Esecuzione penale esterna: ingressi più rapidi per volontari e associazioni di Teresa Valiani Redattore Sociale, 9 maggio 2017 Emanata la Circolare con cui il Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità apre le porte degli Uffici di esecuzione penale esterna al contributo del volontariato, snellendo le procedure d’ingresso. Le novità di una rivoluzione che vuole favorire la partecipazione della società civile. Procedure d’ingresso più rapide per i singoli e ancora più semplificate per le associazioni, con convenzioni che "regolamentino gli ambiti di attività, le modalità di integrazione nell’attività degli uffici e la continuità della presenza dei volontari". Il Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità apre le porte degli Uepe, Uffici di esecuzione penale esterna, al contributo del volontariato, snellendo le procedure d’ingresso per incrementare sempre di più "il coinvolgimento di ogni possibile risorsa esistente sul territorio, creando uffici realmente multiprofessionali ed aperti all’esterno". Annunciata nel corso di un recente convegno, è stata emanata dal Capo dipartimento della Giustizia minorile e di Comunità, Gemma Tuccillo, ed è disponibile sul sito del ministero della Giustizia la circolare che consentirà "ai volontari del servizio civile, ai tirocinanti universitari, ai mediatori culturali (oltre che alle fondamentali risorse costituite dagli esperti di servizio sociale e dagli psicologi) la collaborazione con i nostri uffici", "fermo restando - sottolinea il documento - la necessità di aumento dell’organico dei funzionari di servizio sociale in uno con la previsione di nuove figure professionali". La circolare, numero 8 del 2017, "Il ruolo del volontariato nella riforma del sistema di esecuzione penale esterna", definisce ruoli, ambiti di intervento, diritti e doveri di chi si appresta a collaborare con gli Uepe e annuncia la diffusione "dell’accordo in via di sottoscrizione, con la Conferenza nazionale Volontariato Giustizia" per implementare la collaborazione con le organizzazioni di volontariato che vi aderiscono. Compiti. Ai volontari potranno essere assegnati adempimenti che non richiedano il diretto intervento del funzionario addetto, per consentire "una maggiore concentrazione dello stesso sugli interventi trattamentali e al tempo stesso ci si potrà avvalere di un significativo contributo di esperienze in termini di progettualità e di approfondimento e di conoscenza della persona e della sua storia. Il supporto attivo del volontariato nelle attività di sostegno, orientamento, formazione e ricerca di opportunità contribuisce in modo sostanzioso a riempire di contenuti l’esecuzione della sanzione sul territorio, rendendola più efficace e credibile proprio nell’attività all’esterno e nei rapporti con le strutture detentive". I dati. "Attualmente - spiega il Capo dipartimento, il numero di assistenti volontari impegnati nell’esecuzione penale esterna è ancora troppo esiguo, (poco più di 100 unità) rispetto a quello di chi opera all’interno degli istituti penitenziari (10.000 unità)". Un numero che la circolare ha il fine di incrementare, riconoscendo il ruolo "di grande rilievo" del volontariato non solo nel percorso rieducativo ma anche come testimone della validità e dell’importanza "della partecipazione della società civile al percorso di reinserimento e alla migliore riuscita delle misure o sanzioni di comunità, sia grazie al forte radicamento nei territori e alla capacità di ‘produrre servizio alla comunità’ che per l’indubbia valenza umana e qualificata del suo intervento". Ridurre i tempi d’ingresso per aumentare il numero dei volontari. "I tempi piuttosto lunghi per completare le attività istruttorie, talvolta costituiscono un ostacolo all’impegno nell’esecuzione penale esterna sia per le associazioni che per i singoli volontari. Con la presente circolare ci si pone l’obiettivo di definire le modalità per un protocollo semplificato ed omogeneo su tutto il territorio nazionale sia per gli Uepe che per gli Uffici di servizio sociale per i minorenni". Diritti e doveri. "Il volontario - spiega la circolare - non può essere titolare del procedimento di esecuzione della pena ma può ben svolgere, su indicazione e con il coordinamento del funzionario incaricato dall’ufficio, attività di sostegno nei confronti dell’autore di reato, dei suoi familiari e, più in generale, di accompagnamento nel corso dell’esecuzione di una sanzione di comunità, di supporto al recupero e al reinserimento sociale. I volontari continueranno ad essere impiegati sia in attività all’interno dell’ufficio, anche in qualità di supporto ai servizi informativi e amministrativi, nel servizio di accoglienza e di sportello al pubblico, nel disbrigo di pratiche sanitarie e/o assistenziali e nel sostegno, orientamento e accompagnamento alle persone in trattamento, sia all’esterno, per la promozione della rete territoriale, l’integrazione degli interventi nella messa alla prova, nelle misure alternative, in special modo nella detenzione domiciliare, con un’attenzione particolare alle categorie socialmente e culturalmente svantaggiate e dunque maggiormente vulnerabili (giovani adulti, stranieri, ecc.). I volontari potranno fornire il supporto volto a favorire l’accompagnamento dei dimittendi nella delicata fase di pieno reinserimento nella società civile e per l’assistenza post penitenziaria". Controlli e verifiche. "L’attività svolta dai volontari sarà oggetto di periodico monitoraggio, almeno semestrale ed avrà ad oggetto una valutazione complessiva sull’andamento delle attività in cui sono impegnati i volontari, le possibili prospettive di sviluppo. Gli interventi svolti saranno inseriti nel fascicolo di ciascun soggetto in trattamento e nel fascicolo relativo al volontario". Procedura ancora più semplificata per le associazioni. "Gli uffici presso cui si svolgerà l’attività volontaria stipuleranno apposite convenzioni che regolamentino gli ambiti di attività, le modalità di integrazione nell’attività dell’Uepe e la continuità della presenza dei volontari. Una volta sottoscritta l’intesa, l’associazione firmataria presenterà l’elenco delle persone che intende impiegare come volontari, con le rispettive domande complete di dichiarazione sostitutiva". La circolare tende ad orientare in modo omogeneo i rapporti e la gestione con il volontariato, "una gestione - sottolinea il Capo dipartimento Gemma Tuccillo - avveduta e flessibile che consentirà agli uffici di conseguire importanti obiettivi in termini di migliore organizzazione del lavoro, più elevata qualità e personalizzazione degli interventi e maggiore varietà degli stessi". Fp Cgil: parte "#fuoriametà", su esecuzione penale esterna e giustizia minorile rassegna.it, 9 maggio 2017 Viaggio per conoscere attraverso le parole dei lavoratori le condizioni di vita e di lavoro di tutti coloro che reggono questo sistema: l’altra pena, fuori dalle mura. Primo appuntamento a Milano, mercoledì 10 maggio. C’è un segmento poco conosciuto nel complesso mondo dell’esecuzione penale, ovvero l’area penale esterna, di chi sconta cioè la pena fuori dalle mura. Un contesto che la Fp Cgil ha deciso di "svelare" attraverso una campagna specifica, dal titolo "#fuoriametà - l’altra pena, fuori dalle mura". Un viaggio - strettamente correlato con quello che da oltre un anno ci sta portando nelle carceri con #dentroametà - per conoscere attraverso le parole delle lavoratrici e dei lavoratori le condizioni di vita e di lavoro di tutti coloro che reggono questo sistema. #fuoriametà, quindi, si propone di focalizzare particolare attenzione al contesto dell’esecuzione penale esterna e della giustizia minorile che la nuova riforma di riorganizzazione del ministero della Giustizia vede assemblati e componenti di un nuovo dipartimento, quello della giustizia minorile e di comunità. Un progetto il cui obiettivo, in linea con i dettami europei, è quello di potenziare il sistema di probation. Quest’ultimo termine descrive, come riferisce lo stesso dicastero di via Arenula, "l’esecuzione in area penale esterna di sanzioni e misure, definite dalla legge e imposte a un autore di reato. Comprende una serie di attività e interventi, tra cui il controllo, il consiglio e l’assistenza, mirati al reinserimento sociale dell’autore di reato e volti a contribuire alla sicurezza pubblica". Insomma, l’obiettivo è rendere il carcere l’ultima ratio e di perseguire, attraverso la pena da scontare fuori le mura, l’attuazione piena dell’articolo 27 della Costituzione, cioè la rieducazione e il reinserimento del reo nella società. Già da tempo, nel campo minorile, la parte predominante che ha funzionato come modello anche per gli altri paesi europei è stata quella della pena extra muraria. Ad oggi, nella maggior parte dei paesi europei una forte percentuale delle pene, anche per gli adulti, si svolgono al di fuori del carcere, con risultati confortanti nel campo della prevenzione della recidiva e del reinserimento. Dunque, la pena fuori dalle mura del carcere non è una pena minore né tantomeno simulata. Si tratta di un diverso strumento, più aderente al mandato costituzionale, che riduce i costi per la collettività. Per attuare tale mandato, però, secondo il sindacato, ci vogliono risorse e progettualità: il nuovo dipartimento di Giustizia minorile e di comunità deve essere implementato e i lavoratori messi in condizioni di svolgere il proprio mandato. Ed è ciò che il sindacato tenterà di dimostrare in questo viaggio nell’altra pena, parlando con le lavoratrici e i lavoratori, ascoltando le loro esperienze, ricostruendo le condizioni di lavoro, le difficoltà, ma anche l’importanza dei progetti svolti dai lavoratori del dipartimento di Giustizia minorile e di comunità per la società. Primo appuntamento a Milano, mercoledì 10 maggio, negli uffici per l’esecuzione penale esterna (Uepe): da lì, parte il viaggio della Fp Cgil #fuoriametà. Tortura, nuovo esame in Senato. Fino a 12 anni la sanzione al pubblico ufficiale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2017 Riforme in cantiere. Oggi in Aula il via alla discussione sul disegno di legge che modifica il Codice penale. È uno dei grandi "buchi neri" del nostro ordinamento penale. Ed è stato più volte censurato in sede europea. Domani il Senato torna a occuparsene in Aula per un voto che non si annuncia scontato. Del resto, è dall’inizio della legislatura che si assiste a un continuo tira e molla sull’introduzione del reato di tortura nel nostro Codice penale. Una prima versione del testo era già stata approvata nel 2014 sempre da Palazzo Madama, poi la Camera, un anno dopo, cambiò il provvedimento e ora la commissione Giustizia del Senato ha mandato in Aula un testo ancora una volta differente. Il che attesta quanto meno un percorso assai tormentato per un reato sul quale le opinioni tra le forze politiche anche all’interno della maggioranza sono assai diverse. A dire il vero, sono almeno 16 anni che la questione si trascina. Dai giorni del G8 genovese del 2001 e, in particolare, dalla perquisizione alla scuola Diaz. Con tutto quello che avvenne e poi seguì. Ancora poche settimane fa, il Consiglio d’Europa ha messo l’Italia nel mirino per le sue inadempienze. E, naturalmente, alla base dell’(ennesimo) richiamo c’erano proprio le vicende della Diaz, in particolare, le conseguenze giudiziarie del caso Cestaro. Due anni fa la Corte di Strasburgo decretò che Arnaldo Cestaro era stato vittima di tortura durante la perquisizione del 21 luglio 2001, alla conclusione del G8 di Genova. Il comitato dei ministri del Consiglio d’Europa notava "con preoccupazione che malgrado le chiare indicazioni fornite dalla sentenza della Corte di Strasburgo, la legislazione italiana non si è ancora ad oggi dotata di disposizioni penali che permettano di sanzionare in modo adeguato i responsabili degli atti di tortura e di altre forme di maltrattamenti vietati dalla convenzione europea dei diritti umani". Ora il disegno di legge prevede una reclusione da 3 a 10 anni per colpire chi, con violenza, minacce o crudeltà provoca sofferenze fisiche o traumi psichici a persone prive della libertà personale o in condizioni di minorata difesa. Un caso però che si aggrava, con una reclusione che passa da 5 a 12 anni, quando l’autore del reato è un pubblico ufficiale in servizio o un incaricato di pubblico servizio nell’esecuzione delle sue funzioni. Cancellata una bizzarra disposizione introdotta alla Camera con evidente effetto attenuante: si prevedeva infatti che, per potere contestare la tortura, la sofferenza provocata doveva essere "ulteriore" rispetto a quella che moralmente è provocata dal fatto di essere sottoposti (presumibilmente) a misure di privazione della libertà personale o, comunque, di limitazione di diritti. Ulteriori aumenti di pena sono poi previsti se dalla tortura derivano lesioni personali; aumenti che possono essere di un terzo in caso di lesione personale grave e della metà quando la lesione è gravissima. E ancora: quando la conseguenza è la più estrema, e cioè la morte della vittima, la pena è di 30 anni, ma arriva fino all’ergastolo quando il decesso è stato provocato volontariamente. Nel Codice penale trova poi posto anche l’istigazione a compiere il reato di tortura, sanzionato a sua volta con il carcere da 6 mesi a 3 anni. Infine, si prevede che le dichiarazioni ottenute attraverso la tortura non sono mai utilizzabili se non contro gli autori del reato stesso. Quanto ai migranti, non sarà mai possibile, puntualizza il disegno di legge, il respingimento o l’espulsione oppure l’estradizione verso uno Stato nel quale si ha motivo di sospettare che lo straniero possa essere sottoposto a tortura. Reato di tortura, il Senato rischia l’ennesima paralisi di Errico Novi Il Dubbio, 9 maggio 2017 Oggi il testo torna in Aula, ma l’intesa è già saltata. Centristi e Mdp divisi dal solito tema: evitare che il ddl miri dritto agli abusi della polizia. Ma Grasso: "l’Onu chiede questo". I nodi: non punibilità di chi esegue ordini e "misurabilità" della sofferenza provocata. Tensione ce n’è sempre, quando si discute di giustizia in Parlamento, dunque non c’è da sorprendersi. Ma nel caso del reato di tortura si arriva al parossismo di una paralisi senza soluzione. Così anche oggi, data fatidica in cui il ddl sollecitato dall’Onu è atteso ial Senato dopo quasi dieci mesi di freezer, rischia di andare tutto per aria. Negli ultimi giorni i relatori Nico D’Ascola ed Enrico Buemi si sono dati un gran da fare per prevenire ogni possibile contrasto. Li ha aiutati la paziente opera di mediazione della ministra per i Rapporti con il Parlamento Anna Finocchiaro. Niente da fare: almeno due punti sembrano tenere irreparabilmente distanti da una parte il centrodestra e Alternativa popolare, dall’altra Mdp, il gruppo nato per scissione dal Pd. Se quelle due voci non si accordano non c’è partita. Alfaniani e renziani, da soli non avrebbero i numeri. Esattamente come per la legittima difesa. I due nuovi pomi della discordia sono la "clausola di salvaguardia" per i pubblici ufficiali che "agiscano legittimamente su un ordine a sua volta legittimo, e la "concretezza del disagio psicologico", cioè il riferimento alla misurabilità della sofferenza provocata nella vittima dal comportamento degli aguzzini. Nel primo caso è Alternativa popolare a chiedere la precisazione, ma trova la forte resistenza di un ampio fronte che comprende di sicuro i bersaniani e coinvolge anche aree del Pd. Secondo i contrari all’ulteriore postilla, non c’è alcun bisogno di introdurla perché il diritto penale già contempla la "scriminante" per chi agisce senza violare i doveri del pubblico servizio. Ma per esempio, proprio D’Ascola, che oltre ad essere relatore presiede la commissione Giustizia, fa notare come "nelle norme penali incriminatrici non sia affatto rara l’enfasi sulle circostanze che escludono i reati". Peraltro la modifica era già stata inserita in un emendamento di un altro senatore centrista, Tito Di Maggio, che non è mai stato approvato. L’altro nodo, quello relativo alla misurabilità del disagio provocato dalla tortura o dal comportamento "inumano e degradante", trova i bersaniani altrettanto se non ancor più perplessi. Dal gruppo fanno sapere di "essere al lavoro perché si ritrovi l’accordo, che solo qualche giorno fa sembrava definito, e per arrivare a una legge chiara e applicabile". Alla fine c’è una "esasperazione ideologico" secondo D’Ascola. Difficile dargli torto. Ogni intervento, ogni singola modifica produce fibrillazioni anche superiori al solito perché in gioco c’è il presunto attacco alle forze dell’ordine, intravisto dal centrodestra e dagli stessi alfaniani. "Non dev’essere una legge contro i poliziotti", hanno ripetuto Maurizio Gasparri come lo stesso attuale ministro degli Esteri, quando lo scorso 19 luglio ottennero una ulteriore "riflessione" sul ddl. Che però non pare una legge fatta su misura contro le divise. Il primo articolo del ddl (sono 7 in tutto, 4 paginette appena) sancisce che è punibile "chiunque" cagioni "acute sofferenze" a persona "a lui affidata…". Significa che si andrebbe a colpire anche chi lavora a contatto con soggetti inermi come bambini e anziani, per non parlare dei criminali, "scafisti compresi", come ricorda D’Ascola. Eppure Mdp e parte del Pd considerano proprio questa "genericità un grave limite del provvedimento. Sono peraltro in compagnia dello stesso presidente del Senato Pietro Grasso. Che ieri ha detto: "Mi limito a ricordare che il diritto internazionale richiede di vietare e punire le condotte dei pubblici ufficiali che provocano grave sofferenza fisica o psichica su persone in stato di detenzione o comunque sotto il loro controllo per estorcere confessioni o informazioni". Verissimo. Ma ancora D’Ascola fa notare che "le indicazioni dell’Onu non precludono di ampliare la disciplina". Grasso d’altronde rappresenta un malessere assai diffuso, che induce un ampio fronte garantista a considerare già in parte sprecata l’occasione. "Ma se non arriviamo al dunque con il testo che abbiamo ora, ci compriamo di ridicolo", nota Buemi, sul cui garantismo di socialista coerente nessuno può dubitare. Lui e D’Ascola faranno di tutto per arrivare in aula oggi alle 16.30 con un accordo chiuso, ma è una corsa contro il tempo complicatissima. "Alla ministra Finocchiaro non posso che riconoscere di aver fatto tutto il possibile per un’intesa. Una settimana fa sembrava tutto a posto, avevamo lavorato sotto traccia, fuori dall’aula e dalla commissione, proprio perché più che sulla tecnicalità si doveva intervenire