Il Presidente Mattarella: serve equilibrio tra recupero persona e tutela sicurezza Adnkronos, 10 marzo 2017 Trovare un equilibrio tra la necessità di recuperare il condannato e l’esigenza di garantire la sicurezza, senza creare allarmismi per quanto riguarda la reale situazione dell’ordine pubblico. Lo sottolinea il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nell’intervista concessa a "Civiltà cattolica". "In Italia - ricorda il Capo dello Stato - la situazione carceraria è migliorata decisamente; il sovraffollamento è sostanzialmente molto attenuato. Vi è stato un apprezzamento anche da parte degli organi europei che avevano rappresentato all’Italia l’esigenza di interventi concreti. Rimane il problema di fondo, di come trovare il punto di equilibrio tra queste due esigenze e sensibilità: quella dell’attenzione alla persona, di chi ha commesso un errore, un reato (e può essere recuperato con tutti gli sforzi possibili), e quella che venga garantito il rispetto della legge, non soltanto per rassicurare le pubbliche opinioni e le comunità". "Queste avvertono con molta preoccupazione e molto allarme l’insicurezza, in maniera talvolta anche eccessiva rispetto alle effettive dimensioni dei fenomeni criminali. È un’attività delicata trovare il punto migliore di equilibrio. Non tocca a me esprimere orientamenti politici che, in Italia, competono al governo e al Parlamento, ma mi rendo conto conclude Mattarella- che entrambe le sollecitazioni meritano ascolto". Sergio Mattarella e le carceri (brano tratto da La Civiltà Cattolica) "Ero presente in Parlamento quando Giovanni Paolo II, parlando alle Camere riunite, in Italia, ebbe a rivolgere un appello per un indulto che poi, per la verità, è stato disposto, con contrastanti valutazioni nella pubblica opinione. Ho ricevuto, come tutti i capi di Stato con cui la Santa Sede ha relazioni, la recente lettera di papa Francesco in cui chiede di valutare la possibilità di atti di clemenza, di valutare le condizioni dei reclusi e attenuare la gravità delle loro condizioni. È un messaggio di particolare rilievo, da tenere in gran conto, perché coglie l’aspetto più importante della punizione che lo Stato infligge a chi ha commesso reati: quello della rieducazione e del recupero dei condannati. In Italia la situazione carceraria è migliorata decisamente; il sovraffollamento è sostanzialmente molto attenuato. Vi è stato un apprezzamento anche da parte degli organi europei che avevano rappresentato all’Italia l’esigenza di interventi concreti. Rimane il problema di fondo, di come trovare il punto di equilibrio tra queste due esigenze e sensibilità: quella dell’attenzione alla persona, di chi ha commesso un errore, un reato (e può essere recuperato con tutti gli sforzi possibili), e quella che venga garantito il rispetto della legge, non soltanto per rassicurare le pubbliche opinioni e le comunità. Queste avvertono con molta preoccupazione e molto allarme l’insicurezza, in maniera talvolta anche eccessiva rispetto alle effettive dimensioni dei fenomeni criminali. È un’attività delicata trovare il punto migliore di equilibrio. Non tocca a me esprimere orientamenti politici che, in Italia, competono al Governo e al Parlamento, ma mi rendo conto che entrambe le sollecitazioni meritano ascolto. Dispongo di un potere di grazia come Presidente della Repubblica, e qualche volta ne faccio uso, anche se non è conclamato. È un potere che richiede una serie di pareri e di opinioni di cui bisogna tener conto - autorità giudiziaria competente, ministero della Giustizia - e che non entra affatto nel merito delle decisioni dell’Autorità giudiziaria, ma riguarda la condizione personale del soggetto, del singolo recluso, nel caso in cui sia evidente il suo recupero dopo aver scontato in parte la pena". Riforma del processo penale, modifiche del governo ed è bagarre di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2017 Orlando: per la delega tempi strettissimi, al di là dei contenuti. E i lavori rallentano: tutto rinviato in Commissione. Basta un emendamento del Governo sulle intercettazioni e sul disegno di legge sul processo penale si riaccende la bagarre. L’emendamento presentato in Aula al Senato punta a ottenere un risparmio dei costi nell’ordine di 80 milioni nell’arco del triennio 2017-2019. Non interviene, almeno per ora, a modificare i termini per l’esercizio della delega sul punto, che resta di un anno dall’approvazione, scavallando quindi ampiamente la scadenza della legislatura. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, senza scendere troppo nel dettaglio di un possibile taglio dei tempi, ha comunque tenuto a sottolineare come la delega vada esercitata "in tempi strettissimi, al di là dei contenuti". Tuttavia tanto è bastato per rallentare i lavori e fare rinviare l’intero provvedimento in Commissione. Con polemiche da parte delle opposizioni che hanno contestato quello che ritengono un semplice espediente dell’Esecutivo per prendere tempo e poi alla ripresa dei lavori in assemblea, martedì prossimo, porre la questione di fiducia, autorizzata una settimana fa dal Consiglio dei ministri. Il presidente del Senato Pietro Grasso ha difeso la correttezza della scelta fatta, ricordando che l’emendamento è aggiuntivo ad un articolo e per questo ha "vita autonoma" e può essere rinviato da solo. Ai senatori dell’opposizione che hanno chiesto più tempo, visto che le commissioni Affari Costituzionali e Giustizia sono impegnate con il decreto legge sui migranti, Grasso ha replicato che è un "termine congruo per qualsiasi Commissione, anche se sappiamo che ci sono altri provvedimenti in corso, per trattare un emendamento e i relativi subemendamenti". Grasso ha autorizzato la Commissione a riunirsi fin da ieri pomeriggio e ha rilevato che ci sono "momenti in qualsiasi professione in cui, quando è necessario, si lavora sabato e domenica". Quanto ai contenuti, l’emendamento prevede una riduzione delle tariffe da corrispondere agli operatori di comunicazione per le operazioni di intercettazione. Tutto il sistema tariffario verrà sottoposto a revisione con l’obiettivo di garantire un risparmio di spesa nell’ordine di almeno il 50% rispetto alle regole attuali. Troppo? No, spiega la relazione all’emendamento, perché l’evoluzione tecnologica, con uno spazio sempre più ampio assunto dalla digitalizzazione, ha come conseguenza anche un drastico abbassamento dei costi che gli operatori sono chiamati a sostenere. E ieri la Camera ha approvato, in prima lettura, il disegno di legge con le nuove norme a protezione dei testimoni di giustizia. La riforma della giustizia dove si è arenata? di Serena Gana Cavallo Italia Oggi, 10 marzo 2017 Piercamillo Davigo, illustre magistrato e pro tempore presidente dell’associazione nazionale magistrati, entità che si presenterebbe come una formazione sindacale della categoria, ma è di fatto una formazione politica e di potere, è in questi giorni pressoché quotidianamente presente in tutti i talk show, telegiornali et similia. Abitualmente, tale presenza si articola in catilinarie sulla corruzione, sulla sua diffusione (in particolare nella classe politica), e sull’enunciazione apodittica delle innumeri virtù della magistratura, che per pura combinazione o per insita natura, risulta pressoché del tutto immune da peccati di qualsivoglia genere, e se sbaglia è perché il testimone la ha ingannata, nelle indagini o in tribunale. Naturalmente noi, come tutti ormai in questo Paese, riponiamo la massima fiducia nella magistratura che, ha detto Davigo, ha il suo primario fi ne di "calmierare" il potere (politico) che se non avesse alcun guardiano esterno potrebbe degenerare nell’arbitrio. Sante parole, ma siccome anche la magistratura è un potere e non ci è ben chiaro quale sia il potere esterno che la controlla, ci piacerebbe sapere se il neocandidato alla segreteria del Pd, Orlando, attualmente ministro della Giustizia (che è altra cosa dalla Magistratura) abbia tra i suoi programmi una riforma anche in questo campo, riforma che parrebbe oltremodo necessaria sia sul piano della durata dei processi che sotto parecchi altri. Su questo tema ci piacerebbe che conduttori televisivi e valorosi giornalisti interrogassero sia il candidato segretario, sia (tanto ce l’hanno continuamente davanti) il dottor Davigo. Con tutto il rispetto e la fiducia in ciò che simboleggiano l’uno e l’altro, sia come personaggio, sia come potere. Non suoni come eresia, è giusto per curiosità. Ddl penale. Il ministro Orlando mette il turbo: "subito la fiducia" di Errico Novi Il Dubbio, 10 marzo 2017 Martedì l’ok alla norma sulle intercettazioni e la "blindatura" del voto. Carlo Giovanardi è uno dei quattro o cinque che in aula si scontrano apertamente col presidente Pietro Grasso: "Non faccia il magistrato, si ricordi che l’ultima volta in cui ha agito d’autorità c’è stato un senatore, Antonio Caridi, che c’ha rimesso otto mesi di galera". Il vertice di Palazzo Madama ha appena dato seguito alla decisione della capigruppo: rinvio del ddl penale in commissione Giustizia per il solo esame dell’emendamento che rimodula i costi delle intercettazioni. Si va di corsa. L’organismo presieduto dal Nico D’Ascola (Ncd) si riunisce e fissa a lunedì il termine per i subemendamenti. Il giorno dopo si vota e l’intero pacchetto riatterra in Aula, dove il ministro per i Rapporti col Parlamento Anna Finocchiaro potrebbe annunciar la fiducia nel pomeriggio stesso di martedì. Altre ventiquattr’ore e Palazzo Madama potrebbe già pronunciarsi, anche se una coincidenza con la mozione su Luca Lotti rischia di creare un cocktail esplosivo. Fatto sta che il percorso è segnato in modo militare. Che si possa slittare di quarantott’ore cambia poco. Ed è impressionante il cambio di passo su un ddl che ha avuto vita travagliatissima fino a poche settimane fa: due anni tondi fermo al Senato, tra discussioni infinite e lunghe pause. Ora in pochi giorni prima il Consiglio dei ministri autorizza la fiducia, poi lo sprint sui costi (e la maggiore riservatezza) delle intercettazioni, quindi il voto dell’aula già in vista. Segno che il vero ostacolo alla riforma era nel rapporto tra Renzi e Orlando. Con l’ex premier che ha sempre preferito temporeggiare, non solo in prossimità del referendum. Vero che a Matteo altre scelte tutt’altro che garantiste non erano dispiaciute: si pensi all’innalzamento delle pene contenuto nel ddl anticorruzione. Ma il suo scetticismo sul processo penale era legato alla prescrizione: perché il famoso "compromesso" favorito da Orlando tra il Pd più giustizialista e l’Ncd allunga sì i tempi dei processi, ma non al punto da scongiurare le contumelie dei grillini. I quali hanno sempre detto, e ripeteranno a breve in Aula, che "si è fatto un piacere a mafiosi e corrotti". Il ministro Costa: "processi infiniti" - Resta la posizione molto severa del ministro agli Affari regionali Enrico Costa. Continua a "battersi per far emergere alcuni evidenti eccessi di questo ddl, a cominciare dalla prescrizione". Interpellato dal Dubbio, ribadisce: "Spiegatemi che senso ha portare un giudizio per corruzione a una durata massima di 18 anni. A me pare che nel complesso si imponga una linea molto vicina a quella dell’Anm. Non parlo del dettaglio di questa norma ma di un orientamento complessivo". Aggiunge: "Già sappiamo che il 60 per cento delle prescrizioni interviene nella fase delle indagini. Se aumentiamo a dismisura il tempo per consumare i 3 gradi di giudizio, in particolare per i reati contro la pubblica amministrazione, facciamo un favore al magistrato che lavora meno e lascia accumulare i fascicoli sulla scrivania. Viene penalizzato chi chiede giustizia come chi vuole difendersi: già abbiamo mille persone l’anno che ottengono il risarcimento per ingiusta detenzione, tutta gente assolta che però, nella fase delle indagini, era stata arrestata. Mi dite che se ne fanno di un’assoluzione dopo vent’anni?". Nonostante la dura analisi di Costa non ci sarà un clamoroso ammutinamento dei senatori del suo partito. Molti la pensano come l’ex viceministro alla Giustizia, ma l’Ncd non metterà a rischio l’esecutivo. Intercettazioni, stop fuga di notizie - Da considerare remota anche l’ipotesi di un maxiemendamento che accolga alcune lievi modifiche. Il timore del governo è che alterare anche di poco l’instabile equilibrio della riforma possa peggiorare la situazione. In ogni caso Orlando ha innestato il turbo e non intende fermarsi. "Eserciterò la delega sulle intercettazioni in tempi strettissimi", assicura. L’altro ieri ha dato ampie garanzie a Rita Bernardini e ai radicali per i decreti delegati dell’altro "dossier aperto", la riforma penitenziaria: dopo l’ultimo breve passaggio alla Camera si andrà di filato anche su quelli. Sulle intercettazioni c’è oltretutto l’emendamento descritto ieri in modo minuzioso dal ministro Finocchiaro (e anticipato dal Dubbio la settimana scorsa): prevista una "tipizzazione" delle "prestazioni funzionali alle intercettazioni" che innanzitutto dovrebbe far risparmiare alle Procure "almeno il 50 per cento rispetto alle tariffe vigenti", precisamente 80 milioni in 3 anni. Non solo. Perché, oltre a indicare "costi standard" e a calmierare le pretese dei privati (fornitori di server e assistenza in remoto), il decreto ministeriale successivo imporrà come prestazioni tariffabili solo quelle che obbediscono a precisi vincoli di sicurezza: a cominciare dal passaggio criptato dei dati con le registrazioni e i tabulati. Un sistema concordato da Orlando e dal suo capo di Gabinetto Giovanni Melillo con i vertici delle Procure. E che ha definitivamente convinto via Arenula a non perdere un minuto in più per portare a casa la riforma. Riforma penale. Il Cnf: "norme da rivedere sul processo a distanza" Il Dubbio, 10 marzo 2017 L’avvocatura chiede al governo di riaprire il confronto. Dopo le polemiche tra Camere penali e Anm, il Consiglio forense rimette in discussione le video-udienze, tra i punti più controversi della riforma. Il corto circuito è tutto nello scambio di accuse tra Unione Camere penali e Associazione magistrati. Da una parte la giunta di Beniamino Migliucci che nella nota con cui proclama una settimana di astensione dalle udienze (dal 20 al 24 marzo) parla di "cittadini trasformati in merce di scambio in contese di potere", per la fiducia sulla riforma penale che impedisce ogni aggiustamento sulla prescrizione. Dall’altra il "sindacato dei giudici" che proprio sul nodo controverso della durata dei processi ribatte con durezza a un’accusa rivolta alle toghe dai penalisti: "Nella delibera dell’Ucpi si legge che è necessario svelare l’uso della prescrizione come sapiente strumento attraverso cui la Magistratura esercita un potere incondizionato sul processo, facendone quotidianamente un uso surrettizio e strumentale, esercitando di fatto un’incontrollata e arbitraria discrezionalità dell’azione penale". L’Anm sottolinea che "si tratta di un’affermazione gratuita e, come noto a tutti gli operatori della