adeguatezza come madre, come avrebbero dovuto, ma si sono limitati a valutare le sue responsabilità in ambito penale". Martina Levato ha rivolto degli appelli chiedendo di potere crescere il bambino al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e persino a Papa Francesco. L’avvocato Cossar, in una nota, definisce la scelta dello sciopero della fame come "l’unico mezzo rimasto a questa mamma per dare voce, dal carcere, al profondo dolore del distacco dal suo bambino, conseguente alla violenta statuizione della Corte d’Appello". Martina Levato ricorrerà alla Suprema Corte di Cassazione ed alla Corte di Strasburgo, per quella che il suo legale definisce "la palese e grave violazione dei suoi diritti fondamentali di donna e di madre". Per chiedere che le sia "restituito" il bambino, nei mesi scorsi, decine di carcerate hanno fatto una raccolta di firme. Firenze: il carcere di Sollicciano ricambia; via il direttore, il nuovo è part time di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 11 marzo 2017 A Sollicciano cambia ancora la direzione. Lascia Loredana Stefanelli, che era subentrata pochi mesi fa a Marta Costantino. Al suo posto subentrerà un nuovo direttore, selezionato attraverso un interpello nazionale con candidati da tutta Italia. Nel frattempo, la direzione dell’istituto penitenziario sarà tenuta provvisoriamente da Carlo Berdini, attuale direttore del carcere di Parma, che dovrà dividersi tra il capoluogo toscano e la città emiliana. Un cambio al vertice a pochi giorni di distanza dall’evasione di tre detenuti romeni, ancora in libertà. Una situazione difficile, quella del carcere di Sollicciano, dove negli ultimi anni si sono avvicendati numerosi direttori. Avvicendamenti che, talvolta, rischiano di mettere a dura prova i progetti di lungo periodo all’interno dell’istituto. L’ultimo cambio di direzione si era registrato circa sei mesi fa, con l’addio di Marta Costantino, trasferita a Roma al Ministero della Giustizia, dopo solo 9 mesi dall’incarico. Da allora, la direzione è stata presa dall’ex direttrice Stefanelli. A complicare ulteriormente la situazione, il fatto che il nuovo direttore reggente sarà provvisorio, visto che potrà essere a Firenze solo alcuni giorni a settimana. Tutto questo, spiegano i garanti dei detenuti e i sindacati degli agenti, non aiuta a superare i tanti problemi che da anni attanagliano l’istituto, con il Sappe che indica tra gli avvicendamenti anche quello del comandante del reparto di polizia penitenziaria. "Sollicciano è ormai abbandonato a se stesso con una presenza di 655 detenuti e una carenza di 210 unita di polizia penitenziaria" ha detto Giuseppe Proietti Consalvi, vice segretario generale dell’Osapp. Per impedire nuove possibili evasioni, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha annunciato, mesi fa, il rafforzamento della sorveglianza e la ristrutturazione del muro di cinta. Ad oggi però, devono ancora partire le gare d’appalto. E tutto questo a fronte di una direzione vacante: "Stiamo lavorando per i nuovi vertici" dice il direttore del Dap regionale Giuseppe Martone. Perplesso il cappellano del carcere, don Vincenzo Russo: "Sono rimasto molto stupito di questa nuova sostituzione della direzione, soprattutto alla luce dell’intenso impegno e della serietà con cui ha lavorato in questi mesi la dottoressa Stefanelli". Camerino (Mc): un nuovo carcere in città, la Regione fa pressing di Monia Orazi Corriere Adriatico, 11 marzo 2017 Un documento unitario per impegnare il Governo a realizzare l’opera. "Sul carcere registro con soddisfazione la presa di posizione della Regione che si è espressa con il voto unanime in consiglio regionale, su una mozione che impegna l’ente a fare pressione sul governo per far sì che si possa realizzare una nuova struttura". Così il Sindaco Gianluca Pasqui si è espresso sull’apertura, a livello regionale, al ripristino della struttura penitenziaria di Camerino, resa inagibile dal sisma, che si trova all’interno della zona rossa. I 42 detenuti che si trovavano a Camerino il 26 ottobre, giorno della scossa fatale, tra cui 8 donne, ora sono a Rebibbia. La posizione - Soddisfazione è stata espressa da Pasqui anche per l’affermazione fatta a Roma dal senatore Enrico Buemi, che nel corso della recente conferenza stampa a Roma sulla zona franca ha detto che serve "una scelta rapida per la sostituzione della casa circondariale e la costruzione di una struttura penitenziaria di rilievo". Pasqui ha espresso la volontà di ricostruire anche il carcere: "Di recente è venuto in visita anche il direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo, che oltre ad aver preso visione della vecchia struttura, si è impegnato a lavorare sull’ipotesi di realizzazione di un nuovo carcere a regime 41bis oppure di un’altra struttura utile per il reinserimento di detenuti che scontano pene minori. Sono nelle condizioni di credere che il nuovo carcere sarà realizzato, anche perché noi un carcere lo avevamo, l’unico della provincia di Macerata. Se non sarà rifatto vuol dire che mancherà lo spirito di ricostruzione, perché è una struttura importante per l’economia della città". Il sindaco ha espresso la volontà di lavorare per riportare a Camerino tutte le istituzioni presenti fino allo scorso 26 ottobre, carcere compreso, in quanto essenziali per ricostituire il tessuto economico sociale della città. Lecce: accordo Asl-carcere per contrastare i suicidi in cella Quotidiano di Puglia, 11 marzo 2017 Prevenzione e gestione del rischio suicidario: protocollo d’intesa tra Asl Lecce e Casa Circondariale. Persone fragili esattamente come le altre, anzi di più. Sono i detenuti che attendono il giudizio o scontano la pena e hanno un loro vissuto, fuori e dentro un carcere, che si portano dietro e, talvolta, può diventare troppo pesante da sopportare. Con conseguenze anche drammatiche che le direzioni della Asl Lecce e della Casa Circondariale di Lecce intendono prevenire, individuare e gestire. Nasce così un protocollo d’intesa, siglato ieri pomeriggio, nella Direzione generale di via Miglietta, dal direttore generale Silvana Melli e dal direttore della Casa Circondariale Rita Russo, assieme al direttore del Dipartimento di Salute Mentale della Asl Lecce Serafino De Giorgi. "Con questa intesa - ha detto il direttore generale Silvana Melli - completiamo tutta la filiera assistenziale con équipe che operano all’interno dell’Istituto ed équipe che operano sul territorio, in tal modo garantendo un vero e proprio "percorso di cura" innovativo e centrato sui bisogni della persona, indipendentemente dal luogo in cui essa si trovi. Stiamo lavorando - ha rimarcato - in ogni direzione e a sostegno di tutte le fragilità, con l’obiettivo di costruire una Sanità che non lasci nessun bisogno senza risposta e sia in grado di farlo con le professionalità adeguate e gli strumenti migliori di cui Asl Lecce dispone". Uno scenario critico da gestire con strumenti, risorse e competenze che il direttore Rita Russo ha deciso con convinzione di mettere a disposizione dei quasi mille detenuti dell’Istituto di pena leccese: "Il Protocollo - ha commentato il direttore della Casa Circondariale - è una conquista di rilievo che consente di dare specificità e professionalità negli interventi di sostegno che riguardano il rischio suicidario. Il protocollo elaborato a cura dell’équipe di psichiatri del Dipartimento di Salute Mentale, diretto dal dottor Serafino De Giorgi, stabilisce regole e prassi per la gestione appropriata delle persone detenute che sono a rischio suicidario e questo sarà un ulteriore strumento di lavoro innovativo ed efficace per la Polizia penitenziaria, già chiamata a re-inventare un nuovo modo di fare sicurezza all’indomani della chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari". Sondrio: "Pastificio 