sull’aspetto politico". Potrebbe non bastare, alla fine. "Vedremo", dice Buemi, "certo è che se ci indigniamo con l’Egitto per Regeni e poi non riusciamo ad approvare il testo sulla tortura, ci facciamo ridere il mondo dietro". Grasso: "La tortura è reato di pubblico ufficiale. Lo dice l’Onu" di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 maggio 2017 Il Senato si sblocca. Dopo dieci mesi di stand-by riprende oggi in Aula l’iter del testo. Maggioranza divisa. Dopo dieci mesi di stand-by, questo pomeriggio l’Aula del Senato riprenderà l’esame del ddl che introduce nel codice penale il reato di tortura. E visti i fulmini e saette che già si addensano all’orizzonte, il presidente Pietro Grasso ha ricordato ai senatori che la fattispecie del reato è già dettata dalle convenzioni Onu ratificate anche dall’Italia: "Il diritto internazionale richiede che si vietino e puniscano le condotte dei pubblici ufficiali". Una bussola dalla quale si è già allontanato il testo in discussione, che ha evitato come la peste di focalizzare l’attenzione sul reato specifico compiuto dalle forze di polizia. Tutto si era fermato nel luglio 2016, con il putiferio sollevato dalle destre e con gli "avvertimenti" di Angelino Alfano, quando, con un emendamento del M5S ammesso dal relatore di maggioranza, il socialista Enrico Buemi, era stato eliminato almeno quel requisito della "reiterazione delle violenze e delle minacce gravi" che annacquava la fattispecie del reato e disarmava la legge. Una correzione necessaria per riportare in parte nel solco degli obblighi internazionali il testo uscito dalla Commissione Giustizia, peggiorato addirittura rispetto a quello licenziato dalla Camera il 9 aprile 2015, già di suo ben lungi dagli impegni presi ufficialmente da Roma davanti al consesso internazionale l’11 febbraio 1989, con la ratifica della dichiarazione Onu del 10 dicembre 1984. "La tortura è al tempo stesso un crimine internazionale, una forma di crimine di guerra e crimine contro l’umanità e un delitto negli ordinamenti interni - ha detto Grasso intervenendo alla presentazione della rivista scientifica Diritto Penale della Globalizzazione - In questo momento è in corso il dibattito parlamentare per dotare finalmente l’Italia di una norma penale contro la tortura. Questa è una prerogativa delle parti politiche e io mi limito a ricordare che il diritto internazionale richiede che si vietino e puniscano le condotte dei pubblici ufficiali che provocano grave sofferenza fisica o psichica su persone in stato di detenzione o comunque sotto il loro controllo, al fine di punirle indebitamente, di estorcere confessioni o informazioni o di discriminarle". Le istituzioni, ha ricordato il presidente del Senato, "devono anche imparare ad ascoltare con attenzione e rispetto la competenza appassionata di voi studiosi ed esperti". E invece tutto il centrodestra, di governo e di opposizione, fa riferimento ad un solo tipo di "esperti", e tenta di sguarnire o affossare nuovamente la legge. Il ddl, dice per esempio il senatore di Forza Italia Andrea Mandelli, "non può e non deve trasformarsi in un testo teso a rendere i nostri agenti "osservati speciali" nella loro attività, esponendoli a continue denunce". E oggi arriva in Senato, in commissione Salute, anche il ddl sul biotestamento licenziato dalla Camera il 20 aprile scorso. In questo caso, c’è accordo tra Pd e M5S per varare la legge (assolutamente minima) prima della chiusura estiva del Parlamento. Il pm non è un giudice, ma il titolare dell’accusa contrapposto al difensore di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 9 maggio 2017 La raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere, promossa dall’unione delle camere penali, è un primo passo per il superamento di un’anomalia. Nel mezzo dello schiacciasassi delle due potenti corporazioni dei magistrati e dei giornalisti, ecco farsi avanti gli avvocati con una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere tra giudici e organi dell’accusa nel processo penale. Un atto destinato a superare quella patologia del sistema italiano che rappresenta un’anomalia unica in tutti gli ordinamenti giudiziari del mondo occidentale. La patologia consiste nel fatto che in Italia esiste "la magistratura", la corporazione che tiene insieme in un legame indissolubile più del matrimonio due dei tre soggetti protagonisti del processo, il giudice e il pubblico ministero, lasciando nell’angolo quasi fosse un amante clandestino, il terzo soggetto, l’avvocato. La prima cosa da fare è quindi di tipo culturale, e anche di comunicazione. E riguarda anche noi giornalisti. Poiché i soggetti del processo penale sono accusa e difesa, sulle cui opposte tesi deciderà alla fine un giudice terzo, cioè imparziale e distante dagli altri due, cominciamo con l’abolire il termine "magistrato", e chiamiamo il pm per quello che deve essere, cioè il rappresentante dello Stato ("lo Stato di NY contro John Smith") contro la persona accusata. Un avvocato pubblico, quindi, cui si contrappone il legale del privato cittadino. Un soggetto che è titolato a indossare la toga, ma il cui abito deve essere più modesto, e non può essere lo stesso che dà sacralità al giudice, quello che sta in cima alla piramide. Il pubblico ministero italiano è diverso da tutti quelli degli altri paesi, sia europei che anglosassoni. Fa parte dello stesso ordine del giudice (tanto che molti lo definiscono "giudice", anche tra i giornalisti), gode del massimo di autonomia indipendenza e inamovibilità e del minimo di responsabilità, non risponde a nessuno (neanche gerarchicamente) del proprio operato, può indagare su chiunque su tutto il territorio nazionale, e non è neppure sottoposto a reali valutazioni di professionalità, al contrario di quanto accade ai giudici. È un vero protagonista. Ma, al contrario di quanto avviene negli altri paesi, prende decisioni di politica criminale che normalmente vengono assunte in sede politica, cioè in quel luogo della responsabilità in cui, attraverso un sistema di pesi e contrappesi, si risponde direttamente ai cittadini del proprio operato. In un sistema democratico infatti ogni pubblica attività, quindi anche quella che riguarda le scelte di politica criminale, deve essere esercitata da organi che ne rispondono politicamente. In Italia è diverso. E la vera patologia si chiama "obbligatorietà dell’azione penale". È questo principio sancito dall’art. 112 della Costituzione, che imponendo al pm di indagare su ogni crimine che venga commesso, ne potenzia nei fatti il potere di arbitrio. Poiché è impossibile indagare su ogni reato, qualunque scelta discrezionale sulle indagini diventa automaticamente "atto dovuto" e libera il pubblico accusatore da ogni responsabilità. Se a questa realtà aggiungiamo un potente ingranaggio anomalo, cioè il fatto che esista un organo, il Csm, eletto in gran parte dai magistrati, che giudica tutta la carriera sia di giudici che di pm e che è a sua volta dominato dalle correnti della corporazione, vediamo con chiarezza il punto focale della patologia: non si riesce a cancellare la "magistratura" perché questa è un soggetto politico irresponsabile. Una sorta di dittatore nei fatti. Ben venga dunque la separazione delle carriere, ma bisogna avere il coraggio di dire che il pubblico accusatore deve essere semplicemente un avvocato che deve rispondere in una sede pubblica del proprio operato. Sono diversi gli esempi nel mondo occidentale - da quello degli Usa dove il pm viene eletto ad altri dove viene nominato dal ministro guardasigilli - cui ci si potrebbe ispirare. Ma non basta, per superare la patologia italiana, dividere le carriere di soggetti che comunque resterebbero affini. Il dente malato va tolto. So che molti, anche tra gli avvocati, non saranno d’accordo, o penseranno che questa proposta non sia "strategica". Ma continuiamo a pensarci. E intanto raccogliamo le firme. È un ottimo primo passo. Giustizia e politici, solita storia di Claudio Cerasa Il Foglio, 9 maggio 2017 Soru assolto in secondo grado. Adesso che non ha più ruoli di punta. Al termine del dibattimento, la Corte d’appello che doveva verificare la sentenza di condanna a tre anni inflitta a Renato Soru in primo grado per evasione fiscale si è riunita per pochi minuti e poi è rientrata in aula per dichiarare assolto il patron di Tiscali ed ex presidente della Sardegna. Anche la procura aveva chiesto il proscioglimento, dopo aver verificato le carte dalle quali si evinceva che c’era stato un errore, poi sanato col pagamento delle tasse dovute, e non un reato. Viene da chiedersi perché queste stesse carte non siano state verificate nello stesso modo nel processo di primo grado, e si ha la tentazione di rispondere che allora Soru era un uomo politico di primo piano, segretario regionale del Partito democratico, e che quindi nei suoi confronti sia scattata una specie di riflesso condizionato pavloviano. Il politico ha sempre torto, condannarlo provoca popolarità e conferisce autorevolezza alla magistratura. Forse si tratta di una semplificazione eccessiva, ma è difficile non contemplare questa ipotesi per quanto maliziosa. Il giudizio politico su Soru può essere ed è controverso, anche sulla sua gestione imprenditoriale è ragionevole esprimere critiche, ma tutto questo non può e non deve, non avrebbe dovuto, influire sul rigore necessario nell’esaminare la sua condotta sotto il profilo penale. Soru si è dimesso da segretario del Pd sardo in seguito alla condanna subita ingiustamente. Se ha fatto male il suo lavoro politico questo doveva essere deciso dagli iscritti al suo partito, così come erano stati i cittadini sardi a giudicare come aveva governato l’isola. Invece sulla sua vicenda ha in sostanza deciso la magistratura, con un procedimento e una sentenza, quella di primo grado, evidentemente affrettata e infondata. In un caso come questo, in cui si trattava di esaminare documenti, appare incredibile che due livelli di giudizio si esprimano, a distanza di un anno, in modo così diverso. Si dirà che alla fine la giustizia ha trionfato, che Soru non ha scontato una pena ingiusta, che dunque va bene così. Invece no. Ancora una volta l’ombra di un pregiudizio negativo nei confronti di un esponente politico si staglia sull’azione della magistratura e questo non va bene mai, nei confronti di chiunque indipendentemente dal suo orientamento e dal partito in cui milita. Per questo Soru ha diritto alla solidarietà di tutti coloro che aspirano a una giustizia imparziale, a cominciare proprio dai suoi avversari politici. Pubblico ministero Ue: più coraggio nelle scelte di Eugenio Selvaggi* Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2017 La notizia della prossima finalizzazione dei negoziati per l’istituzione di un Ufficio del pubblico ministero europeo impone alcune riflessioni, tanto più che la novità di rilievo sta nel fatto che l’Italia non è tra i primi Paesi che hanno annunciato favore alla cooperazione rinforzata; e quindi ne resterà fuori, salvo entrarci in un secondo momento. Non è senza significato che la prima previsione di un pubblico ministero europeo fosse stata disegnata sulla competenza a reprimere le frodi comunitarie: il bene giuridico protetto è il bilancio comune europeo e quindi è del tutto ragionevole che a perseguire e reprimere le violazioni sulle norme comunitarie fosse un organo, appunto, europeo. Del resto pratica esperienza e statistiche non discutibili dimostravano che l’azione di repressione contro le frodi comunitarie portata avanti dai singoli Stati era assolutamente priva di efficacia quando non colpevolmente inerte. Intanto, rilevanti fenomeni criminosi mettevano in pericolo le basi dell’Unione: si pensi al terrorismo e alla grossa criminalità organizzata, sovente operante proprio dietro le frodi comunitarie. Da qui una spinta verso la costituzione di un ufficio del pubblico ministero europeo (Eppo) che si occupasse di reati che fossero lesivi di interessi comuni e che richiedessero, perciò, un’azione comune. La proposta avanzata dalla Commissione europea è del 17 luglio 2013. La proposta fu però subito osteggiata da Germania e Francia, secondo una sinergia tesa a ricondurre il pubblico ministero europeo sotto il controllo degli Stati nazionali. Tecnicamente lo strumento è stato quello di disegnarlo come una struttura non (già soltanto) europea bensì secondo un modello di cooperazione orizzontale tra uffici nazionale di pubblici ministeri. Erroneamente, perché la cooperazione orizzontale in materia di giustizia è prevista nell’articolo 85 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, dove è prevista Eurojust, mentre Eppo è previsto nell’articolo 86, che prefigura una vera e propria cooperazione verticale. La difficile situazione in cui versa oggi l’Europa e le spinte populiste o anche semplicemente sovraniste che la percorrono potrebbero indurre a ritenere che qualsiasi tentativo di portare acqua a una procura europea, che sia davvero un organo di giustizia europeo, sia destinato a fallire. Eppure è proprio qui che si gioca il futuro dell’Europa e quindi il futuro di tutti noi. La globalizzazione, da una parte, e la struttura dell’Unione, dall’altra, impongono di ritenere che non vi è fenomeno criminoso di rilievo che resti confinato, nei suoi effetti, in un determinato Stato nazionale. E d’altra parte è questa anche la percezione dell’individuo: non è forse vero che ci sentiamo tutti colpiti quando viene compiuta una strage in una discoteca francese o in un mercatino tedesco? Non è forse vero che ci sentiamo tutti colpiti nel senso di sicurezza? L’Italia, al momento dei negoziati, non sembra intenzionata a entrare nella cooperazione rafforzata (per la legge sono sufficienti nove Stati; finora sono 16 gli Stati che aderiscono a Eppo). La scelta è essenzialmente politica. Una originaria non intransigenza poteva essere giustificata dai tentativi del governo Renzi a costruire un fronte largo a difesa della flessibilità. Inoltre, il diverso, successivo orientamento contro la cooperazione rinforzata poteva essere una buona mossa per ottenere un’accentuazione del carattere europeo del nuovo organo giudiziario. Tuttavia pare di potere dire che restare fuori dalla cooperazione rinforzata non sembra una scelta saggia né lungimirante. Ci sarebbero ben maggiori possibilità di cambiare le cose stando all’interno che all’esterno. Magari introducendo un impegno, possibilmente nello stesso provvedimento istitutivo della procura europea, a rivedere le norme sull’istituzione di Eppo alla luce dei primi tre-cinque anni di esperienza. Alcune recenti uscite del ministro della Giustizia Orlando parrebbero non escludere un orientamento favorevole a un ingresso, all’ultima ora, nella cooperazione rafforzata. Se così fosse sarebbe una buona notizia e una scelta "di campo" in favore dell’Europa. *Magistrato Controlli a distanza, parola al sindacato di Giampiero Falasca Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2017 L’installazione di un impianto di videosorveglianza senza il preventivo accordo sindacale (o senza l’autorizzazione amministrativa equivalente) è un reato penale, anche se i singoli lavoratori hanno acconsentito all’utilizzo di tale apparecchio. Con questa decisione la Cassazione penale (sentenza 22148/2017, depositata ieri) cambia il proprio indirizzo interpretativo in materia di controllo a distanza dei lavoratori. La titolare di un negozio ha deciso di installare all’interno del punto vendita due telecamere, collegate via wi-fi a un monitor, mediante le quali era possibile controllare l’attività lavorativa dei dipendenti. Queste telecamere sono state installate senza aver raggiunto alcun accordo con il sindacato, e senza aver richiesto l’autorizzazione della direzione territoriale del lavoro. La titolare del negozio è stata condannata a una pena pecuniaria (ammenda di 600 euro) per il reato previsto dallo statuto dei lavoratori. Il datore di lavoro ha impugnato la decisione, invocando quell’orientamento giurisprudenziale che esclude la ricorrenza del reato ogni volta che, pur non avendo raggiunto un accordo sindacale, il datore di lavoro installa gli impianti di controllo a distanza chiedendo il consenso preventivo a tutti i dipendenti (Cassazione, sentenza 22611/2012). Secondo questo orientamento precedente, sarebbe illogico negare validità al consenso espresso in maniera chiara e univoca da tutti i lavoratori, in quanto l’esistenza di un accordo con i soggetti titolari del bene giuridico che la norma di legge intende proteggere esclude per definizione la sussistenza di un illecito. La Cassazione, con la decisione odierna, rovescia questa impostazione, partendo dalla considerazione che il bene giuridico protetto dall’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori ha natura collettiva e non individuale (nonostante ci sia una interferenza tra i due piani), in quanto i singoli lavoratori non hanno sufficiente forza per negoziare con il datore di lavoro in posizione paritaria. Pertanto, il datore di lavoro che installa un impianto di controllo a distanza senza ricercare e ottenere l’accordo sindacale con le rappresentanze aziendali (o, in mancanza, senza chiedere l’autorizzazione all’autorità amministrativa competente) danneggia gli interessi collettivi di cui sono titolari e portatrici le rappresentanze sindacali. Il comportamento del datore di lavoro, prosegue la sentenza, non integra solo un reato penale, ma anche la fattispecie della condotta antisindacale, suscettibile di essere repressa con la procedura speciale disciplinata dall’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori. Inoltre la Corte ricorda che lo stesso Garante della privacy ha più volte ritenuto illecito il trattamento dei dati personali effettuato tramite sistemi di videosorveglianza installati senza il rispetto dei vincoli procedurali previsti dall’articolo 4 dello Statuto, nonostante l’eventuale consenso dei singoli lavoratori. La sentenza, infine, osserva che tali considerazioni valgono sia per la versione dell’articolo 4 antecedente al Jobs act, sia per il testo risultante dalle modifiche apportate con il Dlgs 151/2015, in quanto entrambe le norme continuano a richiedere, fatti salvi casi particolari, l’accordo sindacale o l’autorizzazione amministrativa per l’installazione di strumenti di controllo a distanza. Questa sentenza potrebbe trovare conferma nelle decisioni future della Corte oppure, come accade spesso, i giudici di legittimità potrebbero spaccarsi, dando luogo a pronunce contrastanti; in tal caso, sarebbe necessario l’intervento delle Sezioni unite per definire un