Nuovi elettori a scuola di democrazia Il Mattino di Padova, 8 maggio 2017 Qualche giorno ancora per proclamare i vincitori, e poi i rappresentanti delle persone detenute nella Casa di reclusione di Padova cominceranno a lavorare. In realtà, inizia ora la vera sfida: per le persone detenute, imparare a confrontarsi, per le Istituzioni, imparare prima di tutto ad ascoltare, per ambedue le parti, imparare a superare la logica del conflitto e a dialogare. Vigilia di voto in carcere Domani alle nove si inizierà a votare per eleggere la rappresentanza dei detenuti. Dopo oltre un anno di lavori caratterizzati da discussioni e confronti attorno al tavolo della redazione di Ristretti Orizzonti, finalmente domani sarà una giornata dove noi detenuti avremo la possibilità di esprimere un voto per scegliere chi dovrà rappresentarci. Le votazioni si svolgeranno dentro le salette comuni nelle sezioni con la supervisione e il coordinamento dei volontari. Questa iniziativa darà il via a un nuovo tipo di dialogo tra istituzioni e detenuto. : I tempi delle rivolte, delle sommosse, delle violenze speriamo che si allontanino sempre più. La rappresentanza sarà un nuovo strumento che ci permetterà di esporre i problemi che una vita detentiva molto spesso lunga ti pone davanti. Da domani i detenuti ci metteranno la faccia e avranno l’opportunità non solo di esporre i problemi di tutti, ma anche di imparare ad ascoltare i propri compagni e le istituzioni in maniera diversa, e soprattutto costruttiva. I candidati eletti affronteranno un percorso di formazione, questo perché noi detenuti, dopo anni di reclusione passiva, abbiamo perso la capacità di dialogo, di confronto e di ascolto, ma tutto si può recuperare, e questo è un piccolo passo per ritrovare delle attitudini perse oppure per impararle perché mai avute prima. Sicuramente ci saranno molte difficoltà all’inizio, perché sarà una nuova esperienza, ma non solo per noi, anche per le istituzioni sarà una novità. Da domani si cercherà di dare più dignità ai detenuti, ma anche alle persone che operano all’interno dell’Istituto. Questa giornata è molto attesa da noi detenuti, nella mia sezione si è vissuta la classica aria di campagna elettorale, ogni candidato ha esposto i problemi secondo lui prioritari e lo ha fatto ascoltando le diverse voci della sezione. Domani comunque al Due Palazzi ci sarà un po’ di democrazia in più. Lorenzo Sciacca Una giornata speciale, un clima di vera partecipazione Oggi le persone detenute nella Casa di Reclusione di Padova hanno votato i propri rappresentanti scelti tra coloro che si erano candidati. Dopo averne discusso in redazione a lungo e scritto una proposta per la Direzione, che l’ha accolta e supportata, abbiamo preparato queste elezioni con molta cura, incontrando le persone detenute in ogni sezione, in alcuni casi anche più volte, per spiegare perché è importante avere dei propri rappresentanti e perché è importante eleggerli democraticamente. La maggior parte delle persone ha reagito con entusiasmo e interesse, qualcuno con diffidenza e scetticismo. In alcuni casi anche la Polizia penitenziaria è intervenuta per spiegare il senso delle elezioni e l’utilità della rappresentanza a chi era così lontano da questa modalità, da non riuscire a capire a cosa possa servire. Finalmente oggi dieci volontari sono entrati in carcere per le elezioni con tanto di urne e schede elettorali, proprio come per qualsiasi elezione. È stata una giornata speciale, si è respirato un clima di vera partecipazione ad un progetto comune: chi non è andato all’aria, chi usciva di corsa dalla doccia, chi andava a chiamare i compagni ritardatari o cercava di convincere i più sfiduciati a votare; ma partecipazione anche da parte del personale sia nel facilitare le operazioni di voto, sia nel fare in modo che il maggior numero di persone potesse votare. E curiosità da parte delle persone detenute, alcune delle quali non avevano mai votato nella propria vita. Certo, ci sono state anche reazioni di scetticismo, tanto non cambierà mai niente, di rabbia in qualche caso, ma niente che non si senta anche riguardo alle elezioni "fuori". Complessivamente ha votato il 79% degli "aventi diritto" ed è un dato che ci conferma che le persone detenute hanno voglia di provare a cambiare le condizioni detentive con modalità diverse, in cui siano protagonisti e responsabili; ci conferma però anche la grande responsabilità che noi volontari abbiamo nel coordinare questa iniziativa, che non è un punto di arrivo, ma una tappa di un complicato processo di educazione alla cittadinanza, di responsabilizzazione, di mediazione. Ora quindi, sul modello di Bollate, ci saranno dei momenti di formazione per sostenere i 30 rappresentanti in questo compito certamente non semplice. Francesca Rapanà, operatrice dell’associazione Granello di Senape La prima sperimentazione di una rappresentanza è nata nel carcere di Bollate La rappresentanza è una forma di responsabilizzazione dei detenuti anche nei confronti dei loro compagni. Devo essere onesto, a Bollate, il carcere che dirigo, anch’io inizialmente ero un po’ timoroso, avevo qualche pregiudizio sul fatto che la rappresentanza potesse costituire una forma di potere di alcuni detenuti nei confronti degli altri; poi nell’esperienza pratica, ci siamo resi conto che i detenuti rappresentanti spesso sono visti come responsabili dai loro compagni, quindi svolgere il ruolo in maniera efficiente è certamente anche motivo di buon rapporto e buone relazioni in sezione. Non tutti ambiscono ad essere rappresentanti, lo fanno quelli che effettivamente se la sentono. Non è semplice, tanto che abbiamo ritenuto opportuno fare dei percorsi di formazione, che hanno contribuito a dare legittimazione e valore a questo ruolo, per fargli capire che la consideriamo una cosa importante, su cui investiamo. Come l’abbiamo strutturata? Allora abbiamo le rappresentanze di reparto, che poi confluiscono in questo organismo che chiamiamo "Commissioni riunite", che rappresenta tutti i reparti dell’istituto e che incontriamo periodicamente su questioni specifiche. Dove possono essere le criticità? possono esserci ad esempio se non c’è un’adeguata preparazione della rappresentanza. È importante che le riunioni siano istruite in modo chiaro e questo da noi a Bollate lo fanno i volontari che guidano i detenuti nell’organizzazione di questi momenti; è importante che ci sia una preparazione preliminare, un ordine del giorno, cui attenersi, perché se ci fossero detenuti che in modo estemporaneo iniziano ad affrontare questioni personali o non condivise con gli altri si perde un po’ il valore. Se invece le riunioni sono preparate e c’è un ordine del giorno diffuso in anticipo, si possono convocare già alla riunione le persone direttamente coinvolte nella questione, ad esempio, se si parla di manutenzione ordinaria magari la direzione viene con gli addetti alla manutenzione, se si parla di colloqui, viene con il rappresentante dei colloqui, perché crediamo anche che sia importante coinvolgere direttamente le figure responsabili; riteniamo che questo poi possa contribuire alla credibilità dell’amministrazione, che in termini di percorso educativo non è una cosa da poco, cioè il fatto che i detenuti possano poi dire "c’è un’istituzione che con noi parla, a cui possiamo fare delle richieste", anche se poi ad alcune si dice chiaramente di no, ad altre si dice di sì e si fa in modo che questo sì si trasformi in un miglioramento concreto di cui è importante dare notizia. Tante volte infatti le cose vengono fatte e poi in realtà neanche si sanno, quindi è importante che vengano diffuse e poi che si monitori nel tempo cosa succede. Ad esempio avevano rilevato che i familiari ci mettevano tre ore per entrare ai colloqui, adesso ci stanno un’ora e mezza. Questo secondo noi consente una crescita complessiva della struttura, anche