giustizia, palesemente non vera, oltre che gravemente offensiva dell’Ordine Giudiziario". L’Anm quindi "respinge con forza questo strumentale tentativo di delegittimazione, che peraltro contrasta con le altre valutazioni della citata delibera, altrimenti idonee a stimolare un proficuo confronto". Ma che possa esserci ancora spazio per un confronto è ipotesi costretta in un margine ridottissimo. Il Consiglio nazionale forense chiede in quest’ottica che il governo riconsideri un altro aspetto della riforma penale: "Il confronto costruttivo va salvaguardato e può portare governo e avvocatura a una soluzione condivisa", premette il Cnf, che in una nota diffusa ieri aggiunge: "In particolare, sembra assolutamente auspicabile la rivalutazione di un passaggio della riforma, quello sul processo a distanza: una soluzione che allo stato non pare compatibile con le dinamiche di una corretta dialettica dibattimentale. Si auspica che il governo si adoperi per garantire al meglio tale dialettica, valutando ogni possibile alternativa e modificando dunque l’attuale previsione, anche con il contributo importante e responsabile dell’avvocatura penalistica". Un estremo appello, che potrebbe essere accolto con un maxiemendamento del guardasigilli Andrea Orlando, con qualche lieve modifica al provvedimento. "Si ritiene che il governo possa ancora valutare e valorizzare le osservazioni formulate dall’avvocatura", prosegue il documento, "in particolare a mezzo della recente delibera dell’Unione Camere penali". Quindi il passaggio sul punto più controverso: "Si è tutti consapevoli di come la soluzione sulla prescrizione parta dalla ipotesi di interromperla definitivamente alla sentenza di condanna di primo grado, per giungere alla attuale soluzione di ‘ compromessò rispetto alla ipotesi, più rispettosa del giusto processo, della avvocatura e di altra parte della politica. Va invece da sé che la soluzione del processo a distanza, come osservato dalle Camere penali, non pare neppure compromissoria. Peraltro l’esperienza giornaliera di chi frequenta le aule dei tribunali, insegna come vi sia la assoluta e non rinviabile necessità di un intervento normativo organico", conclude il Cnf, "che vada complessivamente a recuperare le corrette dinamiche del modello di processo accusatorio". Intercettazioni, stretta sulla pubblicazione di Sara Menafra Il Messaggero, 10 marzo 2017 Nella delega al governo limiti agli atti che saranno disponibili per i difensori. Il 15 il ddl in aula con la fiducia poi tre mesi per i decreti attuativi. Con intercettazioni che a ruota colpiscono ogni formazione politica pubblicate quotidianamente sui giornali, il clima è propizio per una decisione rapida e, questa volta, senza tradimenti dell’ultimo minuto. Sul testo di riforma del processo penale che martedì approderà in aula al Senato, il governo sembra deciso a confermare la questione di fiducia e la sensazione è che al momento del voto la maggioranza sarà compatta. Il ministro della giustizia Andrea Orlando ha ottenuto finalmente l’assenso del consiglio dei ministri dopo che, lo scorso autunno, Matteo Renzi si era fatto convincere a soprassedere dall’Associazione nazionale magistrati. E anche se la parola d’ordine è rapidità, il punto che sembra mettere d’accordo tutti è la delega sulle intercettazioni. Non tanto il taglio dei costi del 50% tornati oggi in commissione, ma l’effetto più politico dell’intervento: limitare, se non evitare del tutto, la pubblicazione sui giornali dei colloqui. A differenza del generico testo approvato alla Camera, l’articolo 35 di quello in votazione al Senato è piuttosto esplicito (e proprio per questo il ministro Orlando ha fatto sapere di essere pronto a licenziarlo in tre mesi, l’indicazione potrebbe persino essere parte del maxi emendamento). Dice che serviranno disposizioni dirette alla tutela "della riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni delle persone occasionalmente coinvolte nel procedimento"; che spetterà al pm la "selezione del materiale da inviare al giudice a sostegno della richiesta di misura cautelare" assicurando la riservatezza delle comunicazioni "che non siano pertinenti all’accertamento delle responsabilità per i reati per cui si procede ovvero irrilevanti ai fini delle indagini". Non solo: una volta fatta questa scrematura tra atti rilevanti e atti che non lo sono, persino gli avvocati difensori potranno accedere agli atti considerati non rilevanti, "custoditi in apposito archivio riservato", "con facoltà di ascolto ma non di copia". E gli stessi atti, al momento di andare in aula, dovranno essere obbligatoriamente stralciati e archiviati. La delega non lo dice espressamente ma se il testo finale sarà particolarmente stretto, a disposizione dei difensori - e dunque dei giornalisti - per una lunga prima fase potrebbero esserci solo le intercettazioni per sunto. Ovviamente, mettendo la fiducia su tutto il testo, il governo rischia di scontentare entrambi i fronti che si erano schierati contro l’intervento: l’Anm e le Camere penali e, all’interno della maggioranza, Ncd. Il probabile successore di Davigo alla guida delle toghe, Eugenio Albamonte, ribadisce la posizione contraria. Più che l’intervento che limita la pubblicazione degli atti, i magistrati guardano in tralice la mediazione trovata tra Pd e Ncd sulla prescrizione e i maggiori poteri di avocazione dei fascicoli affidati al procuratore generale e una delega più o meno in bianco a "limitare" l’uso dei trojan per intercettare. "Non vorrei che la sensazione che la legislatura sia alle battute finali portasse il Parlamento ad evitare il dibattito su una questione così centrale". Le Camere penali sono contrarissime soprattutto all’articolo di legge che allarga la possibilità di obbligare gli imputati a partecipare al processi solo attraverso una video conferenza e senza mai comparire personalmente in aula. I centristi di Ncd sembrano decisi a votare la mozione di fiducia, sebbene molto a malincuore. Lo stesso presidente della commissione giustizia Nico D’Ascola tende a mediare: "Il nostro accordo vale solo se il testo viene votato così com’è. Ci sono punti che ci convincono di più e altri meno, ma intendiamo rispettare l’accordo politico". Restano le perplessità del ministro Enrico Costa, che potrebbe prendere posizione contro il testo a titolo personale. Anche Felice Casson che è rimasto relatore del provvedimento sebbene sia tra i transfughi del Pd, potrebbe, all’ultimo minuto sfilarsi: "Sono sconcertato dall’idea che sia posta la fiducia su questo argomento. Sui Rems, eredi degli ospedali giudiziari, indagini sulla pubblica amministrazione e criminalità organizzata, servivano ulteriori interventi". Difficile però che lo seguano gli altri esponenti di Mdp. Intercettazioni, il governo prevede tagli per 80 milioni di Gianni Santamaria Avvenire, 10 marzo 2017 Presentato al Senato un emendamento al ddl di riforma del codice penale. Finocchiaro: le tariffe saranno ridefinite con decreto ministeriale in base al costo medio del biennio precedente. Risparmi di spesa per 80 milioni sulle prestazioni rese dagli operatori di telefonia per le intercettazioni eseguite su disposizione dell’autorità giudiziaria. È quanto prevede un emendamento al ddl di riforma penale, depositato ieri dal governo al Senato e presentato oggi in Aula dalla ministra per i Rapporti con il Parlamento, Anna Finocchiaro. La proposta di modifica interviene, ha spiegato Finocchiaro, "sull’attuale disciplina delle spese relative alle prestazioni obbligatorie rese dagli operatori di comunicazione e le prestazioni funzionali alle operazioni di intercettazione". I risparmi attesi, ha quantificato Finocchiaro, sono di 10 milioni per il 2017, 20 per il 2018 e 50 per il 2019. La "valutazione" della proposta di modifica, ha precisato Finocchiaro, "si affida alla commissione giustizia". Risparmi del 50%. L’obiettivo di risparmio è "pari almeno al 50% rispetto alle tariffe del vigente listino", quantifica Finocchiaro per chiarire il contenuto dell’emendamento presentato. Si prevede inoltre la "tipizzazione" delle prestazioni funzionali alle operazioni di intercettazioni per "ridefinire correttamente le corrispondenti tariffe attraverso appositi decreti ministeriali". E si interviene sulla disciplina in materia di liquidazione delle spese di giustizia per "razionalizzare e ottimizzare la relativa gestione da parte degli uffici giudiziari". Infine si prevede la "tipizzazione" delle prestazioni funzionali alle operazioni di intercettazione, allo scopo di "ridefinire le corrispondenti tariffe a mezzo di un apposito decreto ministeriale che dovrà rideterminarle per ogni tipo di prestazione in misura non superiore al costo medio di ciascuna come rilevato per il biennio precedente all’esito del monitoraggio effettuato dal ministero della Giustizia". "Emendamento aggiuntivo". Per effetto dell’emendamento il ddl di riforma del codice penale torna in commissione Giustizia, come ha annunciato in Aula dal presidente Pietro Grasso. La commissione, ha detto Grasso, esaminerà il testo entro martedì 14. Il provvedimento tornerà in Aula nello stesso pomeriggio di martedì, quando il governo con ogni probabilità chiederà il voto di fiducia, che potrebbe concludersi mercoledì mattina. Alle critiche delle opposizioni, in particolare di Forza Italia, Grasso ha risposto che si tratta di "un emendamento aggiuntivo, che introduce il tariffario delle intercettazioni telefoniche, e non un emendamento all’articolo. Non modifica nessuna disposizione esistente. È quindi giustificato il ritorno in commissione". Niente incontro con la stampa. Il giudice delle leggi "punta" al miglior diritto possibile di Vittorio Nuti Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2017 Passo indietro della Consulta sulla strada della trasparenza. Interrompendo una prassi iniziata nel ‘56 da Enrico de Nicola, la sessione straordinaria della Corte costituzionale per presentare la relazione sulla giurisprudenza dell’anno precedente si è chiusa ieri senza il tradizionale incontro con la stampa del presidente in carica, Paolo Grossi, in scadenza a febbraio 2018. Per il mondo ovattato della Consulta, una decisione senza precedenti, giustificata - ma non ufficialmente - dalla necessità di "rendere omogenea la cerimonia con quelle di inaugurazione dell’anno giudiziario delle altre giurisdizioni". In altre parole, la Consulta organo giurisdizionale equiparabile alla Cassazione: un azzardo per molti giuristi. Quindi niente incontro del vertice della Corte con i giornalisti e, attraverso loro, "quasi simbolicamente", con l’intera comunità di "persone e istituzioni" italiane, per citare le parole usate dallo stesso Grossi nella relazione 2015. Difficile capire le ragioni di fondo di questa scelta, attribuibile al presidente ma forse dettata dal collegio, che ha lasciato "interdetta" anche la Federazione della stampa. A pesare potrebbe essere stato il ricordo delle polemiche per un commento del presidente ai tempi del suo insediamento, nel febbraio 2016 (Grossi parlò di un giudice che non sa fare il suo mestiere, riferendosi a una questione di legittimità sulla stepchild). O, più semplicemente, un diplomatico basso profilo, dopo la recente sovraesposizione della Corte per le (presunte) divisioni interne su sentenze di grande valenza "politica" come quella sull’Italicum (citata ma di sfuggita: è del 2017, "fuori tempo massimo" per rientrare nella relazione) e l’ammissibilità del referendum sul Jobs Act. Nel suo intervento-relazione nella sala del Belvedere del palazzo della Consulta Grossi ha parlato davanti al capo dello Stato Mattarella e al presidente del Senato Grasso; (in sala per il governo i ministri della Giustizia Orlando e dell’Economia Padoan). Quindici pagine per riassumere un anno di decisioni, e per fugare ogni dubbio sulla collegialità della Corte ("timbro del suo carattere e della sua stessa identità") e gli sforzi nella "ricerca" e "invenzione" del "miglior diritto possibile". Obiettivo possibile con un "permanente dialogo tra la Corte e i giudici comuni", e facendo dei conflitti Stato-Regioni, "l’occasione per stabilire, al di là del perimetro della controversia sulle competenze, il legislatore più adeguato". Quanto al sindacato dei giudici costituzionali, questo riguarda "non tanto i "contenuti" delle norme ma "piuttosto le "qualità" delle discipline e delle mancate discipline e dunque la congruità delle scelte rispetto ai fondamenti della convivenza". Grossi ha fatto poi il punto sulla produttività della Corte, che a breve introdurrà il Processo costituzionale telematico. Nel 2016 la Consulta ha emesso 158 pronunce su giudizi incidentali e 103 relative a giudizi in via principale. Nel complesso, i giudizi definiti ammontano a 366 "un numero leggermente più alto dei due anni precedenti". Ottima la durata media dei giudizi, soprattutto se si pensa alle lungaggini della giustizia italiana: meno di un anno per i giudizi incidentali (tra pubblicazione in Gazzetta del ricorso e trattazione della causa), poco più di 12 mesi per quelli in via principale. Salviamo il tribunale dei minorenni di Giovanni Tizian L’Espresso, 10 marzo 2017 Un modello tra i più avanzati del mondo. E che una riforma sbagliata oggi vorrebbe abolire. Il j’accuse di Giuseppe Spadaro, un magistrato che se ne occupa da anni. Nel nome del risparmio ti cancello. Così, dopo quasi cento anni di storia, il governo è pronto a dire addio a tribunali e procure che si occupano dei minorenni. Quegli uffici, cioè, che rappresentano, a parere di autorevoli magistrati, avvocati, costituzionalisti e psicologi, un’avanguardia in Europa. Il fronte del no alla riforma in discussione al Senato è ampio. "Tuttavia temo che, a parte per gli addetti ai lavori, i contenuti del progetto di legge stiano passando sotto silenzio": tra chi ha scelto di schierarsi c’è Giuseppe Spadaro, voce autorevole in materia. Da tre anni è il presidente del tribunale per i minorenni di Bologna. In via del Pratello, dove ha sede il suo ufficio, è arrivato quando ne aveva 49. È stato il più giovane a occupare il vertice di quell’ufficio. Prima di allora si è fatto le ossa in Calabria. Era il capo della sezione penale di Lamezia Terme. Qui ha giudicato decine di mafiosi calabresi. Ricorda ancora le udienze tese, gli sguardi feroci dei padrini, gli scontri durissimi con gli avvocati dei boss, le condanne esemplari che hanno annientato alcune cosche locali. Con un filo di voce ripercorre anche i giorni in cui ha saputo del piano di morte ordito nei suoi confronti. Era tutto pronto, finti poliziotti lo avrebbero dovuto fermare sulla strada che da Catanzaro porta a Lamezia. Dopo l’allarme lanciato dal magistrato Giuseppe Spadaro, un documento firmato da quasi 400 personalità chiedere all’esecutivo di cambiare rotta sulla riforma che tra pochi giorni potrebbe essere approvata e che prevede l’abolizione di spazi separati per la giustizia minorile A salvargli la vita una telefonata casuale della moglie. Hanno minacciato di morte anche