1908", dal carcere cucina oltre i pregiudizi di Giuseppe Maiorana La Provincia di Sondrio, 11 marzo 2017 Presentati ufficialmente al ristorante "La Spia" i prodotti del laboratorio del carcere di Sondrio. Durante la serata lo chef Ferrarini ha cucinato tre piatti con le ricette studiate appositamente insieme ai detenuti. Con una serata al ristorante La Spia di Castione è stato presentato ufficialmente il "Pastificio 1908", laboratorio artigianale per la produzione di pasta senza glutine realizzato all’interno della casa circondariale di Sondrio. Lo chef Marcello Ferrarini, che ha formato i detenuti che produrranno la pasta all’interno del laboratorio, si è cimentato in uno show cooking di preparazione di tre primi piatti secondo le ricette che lo stesso chef ha studiato nelle scorse settimane con i partecipanti al progetto. E, se al fianco proprio di Ferrarini, si sono alternati i detenuti (Ruggero, Mohamed e Paolo) che con le loro idee hanno ispirato le ricette realizzate nel corso della serata e che compaiono e compariranno anche sul retro delle confezioni di pasta, spiegando come sono nate le ricette e raccontando anche la loro storia e la loro voglia di riscatto, nella cucina del ristorante La Spia gli altri detenuti hanno preparato e impiattato le portate per tutti gli ospiti della serata. Alla cena "di lancio" dei prodotti del Pastificio 1908 hanno infatti preso parte i rappresentanti di tutti i soggetti che hanno sostenuto l’iniziativa: dalla direttrice della casa circondariale Stefania Mussio, al presidente di Confartigianato Sondrio Gionni Gritti; dalla presidente del Bim Carla Cioccarelli ai rappresentanti della fondazione Pro Valtellina fino a vari componenti della cooperativa Ippogrifo, tra cui il responsabile del progetto del pastificio Alberto Fabani e il presidente Paolo Pomi. "Con le nostre iniziative all’interno della casa circondariale di Sondrio - ha sottolineato Pomi - vogliamo creare un ponte tra dentro e fuori in modo da sanare il momento di "rottura" rappresentato dalla detenzione. Con il laboratorio di produzione di pasta senza glutine abbiamo gettato basi solide per far sì che questa distanza tra "dentro" e "fuori" sia colmata. Siamo riusciti a far entrare tante persone all’interno del carcere e ora siamo pronti a fare uscire questo prodotto". E, ovviamente, a dare una possibilità di riscatto ad alcuni detenuti della casa circondariale. "Vogliamo ringraziare per la possibilità che ci è stata concessa - ha raccontato Ruggero, mentre a fianco dello chef Marcello Ferrarini si cimentava nella realizzazione della sua ricetta, i "Maccheroni di Ruggero" - cioè quella di poter portare fuori tutto quello che abbiamo dentro. Abbiamo sbagliato, è vero, ma è bello che ci venga data la possibilità di reintegrarci attraverso questo ponte tra interno ed esterno del carcere. E devo dire anche che mi emoziona e lascia senza parole il fatto che la mia ricetta sia riportata, scritta e tangibile, sulla confezione di pasta che abbiamo prodotto". Una pasta che ora verrà prodotta regolarmente all’interno della casa circondariale di Sondrio per poi essere commercializzata: in questo senso sono già stati avviati contatti con alcune realtà commerciali del mandamento di Sondrio come Il Maggengo, la cooperativa agricola di Albosaggia e l’Arte della pasta. "Un’importante opportunità per i detenuti" Alla serata di mercoledì al ristorante La Spia di Castione, a sancire in modo ancor più inequivocabile l’importanza del laboratorio di produzione di pasta senza glutine all’interno della casa circondariale di Sondrio (denominato "Pastificio 1908") è stata la presenza di Fabio Fanetti, presidente della commissione speciale carceri lombarda. "La formazione dei detenuti e il loro reinserimento nella società - ha sottolineato Fanetti - sono fattori importanti e qualificanti. Tutto questo lavoro influisce sulla riduzione della recidiva e quindi porta benefici sia ai detenuti che allo Stato perché comporta una sensibile riduzione dei reati e quindi anche un importante risparmio sulla spesa pubblica". "Sono molto grata per la realizzazione di questo progetto" gli ha fatto eco la direttrice dalla casa circondariale di Sondrio Stefania Mussio che, nell’occasione, ha ringraziato non soltanto Fanetti per la sua presenza in Valtellina, ma anche tutti i suoi collaboratori all’interno del carcere del capoluogo. "Anche perché - ha aggiunto - so quanto sia difficile investire in realtà come il carcere. Si tratta di un’impresa coraggiosa che presuppone la presenza di una basa solida sul territorio. Progetti come quelli del laboratorio artigianale di pasta senza glutine sono l’unico modo davvero efficace per abbassare la recidiva e investire sulla sicurezza sociale. Questi progetti, mi piace ribadirlo, creano sicurezza sociale". Nel corso della serata, poi, l’emozione è stata molto forte non soltanto per i detenuti che si sono cimentati ai fornelli, ma anche per lo chef Marcello Ferrarini che, insieme all’azienda "La Veronese", che ha fornito la materia prima, ha creduto sin dal primo momento all’iniziativa promossa dalla cooperativa Ippogrifo: "Ho aderito - ha confermato Ferrarini - con grande amore e passione e sono contento di partecipare a questa iniziativa. Sono celiaco e quindi ho messo tutto me stesso in questo progetto. I detenuti con grande spirito stanno cercando di trovare una via di fuga dalla loro condizione, si sono messi in gioco. Spero che questa esperienza serva loro per capire che dietro alle difficoltà si può sempre celare un’opportunità di crescita sia a livello personale sia a livello professionale". Sondrio: penne senza glutine made in carcere, la pastasciutta come forma di riscatto di Susanna Zambon Il Giorno, 11 marzo 2017 Pasta senza glutine per i detenuti. Non (solo) da mettere in tavola, ma da produrre. È operativo da ieri il Pastificio 1908, anno di costituzione della casa circondariale di Sondrio. Nato dal lavoro della Cooperativa Sociale Ippogrifo, impegnata da tempo in diversi progetti nel carcere del capoluogo, produce pasta senza glutine per condividere con il territorio un prodotto di qualità e per costruire con le persone detenute un’opportunità concreta di inclusione sociale per un futuro più costruttivo. "Un ponte - lo ha definito Paolo Pomi, presidente della Cooperativa, durante la serata di presentazione al pubblico dell’iniziativa presso il ristorante "La Spia" a Castione Andevenno - tra la Casa circondariale e la città". Per illustrare al meglio il lavoro già svolto da un gruppo di detenuti che hanno seguito il corso di formazione nel laboratorio all’interno del carcere, lo chef Marcello Ferrarini con loro ha dato vita ad una degustazione di gustose ricette preparate proprio con la pasta senza glutine (sia secca che fresca) che a breve verrà messa in commercio attraverso alcuni canali dedicati. "È un progetto molto significativo - ha sottolineato la direttrice della Casa Circondariale, Stefania Mussio - che ha visto il lavoro di tanti operatori e di tante agenzie esterne. Bim Adda, Fondazione Pro Valtellina e Confartigianato hanno sostenuto concretamente e con entusiasmo la Cooperativa Ippogrifo. Abbiamo voluto realizzare un prodotto di qualità, che fosse fin da subito inteso come un buon prodotto: vorremmo pertanto che le persone del territorio, che possono avere un interesse nella distribuzione e nella pubblicità del prodotto, possano conoscerlo, gustarlo, apprezzarlo e così stimolarne la vendita e la diffusione". Il progetto del pastificio ha avuto inizio anni fa con una riconversione di un’autorimessa su iniziativa del Provveditorato di Milano e della Provincia di Sondrio. La Cooperativa Ippogrifo, a cui è affidata, la gestione ha accolto con favore l’invito del carcere e delle istituzioni locali a impiegare personale detenuto, con risultati da subito