indirizzo comune sulla materia. Il gestore risponde degli schiamazzi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2017 Condanna per il reato di disturbo al riposo delle persone per il titolare del locale che non rende effettivi divieti e prescrizioni. Il parcheggio "dedicato" e il cartello per invitare i clienti della discoteca a non fare chiasso, non salvano il titolare del locale dalla condanna per il reato di disturbo al riposo delle persone, se non si attiva per rendere effettivi divieti e prescrizioni. La Corte di cassazione (sentenza 22142) respinge il ricorso del gestore di un disco pub secondo il quale la condanna, per il reato previsto dall’articolo 659 comma 1 del Codice penale, era del tutto immeritata visto che aveva fatto quanto in suo potere per rendere più tranquilla la clientela. A disturbare gli abitanti delle vie limitrofe erano stati i rumori, "che eccedevano le normali modalità di esercizio dell’attività intrinsecamente rumorosa", prodotti non solo dalle persone ma anche dalle loro vetture. I "vivaci" frequentatori del disco bar bevevano e alzavano la voce all’esterno del locale, oltre ad arrivare e ripartire sgommando o producendo con le auto "rumori fastidiosissimi". Il proprietario dal canto suo riteneva di aver fatto del suo meglio predisponendo un parcheggio a poche centinaia di metri dal locale e mettendo un cartello con il divieto di schiamazzi. Ma in virtù della sua posizione di garanzia doveva fare di più, e i giudici spiegano cosa. Il titolare è incorso in un reato "omissivo" per non aver messo in atto una serie di misure tese a controllare l’esterno del locale: dal personale dedicato, alla somministrazione di bevande in recipienti non da asporto, dal ricorso alle forze di polizia all’esercizio dello ius excludendi. Anche il parcheggio, precisano i giudici, non serve se non si inducono i clienti ad usarlo. Misure che dovevano essere adottate soprattutto dopo le proteste dei residenti. Né il ricorrente può bollare come una mera congettura l’affermazione dei giudici di merito, secondo i quali la regolamentazione del parcheggio avrebbe impedito i rumori molesti prodotti dai motori. Per la Cassazione il ragionamento della Corte d’Appello è in linea con i principi in materia di nesso causale: la mancata adozione di provvedimenti tesi a circoscrivere il volume di traffico ha certamente concorso a determinare l’insieme di eventi rumorosi. E anche se i giudici ammettono che difficilmente si sarebbe potuta "impedire tout court ogni manifestazione disturbante", il gestore avrebbe almeno dimostrato di aver fatto il possibile. Per lui l’articolo 659 del codice penale scatta anche per le emissioni sonore, prodotte dall’eccessivo volume della musica suonata all’interno del disco pub. Occultare le fatture non è reato se si può ricostruirle di Laura Ambrosi Italia Oggi, 9 maggio 2017 Non è configurabile il reato di occultamento e distruzione delle scritture contabili se l’imprenditore può ricostruire con altri documenti il risultato economico. A fornire questa interpretazione è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 22126 depositata ieri. Un contribuente veniva condannato dal Tribunale per aver distrutto o comunque occultato la documentazione contabile. In particolare, la GdF rilevava l’esistenza delle fatture dalla n. 1 alla 37 e della n. 47, mentre mancavano quelle dalla n. 38 alla 46. L’articolo 10 del Dlgs 74/2000 prevede che è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni (pena aumentata dal Dlgs 158/2015) chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o l’Iva, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari. La decisione del Tribunale veniva confermata dalla Corte di appello e pertanto l’imputato ricorreva in Cassazione lamentando, in estrema sintesi, l’insussistenza dell’elemento costitutivo del reato. I giudici di legittimità, ritenendo fondato il ricorso, hanno innanzitutto rilevato che il reato di occultamento e distruzione delle scritture contabili è a dolo specifico, atteso che la norma fa espresso richiamo al "fine di evadere le imposte". Ne consegue che il giudice deve accertare e adeguatamente motivare la sussistenza in concreto dell’elemento soggettivo sulla finalità di evasione. Il reato in questione, ha precisato la Suprema corte, non è configurabile quando il risultato economico delle operazioni prive della documentazione obbligatoria può essere ugualmente accertato in base ad altra documentazione conservata dall’imprenditore interessato. Si tratta, infatti, di una condotta priva della necessaria offensività. Nella specie, le fatture rinvenute erano più o meno tutte di analogo valore economico, con la conseguenza che verosimilmente anche quelle mancanti erano dello stesso importo. Ne conseguiva, così, un’agevole ricostruzione del reddito non documentato e lo scarso valore economico dello stesso, poteva escludere fin da subito l’intento evasivo. La decisione pare discostarsi rispetto all’orientamento espresso sul punto in precedenti pronunce. In particolare, secondo un’interpretazione particolarmente rigorosa, la Cassazione (sentenze 39771/09 e 3057/08) aveva affermato che ai fini della configurabilità del reato di cui all’articolo 10 del Dlgs 74/2000 non fosse necessaria la verifica in concreto dell’impossibilità assoluta di ricostruire il volume d’affari o i redditi, essendo sufficiente un’impossibilità relativa. La condotta illecita, in altre parole, si consuma anche se alla ricostruzione del volume di affari o dei redditi sia possibile pervenire altrimenti. Ciò in quanto l’interesse tutelato dal delitto in questione è il corretto esercizio della funzione di accertamento fiscale che viene meno ove i documenti siano dolosamente sottratti o distrutti a danno dei verificatori. Restano escluse da responsabilità penali, invece, le ipotesi in cui il mancato rinvenimento delle scritture contabili non sia causato dalla volontà del contribuente (smarrimento, furto, incendio, ecc.). Alla luce della nuova pronuncia, parrebbe ora sussistere una sorta di surrogabilità dei documenti mancanti. Nella specie, peraltro, la ricostruzione dei redditi contenuti nelle fatture mancanti era determinabile - secondo i giudici di legittimità - anche con una ricostruzione induttiva utilizzando quanto consegnato in sede di verifica. Rimini: intervista a Ilaria Pruccoli, Garante comunale dei diritti dei detenuti ilponte.com, 9 maggio 2017 L’istituzione di un Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale risponde ad un preciso obbligo internazionale risalente al 2012, anno in cui l’Italia ha adottato l’ordine di esecuzione del "Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti". La nascita di questa figura a livello regionale, provinciale e comunale, rappresenta la novità degli ultimi anni in materia penitenziaria e il Comune di Rimini, sede di casa circondariale - i Casetti, dal 2014 ha istituito questa figura sul proprio territorio. Ilaria Pruccoli, 31 anni, svolge il ruolo da poco più di un anno. Quella della privazione della libertà personale è un’area estremamente vasta. Cosa fa il garante? Quali sono i compiti e i poteri attribuiti al Garante e come può incidere nella vita delle persone che è chiamato a tutelare? "Il garante è una figura che si pone in continuo dialogo, confronto e collaborazione con le organizzazioni, gli enti, le associazioni che svolgono all’interno degli istituti un importante e imprescindibile lavoro di supporto alla popolazione carceraria. Le funzioni del Garante dei detenuti sono molteplici. Ad esempio vigila sulle condizioni di vita delle persone detenute, al fine di garantirne il rispetto della dignità e dei diritti, con particolare riguardo alla presenza di trattamenti inumani e degradanti e alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie dei luoghi di privazione della libertà personale e sull’adempimento del dettato costituzionale relativo alla finalità rieducativa della pena. Inoltre promuove iniziative riguardanti il carcere e la sensibilizzazione della società sui problemi correlati ad esso: mi riferisco ad esempio agli incontri già svolti e in programma anche per il prossimo anno scolastico, con gli alunni delle scuole superiori di Rimini sul tema legalità. E ancora visite senza autorizzazione nell’istituto e colloqui con i detenuti: è soprattutto attraverso le visite e i colloqui frequenti che ho con i detenuti che mi vengono segnalate le problematiche legate alla reclusione, che poi vanno approfondite o con l’autorità giudiziaria competente o con l’Amministrazione penitenziaria. Potrei sintetizzare come in molte occasioni il garante funge sia da mediatore tra i detenuti e le istituzioni, sia da portavoce dei loro diritti. Altro compito del garante è quello di operare o meglio mettere in campo accordi con istituzioni, associazioni etc per migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Non molto tempo fa sono intervenuta per mettere in contatto un’associazione che opera sul territorio nell’ambito della promozione culturale e sociale, con la Casa Circondariale di Rimini. Da questo incontro, ne sono sicura, nascerà una bella iniziativa". Per quanto riguarda i "detenuti" ci si potrebbe chiedere perché prevedere una specifica figura di garanzia, dal momento che il nostro ordinamento prevede che al controllo dell’operato dell’amministrazione penitenziaria negli Istituti sia preposto un magistrato… "La magistratura, soprattutto quella di sorveglianza, vive un momento di seria difficoltà a causa, in particolar modo, delle numerose istanze presentate dai detenuti e dalla mancanza di risorse come ad esempio il personale, che non permettono tempi celeri di risposta. Inoltre i Magistrati di Sorveglianza, nonostante abbiano il dovere di colloquiare con i detenuti all’interno dei vari istituti di pertinenza, spesso non sono in grado di portare avanti questo compito proprio per la mole di lavoro che li colpisce. Consideriamo inoltre che il fenomeno dei suicidi in carcere è ancora una realtà che ci dimostra come i problemi legati alla detenzione non siano superati. I garanti, in particolar modo quelli comunali, sono le figure territorialmente più competenti e più vicine alle singole realtà, alle persone recluse, quelle che riescono a conoscere meglio le vicende dell’Istituto situato sul proprio Comune e quindi a svolgere con più efficienza il loro ruolo di portavoce dei diritti dei detenuti oltre che a creare un ponte tra le loro richieste e l’autorità giudiziaria, chiedendo spiegazioni e chiarimenti ove necessario". Quali sono le segnalazioni più frequenti che le fanno i detenuti? Dovendo operare una selezione delle emergenze, su quali concentrerà la sua attenzione? "Ci sono due ordini di segnalazioni: quelle che riguardano la situazione all’interno dell’Istituto, come può essere la mancanza del lavoro in carcere, per cui vi è la necessità di un approfondimento con l’educatore di riferimento o più in generale con l’Istituto. In questo caso risulta più semplice e veloce fornire risposte ai detenuti in quanto vi è, nella maggior parte delle volte, collaborazione con l’Amministrazione penitenziaria, con l’area educativa, la Direzione e la polizia penitenziaria. Quelle che riguardano invece le richieste verso le magistratura di sorveglianza richiedono più tempo e non sempre è possibile fornire un’adeguata risposta in merito proprio per la carenza cronica di personale e per la rigidità della burocrazia. Le emergenze sulle quali concentro la mia attenzione sono quelle che hanno a che fare con soggetti che mostrano particolari fragilità e che potrebbero mettere in atto comportamenti autolesionistici, anche se negli ultimi tempi a Rimini sono rari". Qual è la situazione della Casa Circondariale di Rimini? Il problema del sovraffollamento è tornato di attualità? "Dopo un periodo nel quale si segnalava un ritorno alla normalità sul piano del sovraffollamento, dovuto principalmente alle denunce della Corte Europea dei Diritti Umani all’Italia e alla conseguente attivazione di maggiori misure alternative alla detenzione, oggi siamo ritornati ad uno stato di emergenza. La Casa circondariale di Rimini ha una capienza al massimo di 130 persone, oggi ve ne sono recluse circa 175. La pena detentiva, che dovrebbe essere vista come extrema ratio, è ancora troppo utilizzata e questo ovviamente a discapito del fine rieducativo della stessa pena". Secondo lei qual è il ruolo del volontariato penitenziario? Cosa pensa delle esperienze in atto all’interno della casa circondariale? "Nonostante i diversi problemi che la Casa circondariale di Rimini si trova ad affrontare quotidianamente come ad esempio la carenza di personale di polizia, la mancanza di una direzione stabile e il sovraffollamento, vi è la presenza di un volontariato attivo in carcere che certamente non può e non deve sostituirsi agli obblighi delle istituzioni, ma che ha un ruolo fondamentale nel percorso rieducativo dei reclusi. Vi sono diverse realtà che propongono e portano avanti con impegno attività di tipo culturale, ricreativo ma anche educativo con e per i detenuti: ne è un esempio Caffè Corretto, uno spazio gestito da un operatore dell’Associazione Madonna della Carità dove i detenuti, tutti i martedì, si confrontano su temi di attualità, incontrano persone del mondo esterno con storie interessanti da raccontare, discutono di cinema, cultura, legalità, fatti di cronaca. Vi sono i corsi di educazione cinofila, di teatro-danza, di fotografia, di ceramica, di shiatzu, di semina e lavori nell’orto. Insomma dentro il carcere di Rimini c’è un mondo di "volontari professionisti" che hanno a cuore la persona, a prescindere da ciò che li ha portati ad essere lì e di questo occorre darne merito non solo alle singole realtà ma anche al Comune di Rimini che tutti gli anni attraverso i piani di zona, finanzia una gran parte di queste attività". E all’esterno cosa si può fare di più? Cosa significa sensibilizzare la cittadinanza sul tema della reclusione? "Portare la società, attraverso i volontari, dentro il carcere è una buona prassi ma bisogna anche "far uscire" il carcere. Andare nelle scuole, come ho avuto modo di fare, insieme a chi, tra l’altro, il carcere lo aveva vissuto sulla propria pelle, ha una valenza educativa enorme sia per gli studenti che ascoltano, sia per i ragazzi che si raccontano, che parlano dei loro sbagli, che è poi un primo passo per affrontarli con dignità e coraggio. Per sensibilizzare la società esterna sul tema difficile e controverso del carcere, abbiamo però necessità di incontri e di corsi che possano suscitare l’interesse della società civile e che siano anche momento di approfondimento e di formazione per chi il carcere lo vive come operatore o come volontario. Il fine deve essere condiviso e ben chiaro a tutti: fornire strumenti per fare in modo che il carcere non abbia la funzione di mero contenitore sociale, ma che possa davvero definirsi rieducativo". Trento. Il comboniano Padre Stefano Zuin: "ora la mia Africa è il carcere" di Diego Andreatta Avvenire, 9 maggio 2017 Padre Stefano, 68 anni, dopo 38 di lavoro tra America Latina e il continente nero ha risposto "sì" all’invito dell’arcivescovo Tisi a lavorare con i detenuti. Un uomo "con la valigia in mano, sempre pronto a partire". È il missionario nelle parole ma anche nella biografia di padre Stefano Zuin, 68 anni, comboniano di origine padovana, che dopo 38 anni di lavoro tra America Latina e l’Africa è ripartito sei mesi fa per una missione speciale: cappellano fra i 300 detenuti del carcere di Trento. Non ha tardato a rispondere sì quando l’arcivescovo Lauro Tisi gli ha chiesto di proseguire la sua presenza missionaria fra tanti africani, asiatici e latinoamericani che scontano la pena a Trento: "Sono i poveri e gli ultimi della nostra ricca Europa". Padre Stefano, animatore vocazionale, collaboratore del Centro missionario diocesano e di Radio inBlu, non si stupisce del fatto che papa Francesco nel suo messaggio per la Giornata mondiale di oggi affermi che l’impegno missionario non è un ornamento della vita cristiana. "Chi conosce Gesù deve farlo conoscere agli altri", commenta con la stessa semplicità con cui ha parlato poco prima ai comunicandi di una parrocchia trentina, aggiungendo: "Conoscere Gesù vuol dire portare a compimento la propria umanità. Per me è stato così". Ordinato sacerdote nel 1974, all’età di 25 anni, in diocesi di Padova, a ventotto anni è partito come fidei donum in Ecuador, dove ha operato fra gli afro-americani del vicariato apostolico di Esmeraldas, per dieci anni. Poi ha scelto di farsi religioso comboniano: nel 1987 ha iniziato il noviziato, dopo i primi voti, nel 1990, è partito per l’Africa e ha lavorato per 18 anni nel Malawi e Zambia. La sensibilità missionaria è innata o matura col tempo?. "È un dono di Dio, che semina attraverso le persone vicine: nel mio caso la nonna, il parroco, anche i miei genitori che vivevano la fede nell’umile lavoro nei campi e nell’attaccamento orgoglioso alla parrocchia. Ma nello stesso tempo matura dall’ascolto della sua Parola e nelle esperienze della storia. In America Latina erano i tempi degli incontri ecclesiali di Medellin e Puebla e ho compreso il legame del Vangelo con i valori del Regno come la giustizia e la solidarietà, che ha prodotto tanti catechisti martiri". Dall’Africa, "polmone religioso dell’umanità" per descriverla con le parole di Benedetto XVI, dice di aver appreso ancora meglio il grande dono della vita e della ministerialità. "Ma la missione è la stessa ovunque. Annunciamo Gesù, non noi stessi. Chi annuncia se stesso, diceva il nostro Comboni, è il più grande asino del mondo". Ora nel carcere di Trento padre Zuin sa d’incontrare il volto di Gesù e s’impegna - sull’esempio del predecessore padre Fabrizio Forti - ad un ascolto attento dei detenuti e della loro sofferenza. "La loro vita mette in questione anche la mia: se fosse qui io? Come vorrei essere trattato? Cosa mi aspetterei dagli altri?". Da qualche mese padre Zuin ha messo a disposizione anche i locali della sua comunità comboniana a 12 richiedenti asilo africani e pakistani coordinati dal Centro Astalli ("Le nostre case religiose sono nate dalla carità della gente e oggi devono ritornare alla gente") con i quali prosegue un annuncio di umanità e fede. "A proposito di vocazioni - conclude - mi sembra che nella cultura di oggi talvolta manchi la materia primaria: c’è tanta passione per la natura e l’ambiente naturale, e va bene, ma c’è poca cultura per l’uomo. Che noi sappiamo essere immagine di Dio". Busto Arsizio: sovraffollamento, il carcere bustese è maglia nera di Errico Novi