i suoi figli e, forse per questo, Spadaro adesso si dedica ai ragazzi che sbagliano. L’istituzione che dirige del resto fa proprio questo: aiuta i giovani a rialzarsi da una caduta. Oppure in altri casi tenta di strapparli dalla violenza dei "grandi". Per questo ritiene che non si possa rinunciare alla specificità dei tribunali e delle procure per minori: "Sono l’istituzione giudiziaria più longeva. E la questione della propria autonomia è connaturata all’identità di questo Tribunale, data dalla sua specializzazione e dalla sua composizione mista, fatta da togati e giudici onorari", osserva il magistrato. In pratica, se oggi il modello italiano è apprezzato fuori dai confini nazionali lo si deve soprattutto alla netta separazione che esiste rispetto al circuito penale per gli adulti. "Il sistema italiano è considerato, a buon diritto, uno dei più avanzati al mondo": queste non sono parole di Spadaro, ma del sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri nel dossier che porta il titolo "Giustizia minorile in Italia". Eppure, a dispetto degli annunci e delle celebrazioni di rito, dal palazzo di via Arenula è arrivata la proposta di cambiare radicalmente direzione, quantomeno nella forma: soppressione dei tribunali e delle procure per i minorenni. Meglio istituire, sostengono i relatori della proposta di legge, sezioni specializzate "per la persona, la famiglia e i minori" all’interno dei tribunali ordinari e presso le corti di appello. I rottamatori del vecchio modello si difendono facendo notare che "l’attività delle sezioni specializzate sarà esercitata in ambienti e locali separati, adeguati ai minori di età e alle esigenze che derivano dalla natura dei procedimenti". È vero, sulla carta c’è scritto questo. Ma per chi è un po’ pratico del variegato mondo dei palazzi di giustizia sa che realizzare tale divisione sarà molto complicato. Criminali incalliti da interrogare, imputati a piede libero che frequentano le aule, il frenetico via vai di poliziotti e avvocati che di certo non contribuiscono a creare un clima rilassato e sereno. Un contesto, insomma, per nulla adatto a ragazzini il cui equilibrio è turbato da un gorgo di fragilità, che li rende insicuri, alla perenne ricerca di se stessi e di un’identità. Una miscela che spesso fa da miccia al disagio e alla devianza. La critica che pone Spadaro è costruttiva: "Sono sicuro che l’alto senso delle istituzioni che contraddistingue l’attuale ministro della Giustizia e la sua sensibilità verso queste tematiche lo spingeranno a valutare l’opportunità di ponderare meglio una riforma epocale, stralciando, per esempio, quella del processo civile da quella relativa ai tribunali per i minorenni. O addirittura valorizzare questi ultimi, per esempio potenziandoli, attribuendo a questi uffici ulteriori competenze come quelle dei giudici tutelari e in materia di famiglia". Il magistrato calabrese non è contro a prescindere. Sostiene, infatti, che è necessaria una riforma. "Immaginando, per esempio, un unico giudice che si occupi di tutte le vicende familiari, ponendo al centro non i diritti degli adulti ma quelli dei figli". È un messaggio di dialogo, quello di Spadaro. Con una proposta chiara al guardasigilli e al Parlamento: "Mi chiedo cosa impedisce di creare quel "tribunale della famiglia" che, specie l’area politica progressista di questo Paese ha in passato auspicato, accorpando tutte le relative questioni ai giudici minorili. Se io ad esempio dovessi affrontare una separazione coniugale, preferirei che di una vicenda così dolorosa, specie in presenza di figli, si occupasse un giudice altamente specializzato". Con pochi magistrati in più, i tribunali per i minorenni potrebbero farsi carico di tutte quelle questioni che riguardano il nucleo familiare, con tutti i conflitti che lo caratterizzano e lo rendono spesso il primo indiziato del disagio giovanile. "La creazione di un tribunale unico della persona, dei minori e delle relazioni familiari viene invocata dai magistrati per primi ma anche dai professori universitari e dall’avvocatura specializzata. Rappresenta l’unica soluzione efficace per ridurre a zero la frammentarietà e la dispersione di competenze. In queste materie il contributo scientifico di esperti in materia di età evolutiva è e sarà comunque indispensabile: solo che attualmente viene fornito dai nostri magistrati onorari per miseri gettoni di presenza, successivamente potrebbe andare sotto parcelle profumate di consulenti tecnici di parte e di ufficio". È tra le mura domestiche che i figli apprendono il primo approccio col mondo esterno. E con i consigli e i suggerimenti dei genitori iniziano a interpretare ciò che accade nel mondo reale, che muta a una velocità supersonica. La cronaca recente, del resto, evidenzia i sintomi di un male sociale trascurato. Genitori che faticano a trovare i canali giusti per comunicare con i figli. Il caso del quindicenne di Lavagna, in Liguria, suicidatosi dopo un controllo antidroga sollecitato dalla madre, disperata nel suo tentativo di salvare il figlio dallo "sballo". Oppure il delitto di Pontelagorino, un piano folle ordito da due adolescenti: il figlio esausto delle strigliate di mamma e papà, chiede all’amico del cuore, anche lui classe 1999, di ucciderli in cambio di mille euro. Fatti che richiedono una riflessione seria, depurata, cioè, delle letture semplicistiche e a effetto. Spesso, urlate, nell’immediatezza da esperti improvvisati che trasformano persino l’educazione in un’emergenza, al pari di una calamità naturale. "Spesso i ragazzi, guidati in un percorso di consapevolezza, maturano e riescono a farsi carico dei propri errori, favoriti in questo proprio dal nostro sistema di giustizia. Credo non si possa rinunciare al processo che non è celebrato contro ma per e con il giovane, che deve essere messo nelle condizioni di comprendere in cosa e perché ha sbagliato e di riflettere su quali conseguenze comporta il reato commesso sia per lui sia per la vittima". Innescare la riflessione sugli errori commessi è, a parere di tutti i pedagogisti, il punto di partenza di un processo di crescita dell’adolescente. Nella vita reale ogni gesto e ogni azione hanno delle conseguenze. La dimensione del "game", in cui tutto è concesso e non esistono limiti, imprigiona migliaia di giovanissimi, convinti che, in fondo, dopo il game over la partita ricominci senza alcuna ripercussione. Pensiamo al bullismo spinto fino trasformarsi in omicidio. Oppure alle baby gang di Napoli che usano le pistole vere come in un gioco di guerra. "A volte i ragazzi non hanno nemmeno capito che stavano commettendo un reato: fotografare, filmare e poi condividere sui social network è per loro un gesto quotidiano e banale, tanto che non riflettono su quello che stanno diffondendo". In questo percorso di accompagnamento verso l’assunzione di responsabilità, i giudici e lo staff di educatori e psicologi hanno un ruolo fondamentale. "La nostra composizione multidisciplinare garantisce una valutazione che va oltre la fredda lettura del codice". Ma altrettanto indispensabile è salvaguardare i palazzi dei "piccoli" dalla promiscuità con gli adulti indagati o imputati a passeggio per gli uffici giudiziari. Un rischio che Spadaro vorrebbe evitare. Il magistrato calabrese ricorda anche un una riforma simile naufragata con una pregiudiziale di incostituzionalità in Parlamento: nel 2003 l’allora ministro leghista alla Giustizia, Roberto Castelli, propose la creazione di sezioni specializzate per la famiglia e i minori. Sull’attuale, invece, si è già schierato all’unanimità il Consiglio superiore della magistratura. Da palazzo dei Marescialli hanno messo in guardia dalle possibili disfunzioni che si determinerebbero con l’approvazione della riforma. "Non è possibile riformare frettolosamente un settore fondamentale che ha quasi un secolo di vita", aggiunge Spadaro. Peraltro in un momento storico in cui l’Europa - con la recente approvazione della Direttiva sulle garanzie per i minorenni - ribadisce la necessità di potenziare la specializzazione rispetto alla giustizia degli adulti. Nella Relazione di sintesi per l’anno 2016 il ministro Orlando scriveva: "Recenti rilevazioni statistiche indicano l’Italia come il Paese con il più basso tasso di delinquenza giovanile rispetto agli altri paesi dell’Ue e agli Stati Uniti. Tale effetto è certamente da ricondursi all’efficacia sia dei programmi di prevenzione adottati, che dalle misure trattamentali alternative alla detenzione". E allora, si chiede Spadaro, sulla base di quale studio o analisi è stata fatta la riforma? Perché cambiare se il meccanismo rappresenta un’eccellenza nel panorama comunitario? "Ogni anno alle procure che si occupano di adolescenti pervengono decine di migliaia di segnalazioni da parte dei servizi sociali, forze dell’ordine, ospedali, scuole, associazioni di volontariato e da semplici cittadini nelle quali si denunciano gravi situazioni di disagio dei giovani. Oltre ai tagli molto pesanti subiti dai servizi sociali in questi anni per le risorse da destinare alla protezione di chi ancora non è maggiorenne, l’indebolimento del ruolo e della centralità dell’autorità giudiziaria che di loro si occupa vedrà ulteriormente pregiudicato il sistema di interventi". In effetti è difficile immaginare che un procuratore capo inondato dalle emergenze quotidiane (omicidi, furti, risse, corruzioni) riesca anche a dare peso alle spie quotidiane accese dai servizi sociali. Con il rischio che tali richieste di aiuto cadano nel vuoto. L’enorme flusso di lavoro che paralizza spesso tribunali e procure, del resto, è un’ anomalia tutta italiana. Sintomo di una magistratura costretta a supplire ai vuoti lasciati dalla politica. "Manca il coraggio di operare scelte legislative. Pensiamo alla stepchild adoption: hanno rimesso ai giudici decisioni che sarebbe stato meglio indirizzare con un’ apposita norma", aggiunge Spadaro. Tribunali, dunque, dove la priorità delle toghe è ascoltare e comprendere la sofferenza. Dove ai ragazzi che hanno commesso un crimine viene offerta una seconda possibilità. "Perché esiste una Legge capace di "piegarsi" ai bisogni dei più indifesi, di offrire strumenti non semplicemente punitivi di fronte al disagio e alla devianza: ecco, credo che sia questo l’unicum che rende indispensabile l’esistenza di un tale presidio giudiziario". Strutture, spesso anonime, lontane dai grandi palazzi dove si celebrano maxi processi o indagini su grandi crimini. E questa distanza fisica ha portato a grandi successi: a Reggio Calabria un giudice, Roberto Di Bella, ha conquistato la fiducia delle donne di ‘ndrangheta e di alcuni boss al 41 bis, che, ora, lo supplicano di allontanare i figli dal territorio che hanno governato con il fuoco e con i soldi. Sarebbe mai accaduto se l’ufficio di Di Bella fosse stato all’interno degli edifici dove sfilano delinquenti di ogni risma? Queste mamme avrebbero mai varcato quella porta con il rischio di farsi riconoscere da criminali pronti a etichettarle come "infami". "Il giovane dev’essere messo nelle condizioni di comprendere in cosa e perché ha sbagliato", conclude Spadaro. "Solo così restituiremo alla società persone migliori". Via libera della Camera al pdl sulla protezione dei testimoni di giustizia Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2017 Via libera all’unanimità dell’Aula della Camera alle nuove disposizioni per la protezione dei testimoni di giustizia e di chi è in pericolo perché con uno di loro è parente o convive stabilmente. Il testo, che scaturisce dalle indicazioni in materia elaborate dalla commissione Antimafia e di cui il primo firmatario è la presidente Rosy Bindi, è stato approvato a Montecitorio con 314 voti a favore e nessun contrario. Ora passa al Senato. Le condizioni poste della commissione Bilancio, recepite in emendamenti approvati dall’Aula, hanno notevolmente ridotto le spese inizialmente considerate relative alle misure previste nel provvedimento. Tra le novità previste dalla riforma si segnalano: la definizione del testimone di giustizia, ancorata a parametri più stringenti; la personalizzazione e gradualità delle misure; in tale ambito è data preferenza nell’adozione di misure di tutela nella località di origine rispetto al trasferimento in località protetta, adottato col programma di protezione; la possibilità per il testimone di godere di misure di sostegno economico anche nel luogo di residenza, in presenza di riduzione della capacità di reddito (attualmente garantite dal solo programma di protezione); l’introduzione di misure a salvaguardia dell’impresa del testimone; l’istituzione di una figura, il referente del testimone di giustizia, che garantisca a questi un riferimento certo nei rapporti con le istituzioni, assicurando una piena assistenza al testimone per tutte le sue necessità; l’introduzione di un termine di durata massima delle misure. Sanzioni più pesanti per la corruzione tra privati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2017 Decreto legislativo di recepimento della decisione quadro del 2003 sulla corruzione tra privati. Un arsenale un po’ più ampio per contrastare la corruzione tra privati. Il Consiglio dei ministri di oggi approverà definitivamente il decreto legislativo che recepisce nel nostro ordinamento la decisione quadro del 2003. La necessità di provvedere all’attuazione della decisione-quadro in esame nasce dall’esigenza, più volte evidenziata dalla Commissione europea, di conformarsi ai principi stabiliti dagli articoli 7 e 8 della Convenzione penale sulla corruzione fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999 e ratificata dall’Italia con legge 28 giugno 2012 n. 110, che prevedono l’introduzione rispettivamente delle fattispecie di corruzione attiva e passiva nel settore privato, richiamate nei lavori della Commissione Greco sulla corruzione. La fattispecie della corruzione tra privati è prevista dall’articolo 2635 del codice civile, in base al quale, salvo che il fatto costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, per sé o per altri, compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi propri del loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, provocando un danno alla società, sono puniti con la reclusione da uno a tre anni. La stessa pena è prevista a carico di chi dà o promette danaro o altre utilità. La norma configura la corruzione come reato proprio, esclusivamente a carico di soggetti aventi posizioni di vertice nella società, escludendo tutti coloro che prestano attività lavorativa, a qualsiasi titolo, nella società. La norma non prevede, inoltre, l’offerta e la sollecitazione di un indebito vantaggio e esclude il riferimento agli intermediari. Nella nuova formulazione, tra gli autori del reato, oltre a coloro che rivestono posizioni apicali di amministrazione o di controllo, è compreso anche chi svolge attività lavorativa con l’esercizio di funzioni direttive presso società o enti privati, in coerenza con il principio generale in materia