incoraggianti. Il Presidente della Commissione speciale carceri lombarda, Fabio Fanetti, ha voluto rivolgere "un plauso alla direttrice e agli attori coinvolti; la formazione dei detenuti e il loro reinserimento nella società sono fattori importanti e qualificanti. Tutto questo lavoro influisce sulla riduzione della recidiva e quindi porta benefici sia ai detenuti che allo Stato perché comporta una sensibile riduzione dei reati e quindi anche un importante risparmio sulla spesa pubblica". E anche alcuni dei detenuti protagonisti del progetto (uno di loro è stato già regolarmente assunto) hanno voluto esprimere la loro gioia nel poter partecipare a questo progetto. "Sono entrato in carcere la prima volta nel 2000 - ha raccontato Ruggero - e le cose sono molto cambiate da allora. Sogno, quando uscirò, di poter aprire un ristorante usando le competenze che ho acquisito". Como: i detenuti rimettono a nuovo gli alloggi della polizia penitenziaria di Francesca Guido ciaocomo.it, 11 marzo 2017 Detenuti volontari per rimettere a nuovo gli alloggi della polizia penitenziaria. Accade al carcere del Bassone dove le stanze saranno completamente riqualificate. L’iniziativa è nata dal confronto sui bisogni degli agenti fra il sottosegretario alla presidenza della Regione Lombardia con delega all’Attuazione del programma e ai Rapporti istituzionali nazionali, Alessandro Fermi, e la direttrice del penitenziario Carla Santandrea, grazie all’interessamento dell’assistente di polizia penitenziaria Davide Brienza. "Questa mattina - ha spiegato Fermi - ho consegnato 20 tolle di vernice e tutti gli strumenti necessari alla tinteggiatura. Voglio ringraziare la Lattonedil di Carimate e la Colore 031 di Novedrate che hanno gratuitamente donato tutto ciò che consentirà di riqualificare gli spazi. Settimana prossima, dunque, i lavori potranno cominciare". Si tratta di un’iniziativa, che come ha spiegato lo stesso Fermi, ha una duplice valenza. Da un lato la possibilità di garantire spazi più confortevoli agli agenti, dall’altro saranno valorizzati i detenuti in un’ottica riabilitativa. Verranno ravvivati gli spazi dove vivono i circa 60 poliziotti in servizio: le scale di accesso, gli spazi ricreativi, le camere e la palestra. In totale poco meno di 100 stanze distribuite su 3 piani. I lavori di tinteggiatura saranno eseguiti dai detenuti, anche in forma volontaria. Fermi ha anche ricordato che gli ultimi lavori di riqualificazione risalgono al 2012 quando, grazie ad alcune doti regionali, si è proceduto alla riqualificazione di aree dell’istituto prima abbandonate, tra cui i corridoi della caserma agenti. "Da allora - ha spiegato - nessun altro intervento di manutenzione ordinaria è stato possibile, a causa soprattutto della scarsità di risorse. I soldi dal Ministero della Giustizia arrivano con il contagocce. È però importante che i poliziotti non si sentano abbandonati dalle istituzioni e per questo mi sono impegnato in prima persona per fronteggiare alcune carenze sottoposti a uno stress psicologico e fisico non indifferente. Si tratta di una briciola rispetto agli importanti interventi di cui il penitenziario avrebbe bisogno, ma il Governo è sordo". Quella di stamattina rientra in una serie di iniziative a favore dei carcetati. Ai primi di maggio è previsto un convegno sul tema del coinvolgimento dei detenuti in lavori di pubblica utilità come possibilità riabilitativa. Roma: al via il primo corso di formazione per volontari del carcere interris.it, 11 marzo 2017 Organizzato da Isola Solidale, associazione "Conosci" e fondazione Ozanam. Oggi alle ore 10, presso l’Isola Solidale, in Via Ardeatina, a Roma, parte l’iniziativa "Costruire ponti al tempo della società dei muri", il primo corso di formazione per gli operatori volontari del carcere. L’evento, che è stato organizzato dall’Isola Solidale, la Fondazione Ozanam e l’associazione Co.N.O.S.C.I., ha ottenuto il patrocinio del Ministero di Grazie Giustizia e della Regione Lazio. Intervengono, tra gli altri, Rita Visini, assessore alle Politiche Sociali della Regione Lazio, Rossella Santoro, direttore del carcere di Rebibbia "Nuovo Complesso", don Nicola Cavallaro, cappellano del carcere di Rebibbia, il giornalista Orazio La Rocca e Francesco Falleroni, segretario della Fondazione Ozanam. Aprono i lavori Alessandro Pinna, presidente dell’Isola Solidale, e Sandro Limbianchi, presidente dell’associazione Co.N.O.S.C.I. Il corso si svolgerà in otto lezioni complessive, si concluderà il 22 maggio, è gratuito e al termine verrà consegnato un attestato a tutti coloro che avranno partecipato ad almeno due terzi delle lezioni. Gli incontri avranno come protagonisti alcuni esperti nel campo dell’organizzazione delle strutture carcerarie, del volontariato, della medicina penitenziaria, della salute mentale, della normativa giudiziaria. L’idea di base è quella - attraverso la formazione - di creare un un’osmosi tra le strutture carcerarie e l’ambiente sociale esterno. Proprio per questo i volontari potranno acquisire gli elementi basilari sulla normativa carceraria, sui problemi sanitari e psicologici dei detenuti, sull’organizzazione penitenziaria. Inoltre, i volontari verranno formati per realizzare all’interno del carcere, insieme ai detenuti, alcune attività ludico-espressive. In particolare verrà allestito un Musical, in cui verranno proposti momenti di recitazione, di ballo e di canto oltre che alla realizzazione e all’allestimento dei costumi e delle scene. "Per la persona autrice di reato - spiega Pinna - è fondamentale che, durante la detenzione, si vengano a creare dei collegamenti con l’esterno in modo da rendere più facile il reinserimento nell’ambiente una volta terminata la pena. In tale contesto i volontari possono dare un contributo determinante per costruire il collegamento carcere-territorio, ma siamo convinti che, prima di svolgere la propria opera in contatto con i detenuti, debbano essere formati e organizzati adeguatamente. Ed è proprio questa la finalità del nostro corso di formazione nella convinzione che il volontariato è efficace ed utile quando alla base c’è una profonda ed adeguata formazione". Larino (Cb): il progetto Life Maestrale incontra i detenuti della Casa circondariale termolionline.it, 11 marzo 2017 Il principale elemento di innovazione e sperimentazione del progetto Life Maestrale è nella "particolarità dell’utenza" a cui vengono rivolte attività educative: i detenuti. Far entrare l’educazione ambientale negli istituti di detenzione significa quindi arricchire il percorso rieducativo dei detenuti con i principi della sostenibilità, affinché al loro ritorno in società siano consapevoli dei corretti comportamenti ambientali che sono richiesti a tutti i cittadini. L’incontro ha rappresentato un’occasione per incontrare l’universo del sistema giudiziario e carcerario su cui non si ha spesso occasione di riflettere e per prepararsi adeguatamente a confrontarsi con le persone detenute. L’esperienza di entrare in un istituto di detenzione non è facile per nessuno, forse tanto meno per i volontari di ABM abituati a lavorare normalmente con bambini ed in ben altre tipologie di aree "protette". La conoscenza diretta fatta dai volontari coinvolti, ha superato certamente le aspettative, sia per la soddisfazione che i detenuti hanno saputo dare ai propri "insegnanti" in termini di attenzione ed interesse, sia per la consapevolezza di aver offerto un contributo formativo a persone che, per lo più, prima non ne avevano mai avuto la possibilità. Le lezioni di scienze sono state realizzate nell’ambito delle classi che frequentano la scuola, aprendo la possibilità di frequenza anche ad altri detenuti su base volontaria; la partecipazione è stata cospicua tanto che la struttura didattica della Casa Circondariale, in occasione