Il Dubbio, 9 maggio 2017 Continua a crescere il sovraffollamento nelle carceri. I dati aggiornati al 30 aprile messi a disposizione dal Dap confermano il trend in crescita. Su 50.044 posti regolamentari, risultano 56.436 detenuti. Ciò significa che in alcune carceri, le celle cominciano ad avere la terza branda. Parliamo del dato mensile più alto degli ultimi due anni e superiore di circa 4 mila unità rispetto alle 52 mila presenze circa del luglio 2015. Altro dato che emerge è la diminuzione di 167 posti regolamentari rispetto al mese precedente, forse dovuto dai lavori di ristrutturazione. Rimane però il dato reale denunciato da tempo dall’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, confermato in seguito dal capo del Dap Santi Consolo durante un’intervista ai microfoni di Radio Carcere e ribadito dal rapporto annuale del Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale Mauro Palma: ovvero l’alto numero di camere o sezioni fuori uso, per inagibilità o per lavori in corso, che alla data del 23 febbraio sono pari al 9,5 per cento. Cioè parliamo di circa 4.700 posti non disponibili. Questo vuol dire che il dato reale del sovraffollamento potrebbe essere pari a 10 mila detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare. Dagli ultimi dati emerge la situazione del carcere lombardo di Busto Arsizio che risulta avere un sovraffollamento che raggiunge quasi il doppio dei posti regolamentari, su 238 posti disponibili ci sono 411 detenuti. Il direttore del carcere Orazio Sorrentini ha da tempo sollevato il problema del sovraffollamento riguardante il suo istituto, denunciando il rischio di richieste di risarcimento da parte dei detenuti per la violazione dei diritti umani. Sempre in Lombardia c’è il carcere di Bergamo con 577 detenuti su 320 posti disponibili e il carcere di Como con 404 detenuti su una capienza massima di 216 detenuti. Anche nel Lazio il sovraffollamento è in crescita. Un totale di 990 detenuti in più considerato che 6.228 risultano essere i detenuti reclusi nei 14 Istituti del Lazio rispetto ad una capienza regolamentare di 5.238 posti. Spostandoci in Sardegna, su 10 carceri solo quello di Uta (Cagliari) risulta avere un sovraffollamento in crescita. Parliamo di un Istituto nato per ospitare due detenuti in ogni camera e garantire condizioni umane dignitose, mentre attualmente deve sopportare l’allocazione di 3 detenuti in ogni cella e si rischia di doverne allocare quattro per evitare il tracollo. È intervenuto in merito il segretario territoriale di Cagliari della Uil Stefano Pilleri che ha dichiarato: "L’Istituto di Uta ha una capienza regolare di 548 detenuti ma attualmente è stata superata la soglia di 640 presenze e tale numero diventa ancora più drammatico con la diminuzione inesorabile dell’organico di Polizia Penitenziaria che attualmente è carente di circa 160 Agenti". Sala Consilina (Sa): il Ministero "sì al nuovo carcere, ma a spese della Regione" di Erminio Cioffi ondanews.it, 9 maggio 2017 Il Ministero della Giustizia apre alla possibilità di realizzare un nuovo carcere da 250 posti a Sala Consilina, ma per farlo sarà necessario trovare i finanziamenti. I costi stimati ammontano a circa 40 milioni di euro. Questo è uno dei particolari emersi nel corso di un incontro che si è tenuto presso il Tribunale di Lagonegro e che ha visto la presenza di alcuni tecnici e del Sottosegretario del Ministero della Giustizia, Federica Chiavaroli e di rappresentanti del Tribunale, dell’avvocatura e del Comune di Lagonegro. Ad uno dei funzionari del Ministero è stato chiesto se ci sia la possibilità di poter realizzare un carcere nel circondario del tribunale di Lagonegro. Il Ministero a tal proposito non avrebbe problemi nell’autorizzare la costruzione del nuovo carcere a Sala Consilina, per il quale esiste già il progetto, ma a condizione che qualcuno si accolli le spese per la realizzazione, e questo "qualcuno" dovrebbe essere la Regione Campania. Nell’ex carcere di Lagonegro è prevista la realizzazione di una struttura per i "giovani adulti", ossia i detenuti che sono stati condannati nel periodo in cui erano minorenni, non hanno finito di scontare la pena e terminano la loro pena da maggiorenni. Catania: al via il progetto "Prevenzione del rischio di suicidi ed atti autolesivi in carcere" cataniatoday.it, 9 maggio 2017 Obiettivo del progetto, che segna la collaborazione fra Asp di Catania e Case Circondariali del territorio, è la conoscenza dei percorsi di valutazione e cura da attivare nei servizi della sanità penitenziaria, per prevenire suicidi ed atti auto lesivi. È stato presentato oggi alla stampa il progetto "Prevenzione del rischio di suicidi ed atti autolesivi in carcere". Si tratta del primo intervento formativo, che si realizza in Sicilia, secondo le linee guida regionali di prevenzione del rischio autolesivo e di suicidio nelle carceri, fortemente volute dall’assessore alla salute on. Baldo Gucciardi. Intervenuti il direttore generale dell’Asp di Catania, dr. Giuseppe Giammanco; il direttore sanitario, dr. Franco Luca; il direttore della Casa Circondariale di Catania Piazza Lanza, dott.ssa Elisabetta Zito; il direttore della Casa Circondariale di Catania Bicocca, dott. Giovanni Rizza. Presenti inoltre il direttore del Dipartimento di salute mentale, dr. Giuseppe Fichera; il direttore del Servizio di Psicologia, dr.ssa Maria Concetta Cannella; il direttore dell’UO di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza-territoriale, dr.ssa Anna Fazio; il dr. Roberto Ortoleva, dirigente psichiatra Staff Dsm. Obiettivo del progetto è la conoscenza dei percorsi di valutazione e cura da attivare nei servizi della sanità penitenziaria, per prevenire suicidi ed atti auto lesivi. "Con questo progetto, subito sostenuto dai direttori della Case circondariali del nostro territorio - ha detto il dr. Giammanco -, vogliamo condividere con gli operatori degli istituti penitenziari conoscenze e prassi per migliorare la qualità di vita di una persona in un momento della vita nel quale è più avvertito il bisogno di ascolto e di attenzione. È la prima proposta formativa del tipo in Sicilia che si muove in linea con gli atti d’indirizzo nazionali e regionali, e siamo fieri di poter lavorare in questo senso". "Grazie alla sensibilità dei direttori delle Case circondariali - ha aggiunto il dr. Luca, stiamo lavorando in modo da garantire continuità e stabilità dei servizi, e le risorse umane e specialistiche adeguate". Il corso è rivolto agli operatori delle cinque Case circondariali della provincia di Catania e si svilupperà nell’arco di un triennio. I docenti impegnati svolgeranno la loro attività gratuitamente. Il primo modulo del corso è previsto per domani 9 maggio, nella Casa Circondariale di Catania Piazza Lanza. "Abbiamo accolto con molto favore questo progetto - ha detto la dott.ssa Zito - che si muove nel senso della integrazione delle competenze per affrontare un fenomeno grave e complesso e implementare procedure e programmi di prevenzione". "È una opportunità che ci viene offerta - ha affermato il dott. Rizza - e grazie alla quale, attraverso questo processo formativo, verranno messi in atto gli interventi necessari per prevenire il fenomeno, ridurre il rischio e valorizzare la prevenzione e l’inclusione sociale come obiettivi prioritari del sistema". La Spezia: poliziotto aggredito in carcere, lo salvano l’infermiera e i detenuti cittadellaspezia.com, 9 maggio 2017 Un addetto alla vigilanza è stato vittima di un tentativo di strangolamento da parte di un carcerato ristretto nella terza sezione. I sindacati insorgono: "Atto gravissimo, non si può andare avanti con questa carenza di personale. Pronti a protesta". Poliziotto aggredito in carcere, lo salvano l´infermiera e i detenuti. La fortuna ha voluto che l’infermiera addetta alla somministrazione della terapia abbia visto tutto e sia riuscita a dare l’allarme, attirando l’attenzione degli altri detenuti, che sono intervenuti per liberare il poliziotto dalle grinfie di un carcerato che stava cercando di strangolarlo. "Una gravissima aggressione quella subita da un agente di Polizia penitenziaria in servizio al Villa Andreino", commentano i segretari regionali dei sindacati Uil Polizia penitenziaria, Sinappe e Uspp, rispettivamente Fabio Pagani, Franco Dipalma e Aurelio Musso. A gettare nel caos la casa circondariale spezzina, intorno alle 15 di oggi, è stata un detenuto sudamericano, ristretto presso la terza sezione del secondo piano, che ha aggredito prendendo di sorpresa alle spalle l’agente di Polizia penitenziaria addetto alla vigilanza del piano detentivo. "L’ha preso per il collo tentando di strangolare il malcapitato agente", è la ricostruzione dei sindacalisti, che raccontano come dopo il grido di allarme dell’infermiera "prima i detenuti, una quarantina circa, hanno liberato dalla morsa il poliziotto, che è riuscito così ad aprire il cancello, permettendo l’intervento del personale di Polizia penitenziaria, ripristinando così l’ordine e la sicurezza interna al reparto". Il poliziotto, soccorso dal personale sanitario è stato trasferito d’urgenza al Pronto soccorso. "Quanto accaduto - aggiungono i sindacalisti - è gravissimo. Soprattutto l’amministrazione non può adesso sottrarsi alle proprie responsabilità. La direzione totalmente assente lascia il personale di Polizia penitenziaria in balia delle onde, del pericolo. In queste condizioni, con 232 detenuti presenti (per una capienza regolare di 150 carcerati) e una carenza di circa 50 poliziotti, non si può andare a lavorare. Non si può vivere con la certezza del pericolo, rischiando la vita in un semplice turno di servizio. C’è troppa leggerezza della direzione nei confronti dei detenuti violenti e la sua azione disciplinare è carente e mette in serio rischio sia la sicurezza dell’istituto che la vita dei poliziotti. Se non ci saranno interventi seri daremo vita a forti azione di proteste, anche con l’autoconsegna". Catanzaro: percorsi di legalità per una pedagogia che abbatta i cattivi maestri di vita catanzaroinforma.it, 9 maggio 2017 Al Comune un incontro formativo sul tema "Legalità" e sui suoi molteplici percorsi differenti ma convergenti. In prima linea, difronte alle tematiche sulla legalità e sugli interventi istituzionali ed educativo-formativi spettanti alla scuola, l’Istituto Comprensivo Catanzaro Est, presieduto dalla Dirigente Alba Flora Mottola in collaborazione con l’Associazione Universo Minori rappresentato da Rita Tulelli e con la partecipazione dell’Onorevole Angela Napoli,Roberto Coppola Primo Dirigente della Polizia di Stato e Don Giacomo Panizza, ha promosso e realizzato presso la Sala Consiliare del Comune di Catanzaro un incontro formativo sul tema "Legalità" e sui suoi molteplici percorsi differenti ma convergenti. I relatori infatti, di diversa matrice ideologico-professionale hanno evinto, ciascuno in stretta relazione alla personale esperienza e settore operative le complesse dinamiche del dilagare del fenomeno mafioso. Apre il convegno Rita Tulelli, che enuclea le problematicità oggettive di un’educazione rivolta ai giovani detenuti. Il bisogno che essi hanno di non rimanere avulsi dal contatto con la società e le iniziative che volta in volta vengono promosse per favorire la possibilità di un inserimento in un futuro nel quale per loro si apriranno i cancelli che li separano dal mondo. Tutto questo attraverso una pedagogia di aiuto unita all’istruzione. "L’importanza dell’azione pedagogica che valuti e identifichi nella formazione la costruzione in primis di valori etici civici e sociali - afferma la Dirigente Scolastica Mottola - non può che passare essenzialmente dalla scuola, che non può promuovere lo sviluppo della personalità ignorando i mali che squalificano l’identità del territorio su cui si opera". Proprio sull’importanza di svelare questa sua identità nell’accezione specifica di ‘ndrangheta, si è formulato l’intervento dell’Onorevole Angela Napoli, membro della Commissione antimafia e da sempre impegnata contro la criminalità organizzata. Evocando ricordi indelebili inerenti alla sua militanza come docente e come preside l’onorevole ha evinto quanto siano profondamente radicati nella cultura familiare i riti di ideologia a tendenza mafiosa. Riti che inevitabilmente si convertono in atteggiamenti a scuola. E quanto sia delicato e difficile l’intervento della stessa istituzione, dove in realtà risulta difficilissimo menzionare la parola ‘ndrangheta da docente a discente, nella creazione spontanea di un muro di chiusura verbale. E invece Angela Napoli con umiltà e determinazione suggerisce -"Bisogna trovare il coraggio di pronunciarla ai nostri ragazzi…ai vostri alunni e farne realizzare concetto. Gli studenti non possono crearsi una coscienza valoriale se ignari, nella scuola, di una illegalità che investe pur trasversalmente il loro vissuto, che ostacola il loro futuro rendendoli soggetti che subiscono nel silenzio di un territorio. Ma se nel territorio gli enti, le associazioni e tutte le istituzioni a partire dalla scuola interagiscono, allora si realizza la strada della legalità e la fine del silenzio. Questo si è inteso dal rappresentativo ed incisivo intervento del Dott. Coppola, Primo Dirigente della Polizia di Stato. L’abbattimento di questo silenzio attraverso un’educazione alternativa è per Don Giacomo Panizza la chiave per iniziare a chiudere le porte ad una "pedagogia mafiosa" prodotta da questi "cattivi insegnanti" criminali che insegnano ai giovani il potere della forza e li allenano a collocare in secondo piano i sentimenti. E in una imposizione rigida e ripetitiva di comportamenti riescono a tenere sotto pressione e paura interi quartieri e città. Spogliarsi di forme auliche e di demagogia e presentarsi difronte ai ragazzi vittime di questo male, con la volontà di agire, di proporre, di andare incontro alle situazioni di prevaricazione saranno gli unici metodi per ostacolare la pedagogia mafiosa... per una mafia che purtroppo educa elevandosi come dottrina di facile carriera; una dottrina mafiosa che svalorizza la scuola perché nella più profonda razionalità criminale la scuola e l’istruzione che essa offre rappresentano la via per la libertà e la formazione di una coscienza dei valori di giustizia e onestà. Roma: gli studenti del "Giuseppe Di Vittorio" incontrano i detenuti di Regina Coeli tusciatimes.eu, 9 maggio 2017 Gli allievi dell’Istituto Superiore "Giuseppe Di Vittorio" (Indirizzo Afm) incontrano i detenuti di "Regina Coeli", nell’ambito di un Progetto dal nome evocativo e metaforico: "Oltre le barriere". È il coronamento di un percorso educativo e didattico il cui filo conduttore è costituito dall’analisi di temi quali libertà e legalità - hanno spiegato Anna Lisa Sorce e Patrizia Bernardini, Docenti coordinatrici dell’iniziativa - nell’ambito di un progetto più ampio in cui l’espressione "Oltre le barriere" intende porre l’attenzione sulla necessità di confrontarsi con un mondo, quello dei detenuti e del carcere, relegato ai margini della società, sottratto coattivamente all’attenzione e alla considerazione pubbliche. Per far ciò, occorre mettere da parte il pregiudizio, le sovrastrutture mentali - hanno aggiunto - e predisporsi all’apertura e al dialogo, nella convinzione che il limite che separa comportamenti legali e illegali, specie in età adolescenziale, sia alquanto sottile. Proprio per questo c’è bisogno di una riflessione comune, di una condivisione empatica dei diversi vissuti degli altri, seppur negativi e forieri di sofferenza. L’incontro, che si è svolto il 5 maggio, giunge al termine di un percorso sulla legalità avviato dall’inizio dell’anno scolastico attraverso alcune tappe: dal confronto con Emergency e il suo fondatore Gino Strada nell’ottobre scorso (in cui sono stati affrontati soprattutto i temi dell’emigrazione e dei diritti umani) al dibattito, a novembre, sulla Costituzione e la legalità condotto dall’ex- magistrato Gherardo Colombo, fino alla performance teatrale di Claudio Bisio, il mese successivo, sul complicato rapporto tra genitori e figli. E venerdì 5 maggio, diversi sono stati, da parte degli operatori del carcere, gli interventi cui hanno potuto assistere gli allievi dell’istituto Superiore "Giuseppe Di Vittorio": dopo una prima introduzione storica della Direttrice dell’Istituto Penitenziario, è stata la volta della dalla psicologa, quindi del pedagogista clinico, della referente del Laboratorio di scrittura creativa e della responsabile dell’Area educativa e del ‘Laboratorio Pedagogico della Legalità’. "Sia i ragazzi che i detenuti - ha spiegato la Prof.ssa Sorce - hanno poi dato voce alle emozioni, leggendo alcune poesie da loro scritte sul tema della pace, in occasione della presentazione della 2^ edizione del concorso "Magicamente poesia", alla presenza di un’apposita giuria. In ogni caso, aldilà del comune impegno didattico che ha consentito di vincere l’imbarazzo iniziale e la normale titubanza, il fatto che sotto la volta della stessa stanza siano risuonate parole suggerite da un identico bisogno di essere riconosciuti ed accolti, ha avvicinato e coinvolto tutti i partecipanti, accorciando le distanze e suscitando un interesse più sentito l’uno per l’altro. Il laboratorio pedagogico sulla poesia, attraverso il riferimento a temi quali la legalità, la libertà, l’amore e gli affetti, il valore del dolore, - hanno aggiunto le due docenti coordinatrici del Progetto - si è configurato dunque, inserito nel contesto del carcere, come il luogo ideale in cui certe esperienze di vita possono essere rivisitate, riadattate e riformulate in chiave interpretativa e quindi nuova. L’incontro con l’altro, poi, spinge ciascuno a rivedere il proprio punto di vista, adattandosi all’esperienza altrui, a riconsiderare le proprie posizioni, imponendo una riflessione veicolata dall’emozione attraverso la parola: il valore e l’importanza delle piccole cose, così come il vissuto dei legami affettivi, la portata umana e civile di parole come "libertà" e "responsabilità", qui assumono un significato diverso, un’accezione più intima e particolare". "Rendersi conto del grande valore di cui possiamo disporre, quello di essere liberi, per farne buon uso significa dunque - ha concluso la Prof.ssa Sorce - reindirizzare la nostra vita, darle un senso diverso (che non è quello scontato di tutti i giorni), crescere con la consapevolezza che occorre preservare con cura, nel rispetto di sé e degli altri, le possibilità che ci sono date. Crediamo che un’esperienza come questa possa senz’altro costituire una tappa fondamentale di crescita