di reati societari, di cui all’articolo 2639 del codice civile, sull’estensione delle qualifiche soggettive al soggetto qualificato dalla giurisprudenza come "amministratore di fatto". Si introduce poi la punibilità allo stesso titolo del soggetto estraneo, cioè di colui che, offre, promette o dà denaro o altra utilità non dovuti alle persone indicate in precedenza. Vengono ulteriormente ampliate le condotte attraverso cui si perfeziona l’accordo corruttivo, comprendendo nella corruzione passiva anche la sollecitazione di danaro o altra utilità. Ma a venire colpito, con pena ridotta però di un terzo, quindi da 8 mesi a 2 anni, con una misura specifica, introducendo nel Codice civile un nuovo articolo, il 2635 bis, dal titolo "Istigazione alla corruzione", è anche chi punta a corrompere le medesime figure dirigenziali nelle società private. La stessa sanzione, quindi nella misura ridotta, colpisce gli amministratori e le figure a loro equiparate quando la loro sollecitazione all’evento corruttivo non viene accettata. L’ex pm Carlo Nordio: "ci vorrebbe Churchill per curare la giustizia italiana" di Francesco Specchia Libero, 10 marzo 2017 L’incertezza della pena, l’abuso del carcere, le stranezze di Davigo, il mito del premier inglese Carlo Nordio si gode la pensione fustigando giudici e processi. E spiega perché la crisi è culturale. Domani al "LexFest", la kermesse dedicata alla giustizia in svolgimento a Cividale del Friuli, Carlo Nordio riceve il premio per il Diritto. Alle 11.30 terrà la lectio magistralis "Giustizia, una parola antica spiegata ai giovani". C’è pensione e pensione. Carlo Nordio, trevigiano, classe 1947, già procuratore aggiunto di Venezia, magistrato d’assalto, Voltaire sottotraccia del aule di giustizia italiane, sta trasformando la sua, di pensione, in un osservatorio permanente sull’acciaccato diritto italiano. Dottor Nordio lei terrà davanti a una platea di giovani una lectio per metà filosofica e per metà di attualità giuridica. "Parto dal concetto che in Italia ci sia una crisi culturale sulla struttura stessa della pena che oggi non si capisce più a cosa serva: la pena è rieducativa? O punitiva? Per me dovrebbe solo servire nella sua funzione di allarme sociale: lo Stato deve agire sennò perde di credibilità". Adam Smith diceva che, in condizione di pace, un Paese può funzionare solo in presenza di un buon fisco e di un efficente sistema giudiziario. Concorda? "Lo dico da sempre. E la pena sempre più incerta è l’elemento che mette in discussione l’intero sistema carcerario, perché crea più problemi di quanto riesca a risolverne: l’abuso di carcerazione preventiva, il suicidio. Per cui, in pratica si deve rivedere tutta la filosofia delle sanzione che è essenzialmente, oggi, afflittivo. Poi c’è il nodo fondamentale della lentezza dei processi causata dalla carenza di risorse disponibili". Uno dei motivi per cui scappano anche gli investitori esteri. Di chi è la colpa? "La colpa è diffusa. E ci sono vari nodi sa sciogliere. Uno, per esempio, è l’azione penale obbligatoria prevista dalla Costituzione, che però è incompatibile col processo alla Perry Mason. Come risolvere il problema? O aumenti i mezzi e le risorse della giustizia (e la vedo dura), o diminuisci i reati; e a questo aggiungerei, naturalmente, la discrezionalità dell’azione penale". C’è anche l’abuso di carcerazione preventiva, così sempre di moda... "Per come è il sistema adesso, anche la carcerazione preventiva viene applicata perché, in fondo, è l’unica sanzione certa; le altre si rarefanno tra prescrizione dovuta alla lunghezza e rischio reale di iniquità, per cui chi viene condannato dieci anni dopo spesso non è la stessa persona che ha commesso il reato dieci anni prima". Tutto questo lei lo professava già quando presiedeva la Commissione Ministeriale per la riforma del codice penale. Cose sagge, ma rimaste nel cassetto. Come mai? "Perché in Italia si fa il contrario di ciò che si dovrebbe, cioè: semplificare e ridurre anche le pene, l’importante è renderle più efficaci. Anzi, qua si creano invece reati nuovi, che spesso ingarbugliano le procedure come quelli legati al codice della strada o quelli ai limiti della costituzionalità" A proposito. Lei, sul caso Consip, ha parlato del reato di influenze illecite "al limite della costituzionalità. Conferma? "Certo. È come la legge Severino che aumenta i problemi invece di ridurli: e questo reato può essere letto in così tanti modi che finisce che chiunque faccia politica possa avere il problema di finire indagato". Il suo collega Piercamillo Davigo presidente dell’associazione nazionale magistrati, però dice il contrario… "Che dice, Davigo?". Che "se c’è stato un errore con le misure cautelari, è che abbiamo esagerato con le scarcerazioni". Un tantino tranchant... "Davigo lo conosco da trent’anni. Le sue, a volte, sono battute pittoresche. Ovvio che da noi viga la presunzione d’innocenza, ma talvolta nel parlare per sostenere le proprie tesi ci si concede alle iperboli, capita anche a me". Davigo dice anche che il segreto istruttorio in realtà è una cosa mitologica... "Ha ragione, su questo". Ha ragione? "Per paradosso. Così, con queste intercettazioni è un vulnus ai diritti costituzionali del cittadino, tanto vale abolirlo. Ma coloro che la pensano in tal senso, la pensano finché non capita a loro, di prendere vent’anni magari per un errore giudiziario". Torniamo alle intercettazioni, un suo cavallo di battaglia garantista, da quando scriveva i libri con Pisapia. Perché non le piacciono? "Perché così non sono presentate in forma di perizia come vorrebbe il codice. Mi pare che nel caso Consip ci siamo anche i pizzini per i quali l’avvocatura della difesa - non senza fondamento - ha invocato la nullità". Giovanni Legnini vicepresidente Csm, afferma: la fuga di notizie lede la credibilità dell’inquirente... "Legnini scopre l’acqua calda. Sono 25 anni che lo scrivo. Da quando Berlusconi ricevette il primo avviso di garanzia a Napoli". Ma non trova strano che, di solito, si dia la colpa della fuga di notizie agli avvocati difensori, o al maresciallo anonimo di turno? "Ovvio che la "manina" possa essere anche quella del magistrato. D’altronde è questo sistema che porta alla pubblicazione indebita delle intercettazioni - parlo di quelle probatorie che entrano nel fascicolo processuale, e quindi passano di mano in mano. A differenza di quelle preventive che usavano per il terrorismo e restavano fino all’ultimo nella cassaforte del pm. Ma con me all’inchiesta del Mose, non ne uscì una". Riciclaggio per chi reinveste il frutto dell’illecito del congiunto di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2017 Corte di cassazione, sentenza 9 marzo 2017, n. 11491. Commettono reato di riciclaggio il rappresentante legale e il socio della società che fanno transitare temporaneamente nella contabilità, come finanziamento soci non oneroso, le somme provenienti da delitti commessi da un congiunto. A precisarlo è la Corte di cassazione, sezione II penale, con la sentenza n. 11491 depositata ieri. I soci e rappresentanti legali di alcune società erano condannati in primo e in secondo grado per il delitto di riciclaggio (articolo 648-bis del Cp). Secondo l’accusa, gli imputati, senza aver partecipato al reato di sottrazione e illecita commercializzazione di idrocarburi commesso da un congiunto (definito nell’ambito di altro procedimento), avevano utilizzato i proventi di tali illeciti nelle attività economiche delle società loro riconducibili facendo temporaneamente transitare dette somme nella contabilità sociale a titolo di finanziamento soci non oneroso. Le medesime somme erano poi recuperate con prelevamenti: gli imputati così, secondo l’accusa, avevano ripulito i proventi dell’attività illecita del congiunto e ostacolato l’identificazione della provenienza delittuosa del denaro utilizzato. I giudici di merito, dopo aver quantificato le somme conseguite alla commercializzazione del carburante sottratto, rilevavano che le medesime corrispondevano, nel complesso e per singole annualità, ai finanziamenti effettuati dai soci e rappresentanti legali in favore delle società. Infine dai conti bancari emergevano i flussi finanziari in uscita dalle società. Alla luce di tali circostanze, la Corte d’appello riteneva che le somme transitate nelle società e poi prelevate erano proprio quelle derivanti dal delitto commesso dal congiunto. A ciò si aggiungeva la consapevolezza della provenienza illecita delle somme (necessaria per configurare il riciclaggio) desumibile dall’assoluta analogia delle condotte poste in essere dalle varie società e dalla mancata giustificazione della loro provenienza da parte degli imputati. I giudici di legittimità hanno così respinto il ricorso della difesa ricordando che il dolo nel reato di riciclaggio può configurarsi anche nella forma eventuale allorché all’agente si rappresenta la concreta possibilità, accettandone il rischio, della provenienza delittuosa del denaro ricevuto e investito. La sentenza è importante perché attiene una casistica astrattamente configurabile nel momento in cui chi ha commesso una violazione costituente delitto reinveste le somme in una società direttamente (auto riciclaggio) o tramite terzi (riciclaggio). Millantato credito all’usciere che chiede denaro per comprare il favore dei funzionari di Daniela Casciola Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2017 Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 9 marzo 2017 n. 11534. È colpevole di millantato credito l’uscere del Comune che si fa consegnare somme per comprare il favore dei funzionari. La Corte di cassazione, con la sentenza della sesta sezione penale n. 11534/2017, rigetta il ricorso del dipendente dell’ente locale contro la sentenza della Corte d’appello di Milano che aveva riqualificato l’originaria imputazione di reato di induzione indebita in millantato credito. La vicenda - Il ricorrente, in qualità di usciere di un Comune della provincia lombarda, si era fatto consegnare da un terzo delle somme di denaro che asseriva fossero destinate a favorirlo "addolcendo alcuni funzionari" per mandare avanti la pratica di assunzione presso una società a partecipazione pubblica. In primo grado, il Tribunale di Milano aveva condannato l’usciere per induzione indebita ma la Corte d’appello aveva preferito riformare la sentenza applicando l’articolo 346, comma 2 del codice penaleche disciplina il millantato credito in considerazione del fatto che l’uomo non fosse pubblico officiale e nemmeno incaricato di pubblico servizio. Aveva contribuito a questo cambio di idea un nuovo elemento accertato: l’uscere avrebbe messo in scena anche una telefonata "apparentemente proveniente da un funzionario". Una condotta questa qualificata dai giudici di subdola e artificiosa suggestione che apriva la strada alla modifica dell’imputazione. La decisione - I giudici della Cassazione confermano la linea adottata dalla Corte d’appello la cui decisione non avrebbe inciso sulla correlazione tra contestazione e sentenza - come lamentato dal ricorrente - e nemmeno sul diritto dell’imputato di difendersi. La pronuncia di secondo grado costituisce un "esito decisorio prevedibile". Nei casi di questo genere - specifica la Cassazione - è in primo luogo configurabile proprio il delitto di millantato credito che tutela del prestigio della Pa e che si fonda sul raggiro, nella fattispecie è costituito dal "ricorso alla vanteria di ingerenze e pressioni presso funzionari". Potrebbe semmai "concorrere" con il delitto per truffa quando si accompagni all’ulteriore attività diretta all’induzione in errore del terzo in vista di un profitto illecito con altrui danno. Giovane detenuto suicida: è giusto che chi soffre di disturbi psichici sia rinchiuso in carcere? di Veronica Morgagni artspecialday.com, 10 marzo 2017 Il 24 febbraio un giovane di soli 22 anni si è tolto la vita nel carcere di Regina Coeli a Roma dove stava scontando la pena per violenza e resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento. Valerio si è impiccato alle sbarre della propria cella utilizzando le lenzuola, mettendo fine a quel regime di detenzione che per lui era intollerabile. Quella che a prima vista può sembrare uno dei frequenti casi di condannati che decidono di farla finita in carcere, in realtà nasconde una verità molto più amara. Valerio soffriva fin da bambino di disturbi psicologici, tanto da costringere la madre ad affidarlo a case famiglia, ospedali psichiatrici e strutture protette dove potesse ricevere l’assistenza medica e sociale adeguata - non sempre rivelatesi esperienze positive. Ed infatti, inizialmente il ragazzo era stato affidato alla Rems di Ceccano (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, strutture che hanno sostituito gli Ospedali psichiatrici giudiziari) dalla quale aveva tentato la fuga per ben tre volte, ma all’udienza del 14 febbraio, dopo che Valerio era stato rintracciato durante l’ultimo tentativo di allontanamento dalla struttura, il giudice ha disposto la misura della custodia cautelare in carcere. Valerio al Regina Coeli non ci voleva stare, il regime troppo severo e il controllo degli agenti lo stavano facendo impazzire. Sia prima che durante l’udienza aveva espresso la propria ferma volontà di tornare a casa e diverse volte aveva contattato i propri famigliari dal carcere, con lettere disperate, alla ricerca di un aiuto che non è intervenuto in tempo. "Sono stanco di mangiare, di scappare, di fare qualunque cosa. Ora ti lascio con la penna ma non con il cuore fratellone mio". Così si esprimeva Valerio pochi giorni prima di togliersi la vita in una missiva indirizzata al fratello. Perché nessuno si è accorto di quello che stava accadendo? Perché Valerio non era sorvegliato? Perché le lenzuola sono state lasciate nella sua disponibilità? Ma soprattutto, perché Valerio di trovava in carcere? Dopo aver letto questa lettera (quella indirizzata al fratello, ndr) dobbiamo ribadire quanto già affermato da noi ieri, il punto nel caso specifico non riguarda la prevenzione dei suicidi in carcere. Non dobbiamo interrogarci se fosse giusto che quel ragazzo avesse in cella con sé le lenzuola o altri oggetti che avrebbe potuto utilizzare per togliersi la vita. Il punto è che persone, ancor più così giovani, con problematiche di questo tipo, devono essere affidate al sostegno medico, sociale, psicologico dei servizi delle ASL territoriali e non messe dietro le sbarre di una cella. Non possiamo trattare persone con problemi di salute come se fossero dei criminali pericolosi. Dobbiamo quindi interrogarci sul perché questo non sia avvenuto. Dobbiamo farlo affinché casi come questo del ventiduenne non tornino a ripetersi. La misura della custodia cautelare in carcere, in quanto considerata la più afflittiva delle misure cautelari, necessita di tre presupposti: rischio di inquinamento delle prove, pericolo di fuga, rischio di reiterazione del reato. Inoltre, la sua applicazione deve essere sorretta dal principio