proprio della qualità delle relazioni, quindi sotto questo profilo lo riteniamo uno strumento utile e prezioso. Massimo Parisi, direttore della Casa di reclusione di Bollate Lettera aperta dalla redazione di Ristretti Parma di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 8 maggio 2017 Cara Ornella che sei il nostro direttore, come sai scrivere di morte in carcere è una delle imprese più delicate e complesse anche per chi frequenta gli istituti di pena da tanti anni e ha accumulato una certa esperienza. La scrittura è lenta e faticosa ma anche le parole raccolte in redazione a Parma sono state molto faticose. Parole arrabbiate, sconfortate, parole cariche di dolore, di frustrazione e forse anche di paura, parole di grande solitudine. Ferite da troppa indifferenza. Come sai nei giorni scorsi si è ucciso un uomo nella Casa Circondariale di Parma e un altro era morto qualche giorno prima in Alta Sicurezza. I motivi, le storie, le ragioni non si conoscono del tutto, le voci corrono senza risposte e le troppe domande aperte alimentano quella invasiva sfiducia nelle istituzioni che rende così complessi i rapporti tra chi deve scontare una pena e chi avrebbe, almeno in teoria, il compito di "rieducare" e, quindi, di aver cura, di costruire relazioni "educanti". Non si crede a nulla e a nessuno, non ci si fida di nulla e di nessuno. Fino all’insensatezza, fino alla paranoia. Di tutta la discussione di giovedì scorso nella redazione di Ristretti di Parma, però, vorrei riportarti tre pensieri che si sono fissati nella memoria. Il primo di Gianfranco Ruà proprio sul peso del silenzio, sul non sapere mai cosa sia realmente accaduto, sul non poterne parlare con nessuno. Sul non poter conoscere la verità. Un silenzio imposto che fa tacere tutto e tutti. Il secondo di Andrea Gangitano sul fatto che ogni suicidio in carcere è, in realtà, un grande fallimento di tutti; dell’istituzione ma anche delle persone detenute e della società esterna che entra in istituto. E non solo; io aggiungerei anche della comunità cittadina troppo distratta e indifferente. Infine l’ultimo pensiero è di Claudio Conte, che parla di un clima che si vive e si respira nel carcere di Parma; un clima pesante, un isolamento che fa pensare al carcere di Sulmona nel tempo dei tanti suicidi. Lui c’è stato e può facilmente fare il confronto. Aggiunge, però, che è possibile "umanizzare" un istituto e che ora a Sulmona si sta molto meglio, per quanto si possa "star meglio" in un luogo di privazione della libertà. Che il carcere abruzzese si è aperto alla comunità esterna e le persone recluse possono finalmente intravedere la vita oltre le sbarre. Sono solo tre pensieri molto riassunti a cui ho cercato di dar voce come meglio ho potuto. Come sai non ci è concesso di usare il registratore in redazione per cui devo contare su qualche appunto e sulla mia imperfetta memoria. Spero che tu venga a trovarci presto *Responsabile della redazione di Ristretti Parma Carceri di nuovo a rischio sovraffollamento osservatoriodiritti.it, 8 maggio 2017 La popolazione carceraria sfiora quota 56.500, 4mila in più rispetto a luglio 2015. La popolazione carceraria in Italia torna a crescere. Sebbene i dati siano lontani da quelli dell’emergenza (oltre 69 mila detenuti), sono i trend degli ultimi anni a spaventare. Le statistiche fornite dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria pubblicate sul sito del ministero della Giustizia e riferite al 30 aprile parlano di una presenza di 56.436 detenuti. Il dato mensile più alto degli ultimi due anni e superiore di circa 4 mila unità rispetto alle 52 mila presenze circa del luglio 2015. Una tendenza evidenziata in parte già lo scorso anno dall’associazione Antigone che nel suo rapporto annuale denunciava un incremento di circa mille unità. Stavolta, però, la serie storica dei dati è più corposa e non lascia dubbi. Lentamente, gli istituti di pena stanno tornando a essere sovraffollati. "Due anni sono un arco temporale in cui sei legittimato a ritenere che non siamo in presenza di una fluttuazione che possa rientrare il semestre dopo", spiega Alessio Scandurra, di Antigone. "È una tendenza che si consolida, quindi probabilmente qualcosa è cambiato". Dati che ritroveremo anche nel prossimo rapporto dell’associazione che sarà presentato il prossimo 19 maggio. A crescere in questi mesi è stata anche la capienza regolamentare, ma siamo ancora lontani dal rapporto uno a uno. Gli ultimi dati forniti dall’Amministrazione penitenziaria, infatti, parlano di poco più di 50 mila posti al 30 aprile di quest’anno. Tuttavia, lo stesso Garante nazionale dei detenuti nella sua recente relazione annuale ha sottolineato che bisogna tener conto anche "dell’alto numero di camere o sezioni fuori uso, per inagibilità o per lavori in corso, che alla data del 23 febbraio sono pari al 9,5 per cento". Cioè circa 4.700 posti non disponibili per varie ragioni, sempre al 23 febbraio. Allo stato attuale, quindi, nelle carceri italiane potrebbero esserci ben 10 mila detenuti in più rispetto a quella che è la capienza regolamentare. Diverse le ragioni dell’aumento della popolazione penitenziaria, argomenta Scandurra: "Le misure normative per limitare il sovraffollamento erano tutte strutturali, tranne che per la liberazione anticipata. Per un periodo circoscritto è stata portata a 75 giorni al semestre, poi è tornata a 45 giorni. Questa cosa ha avuto un grosso impatto, per cui la sola fine di questa misura probabilmente ha fatto una prima differenza". I dati in crescita, però, suggeriscono anche un’altra lettura. "C’è un cambio di clima", sostiene Scandurra. "Ai tempi del grande sovraffollamento, gli ingressi cominciarono a calare prima di qualunque intervento normativo, probabilmente perché le forze dell’ordine in alcuni casi avevano ricevuto indicazioni. Da questo punto di vista il clima è cambiato totalmente: da una parte non c’è più la sensazione dell’emergenza e di un sistema al collasso, dall’altra c’è una campagna di allarme sociale che va di pari passo con la campagna elettorale e con le elezioni che si avvicinano. La crescita dei numeri è una conseguenza di questo cambio di clima e neanche l’unica. Penso agli Stati generali, dove sono venute fuori tante idee e tanti temi e tutto questo non è stato tradotto in niente proprio perché c’è un cambio di clima politico". Per Scandurra, "il trend è chiaro", nonostante sia qualcosa a cui "siamo abituati". "Negli ultimi anni avevamo avuto un’inversione per un periodo breve ed eccezionale", spiega. "Tuttavia, è dagli inizi degli anni Novanta che la tendenza è questa. Una volta si facevano gli indulti, ora non se ne fanno più. È un trend che va tenuto d’occhio, ma di cui sono ovvie le conseguenze. Prima o poi la bacinella traboccherà. Bisogna intervenire, altrimenti è solo questione di tempo". I segnali d’allarme ci sono tutti, ma prima che sia tutto il sistema penitenziario a essere sotto pressione, può volerci del tempo. "Il sovraffollamento, inizialmente, è molto selettivo", specifica Scandurra. "Come un’ondata di piena, anzitutto va a sbattere massicciamente sui circondariali metropolitani. Poi ci si sposta sugli istituti che ci stanno attorno e prima che arrivi a San Gimignano o altrove forse servono anni. Abbiamo un dato nazionale medio che magari non è tanto allarmante, però, se vai vedere nel dettaglio le cose cambiano. Oggi le carceri più affollate sono in Lombardia: Como, Busto Arsizio, Brescia. Probabilmente perché sono territori dove si arresta tanto. Prima o poi inizieranno con i trasferimenti verso il Trentino o verso la Sardegna". Il rischio di un nuovo caso Torreggiani, intanto, è davvero remoto. "Ora è tutto diverso", sostiene Scandurra. "Girando tra gli istituti abbiamo visto che ce ne sono alcuni dove ci sono detenuti che vivono in meno di 3 metri quadrati, solo che allora quei detenuti potevano fare ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, oggi hanno un rimedio interno: devono far ricorso al magistrato di sorveglianza e questi ricorsi stanno andando a rilento. Finiscono in maniera un po’ confusa. Se si dovesse acclarare che il rimedio non funziona, la Corte può di nuovo pronunciarsi sull’argomento. Ma servirà tempo. Non sarà la Corte europea dei diritti dell’uomo a toglierci le castagne dal fuoco a breve". Mettere mano ai trend e cercare di ottenere una loro inversione, tuttavia, non è semplice, soprattutto in un periodo in cui la politica si prepara alle imminenti elezioni. "La ricetta principale è sempre la depenalizzazione, ma è difficile dal punto di vista elettorale", dice ancora Scandurra. Oltre alla questione delle pene alternative, poi, c’è anche quella della legge sulle droghe, dove "ulteriori interventi in materia avrebbero un impatto enorme sul penale e sul penitenziario perché la legge sulle droghe è il grande motore della carcerizzazione". Tuttavia, conclude Scandurra, oggi c’è bisogno soprattutto di una presa di coscienza sul ruolo delle misure detentive. "In tanti hanno l’idea che la pena sia il carcere - spiega. La Costituzione e la legislazione dicono cose diverse, ma la cultura diffusa dice ancora che se non è carcere non è pena". Il bisogno di sicurezza e l’ansia da paura malattia sociale in cerca di una cura di Vittorio Coletti La Repubblica, 8 maggio 2017 LA gente aveva paura dei ladri ma non dell’esercito del Paese nemico o, al contrario, temeva l’esercito straniero e invasore più dei ladri. Oggi le due paure e i correlati bisogni di sicurezza si uniscono in un sentimento che sembrava dimenticato dalla memoria occidentale e che unisce il timore per sé a quello per la società cui si appartiene. Appena c’è un furto o un omicidio non chiaro (paure personali) si pensa subito a un immigrato (paure collettive). A maggior ragione quando c’è un attentato terroristico. Per quanto una encomiabile pietà sociale o la carità cristiana impongano di tenere separati questi timori e le relative attese di protezione e sicurezza, onestà intellettuale vuole che si facciano i conti con la loro attuale identificazione, per sbagliata o imprecisa che sia. La destra ha sempre cavalcato paura ed esigenza di sicurezza e oggi trova terreno fertile nella congiunzione delle due più ataviche, quella privata e quella collettiva, e chiede autorizzazione all’uso della forza individuale (legittima difesa) e maggiore energia nell’impiego di quella pubblica (polizia, esercito). La sinistra, che già era in imbarazzo con la prima, lo è ancora di più con la seconda (che spesso nasconde pulsioni razziste, ripugnanza per il diverso ecc.) e ovviamente molto di più lo è con la somma di entrambe. Se oggi, in Occidente, la sinistra è in grande difficoltà è anche, purtroppo, per questo motivo: non vuole alimentare le paure, ma non sa come difendere la gente da esse. Pensa giustamente che un’arma in mano a un singolo può più nuocergli che difenderlo. Esita a inasprire i regimi carcerari, che contraddirebbero la sua idea della correzione al posto della punizione. Ritiene che le libertà collettive e individuali debbano essere salvaguardate anche se si corre qualche rischio. Ma non sa come fare. In questi anni ci siamo abituati a rinunciare a libertà e comodità (si pensi ai controlli negli aeroporti) per avere maggior sicurezza e ci siamo rassegnati a maggiori spese pubbliche (polizie) e private (antifurto, porte blindate) per difenderci. Nondimeno, la gente continua a sentirsi esposta al pericolo e chiede più fermezza nella sua protezione. I più ritengono che la legge sia troppo blanda con i criminali comuni e lo stato impotente di fronte ai nemici politici e ideologici più violenti (terroristi). Il ciclo del Ducale vorrebbe conoscere i dati di fatto: da dove vengono i criminali, quanti sono recidivi, come sono combattuti. Poi vorrebbe misurare i rapporti tra costi e benefici nella ricerca della sicurezza ideale, visto che il semplicismo populista e razzista (via lo straniero) non solo è sbagliato e cattivo, ma è anche impraticabile e quindi inefficace. Alla fine vorrebbe poter abbozzare una risposta alla domanda: si può avere sicurezza e libertà insieme? Sicurezza e giustizia? Insomma, c’è un’arma culturale e morale per essere sicuri e liberi, non violenti e tranquilli? Si sa che l’arma culturale non spara con la prontezza delle pistole e che la gente invece di comperare libri oggi chiede il porto d’armi. Cosa si può dire a questa gente? Forse si deve cominciare prendendo sul serio il bisogno di sicurezza, e non irriderlo o sottovalutarlo, come purtroppo si tende a fare con una certa supponenza, come se la paura fosse sinonimo di ignoranza, mentre l’ignoranza non genera paura, ma rende più vulnerabili a chi la alimentata subdolamente. Poi non bisogna nascondersi che, per persone istintivamente portate (lo siamo tutti) a temere per i propri beni, i molti stranieri che stazionano per le strade o chiedono l’elemosina o vendono prodotti superflui costituiscono un motivo di sospetto. Mentre in passato nel mendicante si vedeva un povero, oggi si vede un pericolo. È duro ammetterlo, ma è così. Di qui la accresciuta necessità di dati di fatto, numeri e statistiche. Una volta colti e misurati i fatti si può vedere quanto quello dell’insicurezza/sicurezza sia anche un problema di percezione, come la temperatura. Bisogna chiedersi che cosa aumenta la percezione odierna della (in)sicurezza: la legge e la sua amministrazione, spesso (ritenute) indulgenti col criminale comune? la presenza crescente di migranti non integrati nella nostra cultura, lingua, costumi, che induce la gente a credere che il malvivente e lo straniero coincidano? Come correggere questi squilibri? Innanzitutto, ripeto, con la diffusione di dati veri (ce li aspettiamo dal ministro Orlando che chiuderà il ciclo del Ducale), non taroccati né in eccesso né in difetto. Tra questi anche quelli sull’efficacia pratica della difesa individuale: per un ladro cacciato a fucilate, quanti padroni di casi e innocenti vari sono stati uccisi (vedi Usa)? E quelli sull’efficienza del sistema preventivo e punitivo: quante volte un delitto è stato compiuto da una persona già arrestata o condannata per lo stesso e liberata o scarcerata? E poi: il carcere è troppo blando o troppo corruttivo? Bisogna anche chiedersi quali e quanti diritti siamo disposti a sacrificare per essere più e meglio protetti e renderci conto di quanto costa soddisfare l’esigenza della sicurezza. Insomma bisogna saperne di più e interrogarsi più a fondo. La conoscenza, sia chiaro, non dà più sicurezza, ma riduce il suo opposto, nel senso che lo spiega, e prepara il rimedio più efficace. Chi sa di avere una malattia non ha meno paura (anzi!) di chi la ignora, ma può meglio attrezzarsi a curarla. E per farlo non prenderà la prima pillola che ha sul comodino, ma andrà da un bravo medico. Così la malattia sociale, reale e percepita, dell’insicurezza non può essere ben curata se prima non è conosciuta bene, senza esagerazioni né sottovalutazioni, e correttamente diagnosticata. Perché invece di comprare armi dovremmo investire sulla ricerca di Ignazio Marino L’Espresso, 8 maggio 2017 Donald Trump ha annunciato tagli drastici alla scienza per finanziare la difesa. Usando come scusa la necessità di investimenti privati. Ma si tratta di un errore pericoloso a cui tutta la società deve dire no. 3 marzo 1863: nel mezzo della guerra di secessione americana, il presidente Lincoln firma l’atto che fonda l’American Academy of Science, affidandogli il compito di studiare le questioni legate al progresso scientifico. Oggi, a 150 anni dalla sua creazione, l’Accademia conta su più di duemila scienziati di tutto il mondo, che studiano i cambiamenti climatici, l’energia, la ricerca biomedica e si occupano di divulgare informazioni corrette ai cittadini e consigliare la