e di arricchimento per tutti, la possibilità di abbattere quelle barriere mentali che spesso impediscono di considerare la persona come essere umano, di accettarne e di accoglierne le dimensioni specifiche dell’esistenza". Il Progetto, condotto già da alcuni anni dalle Docenti Anna Lisa Sorce e Patrizia Bernardini, si è avvalso stavolta anche della collaborazione della Responsabile dell’Area educativa del carcere di "Regina Coeli", Prof.ssa Maria Falcone, che ha curato l’organizzazione della giornata, coordinandone tutte le fasi e le diverse attività. Catania: all’Istituto Penale Minorile "Bicocca" è tempo di amicizia di Mirko Tomasino corrierenazionale.net, 9 maggio 2017 Martedì 4 maggio alle 15:30, presso l’auditorium dell’Ipm "Bicocca" di Catania si è riso, pianto e ragionato sulle note dell’Amicizia. Il tema è stato affrontato attraverso uno spettacolo di cabaret presentato, a titolo completamente gratuito, dal popolare presentatore televisivo Salvo La Rosa e dal noto cabarettista Massimo Spata. Si conclude così un percorso che ha visto la presentazione di tanti spettacoli tematici che sono serviti ai ragazzi ristretti a riflettere con maggiore attenzione sugli argomenti importanti che si accostano alla vita di tutti i giorni. L’occasione è servita all’Associazione "Gianfranco Troina" per pubblicizzare la sua attività sociale, attraverso un video promozionale e le parole della vicepresidente, Prof.ssa Eletta Perotto, coordinatrice del progetto "Vincere l’Indifferenza", che ha spiegato la mission dell’associazione sorta dopo la morte del giovane Gianfranco e a lui dedicata, fondata sui solidi valori dell’Amicizia e del sostegno ai soggetti più svantaggiati. Ilarità e commozione mista a un grande spettacolo che ha regalato intense emozioni ai giovani detenuti, ai volontari dell’associazione e a tutto lo staff dell’Istituto Penale Minorile. Finale letterario, con la commovente dichiarazione d’amicizia tratta dal "Narciso e Boccadoro" di Hermann Hesse. "Con questo spettacolo sull’Amicizia - conclude la prof.ssa Eletta Perotto, coordinatrice del progetto "Vincere l’indifferenza" - si chiude un percorso di crescita molto interessante e stimolante che è servito, non solo ai ragazzi ristretti, ma a tutti noi sul senso profondo dei valori che ci accompagnano durante il nostro cammino". Brescia: progetto Verziano della Compagnia Lyria, il palcoscenico è dietro le sbarre di Nino Dolfo Corriere della Sera, 9 maggio 2017 Il Progetto Verziano, elaborato da Compagnia Lyria presso l’omonima Casa di reclusione giunge alla sesta edizione. Una iniziativa nel segno dell’integrazione tra realtà carceraria e società civile che costituisce un fiore all’occhiello della nostra città. Si intitola Circostanze, lo spettacolo di danza finale del laboratorio creativo curato da Giulia Gussago, che ieri nella sede del Ctb, ente che collabora insieme al Ministero della Giustizia, ha illustrato il lavoro. Circa una settantina i partecipanti alla singolare esperienza (38 tra detenute e detenuti, 31 liberi cittadini; il primo anno erano solo 9 in tutto), che ha visto una prima fase formativa prima di iniziare l’attività creativa con l’obiettivo di produrre una performance finale. "Il mio lavoro - ha detto Giulia Gussago - è stato quello di capire in che modo mettere in risalto le migliori qualità degli individui, dando loro la consapevolezza di saper esprimere la parte dinamica di sé in termini di bellezza e comunicazione. Hanno scritto, si sono confrontati, hanno raccolto materiale prima di trasformare le parole in movimento. Lo spettacolo è composto da 9 quadri e tratterà di visioni, speranze, narrazioni e stati d’animo condivisi lungo un anno intenso". L’anteprima del 31 maggio, presso la Casa di reclusione di Verziano, è rivolta esclusivamente alla popolazione attualmente residente presso il carcere. Il debutto vero e proprio si terrà il 6 giugno al Teatro Sociale (ore 20.30; biglietto intero € 5, ridotto € 3, solite prevendite del Ctb). Ultima replica il 12 giugno (ore 21.30) ancora a Verziano con ingresso gratuito fino a esaurimento dei posti disponibili. Tutti i cittadini interessati a partecipare all’evento dovranno compilare entro e non oltre domenica 21 maggio il form di accreditamento disponibile sul sito internet compagnialyria.it. Il lavoro forzato e i diritti negati di Antonio Bevere* Il Fatto Quotidiano, 9 maggio 2017 Dopo il Primo Maggio, è utile soffermarsi su un recente saggio pubblicato nelle newsletter di "Questione Giustizia" online, in cui Roberto Roversi rileva la vulnerabilità dei diritti dei lavoratori e le modifiche normative che li rendono difficilmente difendibili. La compressione della legalità può essere conseguita oggi facendo leva anzitutto sulla situazione di soggezione di un lavoratore reso muto, indebolito, isolato e interscambiabile (grazie alla totale liberalizzazione dei contratti a termine per i primi tre anni, al licenziamento per semplice fatto materiale o per fini di profitto dell’impresa); disponibile, di fronte a una stentata crescita occupazionale, a lavorare a qualsiasi condizione (sia retributiva, sia in termini di sicurezza) ed a rinunciare anche ai diritti e alla loro tutela processuale: mentre l’illegalità del lavoro aumenta, mentre l’Inps certifica che nel 2016 sono aumentati anche i licenziamenti del 28%, i dati rilevano il crollo delle vertenze e dei processi. Nel settore privato, dal 2012 al 2016, il numero dei procedimenti giudiziali si è ridotto del 69%. Il grave livello di illegalità che resta civilmente impunito, secondo l’autore, non può "essere rigettato come corpo estraneo confinato nella sola dimensione penale"(che serve quasi a rilegittimare il processo di "normale" erosione in corso). Ove quest’ultima affermazione voglia intendere che si punti a privilegiare, sul piano dell’impegno governativo e dell’informazione, la repressione penale dello sfruttamento dei lavoratori italiani e stranieri, va rilevata l’opposta posizione politico-mediatica. Ritorno sul tema dell’incomprensibile ignoranza della maggioranza parlamentare e dei mezzi di informazione sulla pluriennale applicazione dell’art. 600 cod. pen., che, dal 2003, prevede la reclusione da 8 a 20 anni per il datore di lavoro che, approfittando della situazione di necessità del dipendente e in genere della sua vulnerabilità umana ed economica, lo sottopone a una continuativa limitazione della sua libertà, nonché a condizioni di lavoro pericolose e a retribuzione sproporzionata- mente inferiore alla qualità e quantità delle sue prestazioni. La disciplina del lavoro forzato prevede una sanzione che lo rende concretamente imprescrittibile nonché le possibilità del raddoppio della durata delle indagini preliminari. Su tutto ciò silenzio: nel corso dei lavori parlamentari e dei commenti sulla nuova disciplina dell’intermediazione illegale (l.29.10.2016 sul cosiddetto caporalato), si è inneggiato al superamento di un iniquo vuoto normativo, ostativo alla punizione della sfruttamento imposto dall’imprenditore o comunque dal datore di lavoro. Si omette però di rilevare che la pena è fortemente ridotta rispetto a quella prevista dal vigente articolo 600 del codice penale, essendo compresa tra uno e sei anni di reclusione, con tempi di indagini preliminari e di prescrizione conseguentemente più brevi. La Corte di assise di Lecce - che sta esaminando fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della nuova legge e qualificati secondo la precedente normativa - ci chiarirà i rapporti tra questo doppione di reati di sfruttamento dei lavoratori e se le pene richieste dal pm, tra i 7 e i14 anni di reclusione in caso di accertamento del delitto di lavoro forzato, siano compatibili con la normativa più indulgente. Come già anticipato, questo delitto ha come vittima ogni persona - italiana o straniera - che si trovi in una posizione di vulnerabilità, cioè che "non ha altra scelta effettiva e accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima". Questa posizione è ancora più debole per gli immigrati illegali che non denunciano gli sfruttatori, in quanto la loro collaborazione con la giustizia - funzionale al "premio" del permesso di soggiorno temporaneo - comporta l’autodenuncia del reato di immigrazione clandestina, ex art. 10 bis del T.U. sull’immigrazione. La pena pecuniaria - blanda ma non sopportabile dall’immigrato - è sostituibile solo con la sanzione dell’espulsione immediata. Di qui l’esigenza di abrogare questa norma o di collegarla a una specifica causa di non punibilità a favore dello straniero clandestino, che sia vittima di reati di sfruttamento (A. Caselli Lapeschi). Non va infine sottovalutato un aspetto a futura memoria che riguarda la tanto ambita sicurezza: i primari utenti del lavoro forzato e disumano stanno coltivando una filiera intergenerazionale di rancore e di risentimento da cui ragionevolmente potranno gemmare reazioni vendicative e distruttive, come è già avvenuto in paesi colonialisti della civile Europa. Almeno per questo cinico motivo, i governanti potrebbero frenare il ritorno a metodi schiavisti di produzione di beni e servizi, che, oltre ad essere moralmente e costituzionalmente indegni, sono estremamente sovversivi. *ex giudice della Corte di Cassazione Migranti. Una task force per controllare i Centri di accoglienza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 maggio 2017 Lo ha annunciato il Ministro degli Interni Marco Minniti e ha l’obiettivo di segnalare criticità. nei quattro Cie, Caltanissetta, Brindisi, Roma e Torino, al 30 dicembre 2016 risultavano trattenute 288 persone, su una capienza di 359 posti. Pronto un piano di ispezioni per controllare a tappeto tutti centri di accoglienza per gli immigrati. Ad annunciare la task force di persone altamente specializzate per i controlli è il ministro degli interni Marco Minniti, commentando un’operazione dei carabinieri in Calabria contro presunti sfruttatori di rifugiati ospitati in centri di accoglienza. Il programma prevede 2.130 controlli ai centri, compresi quelli attivati in via d’urgenza. "È nostro interesse - ha sottolineato Minniti - garantire la massima trasparenza nella gestione dei centri per i migranti e per questo ho disposto l’insediamento al Viminale di un Osservatorio permanente per il monitoraggio delle strutture di accoglienza su tutto il territorio nazionale che, avvalendosi di personale altamente specializzato e formato per lo specifico obiettivo, riferirà al ministro dell’Interno degli esiti e delle verifiche effettuate". Minniti ha inoltre ricordato che ai primi di marzo è stato predisposto il contratto tipo, concordato con l’Anac, che regola ogni appalto per la fornitura di beni e servizi, relativo alla gestione e al funzionamento dei centri per l’accoglienza dei migranti. La nota del ministero degli Interni è stata emanata all’indomani dello scandalo del caporalato all’interno di due centri di accoglienza emerso da una operazione giudiziaria condotta dalla procura di Cosenza. L’inchiesta è partita dopo la denuncia fatta lo scorso settembre da un nigeriano, Uyi Ekogiawa, ospite del centro di accoglienza "Villa Letizia" di Camigliatello Silano. Il rifugiato ha messo nero su bianco le condizioni di vita cui erano assoggettati, ma soprattutto, ha raccontato agli investigatori lo sfruttamento cui erano sottoposti lui e gli altri rifugiati. Dalla sua testimonianza è emerso che all’interno delle due strutture di accoglienza straordinaria di Camigliatello Silano (Cosenza), gli immigrati sarebbero stati costretti a lavorare dieci ore al giorno per un massimo di 20 euro. A sfruttarli, secondo l’inchiesta giudiziaria, sarebbero stati proprio i gestori dei centri. La procura della Repubblica di Cosenza, guidata da Mario Spagnuolo, ha chiesto ed ottenuto dal gip Salvatore Carpino 14 misure cautelari nei confronti di altrettante persone accusate di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, abuso d’ufficio e tentata truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Vicende giudiziarie a parte, gran parte dei centri di accoglienza e altri tipi di strutture per immigrati sono in condizioni allarmanti. Nel corso degli anni, la campagna LasciateCIEntrare ha denunciato una serie infinita di violenze, rivolte, atti di autolesionismo, suicidi e morti all’interno di varie strutture. Un sistema che ha già ampiamente dimostrato la sua dannosità ed inutilità. LasciateCIEntrare ha spiegato che ad oggi sono 4 i centri di identificazione ed espulsione operativi in Italia - Brindisi, Caltanissetta, Roma, Torino - dotati di 574 posti disponibili di cui effettivi 359. Al 30 dicembre 2016 risultavano trattenute 288 persone. L’istituto del trattenimento è di fatto una misura coercitiva che incide sulla libertà personale la cui natura giuridica si sostanzia in una forma di privazione della libertà, sia pure di natura amministrativa. Dal 1 gennaio al 15 settembre 2016, le persone transitate nei Cie sono state 1.968. Di queste, 876 sono state rimpatriate, circa il 44%. Migranti. Ecco i nuovi 11 centri per clandestini. "Identificare gli equipaggi delle Ong" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 9 maggio 2017 Il piano del Viminale per la gestione dei migranti. Gli sbarchi hanno superato la cifra record di 40 mila, oltre 10 mila in più dello stesso periodo del 2016. Nuova tragedia in mare: almeno 200 morti di fronte alla Libia. La lista è stata trasmessa ieri alle Regioni dal ministero dell’Interno. Contiene l’elenco dei luoghi dove sorgeranno i nuovi Cpr, i Centri permanenti per i rimpatri che sostituiscono i Cie. Primo passo per rendere operativo il piano per la gestione dei migranti. Mentre gli sbarchi superano la cifra record di 40 mila, oltre 10 mila in più dello stesso periodo del 2016, e almeno 200 persone sarebbero morte di fronte alle coste libiche, si cerca di rendere operativo il nuovo "pacchetto" approvato dal Parlamento. E si studiano le nuove regole per i soccorsi in mare: coordinamento affidato alla Guardia Costiera e registrazione di tutti i membri degli equipaggi delle navi delle Organizzazioni non governative. Nuova tragedia in mare - È stata proprio una Ong, la Medical Corps, a raccogliere le testimonianze dei naufraghi che hanno parlato di almeno 30 donne e nove bambini dispersi. Martedì mattina arriverà a Salerno una nave con 990 migranti. A bordo c’è il cadavere di un bimbo di 3 anni, mentre due giorni fa è sbarcato a Lampedusa un uomo con una neonata: la moglie è morta di parto mentre attendeva di imbarcarsi su una spiaggia libica. La prima lista delle nuove strutture - Dopo settimane di tentativi di mediazione con i governatori, la prima lista è stata definita. Entro luglio dovrebbero essere pronte le strutture per ospitare chi non ha diritto a rimanere in Italia e deve essere rimpatriato. In Lombardia è stata indicata la Caserma di Montichiari; in Friuli Venezia Giulia si rimetterà a nuovo il centro di Gradisca d’Isonzo; in Piemonte sarà ristrutturato il vecchio Cie; nel Lazio si userà quello già esistente di Ponte Galeria, a Roma; in Campania gli "irregolari" saranno portati nella Caserma Andolfato di Santa Maria Capua Vetere; per la Basilicata si è scelto Palazzo San Gervaso; in Sardegna si è optato per il carcere dismesso di Iglesias; in Sicilia sarà rimesso a posto il Cie di Caltanissetta; uguali modalità saranno seguite in Emilia-Romagna dove si è deciso di utilizzare il Cie di Modena; ma anche in Puglia con il Cie di Bari Palese; in Calabria gli stranieri saranno portati invece nella struttura Mormanno. Complessivamente sono 1.100 posti che dovranno comunque aumentare nel giro di pochi mesi. Al momento Veneto, Liguria e Toscana sono infatti escluse dalla distribuzione, ma dovranno poi indicare un luogo dove sistemare almeno 100 persone a testa. Domani saranno invece i Comuni a dover comunicare i luoghi per l’accoglienza dei profughi. Le regole del soccorso in mare - Questa mattina riprendono le audizioni di fronte alla commissione Difesa del Senato guidata da Nicola Latorre. Entro venerdì mattina l’organismo parlamentare dovrebbe rendere note le conclusioni raggiunte dopo aver ascoltato tutti coloro che si occupano di soccorso in mare. E soprattutto dopo aver raccolto le accuse pesantissime del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, che questa mattina si presenterà di fronte alla commissione Antimafia. L’orientamento è quello di "suggerire" la fissazione di almeno due nuove regole proprio per evitare "sospetti" contro le Ong che continuano a salvare migranti. La prima dovrebbe prevedere l’affidamento di tutte le operazioni di soccorso alla Guardia Costiera, che dovrà anche stabilire le "posizioni" in mare evitando che le navi arrivino troppo vicine alla Libia. Il monitoraggio delle navi pirata - Un’altra disposizione che potrebbe essere recepita dal governo è quella di registrare tutti gli equipaggi delle navi "private" proprio per evitare che possano esserci collusioni con i trafficanti. Le verifiche effettuate sinora avrebbero infatti escluso rapporti diretti tra Ong e organizzazioni, mentre potrebbero esserci stati contatti tra chi gestisce le partenze dalla Libia e chi si trova a bordo. La relazione di Latorre sarà depositata in Parlamento e poi trasmessa all’esecutivo. Migranti. Nuove tragedie in mare, l’intesa con la Libia non sia una presa in giro di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 9 maggio 2017 Il governo deve dimostrare di essere in grado di gestire il problema, anziché subirlo, prendendo decisioni che possano far funzionare la macchina del soccorso in mare e dell’accoglienza a terra. I numeri sono quelli dei momenti di maggiore emergenza. Perché lo sbarco di oltre 7.000 migranti in appena tre giorni e soprattutto i due naufragi al largo della Libia che avrebbero provocato circa 200 morti, forniscono il quadro di quel che sta accadendo nel Mediterraneo centrale. Ed è solo l’inizio. Con l’arrivo della bella stagione la situazione rischia di peggiorare gravemente, perché i trafficanti dimostrano di essere sempre più agguerriti, disposti a tutto pur di fare affari. Le dichiarazioni dei superstiti che raccontano di un gommone mandato alla deriva senza motore, rende bene l’idea di quale possa essere la strategia delle organizzazioni criminali: far partire comunque la maggior parte degli stranieri, mandandoli a morire se non c’è nessuno disposto a salvarli. Una sorta di ricatto nei confronti dell’Europa, in particolare dell’Italia, unico Stato che accetta l’attracco delle navi, anche straniere, nei propri porti. Ecco perché è necessario pianificare al più presto interventi che mettano ordine tra