della lezione, era quasi al limite della capienza. Per il Life Maestrale e ABM portare l’educazione ambientale all’interno della Casa Circondariale è stata l’occasione di coniugare alla consueta attività a carattere ambientale un alto valore sociale, corrispondendo al più ampio concetto di sostenibilità e ponendosi come soggetto capace di fornire occasioni di formazione civica e servizi utili alla comunità locale. "Non è la prima volta che ABM si avvale della collaborazione della Casa Circondariale di Larino - commenta Luigi Lucchese - e, ogni volta, abbiamo avuto modo di rilevare la grande disponibilità della direzione e degli agenti e la concretezza dell’aiuto reso a supporto delle nostre iniziative". L’incontro si è concluso con l’apposizione di bat-box nell’ambito del progetto "un pipistrello per amico in tour". L’incontro si è svolto ieri 09 marzo 2017. Punire i poveri, la scelta populista del Pd di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 11 marzo 2017 Con i decreti sicurezza e immigrazione possiamo dire addio al buon senso, addio alla ragionevolezza, addio al garantismo, addio alla solidarietà, addio finanche alla rule of law. Come possono i parlamentari del Partito democratico, del movimento dei democratici e progressisti, delle forze cattoliche non di destra che appoggiano il Governo non rendersi conto che stanno votando un manifesto populista? Come fanno a non rendersi conto che gli apprezzamenti dei deputati leghisti o del senatore Giovanardi ai decreti del Governo su sicurezza e immigrazione sono un abbraccio mortale? Siamo vicini alle elezioni e purtroppo si vede. "Sicurezza, sicurezza, sicurezza": addio al buon senso, addio alla ragionevolezza, addio al garantismo, addio alla solidarietà, addio finanche alla rule of law. "Punire i poveri": è questa la scelta del governo. Nei giorni scorsi ho fatto un’esperienza di etnografia parlamentare. In qualità di presidente di Antigone e della più giovane Coalizione Italiana per le libertà civili sono stato audito alla Camera sul decreto legge in materia di sicurezza e al Senato sul decreto legge in materia di immigrazione. I due decreti letti insieme costituiscono un vero e proprio manifesto populista. Come in tutte le esercitazioni populiste in materia di sicurezza e immigrazione si urlano "verità" senza fornire le prove. Si scrive che c’è urgenza a intervenire in materia di sicurezza urbana, si offrono ai sindaci gli stessi poteri che gli aveva offerto inutilmente nel 2008 il ministro Roberto Maroni, si prevedono e auspicano sanzioni contro accattoni, prostitute (solo se ostentano le loro scelte), tossicodipendenti, si eleva il decoro a norma, si interviene sulle misure di prevenzione e si riduce la libertà di movimento delle persone, nonostante tutte le agenzie ufficiali (governo compreso) dicano che i reati "di strada" siano in calo netto negli ultimi anni. Nonostante la Corte Costituzionale abbia già dichiarato illegittimi i poteri dei sindaci nell’ambito della sicurezza urbana, nonostante due settimane fa siamo stati condannati dalla Corte europea dei diritti umani proprio per la nostra legislazione sulle misure di prevenzione (caso De Tomaso). Nel decreto immigrazione si afferma che c’è urgenza a intervenire in materia di immigrazione non perché vada approvato uno straordinario sforzo per salvare le persone che viaggeranno per mare durante la primavera e l’estate prossimi, ma per imprigionarle in numero massivo e per togliere garanzie ai richiedenti asilo senza ascoltare il parere di giudici e avvocati che all’unisono raccontano un’altra verità ovvero che negare la partecipazione all’udienza di un richiedente asilo e/o la possibilità di presentare appello vuol dire fare una scelta palesemente in violazione dei suoi diritti fondamentali. Imbarazzo si percepiva nei volti di chi rappresentava il governo nel sentire le obiezioni dell’Anm, dell’Asgi, del Tavolo Asilo. Giudici, avvocati e docenti universitari in Commissione al Senato erano basiti per l’inconsapevolezza di chi ha scritto al ministero della Giustizia le norme procedurali in materia di asilo, norme per l’appunto anti-garantiste, vessatorie, etnicamente orientate. Uguale imbarazzo spero provino i responsabili del ministero degli Interni quando alla prossima udienza papale dovranno vergognarsi per avere deciso che un povero non ha diritto a mendicare dove vuole e quando vuole. C’è chi però li ha presi subito sul serio. Virginia Raggi ha preannunciato misure contro chi rovista nei cassonetti romani. Ecco l’ennesimo esempio di populismo al potere: si annunciano misure sulla sicurezza sulla base di percezioni mai testate e al solo fine di rassicurare genericamente l’opinione pubblica. Ma chi rovista, ricicla e riusa non dovremmo premiarlo anziché punirlo? I sindaci hanno bisogno di rifarsi una verginità; chiedono poteri sulla libertà delle persone visto che non riescono a far pulire le strade, a far funzionare gli asili e ad assicurare un trasporto pubblico dignitoso. I sindaci dell’Anci erano alla Camera tutti felici, tranne Luigi de Magistris, delle misure del governo. Nel frattempo anche il mondo della cultura si sgretola ed editorialisti noti di giornali noti (Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera) si domandano (preoccupati) se i nuovi assunti di Starbucks saranno anche immigrati, oltre che italiani. Perché va dichiarata la guerra alla povertà, non ai poveri di Mario Giro* Il Foglio, 11 marzo 2017 "La sicurezza è di sinistra". Vero, ma deve essere sicurezza per tutti, italiani e immigrati. Senza le trappole di buonismo e cattivismo. Dicono che all’Anci i sindaci vogliano più poteri repressivi. Purtroppo per molti il concetto di "sicurezza" coincide con "decoro urbano". C’è chi annuncia il divieto di rovistare nei cassonetti e chi vuole raddoppiare agli immigrati il tempo accordato per accedere alla graduatoria degli alloggi popolari (anticostituzionale). Qualcun altro dice che fare l’elemosina comprometterebbe la vivibilità nonché la "mobilità" nelle nostre città. Davvero? Ce la vogliamo prendere con gli ultimi degli ultimi? Consiglio di leggere "L’attesa della povera gente" di Giorgio la Pira. E magari di occuparsi di trasporto pubblico. A Treviso si lasciano costruire muri e gated communities, tipo apartheid. È un messaggio sociale e politico micidiale: ognuno faccia da sé. A Ventimiglia si vieta con un’ordinanza di dar da mangiare gratuitamente ai migranti, di fare elemosina, mettendosi contro la nostra identità storica, culturale e religiosa. Si dice che "sicurezza è parola di sinistra". Certo, è ovvio. Infatti il problema non è "sicurezza" ma "sicurezza per chi?". Se la sicurezza è solo per alcuni, non importa chi, siamo tutti destinati all’insicurezza. "Ma anche gli italiani sono poveri", si ricorda giustamente. I dati Istat sulla povertà sono gravi per un paese occidentale. Siamo di fronte a due emergenze: le famiglie italiane povere e gli immigrati. Eppure, la soluzione dell’una dipende dall’altra e viceversa, come dimostrano anche gli allarmanti dati demografici appena pubblicati (non facciamo più figli e siamo il paese con più anziani al mondo dopo il Giappone). Eppure la narrazione urbana sembra contrapporre fatalmente questi due pezzi di società. Servirebbero soluzioni politiche, si dice. La norma universalistica per i più poveri approvata ieri è un’ottima notizia in questo senso. Il reddito di inclusione si rivolge a quasi due milioni di Italiani poveri. Manca ancora una norma che copra tutti gli italiani in forte disagio (circa 8 milioni) ma si inizia comunque dalla fascia più bassa. E questo è un’assoluta novità. L’Italia era uno dei soli due paesi di Europa a non avere una norma contro la povertà, assieme alla Grecia. In questi anni si è parlato fino alla noia di coesione sociale, ma la sensazione è che