classe dirigente. Un approccio pragmatico, basato su dati e non ideologie, tipicamente americano, un modo di credere nel progresso e nella scienza, un’impostazione culturale che si è consolidata nel tempo. Ed è proprio questa impostazione che l’attuale presidente Donald Trump ha messo in discussione annunciando tagli drastici alla ricerca nella legge di bilancio che arriverà nelle prossime settimane al Congresso. Nella proposta del presidente, tutti i settori della ricerca pubblica sono falcidiati. In particolare l’Nih, il National Institute of Health che si occupa della ricerca in medicina, potrebbe perdere circa sei miliardi di dollari, pari al venti per cento del budget storico. Una tragedia annunciata per ricercatori, università, laboratori. L’Nih conta su 30 miliardi di dollari l’anno ma l’80 per cento del budget è destinato a borse di studio e finanziamenti a centri di ricerca che lavorano su progetti selezionati con il metodo del giudizio tra pari. Se i tagli saranno confermati, molti scienziati perderanno il lavoro, ricerche pluriennali saranno interrotte, i laboratori subiranno ridimensionamenti drammatici. Secondo Trump spetta ai privati finanziare le ricerche. Un ragionamento che si è affacciato diverse volte sullo scenario americano: Ronald Reagan aveva tentato di ridurre i fondi per la ricerca e si era anch’egli scontrato con il Congresso. Un’impostazione che non tiene conto che a volte servono decenni per arrivare alle scoperte che cambiano la storia della medicina e dell’umanità. Ricerche fondamentali ma non per questo remunerative per cui difficilmente i privati si avventurano in percorsi così incerti. Pensiamo al lungo lavoro sul genoma umano che ha cambiato la storia dell’uomo ed è stato finanziato proprio dall’Nih con fondi pubblici. Lo stesso è accaduto per gli studi condotti sul virus dell’Hiv, o quelli sulle cellule staminali. La reazione non si è fatta attendere e il 22 aprile ricercatori e professori sono scesi in strada a Washington e in molte altre città del mondo compresa Roma, per la Marcia per la scienza, una manifestazione che ha ottenuto l’endorsement delle due principali riviste scientifiche del mondo, Science e Nature. È facile prevedere che la proposta di Trump non sarà approvata dal Congresso Usa, anche perché i fondi per la ricerca hanno sempre ottenuto voto positivo da entrambi gli schieramenti politici americani. Si arriverà forse a un compromesso ma sarà comunque una scelta al ribasso per un paese che detiene la leadership mondiale nella ricerca biomedica. Un’inversione di rotta pericolosa perché significa in qualche misura arrendersi, smettere di credere nel progresso scientifico come mezzo per migliorare le condizioni di vita di tutti. Ovvero perdere una visione sul futuro, l’unico tempo di cui si dovrebbe occupare uno statista. Terrorismo, quanto siamo al sicuro in Italia? di Lirio Abbate L’Espresso, 8 maggio 2017 Un attentato come quelli registrati di recente in Europa potrebbe avvenire anche da noi. Per questo la prevenzione deve essere fatta anche a livello di vulnerabilità psicologica. Per limitare "la paura della paura". I venti di guerra che soffiano anche sul mondo occidentale innescano la stessa paura che il terrorismo ha ormai disseminato nelle capitali europee. E per questo motivo ricorre spesso la parola sicurezza. La sicurezza di un Paese. Ma quanto può essere vulnerabile il nostro Paese? Il rischio, in generale, è dato da tre fattori: la pericolosità, l’esposizione e la vulnerabilità. In Italia abbiamo una pericolosità elevata per la facilità con la quale i potenziali terroristi possono procurarsi i mezzi con i quali provocare un danno alla collettività. L’esposizione è altrettanto alta perché gli obiettivi "soft target" sono alla portata di tutti. E sono tanti. Per quanto riguarda la vulnerabilità, occorre declinare la questione in maniera diversa. Quella "tecnica" è elevatissima: ad esempio, le persone che stanno ad aspettare alla fermata dell’autobus possono essere falciate da un’automobile che arriva all’impazzata guidata da un terrorista. Per questo motivo occorre iniziare a lavorare sulla vulnerabilità "psicologica". Occorre cioè entrare nell’ordine di idee che questo tipo di terrorismo ci accompagnerà ancora per diverso tempo. E che tanto più avrà sconfitte sul terreno di una guerra simmetrica, quanto più aumenterà il suo sforzo su una guerra asimmetrica. Daesh lo sa e infatti ha allargato il piano del confronto da Mosul o Arak al mondo intero. Il terrorismo e la paura che produce ci accompagneranno per molto tempo. E la possibilità di difesa di un certo tipo avrà efficacia limitata. C’è il rischio che andremo sempre più a comprimere le nostre libertà, nel convincimento molto teorico che questo riduca il pericolo. Di fatto abbiamo già cambiato le nostre abitudini e limitato la nostra vita. E questo è un ulteriore punto a favore di Daesh, in questa partita mortale che ha iniziato contro il mondo occidentale. Quella che stiamo vivendo è una situazione di pericolo reale, di azioni difficilmente prevedibili: i nervi saldi quindi sono la nostra forma di difesa più efficace. Nulla ci è più nemico del panico, della "paura della paura". È insomma necessario un approccio culturale, mentale, per limitare i danni. E occorre spogliare questa battaglia di tutte le possibili strumentalizzazioni xenofobe di chi ha interesse in qualche modo a radicalizzare lo scontro, ad aumentare la paura, perché altrimenti all’esito di questa battaglia avremo libertà ancora più compresse, un rischio ancora elevato e ondate di isteria collettiva. Che la principale battaglia sia culturale lo ripete spesso anche Franco Gabrielli, capo della polizia. Perché oggi il rischio è dettato più di ogni altra cosa dalla percezione dell’insicurezza. La paura, come dicono i sociologi, è ormai globalizzata: quello che è avvenuto a Parigi a Londra a Berlino a Monaco o a Nizza entra immediatamente nella vita delle persone. Non solo di quelle che stanno a poca distanza dai luoghi in cui si sono verificati i fatti, ma in tutto il mondo. E viviamo una condizione di paura permanente. Ma non possiamo accettare che la paura prevalga, perché questa sarebbe una sconfitta ancora più grave. E non possiamo nemmeno elevare (inutili) muri sulle acque o sulle spiagge. Occorre far comprendere la situazione. Gli investigatori italiani hanno grandi qualità nella tattica, nella gestione e nella prevenzione, ma il salto di qualità è mentale, insomma. Perché è l’unica cosa che può portarci alla vittoria, sul lungo termine, contro il terrorismo. Lo scorso dicembre durante la presentazione del calendario della polizia, Gabrielli rispondendo alla domanda di una giornalista ha detto: "Il mio desiderio per il 2017 è che in questo Paese i temi della sicurezza non siano temi sui quali si vincono le campagne elettorali ma si costruisce il futuro dell’Italia. Questo è l’auspicio". Se invece sui temi della sicurezza si regolano i conti a livello politico o personale, la guerra contro il terrorismo è molto più difficile da vincere. Rapine in banca in via d’estinzione: anche per i ladri il bottino è digitale di Rosaria Amato La Repubblica, 8 maggio 2017 Dopo anni di calo, nel 2016 un nuovo crollo: solo 360 casi. Ma crescono le truffe informatiche. La banca va online, e le rapine pure. In dieci anni sono crollate di oltre il 90%, mentre i crimini informatici sono sempre più preoccupanti. Il rapporto Clusit 2017 sulla sicurezza informatica indica le banche come il terzo settore più colpito in Italia dal cybercrime, con un aumento del 64% degli attacchi nel giro di un anno. Al contrario, le rapine tradizionali sembrano in via di estinzione, a giudicare dai dati diffusi da Ossif (il centro di ricerca sulla sicurezza anticrimine dell’Associazione Bancaria Italiana): ancora nel 2007 se ne sono registrate quasi 3.000, contro le appena 360 dell’anno scorso. "Si