i soccorritori. Le Ong svolgono un’attività preziosa che non dovrebbe mai essere messa in dubbio. Anche per questo è necessaria una regolamentazione che le metta al riparo dall’accusa becera di essere al servizio dei trafficanti. L’ipotesi di affidare alla Guardia Costiera il coordinamento degli interventi in mare, sembra un primo passo efficace. Ma certo non risolve tutto. Il governo deve dimostrare di essere in grado di gestire il problema, anziché subirlo, prendendo decisioni che possano far funzionare la macchina del soccorso in mare e dell’accoglienza a terra. Ma soprattutto deve trovare un canale di dialogo con Tripoli che garantisca una collaborazione efficace nel controllo delle coste, visto che l’accordo siglato a febbraio prevede la consegna di mezzi e apparecchiature alla Guardia costiera libica. Per evitare che l’intesa si trasformi in una presa in giro. Migranti. Flavio Di Giacomo (Oim): "fuggono dalle violenze dei libici" di Carlo Lania Il Manifesto, 9 maggio 2017 "L’accordo siglato con la Libia non ha migliorato le condizioni di vita dei migranti". Con gli ultimi due naufragi sono saliti a 1.300 i migranti morti nel Mediterraneo, 1.200 dei quali nel Mediterraneo centrale che si conferma così la rotta pericolosa del mondo. Una rotta imboccata da quanti sperano di raggiungere l’Europa ma anche da coloro, e sono tanti, che cercano solo di sfuggire alle violenze subite quotidianamente in Libia. "Per i migranti violenze e abusi cominciano non appena entrano in Libia", spiega Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. "Sono vittime dei trafficanti ma anche di gruppi armati come gli Asma boys che organizzano vere cacce al nero, rapinano o rapiscono i migranti per poi chiedere un riscatto alle famiglie torturandoli in diretta al telefono per convincerle a pagare". L’Oim ha operatori in Libia. Cosa vi dice il vostro personale? I nostri operatori hanno effettuato alcuni ritorni volontari, soprattutto di nigeriani bloccati nei centri di detenzione. Detto questo la situazione è ancora molto difficile e le condizioni di vita nei centri sono inaccettabili. E sto parlando dei pochi centri governativi nei quali abbiamo accesso, cosa succeda negli altri non oso neanche immaginarlo. Anche ieri i miei colleghi mi hanno parlato di migranti bengalesi con evidenti segni di tortura sul corpo. Da quando l’Italia ha siglato un accordo sui migranti con il governo Serraj le cose non sono cambiate? No, anche perché poi nella pratica non so come sia andato a finire l’accordo. Dalle notizie che però ci arrivano non risultano miglioramenti nelle condizioni di migranti. Quando si dice che aumentano gli sbarchi bisogna usare prudenza, perché i calcoli si fanno a fine anno altrimenti si rischia di dare una percezione sbagliata. Adesso dovremmo essere al 30-40% in più rispetto all’anno passato, ma tra due mesi magari siamo scesi al 5%. Gli arrivi vanno a ondate e i 6.600 soccorsi in questi ultimi tre giorni, come gli 8.300 della scorsa settimana, non rappresentano una realtà nuova, l’abbiamo vista anche ad agosto scorso. È veramente difficile capire quale sia la strategia dei trafficanti, tra i quali ci sono parecchi gruppi in competizione tra loro e molti che si sono trasformati in trafficanti negli ultimi anni. Da qui è nata questa ulteriore crudeltà nei confronti dei migranti da parte di persone che non sono interessate a farli arrivare in Italia, ma solo a farli partire. Si accusano le navi che soccorrono i migranti di rappresentare un fattore di attrazione. Ed è uno sbaglio perché si dà una percezione errata del fenomeno. Bisognerebbe parlare di fattore di spinta, rappresentato non solo dai regimi e dalle guerre dalle quali i migranti scappano, ma anche dalle violenze che subiscono nei paesi di transito. Molti di loro ci dicono che volevano solo andare il Libia a lavorare ma che sono stati costretti a continuare il viaggio perché la situazione nel paese è troppo pericolosa per loro. Tra poche settimane diventerà operativa la guardia costiera libica addestrata dalla missione europea Sophia. Cosa vi aspettate? Da una parte è utile che ci sia la presenza di una forza di salvataggio vicino alla coste, perché alcuni naufragi avvengono lì e ce ne sono alcuni di cui nessuno sa nulla. L’altro lato della medaglia, però, è che quando le persone vengono riportare in Libia rischiano di finire nello stesso ciclo di violenza e abusi dal quale scappano. Che impressione le fanno le polemiche di questi giorni sulle Ong? Sono abbastanza preoccupanti, perché danno la percezione che salvare vite in mare non sia più quel limite che tutti consideravano intoccabile. In questo momento le attività di salvataggio vengono quasi colpevolizzate. Così si mina lo spirito di solidarietà che invece in alto mare non solo è etico, ma è un obbligo giuridico. Un’altra percezione sbagliata è che le Ong operino troppo vicine alle acque libiche, mentre invece è lì che bisogna stare perché è a ridosso delle acque libiche che ci sono i naufragi. Si accusano infine le organizzazioni umanitarie di salvare i gommoni anche quando non stanno naufragando, ma gommoni fatiscenti con 150 persone a bordo sono considerati imbarcazioni in difficoltà anche se non stanno affondando. Il problema vero, come ho già detto, sono i fattori di spinta e la mancanza di canali regolari anche per chi cerca lavoro. In mancanza di questo i migranti continueranno a essere vittime di violenza e le organizzazioni criminali diventeranno sempre più miliardarie. E non è certo il salvataggio in alto mare che provoca tutto questo, anzi. È come prendersela con l’ambulanza perché ci sono i malati. Bielorussia. Il colpo alla nuca in Europa: eseguita la prima condanna a morte del 2017 di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 maggio 2017 La notizia risale ad aprile ma, a conferma della segretezza che circonda l’uso della pena capitale nell’ultimo paese europeo che si ostina a usarla, la conferma si è avuta solo il 5 maggio. Syarhey Vostrykau, residente nella città di Homel, è stato il primo prigioniero messo a morte quest’anno in Bielorussia. Era stato condannato l’anno scorso per due delitti orribili: il rapimento, lo stupro e l’omicidio di due donne, nel 2014 e nel 2015. Nessuna scusante per questo assassino. Ma la stragrande maggioranza dei paesi ha ormai consegnato alla storia la pena di morte, anche nella convinzione che per quanto efferato possa essere un crimine, la risposta dello stato mediante un omicidio premeditato è inaccettabile. Secondo il portale Vyasna, la madre di Vostrykau è stata informata dell’esecuzione del figlio soltanto diversi giorni dopo. Come previsto dalla procedura, i parenti dei condannati a morte non vengono avvisati dell’imminente esecuzione e non possono incontrare per l’ultima volta i loro congiunti. A volte scoprono cosa è successo recandosi alla prigione per la visita, in altre occasioni quando ricevono un pacco contenente le scarpe e l’uniforme carceraria. Le salme non vengono restituite alle famiglie e vengono sepolte in luoghi di cui non viene resa nota l’ubicazione. In Bielorussia, le informazioni sull’uso della pena di morte sono classificate come segreti di stato. Pertanto, non è possibile conoscere il numero effettivo delle esecuzioni. Secondo il ministero della Giustizia, dal 1994 al 2014 sono stati messi a morte 245 prigionieri. Le organizzazioni per i diritti umani stimano che dal 1991, anno dell’indipendenza, i prigionieri messi a morte siano stati circa 400. L’anno scorso, le esecuzioni erano state quattro. Iraq. Dentro il carcere dei bambini soldato di Isis di Marta Serafini Corriere della Sera, 9 maggio 2017 Ahmed, Mohamed e Youssef - i nomi sono di fantasia per proteggere le loro identità - sono vestiti pesante, con le tute e le felpe, anche se fuori ci sono quasi 30 gradi. Per entrare nel centro di detenzione minorile di Erbil, capitale della Regione Autonoma del Kurdistan iracheno bisogna passare i controlli. Un metal detector e poi un altro. Una farfalla blu che vola sopra due mani chiuse dalle manette se ne sta lì dipinta sul muro del corridoio vicino alle celle. Ahmed, Mohamed e Youssef erano dei bambini iracheni che giocavano, andavano a scuola. I meno fortunati lavoravano. Dopo il 2014 Ahmed, Mohamed e Youssef sono diventati bambini soldato di Isis. Hanno sparato, hanno visto i compagni mandati al martirio. In alcuni casi hanno anche ucciso. E ora sono detenuti delle autorità curde. Sono oltre duecento i prigionieri minorenni sotto custodia del KRG a Erbil. Quindici sono stati giudicati colpevoli e gli altri 190 sono ancora sotto indagine. Tra loro c’è chi si è consegnato spontaneamente ai peshmerga, una parte invece è stata catturata in combattimento. Tutti, prima di arrivare nel centro di detenzione e andare a processo, sono stati interrogati dagli uomini di Asayish, i servizi segreti curdi. Le giornate non passano mai per Ahmed, Mohamed e Youssef. Strascicano i piedi tra la biblioteca e il campo da calcio, dove giocano quando non fa troppo caldo. Fanno lezione di inglese, ogni tanto vedono qualche film e parlano con lo psicologo. Se vogliono possono andare a scuola. "Quelli di Daesh (Isis, ndr) mi hanno detto "Fai il muezzin, sei affidabile", così mi hanno messo in mano un kalashnikov e mi hanno ordinato di fare la guardia a un tribunale", racconta Ahmed, 16 anni. Ahmed viene da Hammam Al Alil, una cittadina vicina a Mosul dove di jihad si è sempre parlato, dall’occupazione statunitense in poi. Sembra più grande della sua età. Ha le mani forti, come quelle di un uomo. Ma quando parla, non guarda mai negli occhi. "Ogni sera mi toglievano l’arma. Mi sono consegnato nel mio giorno di riposo", spiega strizzando le palpebre. Mohamed ha 14 anni. Ogni domenica e lunedì, per due ore, riceve le visite dei genitori che sono sfollati da Mosul a Erbil. La sera quando il guardiano grida di spegnere le luci, sente le serrature scattare e ripensa a quello che gli è successo. "Lavoravo in un campo di petrolio. Poi Isis mi ha addestrato per 38 giorni, all’uso del kalashnikov, dell’Rpg (il lanciarazzi) e del fucile da cecchino", racconta. Tra i suoi istruttori c’erano ceceni, russi, curdi e . Molti erano occidentali, francesi, inglesi, americani. "Ci facevano leggere il Corano tutti i giorni, da un lato ci facevano sentire importanti, dall’altro ci trattavano come bestie, chi osava protestare veniva portato via". A pranzo i ragazzi ricevono un piatto di riso e di pollo. Durante l’occupazione la prima cosa che gli uomini di Isis hanno fatto è stato prendere il controllo delle derrate alimentari e alcuni di loro sono malnutriti. Youssef, 17 anni ha delle cicatrici sul braccio. Sembrano incise con il coltello. Sono recenti, il rosso della carne viva ancora risalta, vicino al gomito. Se le copre con la mano. "Non ho mai maneggiato un’arma. Siccome tutti i dottori erano scappati, mi hanno preso per fare il medico. Un uomo più grande, un curdo, mi ha fatto vedere come cucire le ferite", dice. Youssef non è l’unico che nega di aver combattuto. Ma poi cade in contraddizione. "Mi hanno addestrato per otto mesi, mi hanno insegnato a sparare e a fare la lotta". Ogni venerdì Youssef vede un imam che cerca di spiegargli cosa significa essere un buon musulmano. "Estirpare certe idee non è possibile, si tratta piuttosto di modificarle", spiega il capo delle guardie. Per ora Ahmed, Mohamed e Youssef rimangono in carcere. Dopo il processo verrà deciso quanto sarà lunga la loro riabilitazione. Potrà durare anche nove anni. "Secondo il diritto internazionale questi ragazzi sono stati vittime di un crimine di guerra: usare i minori in combattimento è vietato dallo Statuto della Corte penale internazionale", sottolinea John Horgan, docente della George State University. Ma perché allora il carcere? "In guerra un 17enne viene considerato un soldato esattamente come un adulto, è un’aberrazione. Ma succede in Iraq, Siria, Afghanistan, Israele. A Guantánamo gli Stati Uniti hanno tenuto in cella almeno 15 ragazzi", recita un rapporto di Human Rights Watch. La motivazione dei governi è sempre la stessa: "Se sono un pericolo per la sicurezza, devono stare dietro le sbarre, anche se sono minorenni". Poi, quando le guerre finiscono, tutti si dimenticano di questi ragazzi. Ahmed, Mohamed e Youssef si stringono nelle loro felpe, il tempo per parlare è finito. Devono pulire i piatti del pranzo. Youssef prova a fare un sorriso. "Da grande voglio giocare a calcio come Messi, voglio uscire di qui, voglio diventare famoso", dice. Poi si gira e torna a strascicare i piedi e si incammina verso il corridoio dove c’è dipinta la farfalla blu. Iran. Sei anni in carcere per un blog: "ma oggi temo la censura dell’algoritmo" di Rosita Rijtano La Repubblica, 9 maggio 2017 Intervista a Hossein Derakhshan, considerato il "padre" della blogosfera iraniana. È stato in prigione nel suo paese dal 2008 al 2014. Ora parla della fine dei blog, delle fake news e del potere dei software in mano ai social. Nei primi anni duemila i blog sono diventati la sua religione. "Ho scelto la mia fede e ne sono diventato un profeta", dice. Hossein Derakhshan è considerato il papà della blogosfera iraniana. Un impegno cominciato subito dopo l’11 settembre 2001, quando l’attacco alle Torri Gemelle gli fa temere ripercussioni sull’Iran da parte degli Stati Uniti: "Volevo contribuire al dibattito pubblico per evitare strumentalizzazioni". Così Derakhshan apre un blog, invita e aiuta i connazionali a fare altrettanto. Sono in migliaia a seguire l’esempio nel giro di pochi mesi. Un’influenza pericolosa, tanto che nel 2004 il governo iraniano censura la sua pagina e nel 2008 il giovane è arrestato a Teheran. Con l’accusa di aver diffuso propaganda anti-regime e in favore di gruppi controrivoluzionari, offeso la religione islamica e cooperato con paesi ostili. La sentenza è di 19 anni di carcere, ne passa in prigione sei prima di ottenere il perdono. Certo, di finire dietro le sbarre ha ancora paura, anche se adesso lo preoccupa di più la "scure dell’algoritmo": "Oggi i responsabili della censura sono i social network". Derakhshan, quando è iniziata la sua passione per la tecnologia? "Facevo parte di una sorta di rete locale, chiamata bulletin board system: permetteva agli utenti di chattare e scambiare file attraverso la linea telefonica. Ero l’amministratore di un forum dedicato al cinema e così ho iniziato a collaborare con vari giornali nazionali tenendo delle rubriche che si occupavano di tecnologia, internet e cultura digitale". Poi ha deciso di aprire il blog. "Mi ero da poco trasferito in Canada, quando l’attacco alle Torri Gemelle mi ha fatto temere ripercussioni sull’Iran da parte degli Stati Uniti. Volevo contribuire al dibattito pubblico e ho scoperto i blog". Che cosa le è piaciuto di più di questo strumento? "Ognuno poteva, finalmente, essere l’editore di se stesso, senza venire soggetto alla censura di un altro. Era pura libertà di espressione". La considerano il "papà" dei blogger iraniani. Si riconosce in questa definizione? "Sì. In Iran i blog hanno democratizzato la scrittura e credo di aver avuto un ruolo importante in questo processo. Dopo aver aperto il mio, ho invitato i connazionali a fare altrettanto e li ho anche aiutati tecnicamente. Sono stato ore e ore al telefono a spiegarne il funzionamento, anche a famosi giornalisti a cui il regime aveva chiuso il giornale. Speravo che in un anno venissero creati cento blog, è bastato solo un mese". L’hanno arrestata nel 2008. "Me l’aspettavo, nei primi anni ero stato abbastanza critico nei confronti del governo. Ma negli ultimi no, anzi: il contrario. Quindi credevo che mi avrebbero tenuto in cella per uno o, al massimo, due anni. La sentenza a quasi vent’anni è stata uno shock, anche se dopo sei sono stato perdonato. In prigione ho letto tanto e imparato che per sopravvivere a un lungo periodo di isolamento è necessaria una grande immaginazione. Mi ha tenuto in vita il sogno di riaprire un blog nel momento in cui sarei uscito". Ma ha ancora senso essere dei blogger? "Non più, infatti non appena fuori ho capito che la mia idea era diventata irrilevante. Le piattaforme dominano lo scenario e il web aperto, di cui mi sono innamorato, sta morendo. È stato distrutto innanzitutto da Facebook. Poi da Twitter, Instagram e dagli altri social network. Sono loro i responsabili di una nuova forma di censura: aziendale e algoritmica". Cioè? "Oggi se discuti di argomenti poco popolari o hai opinioni differenti dalla massa, le persone non cliccano "Mi piace" ai tuoi post. L’algoritmo fa in modo che non vengano visti e che, quindi, la tua opinione non sia ascoltata. Questo ci spinge al conformismo e a rinchiuderci all’interno di determinate comfort zone. Non solo, se prima i blog generavano confronti profondi e interessanti, adesso a dominare sui social sono immagini e video. Internet è la nuova tv, una forma di intrattenimento". E delle fake news che ne pensa? "Penso che il dibattito sulle fake news sia, a propria volta, un dibattito fake. La disinformazione è sempre stata sfruttata a fini politici. Ma se la gente abbocca è per via di motivazioni più profonde e complesse". Si può fare qualcosa per evitare il peggio? "Resistere, in tre modi. A livello personale, possiamo provare a confondere l’algoritmo. Un metodo è, per esempio, quello di mettere like a tutto, a cose che in realtà non ci piacciono, o a cui semplicemente non siamo interessati. In secondo luogo, abbiamo bisogno di campagne sociali che forzino Facebook e compagnia a darci l’opportunità di personalizzare i nostri algoritmi, anche consentendo l’installazione sulla piattaforma di software sviluppati da terze parti. Infine, i governi dovrebbero intervenire in tale direzione dato che questi meccanismi regolano, ormai, ogni aspetto della vita quotidiana: da ciò che mangiamo a chi votiamo". Venezuela. La notte di Caracas di Omero Ciai La Repubblica, 9 maggio 2017 Un Paese alla fame e sull’orlo della guerra civile raccontato attraverso le storie di vita quotidiana di giovani, professionisti, anziani, studenti: la tessera per il razionamento alimentare, la mancanza di medicine, l’iperinflazione, il clima di insicurezza, la rabbia per le libertà civili violate. Con le strade trasformate in terreno di una battaglia campale infinita, il regime di Maduro si afferra al potere con un colpo di mano per cambiare la Costituzione. E l’opposizione politica grida al "golpe". La rivoluzione bolivariana, avviata da Hugo Chávez quasi vent’anni fa, si sta spegnendo in un sanguinoso caos. Perfino il procuratore generale dello Stato, Luisa Ortega Díaz, alto funzionario