di adeguatezza - utilizzata solo come extrema ratio qualora ogni altra misura risultasse inadeguata - e dal principio di proporzionalità - la misura deve essere proporzionale al fatto e alla pena che si ritiene possa essere in concreto irrogata. Sì, è vero, Valerio era fuggito più volte dalla Rems e si era reso irreperibile, ma ciò non significa che il carcere fosse la soluzione migliore, nonché la più adeguata. Quali sono i criteri che hanno realmente ispirato il giudice? Non può parlarsi di responsabilità personale, ma sicuramente di una decisione presa con eccessiva leggerezza, ai danni di un giovane che già diverse volte era stato giudicato inabile al regime carcerario proprio a causa del suo stato mentale. Se è vero che, nel nostro sistema penale, la pena - e, analogamente, le misure cautelari - ha una connaturata funzione rieducativa, nonché di risocializzazione del reo, quale scopo può avere applicare il carcere ad un soggetto che, per le proprie condizioni psicologiche, non può comprendere appieno il senso? Se Valerio non poteva capire le ragioni di quella punizione, perché infliggerla? Già altre volte il ragazzo era stato assolto per infermità mentale perché nel momento di compiere il fatto di reato non era capace di intendere e di volere. E, dunque, qual è il senso di applicare una punizione di tal genere a colui che non è in grado di capirne il senso in quanto non riesce nemmeno a percepire il disvalore e l’offensività delle azioni commesse? Valerio non doveva trovarsi in carcere, aveva bisogno di una struttura medica, dove potesse ricevere cure psichiatriche e sottoporsi ai dovuti trattamenti. Questo è ciò che intende fare valere oggi la mamma di Valerio, Ester Moratti, insieme all’avvocato Simona Filippi e all’Associazione Antigone, alla quale la donna si è immediatamente rivolta, e, in particolare, a Stefano Anastasia - garante delle persone private della libertà e tra i fondatori dell’associazione Antigone, che si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale. Valerio era un ragazzo malato, incline a commettere fatti ricostruibili, alla luce del sistema penale, come reati, ma non era socialmente pericoloso. Poteva, e doveva, essere assistito all’interno di una Rems, non in una struttura carceraria priva dell’adeguata assistenza medica. Maggiore accortezza e una valutazione più sensibile e ponderata da parte dell’ordinamento giudiziario e dei suoi organi avrebbero probabilmente portato ad un epilogo ben diverso. Calabria: "Istituire il Garante dei detenuti". Ruffa (Radicali) in sciopero della fame cn24tv.it, 10 marzo 2017 Rocco Ruffa, ingegnere militante del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, dopo aver sostenuto la battaglia di Rita Bernardini, continua il satyagraha per ottenere l’istituzione del Garante Regionale dei detenuti. "Come ormai da molte settimane - ha ribadito lo stesso Ruffa - proseguo la mia battaglia con altri 4 giorni di sciopero della fame che si concluderanno domenica 12 Marzo. Ho iniziato sostenendo la battaglia di Rita Bernardini in "digiuno di dialogo" dal 5 febbraio scorso, ho intrapreso questa battaglia perché ne condivido pienamente le motivazioni: stralcio della riforma dell’Ordinamento Penitenziario dalla complessiva riforma del processo penale in corso al Senato della Repubblica e urgente emanazione di un provvedimento di amnistia e indulto (art. 79 della Costituzione) per far rientrare lo Stato Italiano nella sua stessa legalità che viola apertamente non rispettando gli artt. 3 e 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (sui trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti e sulla irragionevole durate dei processi)" "Proprio oggi - prosegue il militante - l’On. Bernardini ha ricevuto prova di apertura al dialogo da parte delle istituzioni; questo pomeriggio, infatti, assieme ad una delegazione del Partito Radicale, è stata ricevuta dal Ministro Andrea Orlando che ha espresso parole di elogio nei confronti della battaglia portata avanti dall’ex-parlamentare radicale". Ruffo, dunque, saluta "con favore l’iniziativa del Ministro che ha voluto ricevere Rita Bernardini interrompo lo sciopero della sete che inizialmente avevo previsto. Ma - conclude - il ritardo con cui le istituzioni calabresi si occupano del Disegno di Legge a prima firma del Presidente Nicola Irto per l’istituzione della figura del garante -che la legge prevede in ogni regione- è inaccettabile". Toscana: infermerie nelle carceri toscane, bando da 11 milioni a un’Ati gonews.it, 10 marzo 2017 Un’Ati interamente gestita da infermieri per la gestione dei servizi infermieristici nelle Carceri Toscane. È stata vinta da un’Associazione temporanea di imprese (Ati), che vede come capofila lo Studio Auxilium - Infermieri e Professionisti Sanitari Associati di Borgo San Lorenzo (Fi) e che è composta dalla Cooperativa di infermieri Libera Onlus sempre di Borgo San Lorenzo (nata in seno allo Studio Auxilium) e dal Consorzio Hcm di Milano, la Gara Europea per la "Gestione del servizio di assistenza infermieristica a favore della popolazione detenuta negli istituti penitenziari della Regione Toscana, per il periodo 2017 - 2021" che ha preso avvio il 1° Febbraio 2017. Lo Studio Auxilium infermieri e professionisti sanitari associati era già attivo dal 2011 all’interno di alcuni dei più importanti Istituti di pena della Regione, come impresa esecutrice all’interno di un Consorzio Fiorentino. "Questa volta - spiega Stefano Chivetti, presidente dello Studio Auxilium - abbiamo deciso di affrontare la sfida scegliendo di "correre da soli", nella convinzione che questa scelta serva anche a tutelare e valorizzare al meglio la professionalità degli Infermieri". Un servizio quasi esclusivamente infermieristico, richiede secondo Chivetti "un coordinamento e una gestione da parte di una organizzazione che abbia una governance infermieristica". Si tratta infatti di una scelta di coerenza con la propria professione. Purtroppo, nel panorama delle gare di affidamento di servizi questo non è un requisito vincolante e troppo spesso dei professionisti si trovano a dover essere "coordinati e gestiti" da chi professionista non lo è; magari un ottimo amministratore ma questo non è sufficiente per poter pretendere la gestione di professionisti intellettuali, quali gli infermieri sono. "Noi abbiamo deciso di guardare più avanti - ha concluso Chivetti - e la nostra determinazione è stata premiata". Lo Studio Auxilium ha operato all’interno del carcere di Sollicciano e dell’Istituto Gozzini, ai quali si sono poi aggiunti nel corso della gestione l’Istituto di pena della Dogaia di Prato, la Casa Circondariale di Pistoia, quella di Empoli e l’Opg di Montelupo Fiorentino, ormai in fase di chiusura. La nuova gara Estar riguardava invece tutti gli istituti penitenziari già oggetto del primo affidamento ma è stata ampliata a tutti gli istituti di pena della Regione. Un importo complessivo poco al di sotto degli 11 milioni di euro, ma con una possibile ‘capienzà di ulteriori 7 milioni di euro, in caso di ampliamento del progetto e di estensione ad altri istituti. "È stata premiata molto la fase progettuale - prosegue Chivetti - conquistando un distacco di 11 punti rispetto ai nostri competitor. Fra le innovazioni più importanti, per esempio, abbiamo previsto una nuova figura infermieristica, con una formazione specifica in Transcultura, che si occuperà solo di relazioni con i detenuti, con l’obiettivo di andare a individuare e intercettare vari aspetti problematici nella gestione di una persona detenuta: problemi con matrici culturali diverse, il rischio di suicidio, l’aderenza alle terapie, la sperimentazione di scale di valutazione del dolore attuabili in ambito penitenziario che, qualora validate dopo apposita sperimentazione porterebbero innumerevoli miglioramenti sia nella riduzione di terapie antidolorifiche che nella forte diminuzione della spesa sanitaria per tali farmaci. Infine abbiamo previsto innovazioni di carattere tecnologico che spaziano dai servizi di tele-cardiologia, all’informatizzazione di alcuni processi legati alla somministrazione della terapia, fino ai miglioramenti nell’organizzazione dei servizi. Sono stati potenziati gli organici degli infermieri, creati gli ambulatori infermieristici, attivi in varie fasce della giornata in modo che gli infermieri possano riappropriarsi della governance dei processi sanitari". Un articolato progetto che verrà sviluppato su tutti gli istituti di pena in piena sinergia con l’Azienda Sanitaria Usl Centro Toscana. L’esito della gara, aggiudicata il 19 luglio scorso è stato anche oggetto di un ricorso al Tar di Firenze che è stato respinto con sentenza del 20 dicembre 2016, confermando quindi l’esito a favore della Ati composta da Studio Auxilium, Libera Onlus e Consorzio Hcm. Notevoli le ricadute occupazionali: il progetto occuperà 87 persone: 35 infermieri liberi professionisti, 35 infermieri dipendenti delle due cooperative, 15 Oss e 2 amministrativi. Insomma, una grande conquista degli infermieri che hanno dimostrato ancora una volta la forza di questa categoria professionale: competenza e capacità progettuale, amore e dedizione per questa bellissima professione. Un mix di ingredienti che evidentemente è vincente. Ipasvi Firenze non può che rallegrarsi e porre attenzione a questa realtà del territorio fiorentino che va ben oltre i confini provinciali, con la speranza che sia di esempio è stimolo per i giovani professionisti che intendono svolgere autonomamente la professione infermieristica. Santa Maria Capua Vetere (Ce): l’ultimo carcere "per soldati", caso di eccellenza e di spreco di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 marzo 2017 Urge la riforma dell’intera giustizia militare. C’è un sistema giudiziario e penitenziario "con le stellette" parallelo a quello ordinario. spesa eccessiva per carichi di lavoro irrisori. Si tratta di un sistema penitenziario e giudiziario parallelo. Ha le sue carceri, la sua amministrazione penitenziaria, i suoi tribunali, magistrati e Consiglio superiore della magistratura annesso. Ad occuparsi di tutta l’organizzazione non è però il ministro della Giustizia ma quello della Difesa. Parliamo della giustizia militare in tempo di pace, che da molti anni attende di essere riformata. Correva l’anno 2013 quando l’allora ministro della Difesa Mario Mauro si impegnava di fonte all’apposita commissione della Camera a mettere mano alla giustizia militare, organo a parte della magistratura italiana con un’attività di lavoro irrisoria e impossibile da scalfire, ma con un peso non indifferente sui conti dello Stato. Parliamo di un totale di 58 magistrati, tra giudicanti e inquirenti, con uno stipendio medio di 150mila euro, che in totale ci costano 20 milioni di euro all’anno. Hanno un loro organo di autocontrollo, il Consiglio della magistratura militare (Cmm) equivalente del Consiglio superiore della magistratura (Csm). Il Cmm è, infatti, competente a deliberare su ogni provvedimento di stato riguardante i magistrati militari e su ogni altra materia ad esso devoluta dalla legge. Il "Cmm": funzioni e competenze - In particolare, delibera sulle assunzioni della magistratura militare, sull’assegnazione di sedi e di funzioni, su trasferimenti, promozioni, sanzioni disciplinari, conferimento ai magistrati militari di incarichi extragiudiziari. Esprime pareri e può fare proposte al ministro della Difesa sulle circoscrizioni giudiziarie militari e su tutte le materie riguardanti l’organizzazione o il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia militare; dà pareri su disegni di legge concernenti i problemi del settore giudiziario. Sulle materie di competenza del Consiglio, il ministro della Difesa può avanzare proposte e osservazioni e può intervenire alle adunanze del Consiglio, quando ne è richiesto dal presidente o quando lo ritenga opportuno, per fare comunicazioni o per dare chiarimenti. Il ministro, tuttavia, non può essere presente alle deliberazioni. Fanno parte del Consiglio - che dura in carica 4 anni - il primo della Corte di Cassazione, che lo presiede; il procuratore generale militare presso la Corte di Cassazione; quattro componenti eletti dai magistrati militari - di cui almeno uno magistrato militare di Cassazione -, un componente estraneo alla magistratura militare, scelto d’intesa tra i Presidenti delle due Camere fra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati con almeno quindici anni di esercizio professionale, che assume le funzioni di vicepresidente. La riforma invocata dal vicepresidente - Ed è proprio l’attuale vicepresidente Antonio Scaglione che, durante un intervento per l’inaugurazione dell’anno giudiziario presso l’assemblea generale della Corte militare d’Appello, si è soffermato sul tema della riforma della giustizia militare "annunciata", ma, purtroppo, non ancora realizzata. Ha ricordato che l’anno precedente si era soffermato sulle due prospettive di riforma che allora erano e che sono tuttora all’esame del Parlamento: la prima nel senso della abolizione della giurisdizione "speciale" militare e della sua confluenza, per il tempo di pace, nell’alveo più generale della giurisdizione ordinaria, sia pure nella forma delle sezioni specializzate; la seconda, invece, nel senso della ulteriore riduzione degli attuali organi giudiziari militari, dopo quella già attuata dalla legge 24 dicembre 2007; riduzione ancora una volta motivata con l’argomento dell’austerità e del contenimento della spesa pubblica in un contesto di perdurante crisi economica. C’è chi dice serva una legge costituzionale per riformare la categoria, per unificarla magari a quella civile, ma il governo Renzi si era addirittura impegnato fin da subito a eliminarla. L’allora ministra Roberta Pinotti, che ha preso il posto di Mauro a febbraio 2014, aveva proseguito gli obiettivi di inizio legislatura, tanto da inserire il tema persino nel "Libro bianco", il testo unico sulla sicurezza internazionale e la difesa. Così a pagina 58 aveva scritto: "Per quanto attiene alla amministrazione della giustizia militare il Governo intende perseguire lo sforzo di efficienza del sistema e di razionalizzazione, studiando anche la possibilità di forme idealmente evolute basate sul principio di unità della giurisdizione penale e che prevedano di dotarsi in tempo di pace di organi specializzati nella materia penale militare incardinati nel sistema della giustizia ordinaria". Ma tutto si è fermato. A ricordare a quale punto si trovi l’iter della riforma, recentemente è stato il deputato del Pd Daniele Marantelli. Tramite un’interpellanza aveva chiesto "a quale stadio si trovi il progetto di riforma della giustizia militare, di sapere se è confermato l’intento di costituire un gruppo di lavoro sul tema presso il ministero della Difesa e di valutare, nell’ambito di tale riflessione e alla luce della già citata pochezza numerica e qualitativa del contenzioso trattato, la soppressione del sistema giudiziario militare e la sua