tratta inoltre nella totalità dei casi di attacchi meno violenti rispetto al passato - osserva Marco Iaconis, coordinatore di Ossif - adesso la rapina è altrove. È un dato che non riguarda solo le banche: emerge anche dall’osservatorio intersettoriale che riunisce diverse categorie di operatori economici". L’Osservatorio intersettoriale monitora oltre agli istituti di credito, uffici postali, tabaccherie, farmacie, esercizi commerciali, esercizi pubblici, imprese della grande distribuzione, pompe di benzina, locali. "Ma in banca il miglioramento è ancora più marcato" spiega Iaconis. Diminuisce anche il "bottino medio", che passa a 29.500 euro contro i 33.000 del 2015. Il calo del numero di rapine si avverte in modo sensibile anche nel confronto annuo: è del 33%. Regioni a rapine zero - Ci sono anche quattro regioni a "rapina zero": sono il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna, il Trentino Alto Adige e la Valle d’Aosta. Ma anche le zone a rischio più elevato come le metropoli registrano cali molto consistenti: per Roma la diminuzione da un anno all’altro è del 43%. In questi anni gli sportelli bancari sono diminuiti e moltissime attività si sono spostate sull’home banking, ma la riduzione delle rapine è frutto soprattutto di una mole importante di investimenti mirati e della sempre più stretta collaborazione con le forze dell’ordine, assicura Iaconis: "Le banche investono molto sulla prevenzione e il contrasto degli attacchi criminali, dalle nostre elaborazioni più recenti, che presenteremo al convegno Abi "Banche e sicurezza", alla fine del mese, emerge che nel 2016 sono stati spesi circa 600-700 milioni di euro tra misure di sicurezza e formazione dei dipendenti. Soprattutto, ci siamo resi conto che non si può vincere da soli, c’è una collaborazione strettissima con le forze dell’ordine, stiamo firmando protocolli con tutte le prefetture italiane". Nuove frontiere - Mentre sotto il profilo del cybercrime c’è una collaborazione altrettanto stretta con la polizia postale: per agevolarla all’inizio di quest’anno l’Abi ha istituito il Cert Finanziario, una iniziativa per rafforzare la capacità di prevenzione e risposta alle emergenze di tipo informatico dedicata al mondo bancario e finanziario, un organismo pubblico-privato altamente specializzato. Il direttore operativo del nuovo presidio di sicurezza informatica è Romano Stasi, segretario generale di Abi Lab, il Centro di Ricerca e Innovazione per la banca promosso dall’associazione di categoria. "Anche sulla sicurezza informatica le banche stanno facendo investimenti molto consistenti - osserva Iaconis. Non bisogna abbassare la guardia né in un campo né nell’altro". In effetti sta emergendo anche una nuova esigenza, che è quella di coordinamento tra le due "squadre", quella sulla sicurezza fisica e quella sulla sicurezza informatica. Assalti misti - Infatti gli addetti ai lavori rilevano nuovi tipi di attacchi "ibridi": per esempio un Atm viene scardinato magari con il carro attrezzi, però i criminali agiscono contemporaneamente anche attraverso i terminali informatici. Si tratta di formule emergenti, non ancora conclamate, sulle quali si stanno raccogliendo i primi dati. Anche se ancora si tratta di pochi eventi, è scattato l’allarme: il rischio è notevole, e richiede nuove strategie di intervento. Ilaria Cucchi: "mio fratello era il volto della tortura" di Alessandro Faralla vivereancona.it, 8 maggio 2017 Continua a denunciare Ilaria Cucchi, sorella del giovane, in custodia cautelare, scomparso nel 2009 a Roma. Questa volta è ad Ancona, su invito di A20. Cucchi: "Mio fratello era il volto della tortura". Il caso di Stefano Cucchi torna in vista della battaglia per l’introduzione, nel nostro ordinamento, del reato di tortura Ogni cittadino, anche se sotto custodia, gode dei propri diritti civili e deve ricevere le tutele del caso. La celebre vicenda di Stefano Cucchi, morto il 22 ottobre 2009, sette giorni dopo esser stato arrestato per possesso e vendita di sostanze stupefacenti è entrato a far parte dei tanti casi irrisolti della giustizia italiana. L’incontro "Storia di tortura e giustizia, in attesa.." organizzato dall’associazione A2O - Altra Ancora Ora al quale hanno presenziato Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, l’Avv. Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi e l’Avv. Marco Vitali di Amnesty International Italia è stato l’occasione per riflettere sulle ambiguità, le lacune che hanno contraddistinto il caso di Stefano Cucchi, per i quale 5 medici dell’area detenuti dell’ospedale Sandro Pertini di Roma sono stati assolti nell’appello-bis della Corte d’appello dopo che in primo grado 6 medici erano stati condannati con pene differenti. Furono assolti anche gli agenti penitenziari accusati di maltrattamenti e abuso di potere nei confronti del detenuto. Il caso di Stefano, così come quello di tanti altri cittadini, è stato lo spunto per riflettere in questi anni dell’introduzione nell’ordinamento giuridico italiano del reato di tortura. Ai più potrà sembrare ormai un automatismo ma pur a distanza di otto anni non è scontato per Ilaria Cucchi ripercorrere non senza amarezza il calvario vissuto dal fratello; anche nell’aula dell’ex sala consiliare del Comune di Ancona Ilaria lascia spazio alla vulnerabilità e all’inevitabile commozione quando si parla di Stefano e della sua storia, una vicenda che riguarda tante famiglie che spesso non hanno la forza di perseguire la via della verità perché isolate da un sistema iniquo. "La storia di Stefano mi ha insegnato che determinati temi devono riguardare ognuno nel proprio piccolo. L’indifferenza può uccidere. Mi colpì da subito una sensazione di solitudine, una solitudine che colpisce tante famiglie come la mia". Persino la locandina dell’incontro con i caratteri della parola tortura in rilievo rispetto a giustizia testimoniano quanto sia difficile poter discutere di giustizia e di parità di giudizio per vicende analoghe. "La tortura era nell’espressione, nel volto di mio fratello - ricorda Ilaria - quel volto trasmetteva l’isolamento, l’indifferenza che ha portato Stefano a morire. Mio fratello è morto di dolore. Avevo un’ enorme fiducia nel sistema. Le lacrime per molto erano congelate, dovevo capire cosa era davvero successo. Le famiglie sono abbandonate da uno Stato che le ha tradite, sono costrette a sostituirsi allo Stato". La Cucchi ha sottolineato l’importanza del lavoro incessante portato avanti dal legale della famiglia: "Non è scontato che esistano persone come Fabio Anselmo, persone che si si dedichino a casi come quello di Stefano. È complicatissimo chiedere allo Stato di giudicare se stesso, è come ammettere un fallimento, allora si cerca di sminuire o screditare le vittime. La nostra giustizia molte volte si comporta così. La sentenza di assoluzione non è stata la fine ma l’inizio ed oggi anche in quelle aule sta entrando una giustizia, quella giustizia che è incapace di guardare in faccia le persone" - il riferimento va alla registrazione di Stefano al momento dell’arresto quando venne verbalizzato come cittadino non italiano e senza fissa dimora. L’avvocato Anselmo ha ribadito il concetto di una giustizia a corrente alternata e cinica con gli ultimi "la giustizia italiana è privatizzata, a doppio binario. In casi come quello di Cucchi sembra che i morti si debbano giustificare. Io faccio i processi mediatici quando si parla di diritti umani altrimenti non vi sarebbe nessuna attenzione. Se c’è stata un’inchiesta lo si deve al fatto che la storia di Stefano è diventata un fenomeno mediatico". Alla base per Anselmo vi è un deficit culturale, educativo: "un paese democratico - come si professa l’Italia - non può non avere una legge sulla tortura, dobbiamo discuterne, educare affinché questa società malata che abbiamo prodotto non sia una costante per le future generazioni". Marco