questa espressione si fosse quasi svuotata di reale peso specifico. La coesione è innanzitutto relazione tra individui, qualcosa di molto concreto. Tra i pregi del ddl povertà c’è il ribaltamento creativo dell’assistenzialismo perché prevede, accanto all’assegno, un diretto sostegno all’inclusione sociale e lavorativa. Nell’ambito dell’attuazione delle misure previste dal disegno di legge è poi fondamentale che vi sia un processo di inclusione anche dei minori, che si tenga conto cioè del benessere dei bambini, delle fragilità dei nuclei famigliari e dell’importanza di creare piani di intervento personalizzati. Non basta simpatizzare con l’hashtag #restiamoumani, che pur va rammentato, ma bisogna saper affrontare fattualmente i problemi dal basso, per tutti. Di questa prova voglio ringraziare personalmente il premier Paolo Gentiloni, che ha dimostrato capacità di ascolto e passione civile. I sindaci per primi possono esultare. Il "neocattivismo" in nome del decoro dei primi cittadini ci renderà ancora più insicuri, perché esalta le differenze e semina odio. Meglio cambiar strada. Dichiariamo guerra alla povertà non ai poveri, questo è il segnale che vieni dal governo. Seguire questa via sarebbe, per tutti, la misura più securitaria che possiamo immaginare. *viceministro degli Esteri Libia. Immorale il memorandum migranti siglato da Roma e Tripoli di Chiara Cruciati Il Manifesto, 11 marzo 2017 Incontro con la piattaforma libica della società civile che chiede al prossimo Consiglio Onu per i diritti umani di creare un team di monitoraggio. "Abusi sistematici, torture, rapimenti: diritti violati da tutti gli attori del conflitto". Due appuntamenti vanno segnati sul calendario libico di qui a 15 giorni: il 15 marzo la Corte d’Appello di Tripoli emetterà la sentenza sul memorandum d’intesa firmato da Italia e governo di unità nazionale (Gna) sui migranti; e il 22 all’Onu si riunirà nella sua 34esima sessione il Consiglio per i diritti umani. Due date importanti. Ad attenderne i risultati ci sono anche Zahra Langhi, fondatrice della Libyan Women’s Platform for peace; Karim Saleh, responsabile per la Libia del Cairo Institute for Human Rights Studies; e Hisham al Windi, attivista. Li abbiamo incontrati a Roma dove sono incontreranno istituzioni e associazioni della società civile in rappresentanza della piattaforma nata nel settembre 2016 e che mette insieme 16 organizzazioni di base libiche impegnate in campi diversi, migrazione, genere, media, libertà di espressione. L’obiettivo è dare la misura della sistematicità delle violazioni in atto nel paese e la distruttiva frammentazione in autorità diverse che impedisce l’individuazione dei responsabili di crimini. Il quadro ce lo danno mostrandoci la lettera inviata al Consiglio per i diritti umani e sottoscritta, tra gli altri, dal Cairo Institute, Amnesty International e Human Rights Watch: 450mila sfollati interni, centinaia di migliaia di migranti africani in transito detenuti e abusati, migliaia di prigionieri nelle carceri delle diverse autorità. "La situazione umanitaria in Libia non ha mai smesso di deteriorare dal 2011 - ci spiega Karim. È peggiorata nel 2014 con la scissione delle autorità centrali in due e poi nel 2016 con la scissione in tre diversi esecutivi in competizione, ognuno con un braccio armato. Le violazioni sono sistematiche: detenzioni arbitrarie, tortura e stupro nelle carceri, rapimenti e sparizioni forzate che hanno come target sia i difensori dei diritti umani che la comunità giudiziaria, giudici, avvocati, procuratori e le famiglie delle vittime che tentano le vie legali". "Gli abusi sono perpetrati da tutti i diversi attori del conflitto, che si muovono in una free-zone. La comunità internazionale deve creare un meccanismo di monitoraggio degli abusi". Che è esattamente quello che chiedono al Consiglio per i diritti umani: una missione di esperti indipendente che monitori la situazione umanitaria e faccia progressi per perseguire i responsabili. "L’Isis non è il solo gruppo criminale in Libia - continua Karim - All’interno delle frammentate istituzioni di est e ovest la situazione è la stessa. E dietro di loro ci sono Stati che trasferiscono con regolarità armi e denaro, come l’Egitto a favore di Haftar in violazione dell’embargo Onu. Armi che non solo impediscono di spezzare il circolo della violenza, ma che aumentano il potere di gruppi estremisti in totale contraddizione con le dichiarazioni pubbliche delle autorità egiziane: dicono di sostenere Haftar in chiave anti-terrorismo, ma nella realtà lo creano". "A monte sta il fallimento dell’intervento occidentale che non ha disarmato e demobilitato i gruppi nati dopo Gheddafi né aiutato alla costruzione di un sistema di sicurezza interna basato sul rispetto dei diritti umani - aggiunge Zahra - Il fallimento nello state-building e nel bloccare il flusso di armi ha disintegrato il paese". Lo si vede nel fenomeno delle città-Stato libiche: ogni gruppo governa uno specifico territorio con un diverso obiettivo politico, religioso o etnico. Hisham tenta da tempo di monitorare i diversi attori che nascono e si riproducono, "le repubbliche militari" le chiama. "Alcune milizie sono legate al premier del Gna Sarraj, al generale Haftar o all’ex primo ministro Ghwell; altri non si sono coalizzati con nessuno. Tale ramificazione di poteri in competizione è dovuta all’enorme afflusso di armi nel paese dal 2011. Non è stato immaginato alcun piano per il post-Gheddafi, per disarmare le milizie e far partecipare questi soggetti in un processo politico serio. Le dinamiche delle ‘repubbliche militarì sono in continua evoluzione: si ampliano e si riducono con grande rapidità; alcune sono legate a poteri precedenti, clan, tribù, altre sono frutto di poteri nuovi o di scissioni, come lo stesso Haftar o i cosiddetti ‘quiet salafì, i salafiti non jihadisti, invisibili sotto Gheddafi ma ora presenti anche tra le fila di Haftar in chiave anti-jihadista. La parte più debole, in tutta questa situazione, è lo Stato". Uno Stato che non c’è, sebbene qualcuno finga di vederlo. Come l’Italia che con il Gna, che controlla a mala pena Tripoli, ha raggiunto un’intesa per frenare i migranti. Il giudizio della società civile è pessimo: "Un atto immorale: l’Italia ha forzato un paese troppo debole - dice Zahra - Non è un accordo, ma un memorandum, trucco che elimina aspetti legali come la ratifica dei due parlamenti che infatti non c’è stata. Il Gna è debole, si aggiunge ad altri due "governi", non ha autorità né legittimazione perché non è stato votato da nessuno. In questa situazione senza potere di fatto né legittimazione popolare il Gna si è visto imporre un accordo dall’Italia che incrementerà gli abusi sui migranti che resteranno in un paese dove le milizie abusano di loro dall’arrivo alla tentata partenza. È immorale e esacerba la fragilità del Gna, un governo che tra 9 mesi scade. Qual è il piano dopo 9 mesi?". Francia. La de-radicalizzazione dei jihadisti: un fiasco di Soeren Kern* L’Opinione, 11 marzo 2017 Il programma di de-radicalizzazione dei jihadisti, fiore all’occhiello del governo francese, è un "fallimento totale" e deve essere "completamente rivisto", secondo le conclusioni iniziali di una commissione parlamentare d’inchiesta sulla de-radicalizzazione. Il rapporto preliminare rivela che il governo non ha nulla da mostrare per le decine di milioni di euro provenienti dalle tasche dei contribuenti che ha speso nel corso degli ultimi anni per combattere la radicalizzazione islamica in Francia, dove 238 persone sono rimaste uccise negli attacchi jihadisti dal gennaio 2015. Il report indica che la de-radicalizzazione, nei centri specializzati o nelle carceri, non funziona perché la maggior parte dei radicali islamici non vuole essere de-radicalizzata. Il report, intitolato "Disindottrinamento, de-reclutamento e reinserimento dei jihadisti in Francia e Europa" (Désendoctrinement, désembrigadement et réinsertion des djihadistes en France et en Europe) - il titolo evita di usare la parola "de-radicalizzazione" perché è considerata da qualcuno politicamente scorretta - è stato presentato il 22 febbraio alla Commissione Affari costituzionali e giuridici del Senato. Il rapporto è la versione preliminare di un ampio studio in corso, condotto da un gruppo di lavoro trasversale incaricato di valutare l’efficacia degli sforzi di de-radicalizzazione del governo. Il rapporto finale è previsto per il mese di luglio. Gran parte delle critiche mosse si concentrano su un piano da 40 milioni di euro (42 milioni di dollari) per costruire 13 centri per la de-radicalizzazione di sedicenti jihadisti - conosciuti come Centri di prevenzione, inserimento e cittadinanza (Cpic) - uno in ogni area metropolitana della Francia. Il piano originario, che è stato rivelato con gran clamore nel maggio 2016, prevedeva che ogni centro ospitasse un massimo di 25 individui, di età compresa tra i 18 e i 30 anni, per un periodo di dieci mesi. Il governo ha stabilito che 3.600 individui dovrebbero accedere a queste strutture nei prossimi due anni. Il primo - e finora l’unico - di questi centri, si trova nel castello di Pontourny (nella foto), un isolato maniero del XVIII secolo che sorge nel cuore della Francia, ed è stato aperto nel settembre 2016. Quando le senatrici Esther Benbassa e Catherine Troendlé, alla guida della task force, si sono recate a Pontourny il 3 febbraio scorso, hanno trovato un solo ospite nella struttura. Questo individuo è stato poi condannato e arrestato per "violenza domestica". Dopo solo cinque mesi di attività, Pontourny è ora vuoto, anche se dà lavoro a 27 persone, tra cui cinque psicologi, uno psichiatra e nove educatori, con un costo annuale di 2,5 milioni di euro (2,6 milioni di dollari). Anche se in Francia si stima che risiedano 8250 irriducibili radicali islamici, solo 59 persone hanno chiesto di andare a Pontourny dalla sua apertura. Di queste, solamente 17 hanno presentato richiesta e solo nove sono arrivate nel centro. Nessun ospite della struttura ha completato il programma che prevede un soggiorno di dieci mesi. Uno degli ospiti è un jihadista di 24 anni di nome Mustafa S., che è stato arrestato nel corso di un’operazione anti-terrorismo nei pressi di Strasburgo, il 20 gennaio 2017. La polizia ha detto che l’uomo aveva legami con uno degli autori degli attentati jihadisti del novembre 2015 al teatro Bataclan di Parigi. Mustafa S. è stato arrestato mentre si apprestava a lasciare Pontourny: presumibilmente per unirsi allo Stato islamico, in Siria. Altra ospite del centro di Pontourny era una donna incinta di 24 anni di nome Sabrina C., rimasta nella struttura dal 19 settembre al 15 dicembre. La giovane ha rivelato a un quotidiano locale di non essere mai stata radicalizzata, ma di aver approfittato di Pontourny per sfuggire alla sua "famiglia che la teneva nella bambagia" per "prendere una boccata d’aria fresca": "Non ho mai mostrato interesse verso alcuna religione. La mia famiglia è cattolica non praticante, va in chiesa di tanto in tanto, ma niente di più. Il mio ragazzo voleva che indossassi il velo, ma mi sono sempre rifiutata di farlo". La madre di Sabrina ha detto che il centro di de-radicalizzazione "è stata un’opportunità per nostra figlia per frequentare un corso di formazione professionale, imparare a cucinare, stare vicino agli animali". Sabrina ha aggiunto che il suo soggiorno è stato un incubo: "Piangevo ogni notte, mi sentivo fuori posto. A Pontourny mi trattavano come una criminale". La giovane ha ipotizzato che l’unico motivo per cui le è stato consentito di risiedere nella struttura è dovuto al fatto che il governo doveva "fare numero". Il governo ha inoltre fallito nel suo tentativo di debellare la radicalizzazione islamica nelle prigioni francesi. Nell’ottobre 2016, esso ha ribaltato una politica volta a ospitare i detenuti radicalizzati in unità separate dopo l’aumento del numero di aggressioni contro le guardie penitenziarie. L’idea originaria era quella di isolare gli islamisti per impedire loro di radicalizzare altri detenuti, ma il ministro della Giustizia Jean-Jacques Urvoas ha ammesso che ospitarli in ali separate delle carceri li ha resi di fatto più violenti perché sono stati incoraggiati a farlo dal cosiddetto "effetto di gruppo". Il rapporto ha inoltre denunciato la comparsa di un "business della de-radicalizzazione" in cui le associazioni e le organizzazioni non governative che non hanno alcuna esperienza nell’ambito della de-radicalizzazione si sono aggiudicati lucrosi appalti pubblici. "Diverse associazioni, in cerca di finanziamenti pubblici in un periodo di penuria fiscale, si sono orientate senza reale esperienza verso il settore della de-radicalizzazione", secondo la senatrice Benbassa. Quest’ultima ha sottolineato che il programma di de-radicalizzazione del governo è stato mal concepito e abborracciato per motivi politici in un contesto di minacce diffuse. "Il governo era in preda al panico a causa degli attacchi jihadisti - ha chiosato la senatrice - Ed è il panico che ha guidato le sue azioni. Il tempo della politica è breve, occorreva rassicurare la popolazione". Il sociologo franco-iraniano Farhad Khosrokhavar, un esperto di radicalizzazione, ha spiegato a France 24 che l’unico modo che il governo ha di affrontare il problema dei jihadisti irriducibili è metterli in galera: "Taluni possono essere radicalizzati, ma non tutti. Per i jihadisti irriducibili, quelli che sono del tutto convinti, è impossibile. Queste tipologie di profili sono molto pericolose e rappresentano circa il 10-15 per cento di coloro che sono stati radicalizzati. Il carcere potrebbe essere l’unico modo per affrontare il problema di questi irriducibili". In un’intervista a "L’Obs", la senatrice Benbassa ha asserito che il governo non riesce a occuparsi della prevenzione: "Occorre far socializzare i giovani candidati al jihadismo. Dobbiamo insegnare loro un mestiere, fornirgli competenze e offrirgli un follow-up individualizzato. Tutto questo prevede l’aiuto della famiglia, degli imam, della polizia locale, degli educatori, degli psicologi e degli imprenditori, che possono anche intervenire (...). Penso anche che i nostri dirigenti politici dovrebbero adottare un po’ di sobrietà e umiltà nell’affrontare questo fenomeno complesso. Il compito è molto difficile. Non si ‘de-radicalizzà qualcuno in sei mesi. Queste persone, alle quali non è stato dato alcun ideale e che si sono aggrappate all’ideologia dello Stato islamico, non riescono a sbarazzarsene di punto in bianco. Non esiste la formula magica ‘apriti Sesamo!’". Il senatore Philippe Bas, presidente della Commissione legislativa del Senato che ha commissionato il rapporto, ha descritto il programma di de-radicalizzazione del governo in questo modo: "È un fiasco totale. È tutto da rivedere, da rimodulare". *Gatestone Institute L’Onu accusa la Turchia: gravi violazioni nella regione curda di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 11 marzo 2017 L’Onu ha accusato le forze di sicurezza turche di aver commesso "gravi violazioni" dei diritti umani durante le operazioni contro i militanti curdi, dopo la fine del cessate il fuoco, nell’estate 2015. Nella relazione dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ci sono prove di "distruzione di massa, omicidi e molte altre gravi violazioni avvenute tra luglio 2015 e dicembre 2016 nel sud-est della Turchia", in operazioni di sicurezza del governo. Nella regione interi quartieri sono stati rasi al suolo e circa 2mila le persone sono rimaste uccise. Circa 500mila persone, in gran parte curdi, sono state sfollate, mentre