integrazione nel sistema giudiziario ordinario". Carico di lavoro insignificante - I dati statistici sull’operato dei tribunali militari risultano talmente insignificanti che se venissero valutati secondo i parametri del ministero della Giustizia, i conti salterebbero. Sì, perché secondo Via Arenula si calcola che ogni tribunale debba coprire un bacino di utenza di 382.191 cittadini: la giustizia militare invece può contare su tre tribunali, a Verona, Roma, Napoli, e giudica su un totale di 310mila persone. Il carcere modello dei militari - Come ogni sistema penitenziario si rispetti, anche quello militare ha il suo Dap. Però si chiama diversamente: Opm e sta per Organizzazione Penitenziaria Militare. Unica realtà del genere nel contesto nazionale ed europeo, è inquadrata nell’organizzazione di Vertice delle Forze Armate e si occupa della gestione del trattamento penitenziario dei detenuti ristretti presso gli istituti di pena militari a capo degli istituti di pena militare. Oggi ne esiste solo uno di istituto di pena militare e si trova in Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta. Fino al 2005 esistevano diverse carceri militari. Si trovavano a Gaeta, Pescheria del Garda, Forte Boccea, Cagliari, Sora, Palermo, Bari, Torino e Pizzighettone. A dispetto di tutti gli altri istituti penitenziari ordinari, quello militare risulta un carcere modello e ha un numero esiguo di ristretti. Molto al di sotto della capienza regolamentare. I detenuti sono pochi perché le sentenze sono diminuite grazie all’abolizione, dal 2005, della leva obbligatoria nell’esercito, che ha drasticamente abbattuto i reati militari un tempo più diffusi, dalla diserzione alla mancanza alla chiamata. Il carcere militare può essere posto ad esempio: ha un elevatissimo standard delle condizioni di detenzione, è una struttura considerata di assoluta eccellenza dal punto di vista delle condizioni sanitarie, infrastrutturali e per l’elevato livello tecnologico. Di detenuti militari ce ne sono pochi, paradossalmente la maggior parte sono poliziotti e carabinieri. Parliamo di un carcere dove non esiste un clima di distacco che solitamente avviene nei penitenziari italiani "civili": pur nel rispetto dei ruoli, il comandante fa anche da padre, consigliere, a volte amico. Si lavora, esiste la possibilità di coltivare, partecipare a laboratori di cucina e falegnameria. La riabilitazione funziona. Più volte si è detto di sopprimerlo, ma forse, viste le gravi criticità degli istituti penitenziari, bisognerebbe estenderlo e replicarlo anche ai "civili". Nuoro: dieci detenuti rinascono con "Fainas" di Luciano Piras La Nuova Sardegna, 10 marzo 2017 Una giovane rete di imprese e un progetto di inclusione sostenuto dalla Regione nelle campagne tra Loculi e Irgoli. "Lavorare è una soddisfazione, questa per noi è una seconda occasione". È madre terra che regala la rinascita, ancora una volta, qui a Funtan’arva, nelle campagne tra Loculi e Irgoli, a valle del Monte Tuttavista. "Per noi che abbiamo sbagliato, questa è una grande possibilità di riscatto" va avanti un ex detenuto di Badu e Carros approdato alla cooperativa sociale Baronia verde per ripartire da un lavoro, da un mestiere, falegname o ortolano, artigiano o giardiniere poco importa. Importa, piuttosto, la scommessa di Funtan’arva, una soltanto: inclusione sociale. Per una decina di detenuti (alcuni sono ancora sottoposti a misure penali, altri sono appena usciti dal carcere), coinvolti nel progetto Fainas, acronimo di Fare in agricoltura sociale, finanziato dalla Regione. "Speriamo che questo progetto possa andare avanti ancora" sospirano mentre si salutano dopo oltre un anno di lavoro insieme. Chissà. Magari la prossima estate, quando Baronia verde avrà bisogno di rinforzi, qualcuno di loro potrà tornare al lavoro da queste parti. Magari la Regione finanzierà altre annualità del progetto. Oppure la cooperativa riuscirà ad includerli in qualche altro bando. Chissà. "Non è escluso, come è già accaduto altre volte che i tirocinanti vengano poi assunti dalle aziende ospitanti" è l’auspicio di Costantino Spada, psicologo, classe 1972, presidente della cooperativa. "Un ruolo importane in questo progetto - sottolinea - riveste il tessuto imprenditoriale locale, in particolare le Fattorie didattiche e sociali che ospitano i partecipanti per tutta la durata del percorso, raggiungendo una reale integrazione degli utenti nel tessuto imprenditoriale locale". "L’arma vincente nei progetti di inclusione sociale è fare rete con tutto il tessuto socio-economico del territorio" ribadisce Michele Ruiu, imprenditore agricolo, classe 1969. Titolare della Fattoria didattica e sociale Funtan’arva. E il Progetto Fainas, qui in Baronia, coinvolge non soltanto diverse fattorie, ma anche i servizi sociali dei diversi Comuni, l’Agenzia Laore Sardegna, persino il Dipartimento agricoltura dell’Università della Tuscia e la Rete nazionale delle fattorie sociali. Fondamentale il ruolo dell’Uepe, l’Ufficio esecuzione penale esterna di Nuoro, partner insostituibile per la riuscita del progetto. "Un progetto - riprende Michele Ruiu - che ha permesso il consolidamento dei diversi rapporti di collaborazione tra diverse imprese locali e regionali sul tema dell’inclusione sociale, sfociato nella costituzione della prima rete di imprese a carattere regionale a soggettività giuridica, la Rete Fainas, appunto". Fare insieme agricoltura sociale. Ruiu è il presidente di questa Rete. Quattordici imprese di diversi comparti produttivi, imprese agricole, agrituristiche, fattorie didattiche e sociali, cooperative sociali, società di servizi formativi, e di trasporto di tutto il territorio regionale, da Lula a Cagliari, da Lodè a Bitti, dalla Barbagia al Marghine e all’Ogliastra. Quattordici imprese insieme, "in sinergia nel condividere gli obiettivi della rete, che hanno deciso di unire le forze per sviluppare sistemi e azioni innovative e qualificanti volte alla vera inclusione sociale, con particolare attenzione all’agricoltura, dando alle loro produzioni quel valore etico-sociale che oggi più che mai li rende più appetibili". "Nel lavoro della campagna - aggiunge ancora Michele Ruiu, non ci sono differenze di condizione sociale, sesso, o quant’altro, le braccia sono tutte uguali e ognuno di noi trova la propria dimensione utile alla vita della fattoria". "L’importante è lavorare - interviene un detenuto in permesso -, avere un minimo per sopravvivere e un impegno fisso sono un’occasione che non possiamo farci scappare. E in più, qui siamo come in famiglia". Una famiglia allargata, una piccola comunità. Proprio come succede nella Rete Fainas, che vuole essere un valido strumento per creare quella rete di comunità necessaria a sconfiggere la diseguaglianza sociale sempre più marcata e spesso affrontata con strumenti che alleviano le "sofferenze" sociali ma non risolvono le problematiche alla fonte. Non è un caso se la cooperativa Baronia verde, una delle quattordici imprese che compongono la Rete Fainas, vanta già un curriculum di tutto rispetto nei progetti di inclusione sociale in ambito rurale. "Da anni gestiamo progetti anche a livello nazionale - ricorda Costantino Spada, non ultimo quello concluso di recente, il Progetto Reli, rivolto alle alcool-dipendenze e tossicodipendenze e finanziato dal Dipartimento delle politiche antidroga e dalla Regione Sardegna". Sondrio: "Pastificio 1908", progetto oltre le sbarre La Provincia di Sondrio, 10 marzo 2017 Con una serata al ristorante La Spia di Castione è stato presentato ufficialmente il laboratorio artigianale per la produzione di pasta senza glutine realizzato all’interno della casa circondariale di Sondrio. Lo chef Marcello Ferrarini, che ha formato i detenuti che produrranno la pasta all’interno del laboratorio, si è cimentato in uno show cooking di preparazione di tre primi piatti secondo le ricette che lo stesso chef ha studiato nelle scorse settimane con i partecipanti al progetto. E, se al fianco proprio di Ferrarini, si sono alternati i detenuti (Ruggero, Mohamed e Paolo) che con le loro idee hanno ispirato le ricette realizzate nel corso della serata e che compaiono e compariranno anche sul retro delle confezioni di pasta, spiegando come sono nate le ricette e raccontando anche la loro storia e la loro voglia di riscatto, nella cucina del ristorante La Spia gli altri detenuti hanno preparato e impiattato le portate per tutti gli ospiti della serata. Alla cena "di lancio" dei prodotti del Pastificio 1908 hanno infatti preso parte i rappresentanti di tutti i soggetti che hanno sostenuto l’iniziativa: dalla direttrice della casa circondariale Stefania Mussio, al presidente di Confartigianato Sondrio Gionni Gritti; dalla presidente del Bim Carla Cioccarelli ai rappresentanti della fondazione Pro Valtellina fino a vari componenti della cooperativa Ippogrifo, tra cui il responsabile del progetto del pastificio Alberto Fabani e il presidente Paolo Pomi. "Con le nostre iniziative all’interno della casa circondariale di Sondrio - ha sottolineato Pomi - vogliamo creare un ponte tra dentro e fuori in modo da sanare il momento di "rottura" rappresentato dalla detenzione. Con il laboratorio di produzione di pasta senza glutine abbiamo gettato basi solide per far sì che questa distanza tra "dentro" e "fuori" sia colmata. Siamo riusciti a far entrare tante persone all’interno del carcere e ora siamo pronti a fare uscire questo prodotto". Roma: Manconi (Pd); finalmente a una casa per liberare i "bambini detenuti" senatoripd.it, 10 marzo 2017 "L’annuncio da parte di Virginia Raggi, sindaca di Roma, dell’imminente apertura della Casa di Leda, casa famiglia per le donne detenute con bambini attualmente recluse nel carcere di Rebibbia, è una buona notizia, da tempo attesa. A 16 anni esatti dalla legge Finocchiaro, approvata l’8 marzo del 2001, che prevedeva misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra recluse e figli minori". Lo afferma il Senatore del Pd Luigi Manconi, Presidente della commissione Diritti umani. "Ho seguito passo dopo passo grazie anche al lavoro svolto dalla Commissione diritti umani del Senato - aggiunge Manconi - il progetto che ha portato all’apertura della prima casa famiglia in Italia, contribuendo a facilitare in questi anni la collaborazione tra le diverse istituzioni competenti e le associazioni. Importante il sostegno di Poste italiane. Un ringraziamento sentito va a Francesca Danese, assessore alle politiche sociali della giunta Marino, per la determinazione con cui ha voluto portare a compimento il progetto, individuando e riuscendo a ottenere la struttura, confiscata alla criminalità, nonostante le resistenze manifestatesi da più parti". "L’auspicio - conclude Manconi - è che sorgano presto in Italia altre case famiglia per assicurare a quelle decine di bambini costretti oggi a vivere in carcere, uno spazio adeguato alle loro esigenze". Sulmona (Aq): per 200 detenuti un percorso di recupero interiore tra Bibbia e buddhismo quotidianosanita.it, 10 marzo 2017 Il progetto, ideato dalla Asl si è appena concluso. Ha riguardato persone ristrette con alle spalle crimini gravi e, spiega la Asl, "ha preso spunto, nel suo significato di riscatto e di pentimento, dagli eccidi dell’apartheid e dalle stragi in Ruanda nei primi anni 90". L’esperienza, articolata in 4 incontri diretti con teologi ed educatori, verrà replicata nel carcere di Avezzano. Duecento detenuti del penitenziario di Sulmona (con pene da scontare tra 20-30 anni), alle prese con un percorso di recupero interiore, scandito da bibbia, buddhismo e ricerca della felicità, attraversato da un filo rosso che prende spunto dall’apartheid e dal genocidio del Ruanda dei primi anni 90. È un progetto mai intrapreso finora nei penitenziari d’Abruzzo quello attuato in 4 tappe alla casa circondariale di Sulmona, promosso dal centro di salute mentale della Asl, in collaborazione con la direzione del carcere peligno. I duecento detenuti (sui circa 500 complessivi), con trascorsi in organizzazioni criminali come mafia, ‘ndrangheta e Sacra Corona, in 5 mesi, da ottobre a febbraio scorsi, hanno partecipato al ciclo di riabilitazione che si è sviluppato in confronti ‘front officè (nel teatro del carcere), svoltisi tra grandi misure di sicurezza, con psicoterapeuti, educatori, teologi ed esperti in materia. "L’iniziativa - commenta la Asl 1 Abruzzo in una nota - è stata un’autentica ‘scossa emotivà per le persone ristrette nel penitenziario (con crimini gravi alle spalle, i cosiddetti reati di sangue) perché sono state condotte lungo un percorso molto difficile, finalizzato a favorire una revisione critica degli errori compiuti, la ricomposizione delle parti di sé e la riconquista di relazioni costruttive. Un processo che ha aperto negli animi degli ospiti della casa circondariale squarci di pentimento, aneliti al perdono, momenti di forte coinvolgimento e, in alcuni casi, il desiderio di incontrare i familiari delle vittime". Promotore del progetto è stato il dr. Vittorio Sconci, direttore del dipartimento salute mentale della Asl mentre la coordinatrice è stata la psicoterapeuta dr.ssa Stefania Ricciardi. "Il percorso di introspezione a beneficio dei detenuti, messo a punto dalla Asl - spiega la nota - ha preso spunto dallo storico evento della Riconciliazione, intervenuta in Sudafrica e nel Ruanda, nei primi anni 90, in seguito ai drammatici eventi dell’apartheid e del genocidio etnico. Successivamente a queste stragi furono avviate iniziative legali che portarono, in alcune circostanze, alla riconciliazione tra autori dei crimini e familiari delle vittime. L’obiettivo dell’iniziativa Asl, supportata al meglio dai vertici del penitenziario, è stato proprio quello di cogliere l’essenza di questa importante circostanza storica del Sudafrica e di calarla all’interno del carcere peligno". Il primo incontro, a ottobre, è stato condotto dal dr. Giuseppe Florio, teologo-biblista e presidente della Ong "Progetto continenti", che ha avuto come tema la ri-trascrizione della propria vita partendo da fonti spirituali. Il secondo confronto con i detenuti, tenuto dal dr. Stefano Cera, consulente familiare, ha riguardato la responsabilità verso il prossimo mentre il terzo incontro, con relatore il prof. Franco Picini, si è incentrato sulla felicità, considerata dal punto di vista del buddismo. A chiusura del ciclo di confronti c’è stato il quarto incontro collegiale, svoltosi a fine febbraio. "Alla luce del successo dell’esperienza di Sulmona - annuncia la Asl, il progetto verrà riproposto nel carcere di Avezzano, dove verrà presentato nelle prossime settimane". Foggia: detenuti in campo e famiglie a tifare, una partita speciale nel carcere ilrestodelgargano.it, 10 marzo 2017 Mogli e figli hanno assistito alla partita tra detenuti con e senza prole. In una lettera la speranza che tali iniziative possano ripetersi. "Oggi, 8 marzo 2017, noi detenuti siamo qui presenti per ringraziare, dal profondo del nostro cuore, tutti coloro che hanno fatto sì che tale giornata possa essere parte integrante del nostro percorso intramurario di reinserimento nella società. Una giornata che ci ha regalato senso di umanità e reso collaborativi, insieme ai nostri familiari. Speriamo possano esserci altre iniziative di questo tipo, perché rafforzano il senso di genitore e marito che c’è in tutti noi". È con queste parole, contenute in un messaggio letto da uno dei detenuti partecipanti alla partita, che i reclusi della Casa Circondariale di Foggia hanno voluto ringraziare spontaneamente chi ha organizzato, lo scorso 8 marzo, la sfida sportiva che ha visto scendere in campo detenuti con e senza prole. Sugli spalti, nonostante il vento gelido, c’erano mogli e figli, alcuni piccolissimi. "Ringrazio tutti i presenti di aver voluto prendere parte a questa festa della famiglia - ha detto il docente e volontario, Luigi Talienti - vi guardo e mi sembra di conoscervi già. Ogni giorno, nelle aule parliamo di voi e posso dire agli studenti ristretti, che incontro quotidianamente, che sono felice, perché questa è la dimostrazione che oltre quel muro c’è qualcosa di importante che vi attende". A portare i saluti istituzionali, Claudia Lioia, Assessore Comunale con delega in materia di Pubblica Istruzione, che ha voluto sottolineare "la vicinanza dell’Amministrazione Comunale di Foggia alle iniziative di volontariato che vengono organizzate all’Interno dell’Istituto Penitenziario, soprattutto quando prevedono un avvicinamento alle famiglie" e il dirigente dell’Ufficio Scolastico Provinciale, Maria Aida Tatiana Episcopo, che ha sottolineato "l’emozione di assistere a un evento così significativo, che ha visto scendere in campo giocatori e sentimenti". 