nominato dal potere chavista, ha condannato la violenza della repressione della Guardia Nazionale bolivariana contro le manifestazioni di protesta, che ieri ha fatto la 34esima vittima, un leader studentesco. Mentre Lilián Tintori, la moglie di Leopoldo López, leader oppositore, prigioniero politico da oltre tre anni, chiede "una prova di vita" del marito, e si è recata davanti al carcere dopo che si sono diffuse voci sull’aggravamento delle sue condizioni. L’altro ieri il presidente Maduro ha presentato la sua proposta per l’elezione di una nuova Assemblea Costituente, soluzione già respinta dall’opposizione che la considera soltanto un "nuovo tentativo di golpe". L’avvilupparsi della crisi politica, la carestia, e l’iperinflazione (che potrebbe arrivare al 1600% secondo l’Fmi nel 2017) hanno fatto fare crac anche a tutto il progetto del socialismo bolivariano sostenuto, almeno fino alle ultime presidenziali, aprile 2013, da una maggioranza, seppur limitata, della popolazione. Oggi il blocco sociale, che seguì il caudillo rivoluzionario morto nel 2013 e le sue promesse di riscatto sociale, è in minoranza. Per questo Maduro - che secondo i sondaggi ha ormai contro il 70% del Paese - ha rinviato le elezioni, amministrative e regionali. E per questo, insieme alla miseria sempre più drammatica nel Paese, l’opposizione si è lanciata in piazza. Se si votasse ora, il destino del presidente sarebbe segnato. Così Nicolás Maduro rischia di convertirsi sempre di più in un autocratico satrapo d’altri tempi, che balla salsa in tv, mentre la Guardia Nazionale reprime le manifestazioni di protesta. Vie d’uscita però non se ne vedono e anche il Vaticano, che nei mesi scorsi guidò una trattativa per un compromesso fra governo e opposizione, giudica ora "quasi impossibile" una nuova mediazione. La notte del Venezuela non è ancora finita. La folla ondeggia lungo l’autostrada. Hanno già capito che la Guardia Nazionale sta per attaccare lanciando lacrimogeni. Come sempre, ormai da più di un mese, gli agenti impediscono il passo al corteo che vuole raggiungere la sede del Consiglio elettorale per chiedere elezioni al più presto e la liberazione dei prigionieri politici. I lacrimogeni scoppiano e il corteo retrocede prima di disperdersi lungo le vie laterali. È difficile che vengano a contatto, agenti e manifestanti. I primi sparano gas da lontano, gli altri tirano sassi e restituiscono i lacrimogeni che raccolgono. Quando il corteo più grande si disperde, in strada restano soprattutto i più giovani e iniziano tante piccole battaglie campali avvolte nel fumo dei gas. Ormai ogni pomeriggio. Trentatré morti, centinaia di feriti e arresti. Una delle ultime vittime mercoledì a Caracas, un ragazzo di 17 anni. Armando Cañizales. L’aspetto più odioso è la guerra mediatica sulla responsabilità dei morti. "Il governo mente ", dicono i ragazzi. "Siete tutti terroristi", rispondono le autorità. Mentre le indagini annaspano in questo Paese che galleggia nell’intolleranza reciproca. L’inflazione è un delirio. Nove mesi fa un cartone da dodici uova costava duemila bolivar, all’epoca 2 dollari e mezzo. Oggi in dollari costa lo stesso prezzo ma i bolivar necessari per acquistarlo sono diventati 10mila. Le vecchie monete sono carta straccia. Tanto che il governo, dopo molte resistenze, è stato costretto a emettere nuovi biglietti da 5 e 10mila bolivar per evitare che si dovesse andare a far la spesa con la carriola piena dei vecchi biglietti da cento. Quelli nuovi li stampano soprattutto in Svezia ma siccome non ne sono mai arrivati abbastanza la gente paga qualsiasi cosa, anche un caffé, con bancomat e carte di credito. Comprare però non dipende solo dalla tua capacità di acquisto. Il pane proprio non c’è. Nemmeno l’olio, il latte, il burro, il sapone. Una scatoletta da tre pezzi di Baci Perugina costa il dieci per cento di un salario normale, che qui si chiama mínimo e corrisponde a 60mila bolivar cash più una tessera che serve solo per gli alimenti e vale circa 100mila bolivar. A queste cifre, una famiglia normale di quattro persone resiste al massimo una decina di giorni. Così chiunque incontri ti racconta di ragazzini che svengono di fame sui banchi di scuola perché nelle baraccopoli sui cerros, le colline che cingono Caracas, spesso l’unica pietanza non è altro che un tubero, la yuca, a pranzo e a cena. L’effetto più impressionante di questa carestia ce lo fa notare Silvana: "Lo vedo nei miei amici che nel corso dell’ultimo anno sono dimagriti sette o otto chili ma siccome non hanno i soldi per comprare nuovi vestiti, deambulano dentro camicie e pantaloni che gli stanno due o tre taglie più grandi". Per contenere scontento e rabbia, il governo ha lanciato un programma, affidato alle Forze armate, che si chiama Clap. Una busta con prodotti di base (riso, farina di mais, margarina) da distribuire a prezzi calmierati legata a una tessera di razionamento, "il carnet della Patria", che serve anche per manifestare il proprio appoggio alla "rivoluzione socialista". "In Venezuela c’è una situazione allarmante", dice. Nel 2016 nel Paese ci sarebbero stati più di 200mila casi di malaria, il cinquanta per cento di tutti quelli registrati nel subcontinente americano La speranza del presidente Maduro era di riuscire a distribuire otto milioni di Clap una volta al mese ma oggi non si arriva neppure alla metà. La ragione è brutale come la fame. I fondi dello Stato apparentemente non bastano per importare e distribuire a prezzi calmierati. E solo la Russia di Putin concede ancora crediti al Venezuela chavista. Ogni volta che affronta il tema dell’inflazione nei suoi numerosi comizi, Maduro lancia lo slogan del congelamento dei prezzi e ordina di formare milizie civili per controllarli. Combatte l’inflazione con la propaganda. Vivere di baratto - Ma torniamo a Silvana perché la sua storia, professionale e umana, è un buon paradigma per rileggere il ventennio rivoluzionario. Silvana Peñuela, 63 anni, è ingegnere civile. Specializzata in acquedotti. Nel 2004 firmò per ottenere la convocazione di un referendum contro il presidente Chávez. L’opposizione, all’epoca minoritaria, lo perse. E la vendetta del caudillo militare fu veramente malvagia. I nomi dei due milioni di persone che avevano sottoscritto il referendum vennero divulgati e tutti quelli che avevano un impiego statale furono licenziati, in una caccia alle streghe che fu la prima vera azione totalitaria del nuovo ordine. Da allora Silvana non ebbe più un contratto di consulenza pubblico come ingegnere civile. "Ma al di là della persecuzione politica - racconta -, la verità è che in tutti questi anni il governo si è completamente disinteressato dell’acqua. Non ha realizzato nuove infrastrutture, né riabilitato e innovato quelle esistenti con il risultato che in molte zone della capitale l’acqua potabile è razionata. C’è chi la riceve mezz’ora al giorno, chi dieci minuti per tre volte al giorno, chi non la riceve per settimane. Così ho fatto solo consulenze private, poche. Poi ho accettato di fare l’amministratrice di un ristorante che adesso è stato costretto a chiudere. I prezzi sempre più alti, i clienti sempre di meno. Nessuna attività resiste in queste condizioni. È come se ci stessimo tutti ibernando. Mangiamo sempre meno, usciamo sempre meno. Per risparmiare le energie come in un lungo letargo. Oggi sopravvivo con il baratto. Un esempio? La mia amica dentista viene a Caracas una volta al mese. Io vado a prenderla all’aeroporto - qui la benzina non costa niente - e lei mi fa la pulizia ai denti gratis. Oppure preparo da mangiare per signore più anziane di me che non possono uscire di casa. Non vado più nemmeno al cinema. L’emergenza sanitaria negata - Chi paga il prezzo più alto del disastro e dell’inettitudine di un governo che si rifiuta di dichiarare l’emergenza umanitaria anche se nel circuito della sanità pubblica sono introvabili l’85% delle medicine, sono i malati. Susana Alvarez, 39 anni, impiegata che vive a Curiacao, estrema periferia ovest di Caracas, ha perso una figlia di cinque anni, Daniela, perché negli ospedali non ci sono più macchine per eseguire una Tac. E il tumore al cervello di Daniela è stato diagnosticato con mesi di ritardo. "L’ultimo esame, una biopsia che rivelava il tipo di cancro che aveva, l’ho ricevuto il giorno del suo funerale", racconta. "Noi non avevamo la possibilità di rivolgerci a strutture private e oggi in Venezuela attraversare gli ospedali pubblici è angoscioso. Daniela è stata in ospedale cinque mesi, in una stanzetta con gli scarafaggi, senza aria condizionata, con le zanzare. Non c’erano medicine e io e mio marito doveva cercare e comprare quelle che i medici scrivevano nelle ricette, all’inizio sbagliate perché nessuno aveva capito cosa avesse. Da allora la situazione è persino peggiorata. Dopo la morte di mia figlia faccio la volontaria nell’ospedale. È un tormento". Qualcuno racconta di medici che usano pezzi di buste di plastica al posto dei guanti. Un’altra volontaria, Sandra Perdomo, della Ong oncologica Usum che assiste pazienti terminali, "quelli che nessuno vuole", traccia un quadro spaventoso: "Non c’è nemmeno la morfina, non è possibile morire con dignità". Un altro aspetto è la censura sui dati, per esempio quelli sull’aumento della mortalità infantile. E la diffusione di malattie infettive come la malaria, il dengue e la chikungunya. Nel 2016, ma i calcoli non sono ufficiali, in Venezuela ci sono stati più di 200mila casi di malaria, il 50% di tutti quelli registrati nel sub continente sudamericano. "Una situazione allarmante", sottolinea l’infettivologo Julio Castro. Sandra insiste non solo sull’assenza di medicine ma anche sulla dubbia qualità di alcune di quelle generiche che si usano. "Preferisco un farmaco scaduto prodotto da Novartis che un generico fatto a Cuba. Perché l’ho visto. Alla fine della terapia con i generici ho visto pazienti stare peggio di quando l’avevano iniziata. Risultato zero". Ma in Venezuela, denuncia Sandra, ormai c’è il mercato nero delle medicine. "Non degli antibiotici, che pure mancano, ma dei farmaci per i casi più gravi, quelli dove la disperazione delle famiglie può costringerle a indebitarsi in qualsiasi modo". Senza chemioterapia - È mattina presto e dalla terrazza di casa di Annamaria, in un quartiere di ormai ex classe media, California norte, si vedono nella piazzetta quelli che rovistano nei sacchi dell’immondizia lasciati la sera prima dai condomini dell’edificio "Berna". Prima arrivano i più anziani che rovistano cercando un pezzo di pane o l’avanzo di una cena. Poi quelli che cercano oggetti di plastica da riciclare. Aprono i sacchi, gli danno un calcio per svuotarli, e prendono le bottigliette dell’acqua minerale. L’ultimo passaggio è di quelli che cercano pezzi di ferro, rame, ottone. "È così da mesi", dice lei che li osserva dall’alto mentre qualche vicino passeggia il cagnolino. Annamaria Cappella è una logopedista che segue soprattutto bambini in un istituto pubblico. Ha 53 anni, vive con la madre, Nelly, 84, e un figlio adolescente. Con quello che guadagna lei, e la pensione di sua madre, adesso mangiano una settimana. Un anno e mezzo fa è stata operata di un tumore al seno, grazie a un chirurgo che ormai ha lasciato il Paese, quasi gratis in una clinica privata. "Da allora, non so più nulla della mia malattia. Non ho potuto fare una scintigrafia per verificare metastasi alle ossa perché non ci sono gli strumenti adatti. Ma soprattutto non ho potuto curarmi. Fare la chemio e la radioterapia. Ho bisogno di un farmaco che si chiama "Herceptin", lo produce l’azienda farmaceutica Roche. È l’unico farmaco che posso prendere, ho provato con altri generici che venivano dall’Uruguay, ma mi alterano tutti i valori. Fino a qualche anno fa "Herceptin" lo importava il ministero della Sanità ma ormai è quasi introvabile anche volendo comprarlo privatamente. Dopo l’operazione avrei dovuto fare sedici sessioni di chemio con le ampolle "Herceptin", una ogni tre settimane. Ne ho trovate solo quattro in tutto, a distanza di tempo l’una dall’altra e, in questo modo la chemio non serve a niente, perché bisogna rispettare le scandenze delle sessioni. Che altro posso fare? Soltanto sperare di sopravvivere il più a lungo possibile senza cure". Il quartiere dove vive Annamaria si è molto degradato dall’inizio della crisi. Edifici di impiegati statali, professori, maestri di scuola, che adesso subiscono le scorribande della piccola criminalità. Così adesso l’oggetto più importante che possiede è un fischietto come quello degli arbitri nello sport. Serve per dare l’allarme se qualcuno prova a svaligiare una casa o a aggredire un vicino. Si sono organizzati così. Il sistema del fischietto è diffuso in tutto il quartiere. E Annamaria, almeno di questo, va fiera. Le Forze armate - Adesso tutti guardano alle Forze armate. I dirigenti dell’opposizione, soprattutto il presidente del Parlamento, Julio Borges, continua a fare appelli ai militari affinché non seguano Maduro nei suoi propositi di posporre sine die le nuove elezioni. Analisti e giornalisti osservano ogni minimo movimento per individuare fratture all’interno dell’esercito mentre il presidente, ogni tanto fa arrestare qualche ufficiale, di solito già in pensione, accusandolo di "preparare un complotto" contro di lui. Nel governo venezuelano ci sono undici generali su 34 ministri. Sono in posti chiave come al ministero degli Interni. Non è una novità ma nel corso di questa crisi sono gli alti gradi delle Forze armate il vero sostegno a un governo circondato dalle proteste. Alcuni generali, come per esempio Nestor Reverol (Interni), sono ricercati dalla giustizia americana per narcotraffico e corruzione. Secondo Cliver Alcalà, generale in ritiro, che fu a suo tempo un uomo di fiducia di Hugo Chávez, la fedeltà delle Forze armate è dovuta soprattutto ai timori per il futuro. "Più che per convinzione, appoggiano Maduro per paura. Le Forze armate sono spaventate perché molti pensano che la loro libertà e la loro vita, il loro patrimonio personale, dipendono dalla stabilità dell’attuale governo. Credono che con l’opposizione al potere sarebbero perseguitati". La compenetrazione tra le Forze armate venezuelane e la rivoluzione bolivariana risale ai primi anni della presidenza di Chávez. Ma con l’elezione di Maduro e l’esplodere della crisi economica il legame tra i militari e i civili al potere è diventato ancora più forte. Della produzione, distribuzione, e importazione di alimenti oggi in Venezuela si occupano i militari. E qui viene la seconda ragione dell’appoggio incondizionato a Maduro: gli affari. Una delle colossali distorsioni economiche della rivoluzione è il controllo del cambio. Iniziò nel 2003 e oggi ci sono in Venezuela due tipi di cambio per il dollaro e l’euro. Uno fisso, che non ha alcuna relazione con il valore reale della moneta nazionale e un altro variabile, ma sempre controllato, che si applica per esempio al turismo che ormai non c’è più. Mentre il valore reale del dollaro sul bolivar è circa 1 a 4000, quello fisso è 1 a 10. Il cambio fisso è quello che il governo utilizza per finanziare le importazioni. E qui iniziano disastro e business. Poniamo il caso di una società che vuole importare pasta. Andrà dal governo a chiedere un finanziamento a tasso fisso, 1 dollaro 10 bolivar, per fare l’operazione. Ma sarà sufficiente che non investa tutto il denaro che ha avuto nell’import per speculare rivendendo sul mercato interno a cifre molto maggiori un dollaro che ha avuto a costi stracciati. È in questo semplicissimo modo che decine, o meglio centinaia, di funzionari governativi e generali hanno potuto fare affari da capogiro. Ed è in questo modo che nacque, quando le entrate del petrolio nel primo decennio di Chávez andavano ancora a gonfie vele, quella che si chiamò la boliborghesia, la nuova borghesia bolivariana. Con questo sistema infatti completamente accentrato da chi sta al governo, chi sta nel giro giusto ottiene i benefici, chi non ci sta fallisce. Sotto la lente della giustizia internazionale non c’è solo la corruzione e il narcotraffico - (fino a che i guerriglieri delle Farc non hanno concluso l’accordo di pace con il governo colombiano, il Venezuela ha favorito le loro operazioni con la droga) - ma anche i diritti umani. Al generale Antonio Benavides Torres, comandante della Guardia nazionale bolivariana (GNB), quella che in questi è in prima linea nella repressione delle marce di protesta dell’opposizione, è stato proibito dal 2015 l’ingresso negli Stati Uniti, paese dove sono stati congelati anche tutti i suoi beni per violazione dei diritti umani. L’emigrato italiano che non può tornare - L’albergo che ci ospita in questi giorni è praticamente vuoto. Alla colazione non c’è nessun tipo di pane e ogni giorno che passa i cibi, disposti su un bancone di marmo scuro, diminuiscono. Non c’è marmellata, non c’è burro. Nessun dolce. Lo zucchero è razionato. Quando prendi il caffé si avvicina un cameriere e ti allunga una bustina. Una volta questo era l’albergo che ospitava i manager stranieri che venivano a firmare contratti con Pdvsa, la holding statale venezuelana del petrolio. Oggi i suoi diciannove piani sono occupati appena da qualche famiglia cinese. Di solito molto giovani. Sono i tecnici che verificano le partenze del greggio verso la Cina che a Chavez prestò moltissimi soldi, tutti già spesi, in cambio di oro nero fino al 2025. Nella hall, Pedro, uno degli impiegati più anziani ha l’aria sconsolata: "Quanto potremo andare avanti così?", si chiede mentre osserva i ragazzi che hanno eretto piccole barricate per bloccare il traffico lungo la strada. "Presto - aggiunge - i proprietari dell’albergo ci manderanno tutti al mare". Infatti, quanto si potrà andare avanti senza una svolta? Angelo è italiano. Oggi ha quasi sessant’anni ma emigrò in Venezuela che era adolescente, più di quarant’anni fa, da un paesino dell’Abruzzo. Uno dei tanti artigiani che hanno fatto un pò di fortuna. È proprietario di una vetreria con otto operai. E non si dà pace perché da mesi ogni giorno rischia di dover chiudere per fallimento. La società che importa lamina di vetro da lavorare in Venezuela è stata nazionalizzata qualche anno fa. Ma da tempo non riceve dollari a prezzo privilegiato del cambio ufficiale e Angelo è senza materia prima. "Anche l’avessi - dice -non sarebbe diverso. Chi ha bisogno di specchi per rinnovare un negozio? Un ristorante? Un bar? In questa situazione nessuno". Negli ultimi cinque anni, sono cifre ufficiali della Camera di commercio, sono fallite mezzo milione di piccole e medie