Vitali, avvocato di Amnesty International, ha citato il codice penale militare di guerra e la Magna Carta inglese, in entrambi e in pochissime righe il concetto di tortura e maltrattamento è molto chiaro. "Da noi invece nel dibattito sul reato di tortura si cerca di introdurre compromessi, di rendere accettabile quell’azione, in questo modo la questione sul reato di tortura diventa una battaglia prettamente politica". L’Italia, tra i firmatari nel 1984 della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti delle Nazioni Unite più volte è stata sollecitata dagli organismi europei ed internazionali ad introdurre il reato di tortura (tra gli ultimi moniti quello arrivato dal comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che ha ritenuto insufficienti le misure sinora prese dall’Italia per dare esecuzione alla sentenza di condanna della Corte europea dei diritti umani sul caso Cestaro relativo al G8 di Genova). Il disegno di legge sul reato di tortura al momento è fermo al Senato. Coltivare cannabis è reato ultimora.news, 8 maggio 2017 Corte Costituzionale. Niente depenalizzazione per la coltivazione di cannabis per uso personale. Chi viene scoperto a coltivare marijuana in casa sua o sul balcone verrà punito, anche se la coltivazione dell’erba è a uso personale. Lo ha deciso la Corte Costituzionale che, rispondendo alla Corte di Appello di Brescia riguardo alle sanzioni previste per chi coltiva piante di cannabis a uso personale, ha confermato che è legittimo punire la coltivazione di canapa indiana per uso personale. La Corte di Appello di Brescia, infatti, ha posto alla Consulta la questione di legittimità della legge del 90 nella parte in cui si esclude, tra le condotte per cui è prevista la sola sanzione amministrativa, la coltivazione di cannabis qualora finalizzata al solo uso personale. Dopo la bocciatura due anni fa della legge Fini-Giovanardi, definita incostituzionale, la Consulta conferma oggi la linea proibizionista in materia di coltivazione di stupefacenti come la marijuana. Quindi coltivare cannabis per uso personale è considerato illegale? Ci sarebbe da puntualizzare che nell’incertezza normativa in seguito alla legge Giovanardi, diverse sezioni della Cassazione hanno pronunciato sentenze contraddittorie in merito. Pensiamo a quella della sesta sezione penale che aveva assolto un cittadino imputato della coltivazione di due piantine di marijuana dal momento che tale attività rendeva "irrilevante l’aumento di disponibilità della droga e non prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione di essa". O a quella, più punitiva, della terza sezione, che ha stabilito che coltivare cannabis è sempre reato, a prescindere dalle dimensioni e dallo scopo. A gennaio il Consiglio dei ministri ha approvato in via definitiva il pacchetto di depenalizzazioni che riguarda, tra le altre cose, le violazioni delle regole da parte dei soggetti autorizzati alla coltivazione della cannabis per uso terapeutico. Fuori da questo quadro non sarà possibile la coltivazione della cannabis, che resta reato. Tuttavia la coltivazione di cannabis "in terrazza", in certe quantità e in determinate condizioni, non è reato penale. Chi coltiva in casa fino a tre piante di marijuana non va in carcere, poiché viene considerato uso personale. Un’altra discriminante è la quantità di principio attivo. Le piantine, infatti, devono essere coltivate senza l’utilizzo di altre piante o ausili tecnici che possano aumentarne l’efficacia psicoattiva. Attenzione, però, perché anche nel caso di due o tre piantine con una bassa percentuale di THC, la coltivazione di cannabis per uso personale rappresenta un illecito amministrativo. Le sanzioni amministrative sono quelle previste dall’art. 75 del Dpr 309 e prevedono la sospensione o il negato rilascio della patente, del porto d’armi, del passaporto e del permesso di soggiorno per i cittadini extracomunitari. Per i rumori scatta il reato se superiori alla normale tollerabilità e udibili da molte persone di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 12 aprile 2017 n. 18416. La rilevanza penale della condotta produttiva di rumori, censurati come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, richiede l’incidenza sulla tranquillità pubblica, in quanto l’interesse tutelato dal legislatore è la pubblica quiete, sicché i rumori devono avere una tale diffusività che l’evento di disturbo sia potenzialmente idoneo a essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluna se ne possa lamentare. La Cassazione con la sentenza 12 aprile 2017 n. 18416interviene sull’ambito di operatività della contravvenzione prevista dall’articolo 659, comma 1, del Cp, che punisce le condotte di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone. A tal fine, è pacifico che, per poter configurare il reato, è necessario che i rumori prodotti, oltre a essere superiori alla normale tollerabilità, abbiano l’attitudine a propagarsi, a diffondersi, in modo da essere idonei a disturbare una pluralità indeterminata di persone, in quanto il bene giuridico protetto è da ravvisare nella quiete pubblica e non nella tranquillità dei singoli soggetti che denuncino la rumorosità altrui. Pertanto, quando, ad esempio, l’attività disturbante si verifichi in un edificio condominiale, per ravvisare la responsabilità penale del soggetto cui si addebitino i rumori, non è sufficiente che questi, tenuto conto anche dell’ora notturna o diurna di produzione e della natura delle immissioni, arrechino disturbo o siano idonei a turbare la quiete e le occupazioni dei soli abitanti l’appartamento inferiore o superiore rispetto alla fonte di propagazione, i quali, se lesi, potranno semmai far valere le loro ragioni in sede civile, azionando i diritti derivanti dai rapporti di vicinato, ma deve ricorrere una situazione fattuale diversa di oggettiva e concreta idoneità dei rumori ad arrecare disturbo alla totalità o a un gran numero di occupanti del medesimo edificio, oppure a quelli degli stabili prossimi: insomma, a una quantità considerevole di soggetti. Soltanto in tali casi potrà dirsi turbata o compromessa la quiete pubblica. Questa soluzione è, del resto, l’unica in linea con l’interesse tutelato dal legislatore, che è quello della pubblica quiete, onde, per la rilevanza penale della condotta, i rumori devono avere una tale diffusività che l’evento di disturbo sia potenzialmente idoneo a essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluna se ne possa lamentare (tra le tante, sezione I, 29 novembre 2011, Iori, nonché sezione I, 17 gennaio 2014, Frasson). Sindaco: no a spese di rappresentanza per incontri conviviali con altri amministratori di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 3 aprile 2017 n. 16529. In tema di peculato, sono legittimamente e propriamente qualificabili come "spese di rappresentanza" solo quelle che soddisfino un duplice ordine di requisiti, uno strutturale, l’altro funzionale, rappresentati, da un lato, dal fatto di corrispondere esse a un fine istituzionale proprio dell’ente che le sostiene e, dall’altro, di essere perciò funzionali all’immagine esterna e pubblica dell’ente stesso in termini di maggiore prestigio, di maggiore immagine e di maggiore diffusione delle relative attività istituzionali nell’ambito territoriale di operatività. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 16529 del 3 aprile 2017. Da queste premesse, in una fattispecie in cui il reato di peculato era stato contestato al sindaco di un Comune, in relazione alla liquidazione di spese per incontri conviviali con altri amministratori locali, per discutere della possibilità di costituire una nuova unione di comuni in contrapposizione alla comunità montana di cui non si condivideva la linea politica, e con alcuni amministratori di istituti di credito, per ottenere sovvenzioni e prestiti per attività istituzionali del comune, la Corte ha ritenuto corretto che tali spese non fossero state considerate come "spese di rappresentanza". Peraltro, la sentenza di condanna è stata comunque annullata senza rinvio, per carenza di dimostrazione dell’elemento soggettivo, sul rilievo che si trattava in ogni caso di spese riconducibili a eventi e situazioni in qualche modo istituzionali e a finalità in qualche modo pubbliche, onde poteva legittimamente fondarsi l’errore di fatto scusabile ex articolo 47 del Cp, capace di escludere, a livello di elemento soggettivo del reato, il momento rappresentativo del dolo e cioè la certa consapevolezza, per un verso, della natura delle spese come sicuramente non di rappresentanza e, per l’altro e conseguentemente, dell’appartenenza del denaro oggetto di appropriazione alla pubblica amministrazione. In termini, circa la nozione di "spesa di rappresentanza" legittimamente imputabile all’ente pubblico, si veda sezione VI, 5 febbraio 2013, Grisenti e altri, secondo cui per tale deve intendersi solo quella destinata a soddisfare la funzione rappresentativa esterna dell’ente al fine di accrescere il prestigio dello stesso e darvi lustro nel contesto sociale in cui si colloca: nella specie, da queste premesse, è stato rigettato il ricorso avverso la sentenza di condanna ove si era ravvisato il reato di truffa nei confronti del presidente del consiglio di amministrazione di una società per azioni che si assumeva avesse fraudolentemente ottenuto dalla società il rimborso delle spese effettuate per pranzi non riferibili alla sua carica istituzionale, ma alla sua attività politica: era emerso, infatti, che i pranzi organizzati e per cui era stato ottenuto il rimborso, nulla avevano a che fare per loro oggetto e identità dei partecipanti con attività di rappresentanza o promozionali della società. Prevenzione infortuni lavoro: nesso causale tra infortunio e condotta omissiva del datore Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2017 Lavoro - Prevenzione infortuni - Condotta incauta del lavoratore - Responsabilità del datore - Esclusione - Condizioni - Carattere dell’abnormità del comportamento del lavoratore - Necessità. La condotta incauta del lavoratore infortunato non assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento quando sia comunque riconducibile all’area di rischio propria della lavorazione svolta: in tal senso il datore di lavoro è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore, e le sue conseguenze, presentino i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive di organizzazione ricevute. (Nel caso in esame, l’infortunio era occorso al lavoratore mentre svolgeva la sua ordinaria attività di lavoro consistente nel taglio di arbusti in zona di montagna, onde i giudici della suprema Corte hanno ritenuto che non fosse stato posto alcun comportamento anomalo tale da poter essere qualificato come abnorme ed idoneo ad interrompere il nesso causale tra la condotta omissiva dell’imputato e l’evento). • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 30 marzo 2017 n. 16123. Lavoro - Prevenzione infortuni sul lavoro - Obblighi di informazione e formazione dei lavoratori - Violazione - Condotta imprudente del lavoratore - Infortunio mortale - Responsabilità del datore. Il datore di lavoro che non adempie agli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, a titolo di colpa specifica, dell’infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore il quale, nell’espletamento delle proprie mansioni, pone in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi. (Nella specie, il lavoratore, che si era trovato nella necessità di sganciare il rimorchio di un autocarro, si procurava la morte rimanendo schiacciato fra le due parti del veicolo mentre stava procedendo ad un incauto riaggancio, non rispettando quelle misure di sicurezza che una specifica formazione gli avrebbe sicuramente fatto conoscere). • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 1° ottobre 2015 n. 39765. Lavoro - Prevenzione infortuni - Condotta omissiva del datore di lavoro - Comportamento abnorme del lavoratore - Interruzione del nesso causale - Condizioni - Fattispecie. In tema di infortuni sul lavoro, non integra il "comportamento abnorme" idoneo a escludere il nesso di causalità tra la condotta omissiva del datore di lavoro e l’evento lesivo o mortale patito dal lavoratore il compimento da parte di quest’ultimo di un’operazione che, seppure inutile e imprudente, non risulta eccentrica rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate nell’ambito del ciclo produttivo. (Nel caso di specie, relativo all’amputazione di una falange ungueale subita dal dipendente di un panificio che aveva introdotto la mano negli ingranaggi privi di protezione di una macchina "spezzatrice", la Corte ha ritenuto irrilevante accertare se il lavoratore avesse inteso separare un pezzo di pasta dall’altro o invece eliminare delle sbavature del prodotto). • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 19 febbraio 2014 n. 7955. Lavoro - Prevenzione infortuni - Obbligo del datore di garantire la sicurezza sul luogo di lavoro - Contenuti - Comportamento negligente del lavoratore - Rilevanza - Limiti. In tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore faccia venir meno la responsabilità del datore di lavoro, occorre un vero e proprio contegno abnorme del lavoratore medesimo, configurabile come un fatto assolutamente eccezionale e del tutto al di fuori della normale prevedibilità, quale non può considerarsi la condotta che si discosti fisiologicamente dal virtuale ideale. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 29 maggio 2014 n. 22249. Stati Generali Esecuzione penale e criteri progettuali: dopo quasi un anno alcune domande di Domenico Alessandro De Rossi* Ristretti Orizzonti, 8 maggio 2017 A quasi un anno dagli Stati generali dell’esecuzione penale, dopo l’esperienza del concorso per il "nuovo" carcere di Nola, quali sono gli strumenti che nel rispetto della normativa specifica e nel rispetto del mantenimento della condanna, possono essere di aiuto al progettista affinché sia messo in condizione di procedere con sicurezza sul terreno di una progettazione sostenibile del carcere? Gli Stati generali: flatus vocis o mera propaganda? Campagna politico mediatica o semplice retorica? Quale criterio progettuale o più alta metodologia scientifica, se possibile, sono scaturiti e messi in campo tali da individuare un accettabile margine di benessere all’interno degli spazi penitenziari vecchi e nuovi? Ovviamente, non solo per coloro che nel carcere sono ristretti. Poniamoci qualche domanda: "Quanto possono essere di aiuto al progettista i suggerimenti degli psicologi e in generale di tutti coloro che sono specializzati in materia, che hanno maturato esperienza diretta nell’universo della detenzione? Che tipo di reattività si riscontra nell’individuo costretto a vivere in spazi ridotti? Che incidenza ha la luce naturale e/o artificiale sulla psiche del detenuto per prevenire depressioni, patologie connesse o addirittura suicidi? Quanto è importante la configurazione dello spazio architettonico nel mantenimento della salute mentale di chi vive o lavora per anni all’interno di un penitenziario? Qual è l’incidenza dei suicidi in situazioni di stress prolungato dovuto a carenza o in difetto di spazi adeguati? E il riverbero sonoro? Che valore ha l’eco o il rumore assordante all’interno degli ambienti nel generare fenomeni di alienazione e straniamento? Che rapporto dimensionale ci deve essere tra locali "artificiali" destinati alla detenzione e spazi (sorvegliati) ove sia possibile respirare aria all’aperto? Il verde e la vegetazione possono concorrere per la qualificazione degli spazi all’aperto e, se del caso, in che misura al miglioramento delle condizioni psicologiche della detenzione? All’interno del carcere siamo