24 i detenuti coinvolti, appartenenti al Nuovo Complesso; 14 le famiglie presenti, con la partecipazione di numerosi bambini, che hanno fatto il tifo per la partita inaugurale della nuova edizione del torneo "Sportiva-mente". "Vedo qui davanti a me tanti abbracci - ha detto il Dirigente Scolastico del Cpia1, Antonia Cavallone - e dico grazie al prof Talienti, che è un trascinatore. Sulla scia di questa giornata voglio lanciare una iniziativa: perché non organizzare una giornata di scuola, che veda coinvolti, tra gli stessi banchi, papà e figli?". Una proposta ritenuta condivisibile dal preposto del Garante dei Detenuti per Foggia, Antonio Vannella, che ha spiegato le funzioni e le attività dell’Ufficio, con sede a Bari, illustrando ai detenuti presenti le modalità di accesso alle forme di assistenza previste. Di promozione del volontariato, invece, ha parlato nel proprio intervento il direttore del Csv Foggia, Roberto Lavanna, spiegando come compito del Centro di Servizio sia quello di "aiutare il volontariato a entrare in carcere, attraverso le attività delle associazioni". "La nostra esperienza di promozione dell’associazionismo in ambito penitenziario - ha detto - ci racconta che i volontari ricevono molto più di ciò che donano". Parole di incoraggiamento per i detenuti sono arrivate da Eleonora Arena, Responsabile dell’Area Educativa e dal Commissario della Casa Circondariale. "Facciamo tutti tesoro di questa giornata - il messaggio - è la dimostrazione che gli Istituti Penitenziari si aprono sempre di più al territorio e, in questo importante processo di cambiamento, ciascuno deve fare la propria parte". "Il carcere di Foggia - sottolinea il Presidente del CSV Foggia, Pasquale Marchese - è sempre attento a tali iniziative. Grazie alla collaborazione e alla disponibilità del direttore, Mariella Affatato, dell’Area Educativa, coordinata da Eleonora Arena e dell’intero corpo di Polizia Penitenziaria, è possibile realizzare diversi progetti presentati dalle realtà del Terzo Settore, con il sostegno della Fondazione Banca del Monte di Foggia. E vi assicuro: il meglio deve ancora venire". Roma: parte progetto di "Ossigeno per l’informazione" al carcere femminile di Rebibbia ossigeno.info, 10 marzo 2017 Prevede incontri formativi e rieducativi con le detenute della casa circondariale romana sul tema della dignità, del rispetto di sé e del contrasto alla violenza. L’8 marzo 2017, in concomitanza con la giornata internazionale dedicata alle donne, ha preso il via il progetto "Salviamo la Faccia" che, attraverso incontri, lezioni e altre attività punta a qualificare il percorso rieducativo delle detenute della Casa circondariale di Rebibbia di Roma, facendo leva sui concetti di dignità, rispetto e cura di se stesse e degli altri, e del contrasto alla violenza. Il progetto del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri è realizzato con la scuola carceraria della Casa circondariale e con Ossigeno per l’Informazione. Il primo passo fatto nella mattinata dell’8 marzo, è stato l’inaugurazione di una sala cinematografica permanente con novantanove posti, presso la sezione femminile di Rebibbia. Le recluse hanno assistito alla proiezione del documentario Terra Terra, scritto e diretto da Giulia Merenda, regista e docente presso la scuola del carcere. Il documentario, girato all’interno della Casa Circondariale, racconta il percorso di alcune detenute per le quali la reclusione è diventata punto di partenza per un riscatto e una crescita personale e collettiva. Nella stessa giornata, alle ore 18, il documentario è stato proiettato presso il Museo nazionale delle arti del XXI secolo, nell’ambito della rassegna "Cinema al Maxxi" nella sezione Exhibit "Please Come Back. Il mondo come prigione?". All’evento hanno partecipato la direttrice della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia, Ida Del Grosso, e B., una delle detenute protagoniste del documentario. Le due iniziative sono state promosse in collaborazione con la Fondazione Cinema Film di Roma e con CityFest. "Terra Terra" è stato preceduto dalla proiezione di un cortometraggio di Fabio Cavalli, Naufragio con spettatore, Menzione Speciale della Giuria del Premio Migrarti alla 73a Mostra del Cinema di Venezia. Augusta (Sr): ai detenuti i libri vengono donati dai giovani del Rotaract Club diario1984.it, 10 marzo 2017 I soci del Rotaract club Augusta, presieduto da Lavinia Pitari, insieme con i soci del Rotaract club Lentini e Siracusa, presieduti rispettivamente da Alfio Brunno e Gabriele Massimiliano Ragusa, hanno fatto una donazione di libri alla biblioteca del penitenziario di Augusta-Brucoli. L’iniziativa si inserisce nell’àmbito del progetto Nazionale Rotaract "Sulla scia delle ali della libertà", mirata a dare gli strumenti per il servizio di rieducazione e risocializzazione dei detenuti, affinché non tornino are a delinquere. Durante la cerimonia di consegna dei libri, Lavinia Pitari ha evidenziato come "attraverso l’istruzione nascano maggiori opportunità, più opportunità significa meno bisogno, meno bisogno significa più legalità". Il progetto ha suscitato molto entusiasmo nei soci sin dall’inizio della realizzazione, sia in itinere che al momento della consegna. Il direttore della casa di reclusione, Antonio Gelardi, ha messo in evidenza che " il rapporto con i club service rappresenta un importante tassello nei contatti con il territorio, fondamentali per l’attuazione dei princìpi costituzionali che regolano la pena detentiva. "Grazie alla disponibilità del direttore dell’istituto di reclusione, i giovani soci hanno anche avuto la possibilità di incontrare i detenuti, potendosi confrontare con una realtà diversa, e hanno fatto visita alla biblioteca, arricchita con i libri donati, alle aule studio e alla palestra, ammirando anche i murales, realizzati dai detenuti stessi. I libri possono essere donati anche da semplici cittadini, i quali, oltre a volumi in italiano posso inviare anche testi scritti in inglese o in francese, considerata la presenza nutrita di detenuti stranieri. Como: i detenuti di Opera in scena con un musical per la Casa di Gabry laprovinciadicomo.it, 10 marzo 2017 I detenuti della Casa di reclusione di Opera arrivano sul palco del teatro Excelsior con il musical "Figliol prodigo", un progetto che ha già girato l’Italia e ha ottenuto la benedizione e il plauso di Papa Francesco. L’iniziativa è organizzata dal gruppo sportivo I Bindun, il ricavato verrà devoluto alla Casa di Gabry (una comunità per bambini con patologie gravi che si trova a Rodero) e allo stesso laboratorio teatrale del carcere di Opera. L’evento - promosso a Erba dall’assessore alla cultura Franco Brusadelli - è in programma giovedì 23 marzo alle 21, i biglietti costano 20 euro. Per presentare il progetto, ieri sono arrivati in città diversi rappresentanti dei Bindun - tra cui Angelo Folcio e l’ex calciatore Paolo Monelli - oltre alla regista del musical, Isabella Biffi in arte Isabeau. "Dieci anni di laboratori con i detenuti - ha detto l’autrice - mi hanno insegnato la potenza della spiritualità unita all’arte. Come dice il Papa, i carcerati sono gli ultimi degli ultimi: progetti come questo sono fondamentali per loro, speriamo di replicare a Erba il successo che lo spettacolo ha riscosso in giro per l’Italia, a partire da Roma". Ad accogliere i Bindun c’era anche il sindaco Marcella Tili e monsignor Angelo Pirovano, che ha messo a disposizione il teatro Excelsior. Migranti. Il decreto Minniti rischia di creare una giustizia per "cittadini minori" di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 10 marzo 2017 Intervista al presidente di Magistratura democratica. "Pericoloso togliere un grado di giudizio all’esame delle richieste di asilo. Sono in gioco i diritti fondamentali di persone che in caso di rimpatrio rischiano la vita", dice Riccardo De Vito. "Si rischia di creare una "giustizia minore" per "cittadini minori": è l’allarme che lancia il presidente di Magistratura democratica Riccardo De Vito in merito al decreto migranti ora in esame al Senato. La corrente di sinistra delle toghe è molto netta sul provvedimento che porta la firma del guardasigilli Orlando, su cui ha espresso critiche anche l’intera Anm con un documento approvato dal suo parlamentino lo scorso sabato. Presidente De Vito, voi di Md puntate il dito soprattutto su due punti: l’abolizione dell’appello e la centralizzazione in quattordici tribunali di tutte le cause in materia di asilo. Perché non vanno? In primo luogo perché si toglie un grado di giudizio in un processo civile in cui sono in gioco diritti fondamentali, diritti di vita o di morte di persone che in caso di rimpatrio sarebbero esposte a trattamenti inumani, guerre e persecuzioni. A fronte di cause civili di valore modesto in cui sono presenti tre gradi, avere procedimenti così importanti con solo due gradi di giudizio appare una violazione di principi costituzionali e internazionali. I difensori del decreto affermano che i gradi sono comunque tre, perché prima del tribunale c’è il giudizio di fronte alla commissione territoriale. Sì, ma le commissioni territoriali sono autorità amministrative, non si può equipararle a un giudizio di fronte a magistrati. Il decreto, per giunta, non dice quali siano i requisiti di indipendenza che devono avere le persone chiamate a far parte di tali commissioni. Poi c’è la seconda questione: la centralizzazione delle cause in quattordici tribunali. La professionalizzazione dei giudici che si occupano di protezione internazionale (diritto di asilo, ndr) prevista dal decreto, mediante corsi alla scuola della magistratura con l’Alto commissariato per i rifugiati, può essere un aspetto positivo. Ma il fatto che tutto si concentri in quattordici tribunali per tutto il Paese contribuisce ad allontanare il cittadino straniero, e anche il suo difensore, dal foro in cui è trattata la sua causa. C’è dell’altro: questo giudizio in tribunale rischia di essere senza contraddittorio, con la semplice videoregistrazione dell’audizione dello straniero resa di fronte alla commissione territoriale, senza la presenza in aula di un mediatore linguistico-culturale. Figure professionali, quelle dei mediatori, che sono carenti nelle aule di giustizia… Esatto, anche perché queste riforme vengono spesso introdotte con clausola di neutralità finanziaria. I mediatori, tra l’altro, servirebbero in numero maggiore anche nelle carceri e nei cosiddetti hotspot. A proposito: il decreto ha perso l’occasione per regolare una volta per tutte con norma di legge proprio gli hotspot, spesso lasciati a leggi regionali o circolari del ministero degli Interni. Voi giudicate negativamente l’aumento a 135 dei giorni di detenzione dei migranti nei Centri di permanenza per i rimpatri (ex Cie). Ma non sono indicazioni che vengono dalla Ue? Attenzione con il "ce lo chiede l’Europa", perché dipende quale Europa. Bisognerebbe ricordarsi che la Corte europea dei diritti umani con la sentenza Khlaifia (dicembre 2016, ndr) ha condannato l’Italia proprio per gli hotspot, luoghi in cui gli stranieri sono privati della libertà senza controllo dell’autorità giudiziaria. E poi le indicazioni che arrivano dalla Ue sull’accelerazione delle procedure di riconoscimento dell’asilo non vanno interpretate sostituendo la videoregistrazione all’audizione dello straniero in persona: una scelta che non ci sembra conforme alle intenzioni del legislatore europeo. Il governo ha presentato il decreto sui migranti insieme a quello sicurezza voluto dal ministro Minniti, ora alla Camera. Qual è il vostro giudizio su quest’altro provvedimento? Il decreto sicurezza sembra ispirato alla logica di un’inquietante amministrazione locale della paura, per citare il titolo di un importante saggio. Si lega la sicurezza al decoro: invece di rimuovere le cause dell’esclusione, si nascondono poveri e marginali dagli occhi dei ricchi. Non solo: è pericoloso rimettere al potere del sindaco di intervenire sulla libertà di circolazione delle persone con allontanamenti e divieti. Sono norme ideologiche, anche prive di effettività, come le multe ai clochard. Alla base c’è una politica più incentrata sulla ricerca di misure ad effetto per il cosiddetto diritto alla sicurezza che non sulla sicurezza dei diritti di tutti. Migranti. Nell’Ue domina la prudenza, i 28 sono uniti solo sui rimpatri di Calo Lania Il Manifesto, 10 marzo 2017 Bruxelles. Il Consiglio d’Europa critica l’Ue: "Rinchiudere i migranti viola i diritti umani". Per una volta a dividere i leader europei non è stata l’immigrazione, ma la conferma del polacco Donald Tusk alla presidenza del Consiglio europeo. Quello dei migranti, e di quali politiche adottare nei confronti di coloro che cercano di arrivare in Europa, è però un tema sul quale a Bruxelles si è sempre pronti a litigare e allo stesso tempo a mediare. La prova, anzi le prove si sono avute anche ieri, almeno tre. La prima: il documento finale che oggi dovrebbe concludere il vertice dei capi di Stato e di governo (ammesso che si arrivi a votarlo visto che la Polonia ha minacciato di porre il veto come ritorsione all’elezione di Tusk) nel capitolo dedicato ai migranti evita accuratamente ogni riferimento pericoloso. Così, stando almeno alle bozze circolate ieri, per non urtare i paesi del Gruppo