imprese. Erano 750mila, sono 250mila. Più in generale nel corso del 2016 sono andati perduti 750mila posti di lavoro, dei quali 550mila nel terziario e nei servizi. Gli ultimi sono i 3mila operai della fabbrica Chrysler di Valenzia che ha chiuso una settimana fa. Gli italiani con passaporto in Venezuela sono circa 150mila ma gli oriundi sono quasi due milioni. Angelo potrebbe tornare in Italia ma non vuole e non può farlo. "Non mi piace l’inverno", scherza, "Ma la verità è che dopo più di quarant’anni tornerei senza un soldo, senza un futuro. Sono carcerato qui come tanti altri. Vendere l’attività è impossibile, come vendere la casa che ho comprato. Che torno a fare in Italia?". Anche senza pensione, verrebbe da aggiungere, perché in violazione dell’accordo bilaterale, Caracas da diciotti mesi non sta inviando la pensione agli italiani - circa un migliaio - che ne avrebbero diritto per avere versato i contributi in Venezuela. Quelli che se ne vanno - I venezuelani che hanno lasciato il loro Paese in questo ventennio bolivariano sono più di due milioni. Darío, 23 anni, lo sta per fare. È insegnante di lingue e la società per cui lavora ha ottenuto un contratto per insegnare inglese a Panama. Chiudono gli uffici a Caracas e se ne vanno. Darío con loro. "Finalmente esco da quest’incubo, sono felice". Prima, fino a ieri, Darío andava alle marce dell’opposizione. Uno di quei ragazzi che vanno in piazza con un casco in testa, uno scudo e un fazzoletto bagnato nell’aceto per non respirare i gas dei lacrimogeni. La forza d’urto dell’opposizione. Darío non è d’accordo con la via pacifica. Pensa che bisognerebbe scontrarsi con la Guardia Nazionale, sfondare i cordoni e raggiungere l’obiettivo previsto: la sede del Cne, il Consiglio nazionale elettorale. "Oggi la repressione è molto più dura del 2014 - quando all’inizio della carestia ci fu la stagione delle proteste studentesche - ma noi siamo anche molti di più e molto più determinati. Con queste manifestazioni non andiamo da nessuna parte". Il dibattito sulla violenza è acceso nell’opposizione. La maggior parte dei leader sostiene la via gandhiana e teme che reagire finisca per fare il gioco del governo che, soprattutto all’estero, cerca di accreditare l’idea che i manifestanti siano dei "terroristi". La guerra mediatica si gioca anche sulle vittime. Ma il vero pericolo per chi marcia non sono i lacrimogeni, gli arresti - e le torture di cui parlano tutti - quanto piuttosto i "colectivos", le milizie paramilitari pro governo, che spesso hanno attaccato i cortei di protesta sparando. I "colectivos" nacquero come strumenti di controllo nei barrios più poveri all’inizio della rivoluzione. Un pò sull’idea dei Cdr cubani. Li fondò Lina Ron, una pasionaria di Chávez. All’inizio gestivano nei barrios la fedeltà al progetto. Con il tempo si sono trasformati. Alcuni si limitano a organizzare le file nei negozi per la spesa, mentre altri sono quelli che sequestrano e trafficano con la droga. Ad un amico di Darío è successo. "Era il dottore in una farmacia. Una sera tardi l’hanno sequestrato e portato sui cerros. Dopo avergli rubato tutto, l’hanno abbandonato nudo sull’autostrada alle tre di notte. I "colectivos" agiscono nell’impunità più assoluta. Un giorno Chávez promulgò una legge secondo la quale le zone più popolari, i barrios, sono "aree di pace" dove la polizia non ha alcuna giurisdizione. Non possono nemmeno entrare. Questo permette ai "colectivos" di fare quello che vogliono. Ti rapiscono, ti portano in un barrios e nessuno gli dice niente". "Maduro - dice ancora Darío - ha perso l’appoggio dei più poveri che avrebbe dovuto difendere. Nelle baraccopoli i "colectivos" minacciano tutti, altrimenti la gente si sarebbe già ribellata". Prima di lasciare il Paese, Darío sta vendendo i suoi oggetti più pregiati. Due skateboard, la chitarra e la playstation, tutti regali che gli hanno fatto i suoi genitori anni fa. "Non ce la faccio più a vivere qui". "La mattina esco di casa e vedo persone che cercano nella spazzatura, vado alla metropolitana e vedo persone che rovistano nei cassonetti. Per fortuna lavoro e non soffro la fame ma con quello che guadagno non posso neanche comprarmi un paio di pantaloni nuovi. Ho solo un paio di scarpe bucate che mi hanno regalato. Come è possibile tutto questo nel Paese che ha le maggiori riserve di petrolio al mondo?" Tornerai se cade Maduro? "Penso di sì". Il padre medico e le proteste - "Quando mio figlio l’altra sera a cena mi ha detto: ‘Papà voglio scendere in piazza a protestarè, mi si è fermato il cuore. Pensare che un ragazzo di 18 anni, mio figlio, con ancora tutta la vita davanti possa morire, o essere arrestato, per questa situazione assurda che viviamo mi getta veramente nel panico". Iñigo Carril a Caracas è ancora un privilegiato. È ginecologo nella clinica privata "El Avila". Sua moglie Carolina è dentista. Avrebbe dovuto riceverci anche lei ma è a letto con l’epatite, forse provocata proprio dalle condizioni igeniche del Paese. Hanno tre figli, il maschio diciottenne e due gemelle di sedici anni. Il progetto era che i tre ragazzi andassero tutti a studiare in una Università negli Stati Uniti appena finito il Liceo. Legge o medicina. Ma adesso non possono più permetterselo. Il ragazzo andrà in Spagna, che costa meno. Questa ennesima crisi politica, dopo che il Tribunale supremo ha provato ad abrogare il Parlamento tutto in mano all’opposizione, li ha colti di sorpresa. "A dicembre del 2015 pensavamo davvero di avercela fatta. Dopo anni tutti quei voti all’opposizione, il 56,2%, e 112 deputati, la maggioranza assoluta". Per molti furono giorni felici. Pensavano che la rivoluzione bolivariana fosse al capolinea. Che Maduro, eletto due anni prima con appena 200mila voti di vantaggio, ormai fosse prossimo alla caduta. Invece il peggio doveva ancora arrivare. Il presidente si è arroccato, ha rinviato prima le nuove elezioni amministrative, poi quelle per i governatori degli Stati. E, con qualche astuzia, grazie al fatto che il Psuv, il partito socialista unito fondato da Chávez, ha il controllo maggioritario di tutte le istituzioni dello Stato - tranne l’Assemblea nazionale - è riuscito anche a evitare il referendum per il quale erano state raccolte più di due milioni di firme e che avrebbe potuto costringere il presidente alle dimissioni. Per un medico professionista come Iñigo, che in fondo con la politica ha un approccio superficiale, gli scenari peggiori sono arrivati tutti insieme. Il suo lavoro e quello di sua moglie sono diventati sempre più difficili. E non solo perché è quasi inutile prescrivere una medicina, tanto non si trovano. Non si possono neppure comprare nuovi strumenti, stare al passo con le novità tecnologiche, i nuovi macchinari, fare esami. Una generazione di medici che rischia di tornare indietro di vari decenni. "Così non solo - dice -oggi in Venezuela non puoi comprare una casa, cambiare una macchina, andare in vacanza, non puoi neppure aggiornarti né lavorare con un minimo di soddisfazione. Viviamo in un territorio senza regole, un nuovo Far West". "Qui - aggiunge - non solo è morta la chirurgia plastica. È impossibile anche applicare cure sulla fertilità, o fare gli esami clinici minimi e consueti a una paziente. Tutte le grandi compagnie farmaceutiche internazionali hanno abbandonato il Paese da tempo. E noi sopravviviamo grazie a qualche "angelo viaggiatore", li chiamiamo proprio così, che porta prodotti medici dall’estero. Spesso a prezzi proibitivi e senza alcun controllo sanitario reale". L’ex chavista - "Questo mese - racconta Luis - per punizione non hanno portato le buste del cibo, i Clap, a tutto il nostro condominio. È successo che una sera abbiamo partecipato a un cacerolazo, sbattendo pentole e padelle dalle finestre per una mezz’ora contro l’aumento dei prezzi e non solo. Qualcuno deve aver preso nota degli edifici che aderivano alla protesta e i soldati con i viveri qui davanti non si sono fermati. Cinquanta metri prima e cinquanta metri dopo sì, ma qui da noi no. Siamo andati a chiedere e ci hanno detto che era solo per questa volta, se ci comportiamo bene il mese prossimo ce li riportano". Luis ha 43 anni, moglie e due figlie adolescenti. Come sua moglie ha sempre votato per Chávez "perché ha dato una dignità ai poveri". Alle ultime presidenziali, quelle dell’aprile 2013, convocate appena un mese dopo la morte del caudillo rivoluzionario, ha votato per Maduro. "Perché era stato scelto da Chávez come suo erede". Oggi, mentre il Venezuela sembra avviarsi verso la dittatura di una minoranza che si rifiuta di cedere il potere, Luis non è solo deluso, è anche arrabbiato. Non tanto da andare alle manifestazioni, ma abbastanza da giurare di non votare mai più "per la rivoluzione". Anche lui sognava di mandare una delle due figlie a studiare all’estero. Ma adesso con la moneta nazionale in picchiata "con quali soldi posso farlo?". Cresciuto in una famiglia molto povera ha sempre fatto lavori saltuari, legali ma esentasse. Finché non s’è inventato un sistema che gli ha dato un pò di dollari. Compra oggetti di uso quotidiano e va a rivenderli all’Avana, Cuba. "In realtà - confessa - non ho inventato niente mi hanno raccontato che qualcuno lo faceva e ho provato". La parte più difficile dell’operazione è la dogana all’aeroporto di Caracas, dove bisogna dare qualche soldo all’agente. Invece all’Avana chiudono un occhio sulle due valigie pesanti che trascina. Grazie alle relazioni fraterne del governo bolivariano con quello castrista, il biglietto aereo costa poco, e alcuni oggetti come il fon che stira i capelli ricci e crespi delle mulatte cubane vanno a ruba nell’altra metà del socialismo caraibico. "Ma si vendono bene anche i leggins "Licras", le scarpe, le calze, la cheratina che usano per allisciare i capelli e i deodoranti che però ormai qui a Caracas non trovo più. In una settimana posso guadagnarci 200 dollari che è molto di più di qualsiasi stipendio che prenderei qui". Un altro lavoro saltuario di Luis è l’immigrante negli Usa. Da qui ci vanno con un visto turistico ma appena arrivano si mettono a lavorare. Di solito in Florida. L’ultima volta Luis piantava giardini nelle ricche ville di Miami. "Mi sono venuti i calli alle mani". Tornando al Venezuela la sua preoccupazione è la dittatura. "Non voglio vivere dove c’è un tiranno", dice. La classe media all’inferno - La storia di Mercedes è la rappresentazione della lenta discesa all’inferno della classe media venezuelana nel ventennio chavista. "Per la verità, dice lei, la mia vita è davvero cambiata negli ultimi sei o sette anni. Io lavoro al Seniat, ministero delle Finanze, l’organismo che si occupa delle tasse e delle dogane. Oggi ho 46 anni ma quando ci sono entrata, vincendo un concorso, il Seniat era uno dei tanti gioielli dell’amministrazione dello Stato. Apparato tecnico con professionisti di alto livello, ben preparati e anche molto ben pagati. Adesso invece è tutto rovesciato. I professionisti che c’erano non ci sono più, sono stati tutti cacciati per ragioni politiche, perché si opponevano al governo o perché avevano firmato qualcosa che non andava bene. L’anno scorso ne hanno licenziati altri mille perché avevano sottoscritto la richiesta di referendum contro Maduro. Il Cne, Consiglio nazionale elettorale, dovrebbe mantenere segreti i dati delle persone ma non lo fa. Io per fortuna non ho mai firmato niente contro il governo, la politica non mi interessa, ma sono crollata lo stesso nella miseria. In realtà - aggiunge Mercedes - per essere cacciati da un impiego pubblico in Venezuela basta anche meno di una firma. Se mettessi una foto di Capriles, uno dei leader oppositori, sul salvaschermo del mio telefonino sarei fritta. Quando iniziai a lavorare nel Seniat il mio stipendio equivaleva a settemila dollari, oggi ne vale poco più di dieci. Avevo una colf a casa, ho dovuto licenziarla. Non ho i soldi per pagare il condominio e neppure l’assicurazione dell’auto. La polizza di assicurazione privata non ho potuto rinnovarla. Mangiare fuori? Quello che prima era qualcosa di abituale o quotidiano come andare in un bar e prendere un caffè con un pezzo di torta, che era la mia merenda di tutti i giorni, adesso è un lusso da evitare. Comprare vestiti, andare dal parrucchiere. Impossibile. Ma perfino comprare smalto per le unghie. Una situazione molto triste nella quale stanno anche molti altri miei colleghi. Quelli che hanno una famiglia stanno vendendo tutto. Oggetti di antiquariato, quadri, qualsiasi cosa possano vendere. Qualcuno affitta stanze nella propria casa. Altri provano a fare altri lavoretti dopo l’orario d’ufficio. Spostano i figli in collegi scolastici che costano meno". Mercedes ha un compagna che l’aiuta e due genitori molto anziani. Ha due lauree e parla tre lingue. Ma, a breve, il suo futuro è andare a lavorare come cameriera in un hipermercato Espar a Palma di Maiorca. "È l’unica soluzione che ho trovato grazie a degli amici. Devo andare perché così da li potrò spedire medicine e pacchi alimentari ai miei genitori. Non posso accettare che muoiano nella miseria". La censura su stampa e tv - La rivoluzione bolivariana guidata da Chávez fino al 2013, e poi dai suoi eredi, è stata fin dall’inizio un fenomeno con caratteri apertamente totalitari. L’esempio più facile è la storia dei giornali e delle televisioni. Oggi a Caracas rimane solo un quotidiano non asservito al governo in carica ed è El Nacional ma il suo direttore Miguel Henrique Otero vive da tempo in esilio in Spagna per un ordine di cattura che il governo chavista ha emesso contro di lui. Tra le riviste indipendenti c’è Tal Cual, il newsmagazine fondato da Teodoro Petkoff, un politico, economista, ex guerrigliero, leader della sinistra non chavista, che oggi, a 85 anni, è completamente appartato dalla vita pubblica. La censura su stampa e tv non arrivò subito e in questi anni ha visto modalità diverse. Più acquisti di testate o televisioni da parte di neo industriali prossimi al potere, che vere e proprie chiusure. È andata così per un quotidiano, Ultimas noticias, comprato da una società legata al governo Maduro, e per Globovision, che un tempo era il canale più compromesso a favore dell’opposizione. Ma il primo caso e il più famoso fu quello di Rctv (Radio Caracas Television) costretta ad interrompere la programmazione perché Chávez non rinnovò, alla scadenza nel 2007, la concessione per trasmettere. Victor Amaya, 34 anni, un giovane giornalista che oggi lavora a Tal Cual e a El Estimulo, due giornali che funzionano praticamente solo online, è stato una delle tante vittime della censura quando Ultimas Noticias cambiò proprietà. "Iniziarono a prendere solo pubblicità governativa - racconta - poi a dare poca importanza a notizie scomode, infine a censurare gli articoli. Io lavoravo nella sezione arte e spettacoli e quando misi in pagina una intervista a Patricia Janot, una giornalista della Cnn in spagnolo critica con Maduro, decisero di toglierla poco prima che andasse in stampa". L’economista pessimista - Tamara Herrera, 64 anni, è nata a Caracas perché sua madre, italiana, si innamorò di suo padre, venezuelano, al Festival della Gioventù di Berlino nel 1951. Oggi lavora come economista in una società di consulenza che confeziona report analizzando le variabili politiche e economiche del Paese. Anche la sua vita è cambiata moltissimo negli ultimi mesi. Dopo molti indugi ha deciso anche lei di occuparsi di una vecchia pratica che aveva abbandonato nei cassetti, mandare avanti la procedura per ottenere un passaporto europeo che qui è diventata una àncora di salvezza per molti. Non è detto che decideranno mai di utilizzarlo ma nell’incertezza rappresenta una chimera di sicurezze. Spesso è la prima cosa che ti dicono. "Mio nonno era spagnolo, ho fatto il passaporto.". Oppure era italiano, oppure era francese. Ma a Tamara Herrera non piace parlare di sè, gli piacciono gli scenari. Dunque parliamo di scenari. "È un contesto molto difficile da sbloccare. Convocando elezioni per una nuova Assemblea costituente, una soluzione che l’opposizione giudica come un altro colpo di Stato già tentato un mese fa con l’inabilitazione, poi smentita, dei parlamentari, Maduro ha fatto una mossa che può dargli un pò di respiro nel suo scivolare verso l’autocrazia. Piuttosto invece aumenta il rischio di un default. Temo che la crisi política e le difficoltà che ci sono per ottenere nuovi prestiti potrebbero convincere il governo del fatto che ha meno da perdere non onorando le scadenze del debito estero piuttosto che facendolo. I militari sostengono il presidente ma senza scendere in campo. Fanno di tutto per dimostrare che non hanno compiti di sicurezza interna. Fino a quando non si sa". Droga e corruzione - La sensazione molto diffusa che il regime barcolli anche per una vasta rete di corruzione che ha depredato risorse, e che sia disposto a blindarsi a qualsiasi costo pur di non pagarne penalmente le conseguenze, non è facile da verificare. Però un caso come quello dello scandalo Odebrecht, la multinazionale brasiliana che ha confessato di aver finanziato illegalmente campagne elettorali e presidenti di molti paesi sudamericani, è molto sospetto. In Venezuela non ha avuto ripercussioni nonostante i manager della multinazionale abbiano confessato di aver pagato a Caracas tangenti per 98 milioni di dollari. Chi li ha ricevuti? Qui nessuno indaga. Come nessuno indaga sulla vicenda dei due nipoti di Maduro e sua moglie, Cilia Flores, arrestati dalla Dea a Haiti con un aereo Fokker pieno di panetti di cocaina e ora sotto processo a New York. Mentre declina come una stella morta che appartiene al passato, il fallito socialismo bolivariano trascina con sè le sorti del Paese che gli diede il battesimo alla fine del 1998. Ma nonostante l’isolamento internazionale - esclusi Cuba, Russia, Iran e Cina - di Maduro una svolta potrebbe non essere così prossima. È quello che abbiamo letto negli sguardi e nelle parole di tutti quelli che abbiamo incontrato. Tra lo stupore e lo sgomento. Perché non se ne va dopo il disastro che ha combinato? Il più grande nemico di Maduro oggi è un socialista uruguayano, ex ministro degli Esteri nel governo di Pepe Mujica, che oggi guida l’Osa, l’organizzazione degli Stati americani, dalla quale il Venezuela è appena uscito. È Luis Almagro che segue con una perseveranza certosina tutto quello che accade a Caracas e non perde occasione per richiamare Maduro al rispetto delle regole democratiche condivise in tutto il Continente. Ma intanto qui molto lentamente si affonda in un incubo totalitario che sembra non aver fine.