le immagini satellitari hanno mostrato "l’enorme portata della distruzione delle abitazioni da parte dei pesanti attacchi armati". Gli investigatori dell’Onu hanno documentato omicidi, sparizioni e torture, così come altre violazioni. Le più gravi sono avvenute durante i periodi di coprifuoco, afferma il rapporto. L’Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani, Zeid Ràad al Hussein, ha dichiarato che la Turchia ha "contestato la veridicità delle accuse molto gravi". Si è detto particolarmente preoccupato che Ankara sembra non aver avviato alcuna indagine credibile sulle centinaia di uccisioni al di fuori della legge, aggiungendo che indagini indipendenti sono urgenti ed essenziali. Il sud-est della Turchia, a maggioranza curda, è insanguinato da scontri quotidiani tra i ribelli il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) - classificato come gruppo terrorista da Ankara, Bruxelles e Washington -, e le forze di sicurezza, dopo la rottura di un fragile cessate il fuoco, durante l’estate 2015. Nel ghetto ribelle di Malmö, dove vacilla il modello Svezia di Andrea Malaguti La Stampa, 11 marzo 2017 Viaggio nella città con più immigrati del Paese, in cui si parlano 28 lingue diverse. Crescono reati, violenze e antisemitismo, sale il consenso dei partiti della destra. Nel quartiere di Rosengård, a Malmö, vive la maggior parte della popolazione immigrata: su 25mila persone, l’86% è di origine straniera. Nel 1972 era il 18 per cento. L’uomo è aggressivo. "Che cosa stai facendo?". È un tipo flaccido, nervoso, occhialuto, attorno alla trentina, con un cappello di lana calcato sulla testa. Un eritreo probabilmente. Così dirà, poco dopo, la signora intervenuta a placare gli animi. Si avvicina. "Perché stai scattando fotografie?". Ma che domanda è? Non si possono scattare fotografie davanti al City Gross Center di Malmö? "Per ricordarmi il posto, come fanno i turisti. Non è un luogo pubblico, questo?". Il flaccido lo esclude. "Qui non scatti un bel niente". Chiama un amico. Un tipo enorme. Si mette male. L’unica cosa è scusarsi (ma di che poi?) e andare via. Ma i due non mollano. Vengono in mente i ragazzini di certe piazze in mano alla camorra, che controllano la zona affinché nessuno disturbi gli affari. Solo che questi sono più adulti. "Posso passare?". Il loro corpo dice di no. Il senso di straniamento è forte. Negozi con manichini velati e alle spalle della commessa scatole di reggiseni e mutandine, parrucchieri afghani, merciai siriani, iracheni che giocano a carte sui tavolini di plastica. Sono le undici del mattino. Nessuno sembra avere un lavoro. "Devo chiamare la polizia?". La domanda, difensiva e di per sé non particolarmente astuta, non provoca nessuna reazione. I due sembrano intenzionati a dar seguito alle minacce. È a quel punto che arriva la signora svedese. Sessantenne. Solida. Piuttosto decisa, benedetta lei. "Ha mai visto la nostra biblioteca?". Surreale. "No". Sorride col dolcezza. "Venga, la porto io, è di fianco a quei negozi". I due fanno un passo indietro. Lei saluta con la mano. "Chi sono?". "Eritrei. Rifugiati. Disoccupati. Vivono qui. E pensano che questo posto sia loro. Presidiano il territorio. Odiano i giornalisti e chiunque scatti fotografie. Hanno molti torti. Ma si sentono come allo zoo. Dopo che Trump ha parlato della Svezia come un Paese ormai nelle mani dell’Islam, arrivano reporter da ogni parte del pianeta. Ieri una tv russa ha pagato dei bambini a Stoccolma perché simulassero dei disordini. La tensione è forte, cerchi di capire". Il circo che si confonde con la vita, ma per chi viene da fuori, è questo il benvenuto di Rosengård - il quartiere di Zlatan Ibrahimovic - nuovo simbolo dell’integrazione sbagliata nel Paese che non sbaglia mai. Scontri, violenze sessuali, molestie, antisemitismo, baby gang e voglia di sharia nel versante settentrionale della Svezia felix. Possibile ribaltare un quadro così cupo? E se fallisce la Svezia, che speranza resta a gli altri? È il cibo perfetto per il sovranismo xenofobo dilagante. Ecco perché Malmö è importante. Area off limits - A Rosengård il tasso di disoccupazione è al 35%, quattro volte superiore al resto della città. Una "no-go-area", secondo la propaganda estremista, "una zona fragile" secondo la polizia, dove si parlano 28 lingue, gli immigrati sono il 40% della popolazione e l’aspettativa di vita - nonostante il sistema di welfare più solido della terra - è di otto anni più bassa rispetto alla zona occidentale della città, quella del porto, del benessere, della fede incrollabile negli esseri umani. "Il governo e la stampa di sinistra vi raccontano balle. Dicono che il problema immigrazione non esiste. Invece è lì. Grosso come una casa". Il blogger di estrema destra Paul Joseph Watson dice alcune cose vere. Ma di sicuro non dice la verità. Che come sempre è molto più complessa. Sensi di colpa - All’aeroporto di Copenaghen l’Europa finisce. Certamente finisce Schenghen. Per attraversare i quindici chilometri del ponte di Orseund che uniscono la Danimarca alla Svezia, bisogna mostrare un documento d’identità. Due volte. Salendo sul treno e appena passato il confine. È come fare un salto indietro di vent’anni. Il governo di Stoccolma ha chiuso le porte dopo l’ondata migratoria del 2015. Arrivarono 160 mila richiedenti asilo. Il Paese stava per esplodere. Fisicamente e psicologicamente. "È stata una scelta dolorosa. E io l’ho capita pur senza condividerla", dice Nils Karlsson, vice sindaco verde di Malmö. Filosofo, politologo e insegnante di etica all’Università, sorseggia un caffè americano in un albergo dietro la stazione Centrale. I pensieri sembrano ronzargli in testa furiosamente. "Noi svedesi ci portiamo dietro i sensi di colpa della Seconda guerra mondiale, quando chiudemmo i confini agli ebrei. Da allora pensiamo che le persone abbiano il diritto di scegliere dove vivere. Dobbiamo insistere. Anche se i Trump del pianeta vogliono che falliamo. Potrei sostenere che Malmö è più sicura della gran parte delle città sulla terra e direi solo la verità. Ma nascondere i problemi non serve. La soluzione c’è". Quale? "Capitale degli stupri" - I problemi di Rosengård sono simili a quelli di Rinkeby, periferia riottosa di Stoccolma, dove martedì hanno ammazzato un uomo a colpi di pistola in una guerra tra gang. Due giorni dopo altri due morti. A Malmö, invece, l’ultimo omicidio è di mercoledì. Anche per questo il capo della polizia, Stefan Sinteus, ha inviato una lettera aperta alla città. "Aiutateci, perché da soli non ce la facciamo più". La sera è meglio restare a casa. E quando la ministra per l’integrazione, Yla Johansson, rispondendo a Nigel Farage che aveva definito Malmö "la capitale europea degli stupri", ha reclamato alla Bbc la diminuzione dei reati sessuali, i partiti di destra le hanno sbattuto in faccia le statistiche ufficiali. Le violenze sessuali nel 2016 sono state 6700 (oltre 10 mila le molestie), contro le 5920 dell’anno precedente. La maggior parte delle vittime sono donne con un’età compresa tra i 16 e i 24 anni. E allora Yla? Lei si è difesa dicendo che in Svezia le norme sono particolarmente restrittive (è vero) e che le statistiche vanno guardate a distanza di anni. Ma dieci anni fa gli stupri erano 4300. C’è nesso con l’immigrazione? Ronie Berggren, deputato del partito di estrema destra Democratici Svedesi, dice che il nesso è chiaro. "Solo che il governo si rifiuta di abbinare le statistiche alla nazionalità di chi commette il crimine. La sappiamo tutti la verità. Tranne loro, che vivono nei quartieri ricchi e bianchi e cianciano di integrazione universale. Io ero iscritto ai Democratici cristiani. Me ne sono andato. Cercavo un partito anti islam e anti Europa. Non ho niente contro l’immigrazione in generale. Ma rifiuto l’immigrazione che calpesta i