Visegrad si evita di parlare di ricollocamenti, puntando invece tutto ancora una volta sui rimpatri dei migranti irregolari e dichiarando di voler completare la riforma del diritto di asilo entro giugno. Seconda prova. Una ricerca commissionata dal Parlamento europea boccia senza appello la bozza di riforma di Dublino preparata dalla Commissione europea (e che continua a penalizzare i paesi di primo sbarco). In particolare lo studio critica l’idea di consentire agli Stati di non accogliere migranti in cambio del pagamento di un contributo finanziario. Per il parlamento meglio sarebbe "un sistema centralizzato" di ricollocamenti "che rompa con l’ingiustizia che riguarda la regola del paese di primo ingresso, massimizzi il potenziale di una giusta distribuzione e allochi le risorse in modo più efficace". Infine la terza prova, quella più pesante dal punto di vista politico. E riguarda il giudizio negativo espresso ieri dal Consiglio d’Europa sulla raccomandazione della Commissione europea di rinchiudere, in attesa che vengano rimpatriati, quanti hanno ricevuto un esito negativo alla richiesta di asilo. Pur non essendo un organismo dell’Unione europea, il Consiglio d’Europa ha comunque un ruolo importante nella promozione e difesa dei diritti umani. Diritti che rischiano di essere "violati" dalla volontà di allungare il periodo di detenzione, ha detto ieri il commissario Nils Muizniesk, "senza promuovere altri obiettivi, come la facilitazione del trattamento delle richieste di asilo e la promozione di rimpatri dignitosi". Muizniesk ha quindi invitato i leader a trovare misure alternative alla detenzione "che possano aiutare a trovare il giusto equilibrio tra l’esigenza legittima di controllare la migrazione e il dovere morale e legale di evitare di violare i diritti umani dei migranti". Anche se pronunciate in maniera diplomatica, le parole del Commissario rappresentano un duro scontro con Bruxelles. Unico punto sul quale sembra non ci siano divisioni, riguarda i rapporti con i paesi africani di origine e di transito dei migranti, che l’Europa - e in modo particolare l’Italia - vuole convincere a cooperare nel fermare i flussi. Tema che verrà ripreso oggi, Polonia permettendo. Migranti. I "nuovi" Cie utilizzati come fossero delle carceri, ma senza controlli di Lodovica Bulian Il Giornale, 10 marzo 2017 Impiegati da forze dell’ordine ormai esasperate come parcheggi di emergenza di criminali irregolari, migranti senza permesso che si macchiano di reati "minori", come lo spaccio, e che per questo "non restano detenuti in cella per più di una notte o di qualche giorno". I Cie, appena riformati dal ministro dell’Interno Marco Minniti, sono casa di ambulanti abusivi, spacciatori, ma anche di donne impaurite senza documenti. Contenitori di contraddizioni. Polveriere da cui è facile fuggire, terreno fertile di nuovi sodalizi pericolosi come quelli che stringeva Anis Amri, l’attentatore di Berlino, durante la sua permanenza nei centri della Sicilia. La questura di Firenze dopo tre settimane di lotta serrata a un gruppo di pusher stranieri che dominavano la piazza dello spaccio dell’Oltrarno, se ne è liberata caricando gli otto migranti su un volo di sola andata diretto a Catania e Caltanissetta con una poderosa scorta di agenti. Destinazione Cie. Con la speranza che il rimpatrio, sempre che l’identificazione vada a buon fine, venga eseguito prima della loro fuga e del loro ritorno agli affari illegali in Toscana. Da Padova due spacciatori arrestati in piazza delle Erbe sono stati accompagnati dai poliziotti al Cie di Brindisi su decreto di espulsione del questore. Stessa sorte per due nigeriani e quattro tunisini, con precedenti per droga, che pochi giorni fa sono partiti dal Veneto per i Cie di Brindisi, Torino e Caltanissetta. In quello di Roma è stata inviata una cittadina nigeriana priva di documenti, insieme a una filippina con permesso di soggiorno scaduto. Ed è questo, a oggi, l’unico modo, sempre che ci siano posti disponibili, per evitare che dopo una notte in carcere gli irregolari che delinquono possano "tornare a girovagare per le città". Già, una notte, forse, perché ormai "non si resta dentro neanche per rapina, figuriamoci per lo spaccio", dice rassegnato Franco Maccari del Coisp. "I Cie sono l’unica soluzione che abbiamo per non lasciarli in libertà, ma il problema sono gli spazi che non ci sono". A delimitare queste finte carceri ci sono "mura altissime" e la sorveglianza di poche decine di agenti. "Ma non è così facile fuggire - spiega Maccari - anche se è chiaro che non sono delle prigioni. A liberarli sono le ambasciate dei Paesi d’origine che non fanno il proprio lavoro. Una volta scaduto il tempo della burocrazia per i rimpatri vengono rimessi in libertà". Paradossi a cui ha messo mano il ministro dell’Interno a furia di nuovi accordi bilaterali che velocizzino le espulsioni. In attesa che il decreto sicurezza approdato in commissione affari costituzionali al Senato, passi l’iter parlamentare e diventi operativo le Questure fanno quello che possono. Le celle sono piene, le maglie della legge rimettono in libertà di pusher e abusivi. I Cie scoppiano. Pensare che sono l’unica, fragile alternativa al dileguamento nel nulla. In futuro ce ne sarà uno per regione, da un centinaio di posti. I tempi? "Chissà - riflette Maccari - le nuove strutture sono tutte da costruire". Yemen. I sauditi usano bombe a grappolo contro i centri abitati di Riccardo Noury Corriere della Sera, 10 marzo 2017 Amnesty International ha diffuso nuove prove sul recente uso di bombe a grappolo di produzione brasiliana da parte della coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita impegnata nel conflitto in Yemen. L’ultimo attacco, avvenuto alle 22.30 del 15 febbraio contro la città di Sàda, ha ferito due civili e provocato ampi danni materiali. È il terzo in cui sono state usate bombe a grappolo brasiliane che Amnesty International è riuscita a documentare negli ultimi 16 mesi. I quartieri più colpiti sono stati quelli di Ghoza, al-Dhubat e al-Rawdha ma le bombe a grappolo hanno raggiunto anche le case di al-Màallah e Ahfdad Bilal nonché il vecchio cimitero e quello nuovo e i campi nei dintorni. "Abbiamo rinvenuto un contenitore e una sub-munizione inesplosa. Ad al-Eawdha, una zona fittamente popolata, le sub-munizioni sono penetrate dal tetto di due abitazioni. Ad Ahfad Bilal un’altra sub-munizione ha spaccato il tetto ed è entrata in una camera da letto ferendo un uomo e sua moglie. La maggior parte dei danni ha riguardato case, automobili e altre proprietà: ad Abbiamo visto 12-13 punti d’impatto ad Ahfad Bilal e 12 ad al-Rawdha, nel frutteto. Qui abbiamo visto una sub-munizione inesplosa cadere da un albero e l’abbiamo fotografata". Lo Yemac ha poi visitato il quartiere di Ghoza, notando danni alle case: "Le sub-munizioni sono cadute nei cortili di casa e tra una casa e l’altra. Sono tutte esplose senza fare feriti, ma tutto intorno le finestre erano distrutte e almeno 30 automobili danneggiate". Sulla base delle testimonianze raccolte, delle descrizioni fatte dal responsabile dello Yemac e dall’analisi delle fotografie e dei video, Amnesty International è stata in grado di identificare il razzo con il modello Astros II. L’Astros II è un lanciarazzi terra-terra multiplo, installato su un veicolo e prodotto dalla compagnia brasiliana Avibrás. Può rilasciare in rapida successione più razzi di gittata fino a 80 chilometri, ognuno dei quali contiene fino a 65 sub-munizioni. Il primo uso di bombe a grappolo documentato da Amnesty International in Yemen risale al 27 ottobre 2015, contro il villaggio di Ahma a nord di Sàda. Rimasero ferite almeno quattro persone, tra cui una bambina di quattro anni. Un secondo attacco avvenne nel maggio 2016, contro una serie di villaggi della zona di Hajjah, 30 chilometri a sud del confine con l’Arabia Saudita. Ad oggi, Amnesty International e Human Rights Watch hanno rilevato l’uso di sette tipi di bombe a grappolo prodotte nel Regno Unito e negli Stati Uniti oltre che in Brasile. La coalizione a guida saudita ha ammesso di aver usato bombe a grappolo britanniche e statunitensi. Nel maggio 2016 gli Usa hanno sospeso le forniture all’Arabia Saudita. Secondo l’Osservatorio sulle mine terrestri e sulle bombe a grappolo, Avibrás ha venduto bombe a grappolo all’Arabia Saudita già in passato. Human Rights Watch ne denunciò l’uso a Khafji nel 1991, durante l’intervento militare contro l’Iraq per la liberazione del Kuwait. Le bombe a grappolo contengono decine, se non centinaia, di sub-munizioni che si spargono su territori estesi centinaia di metri quadrati. Possono essere fatte cadere o lanciate da un aereo o, come nell’ultimo caso, esplose da razzi terra-terra. Le sub-munizioni hanno un elevato tasso di malfunzionamento: molte di esse non esplodono all’impatto trasformandosi praticamente in mine anti-persona che mettono in pericolo la vita dei civili negli anni a venire. L’uso, la produzione, la vendita e il trasferimento di bombe a grappolo sono proibiti dalla Convenzione sulle bombe a grappolo del 2008, che conta 100 stati parte. Il 19 dicembre 2016 l’agenzia di stampa saudita Saudi Press Agency ha reso noto che il governo avrebbe sospeso l’uso delle bombe a grappolo BL-755 di produzione britannica; la nota proseguiva affermando che "il diritto internazionale non vieta l’uso delle bombe a grappolo" e che "né il Regno dell’Arabia Saudita né gli stati membri della coalizione sono parte" della Convenzione del 2008. Le bombe a grappolo in questione erano state usate contro "obiettivi militari legittimi" e non "in zone popolate dai civili". Infine, la coalizione aveva "rispettato in pieno i principi di distinzione e proporzionalità del diritto internazionale umanitario". Sebbene a tre chilometri a nord-est di Sàda vi sia la base di Kahlan, la presenza di un obiettivo militare di per sé non rende giustificabile l’uso di armi proibite dal diritto internazionale, specialmente se vengono usate contro i centri abitati. Inoltre, ricorda Amnesty International, anche se Brasile, Arabia Saudita, Yemen e gli altri stati membri della coalizione a guida saudita non sono parte della Convenzione, in base alle norme consuetudinarie del diritto internazionale umanitario è fatto loro divieto di usare armi inerentemente indiscriminate in ogni circostanza, anche quando s’intende colpire un obiettivo militare Turchia. "Adottiamo" un collega in carcere, per ribadire #nobavaglioturco di Antonella Napoli articolo21.org, 10 marzo 2017 Ozkan Mayda, un giornalista sportivo turco, da quasi 8 mesi è in carcere senza che gli sia stato contestato alcun reato. Il quotidiano tedesco Taz gli ha dedicato ieri l’apertura pubblicando una vignetta e chiedendo la sua e la liberazione di tutti gli altri colleghi arrestati in Turchia dopo il fallito golpe del luglio 2016, tra cui Deniz Yucel, corrispondente dalla Turchia di Die Welt, con doppia nazionalità, tedesca e turca. Per lui, oltre la Germania, si sono mobilitati vari quotidiani europei. Ma nelle galere di Istanbul, in attesa di processo, ci sono oltre 150 giornalisti. Ed è per loro, per ognuno di loro, che Articolo 21, lancia una proposta a tutta la stampa italiana: ogni testata adotti un caso, illuminando le storie di chi dietro le sbarre non può più raccontarle. Solo in questo modo possiamo contrapporci concretamente al bavaglio turco, alle repressioni nel Paese che si abbattono indiscriminatamente su militari, società civile, stampa, mondo accademico. Il governo è infatti pronto a prolungare lo stato d’emergenza di altri tre mesi. Il premier turco, Binali Yildirim, ha annunciato che il provvedimento sarà esteso a partire dal 16 aprile e rimarrà in vigore fino al 20 luglio. Dal tentativo di colpo di stato, la cui responsabilità è stata attribuita all’ex predicatore Fethullah Gulen, le autorità turche hanno infuso varie "purghe" e praticato epurazioni in tutti i settori pubblici, in particolare nelle forze armate, nella magistratura e tra gli insegnanti e gli intellettuali. Recep Tayyip Erdogan ha rivendicato i ‘successì dell’azione repressiva di cui è stato promotore affermando che sono state arrestate 43 mila persone, tra cui 155 operatori dell’informazione, sono stati sospesi dal loro incarico 95 mila dipendenti pubblici e altre decine di migliaia sono ancora sotto indagine. Intanto, in queste ore, la Corte europea dei diritti dell’uomo si è espressa proprio in merito a un caso di detenzione arbitraria di un giornalista in Turchia. Gli avvocati dello scrittore Sahin Alpay, redattore per molti anni del quotidiano Cumhuriyet, prima, e di Milliyet poi, per approdare nel 2002 nella redazione di Zaman, hanno presentato una decina di giorni fa un’istanza alla Cedu. Intellettuale liberale, Alpay aveva sostenuto con forza il governo dell’AKP, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo fondato da Erdogan, diventando per questo bersaglio di ambienti anti-governativi. Ma negli ultimi anni è diventato sempre più critico nei confronti di tutto l’esecutivo. Subito dopo il golpe tutto lo staff di Zaman, giornale riconducibile a Fethullah Gulen, è finito nel mirino delle autorità turche, con continui arresti, sequestro di copie e il commissariamento della testata, fino alla sua chiusura. Alpay è stato arrestato nella sua abitazione il 23 luglio dello scorso anno con l’accusa di essere un membro dell’organizzazione terroristica Fethullahist (Feto) e tutti i suoi beni, in gran parte ereditati dalla sua famiglia, sono stati sequestrati dallo Stato. I suoi difensori hanno presentato una serie di obiezioni contro il suo arresto, tra cui il suo stato di salute, assume nove diversi farmaci. Ma la Corte Costituzionale turca ha però respinto tutte le richieste avanzate dagli avvocati del giornalista per la sua scarcerazione affermando che in prigione il detenuto era "adeguatamente trattato". Ritenendo inaccettabile tale decisione e formulando un ricorso basato sulla considerazione che i giudici turchi abbiano ignorato i diritti del loro assistito, il 20 febbraio i legali di Alpay si sono appellati alla Cedu per ottenere un "provvedimento urgente" sul caso sia perché l’arresto era ingiusto, sia per i suoi problemi di salute, messa ulteriormente a rischio dal regime carcerario. Oggi, a meno di due settimane dalla presentazione dell’appello, la Corte europea ha deciso di dare priorità al procedimento. Gli analisti che conoscono tempi e metodo della Cedu ritengono che tale decisione, vista la velocità della risposta, datata 3 marzo a fronte di un fascicolo aperto il 20 febbraio, sia particolarmente degna di nota. Potrebbe presupporre che i giudici europei siano pronti ad assumere una posizione in contrasto con l’inerzia della Corte costituzionale turca nei confronti dei giornalisti arrestati. A Strasburgo hanno atteso a lungo che i colleghi turchi si esprimessero sui procedimenti contro gli esponenti dell’informazione, ma di fronte alla palese mancanza di volontà di azione hanno finalmente fatto la propria mossa.