nostri valori". Scontro di culture, dice. Gli pare che i nuovi arrivati vivano al ritmo di un metronomo predisposto sempre sul tempo sbagliato. "Questa non è la mia Svezia". La scrittrice e analista politica Annika Enroth Rothstein è più dura di lui. "È arrivata un’immigrazione che odia gli ebrei. Che ha trasferito in Svezia lo scontro mediorientale. Far finta di non vederlo è colpevole. L’estrema destra sta crescendo esponenzialmente senza neanche bisogno di fare campagna elettorale. È una cosa che mi spaventa a morte". Vergognose manipolazioni per attaccare un Paese che non ha eguali nel mondo, come sostiene il giornalista inglese naturalizzato svedese, Neil Shipley, o la presa di coscienza di una crisi senza precedenti? E non enfatizzare ciò che accade per non alimentare il razzismo è un comportamento necessario o indebitamente masochistico? Antisemitismo - Il centro culturale ebraico della città è al numero 11 di Kamrergatan. Una strada chiusa. Una porta blindata azzurra. Un palazzone squadrato. "Quello che succede a Malmö succede in Svezia", dice il portavoce del centro, Fredrik Sieradzki, mentre racconta che la comunità di Malmö è piccola, molto forte e con qualche difficoltà. "Annika Enroth Rothstein non ha torto quando dice che alcuni ebrei stanno lasciando la città. Un po’ è colpa della tensione. Un po’ del fatto che a Stoccolma è più semplice trovare lavoro. Nelle scuole i nostri studenti sono spesso oggetto di aggressioni. L’antisemitismo è pervasivo. C’è risentimento da parte dei giovani che arrivano dal Medio oriente. Molti di loro si sono spostati solo geograficamente, ma mentalmente continuano a ragionare nello stesso modo. C’è bisogno di dialogo. È anche per questo che è arrivato il nuovo rabbino da Gerusalemme". Il nuovo rabbino si chiama Moshe David HaCohen ed è a Malmo da due settimane. Poco per fare un’analisi, abbastanza per immaginare un percorso. "Io sono afflitto da una malattia incurabile: l’ottimismo. E ho un altro grande vantaggio: non credo ai giornali. Ma credo molto al confronto". Buona fortuna. Una generazione - Nell’albergo dietro la stazione Nils Karlsson finisce di bere il caffè americano. "La soluzione?". Esatto. Esiste? "Esiste. È la stessa di sempre. Quella che ha reso diverso il nostro Paese, vale a dire una visione a lungo termine. Ci vorrà una generazione per rimettere a posto le cose, ma ci riusciremo come è già successo in passato. Serviranno confronto, scuole e soprattutto lavoro. Il lavoro fa la differenza. E il mercato a Malmö sta vivendo un momento favoloso. Ma chi arriva da noi oggi non ha abbastanza competenze. Gliele dobbiamo costruire. Con pazienza. Una visione a breve termine è stupida e inutile". E l’antisemitismo? "C’è. Proprio perché chi arriva non ha opportunità. Non riesce a integrarsi. Così continua a parlare la lingua d’origine, a guardare la televisione del proprio Paese, a coltivare gli stessi rancori. So che a volte la nostra gente si sente straniera a casa propria. Stiamo investendo molto per cambiare le cose. E la polizia sta facendo un lavoro favoloso". A Rosengård, però, gli uomini e le donne sembrano schiacciati in un vicolo cieco. Al di sotto di una certa soglia gli esseri umani diventano solo sistemi di sopravvivenza. E, in attesa di una nuova vita, i sistemi di sopravvivenza se ne fregano del male che fanno agli altri. Australia. I giorni in carcere di Elisa Salatino, la prof pugliese presa con la coca di Mara Chiarelli La Repubblica, 11 marzo 2017 Il racconto del fratello Giuseppe: "Le condizioni negli istituti penitenziari dell’Australia sono buone, non paragonabili a quelle delle nostre carceri. E questo non può che confortarmi". Giuseppe Salatino passa le notti aspettando. "Mia sorella mi può chiamare in qualsiasi momento – racconta. E per via del fuso orario ci possiamo sentire dopo sera. Così io sono sempre in ansia. Dal giorno in cui è stata arrestata vivo così, nell’attesa di sapere". Elisa, 39 anni, insegnante di sostegno al liceo Marconi di Bari e originaria di Fasano, in provincia di Brindisi, è in carcere da un mese. Un mese in cui le indagini della squadra mobile di Bari hanno fatto piccoli passi avanti. Elisa Salatino è stata arrestata il 12 febbraio: nella valigia che aveva imbarcato a Roma nascondeva 5 chili di cocaina. Un carico di droga che ha trasformato la giovane donna di Fasano, prima brillante studentessa di lettere e poi docente di sostegno di una scuola superiore, in una insospettabile corriera internazionale di polvere bianca. La Procura di Bari ha aperto un’inchiesta e non è un caso che l’indagine sia stata affidata a Pasquale Drago, che coordina la Direzione distrettuale antimafia (Dda) del capoluogo pugliese. Elisa Salatino è una pedina di un’organizzazione più ampia: di questo sono certi i detective della mobile che lavorano d’intesa con l’Interpool. "Io conosco mia sorella. Noi siamo una famiglia perbene, lo siamo sempre stati", ripete Giuseppe. Con lui Elisa ha parlato al telefono. E anche con i genitori la professoressa in questo mese ha scambiato qualche battuta. Brevi conversazioni ogni 15 giorni. "Ci ha detto che sta bene, anche se la situazione è quella che è. Le condizioni carcerarie negli istituti penitenziari dell’Australia sono buone, non paragonabili a quelle delle nostre carceri. E questo - dice Giuseppe - non può che confortarmi, darmi un po’ di sollievo in questa situazione di grande dolore". Elisa Salatino è detenuta nel carcere di Melbourne, dove ha una stanza per sé e dove sta seguendo un programma di lavoro. Nel frattempo cerca di provare la sua innocenza. Tentativo difficile, complesso. "Il viaggio in Australia è stato il regalo di un amico, ha detto al suo avvocato Renzo De Leonardis. Il viaggio: è questo il primo capitolo delle indagini. Elisa sarebbe dovuta partire con un amico. In un’agenzia di Bari avevano prenotato due biglietti per Melbourne e due camere per una settimana in un hotel della capitale australiana. L’insegnante di sostegno sapeva che i due giorni di permesso, chiesti per motivi familiari alla dirigente della sua scuola, non sarebbero stati sufficienti per coprire il periodo di assenza. In aeroporto a Roma, ricostruiscono i detective baresi, Elisa arriva con l’uomo che avrebbe dovuto accompagnarla e che, invece, alla fine non parte. Elisa è caduta in una trappola o sapeva della reale finalità del viaggio? La cocaina era nascosta nella valigia che l’insegnante di sostegno aveva imbarcato a Roma. L’aereo ha fatto scalo a Dubai, ma la squadra mobile esclude che il bagaglio possa essere stato manomesso. Attraverso l’Interpool la polizia attende informazioni per sapere, per esempio, se la valigia, oltre alla droga, contenesse anche gli altri effetti personali dell’insegnante di sostegno. Lo scambio di informazioni tra l’Australia e l’Italia, per il momento, è informale. Ma il prossimo passo dell’inchiesta della Procura di Bari è quasi sicuramente la richiesta di una rogatoria, necessaria per cristallizzare alcuni elementi probatori. L’indagine dell’Antimafia punta a capire chi abbia procurato la sostanza stupefacente: se sia stato l’amico della professoressa che sarebbe dovuto partire per Melbourne, per esempio, o altre persone che lei, forse a causa di difficoltà economiche, aveva cominciato a frequentare. La scorsa settimana nello stesso aeroporto la polizia ha arrestato un cittadino australiano che in valigia nascondeva 5 chili di droga. Una dimostrazione di come il traffico di droga verso l’Australia sia abbastanza fiorente. "Questa indagine è molto importante. L’arresto di Elisa Salatino - ragiona un investigatore - racconta uno scenario nuovo: la capacità della criminalità barese di piazzare un ingente quantitativo di droga su canali internazionali, tradizionale appannaggio della ‘ndrangheta. Che può avere avuto un ruolo nel caso".