certi che sia utile che tutti gli ambienti, gli spazi, gli arredi e le componenti edilizie debbano sempre e necessariamente veicolare messaggi di durezza, di costrizione, di oppressione? È proprio necessario che la scatola edilizia sia percepita sempre e solo in termini di cancelli, grate, inferriate e bulloni? Può il progettista immaginare sistemi che, garantendo comunque la sicurezza, la vigilanza, il controllo e l’economia, siano conformati in modo da non generare necessariamente stimoli reattivi e di sofferenza in chi è costretto a vivere per lungo tempo in ambienti del tutto artificiali? Siamo certi che la detenzione di donne in stato di gravidanza o che abbiano figli che con loro convivono in stato di detenzione non debbano scontare la pena in ambienti appositamente ricreati, fatti più a misura di asilo e meno di carcere, con ambienti interni e spazi all’aperto per la cura e custodia del bambino? Siamo sicuri che la maternità e tutto quel che segue in ordine all’affetto e all’educazione del bambino possano trovare in un carcere di forma tradizionale la migliore soluzione per le future generazioni che, senza alcuna colpa, trascorrono oggi i primi anni della loro vita in carcere vicino alle loro madri?". È giusto porsi tali interrogativi perché vengano rivolti in primo luogo alle istituzioni, al Dap, agli esperti e a coloro che in seguito dovranno svolgere in modo corretto una progettazione che sia al meglio adeguata alle esigenze di una più umana detenzione, tenendo ben presente il necessario punto di equilibrio tra la riabilitazione e l’inviolabilità del principio del ristoro della vittima. E il carcere di Nola è la risposta più attuale e significativa agli Stati generali dell’esecuzione penale? Queste e non solo, sono alcune tra le domande che la Commissione della Lidu Onlus (Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo - www.liduonlus.it) "Diritti della persona privata della Libertà", porrà a fine maggio a Bruxelles ai paesi U.E. nella sessione annuale della Aedh (aedh.eu) destinata alla riflessione sulla questione carceraria, alla luce della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo e delle valutazioni prodotte dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e dei trattamenti inumani o degradanti (C.P.T.) nella sua attività di monitoraggio e controllo. È più che evidente, almeno per chi scrive, che la riflessione debba interessare nella sua più intera problematica anche coloro che lavorano a pieno titolo e con diverse "funzioni" all’interno del carcere. *Presidente Commissione Lidu Onlus - Diritti della persona privata della Libertà Istituti penitenziari e riservatezza dei dati: applicazione delle norme sulla privacy di Manila Di Gennaro Ristretti Orizzonti, 8 maggio 2017 Il 3 maggio 2017 presso gli Istituti Penitenziari "G. Passerini" di Civitavecchia si è svolto l’evento formativo "Istituti penitenziari e riservatezza dei dati: applicazione delle norme sulla privacy". Scopo dell’iniziativa è stato quello di affrontare in maniera sinergica i temi della sanità e della privacy nell’ambito delle strutture carcerarie, alla luce del recente Regolamento (UE) 2016/679 ove si pongono nuove tematiche che coinvolgono le amministrazioni carcerarie sia dentro le mura che fuori, nei rapporti con i soggetti esterni ed in particolare con le ASL. Gli Istituti Penitenziari e l’ASL RM4 stanno lavorando all’attuazione di un protocollo d’intesa inter-istituzionale per il trattamento dei dati personali del detenuto, per il suo benessere fisico, emotivo e psichico ed alla creazione di un tavolo tecnico regionale, coinvolgendo anche il garante dei detenuti. Infine, ottenere il riconoscimento del tavolo regionale di lavoro, sul trattamento dei dati personali del recluso, anche nell’ambito del reinserimento sociale: detenuto titolare di diritti. È fondamentale garantire l’equità nella differenza. Gli Istituti Penitenziari "G. Passerini" e l’ASL RM4, sono inoltre capofila per la programmazione di azioni sanitarie nella lotta al disagio psichico a favore della popolazione detenuta, inoltre, sono penitenziari "pilota" per l’ASL, per la lotta all’autolesionismo dei detenuti durante la carcerazione. Hanno partecipato all’evento: Patrizia Bravetti Direttore degli Istituti Penitenziari "G. Passerini" di Civitavecchia; Cinzia Calandrino Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise; Stefano Anastasia Garante dei Detenuti Lazio; Giuseppe Quintavalle Direttore Generale ASL Roma 4; Pier Luigi Cervellini Medicina Penitenziaria ASL Roma 4; Massimilano Parla Scudomed; Alessio D’Amato Cabina di regia - Regione Lazio; Ines Pisano Consigliere del T.A.R. Lazio; Federica Resta Ufficio Garante Privacy. Milano: quando i detenuti parlano alla città (grazie a un giudice) di Paolo Foschini Corriere della Sera, 8 maggio 2017 Questa settimana a Milano è successo un fatto un po’ eccezionale. Tre diversi gruppi di detenuti delle tre carceri di San Vittore, Opera e Bollate sono usciti per altrettanti pomeriggi dai rispettivi istituti per mostrare gli esiti delle loro attività di recupero: con il loro coro, il loro gruppo di teatro, le loro tele. Merito in primis di chi ha avuto l’idea, l’Università Bicocca, subito sposata dal provveditore delle carceri lombarde Pagano. E direttori, polizia penitenziaria, operatori: tutti hanno contribuito. Ma nulla sarebbe successo senza una sensibilità della magistratura cui spetta infine di concedere o no ai detenuti i relativi permessi di uscita ai sensi dell’art. 30, quello dei "gravi motivi familiari": cioè puoi uscire se ti muore un parente, questa era la prassi. Ora, tra tanti permessi concessi invece in questa occasione, merita una segnalazione quello del giudice Stefano Caramellino: il quale per motivare il suo "sì" scrive che "il concetto di famiglia è meritevole di revisione" dopo la legge che prevede "nuovi modelli di famiglia slegati dal matrimonio". Lo Stato deve tutelare "le formazioni sociali ove si svolge la personalità umana" e questi nuovi modelli di famiglia "prescindono da un rapporto di filiazione": oggi è giusto "includere nella nozione di famiglia anche il gruppo trattamentale" di un carcere, se frequentato con impegno. Fosse anche un coro. C’è da sperare che sia un precedente. E Milano sarà stata ancora una volta un modello da imitare. Taranto: nei panni di un detenuto, il percorso artistico in carcere firmato da Bonito Oliva Redattore Sociale, 8 maggio 2017 Il progetto dal titolo "L’altra città" ha l’obiettivo di far conoscere la realtà penitenziaria. Ha preso il via nella casa circondariale "Carmelo Magli" di Taranto con installazioni nella sezione femminile. Il visitatore si troverà a fare tutto il percorso: dall’entrata in carcere, alla detenzione fino all’attesa della libertà. Cosa si prova a mettersi nei panni di un detenuto? Come ci si sente a entrare in un carcere o a restare chiusi in una cella di isolamento? Nella Casa circondariale "Carmelo Magli" di Taranto, sarà possibile vivere questa esperienza grazie a un evento artistico-culturale curato dal teorico e critico d’arte Achille Bonito Oliva e da Giovanni Lamarca, comandante del reparto di Polizia Penitenziaria della locale casa circondariale. L’evento, dal titolo "L’altra città. Un percorso partecipativo e interattivo nella realtà carceraria italiana" è stato realizzato con il contributo di detenuti, personale in servizio e in pensione (Anppe), artisti, esperti e scrittori. L’installazione consiste in un’opera site specific realizzata nella sezione femminile del carcere. Si tratta, nelle intenzioni degli organizzatori, "di un percorso artistico, culturale e sociale che presenta l’esperienza detentiva come reale opportunità di crescita interiore e di apertura a possibili cambiamenti, dando modo al visitatore di percepire ciò che sono i luoghi della pena oggi al di là dei luoghi comuni proposti dal cinema o da certa informazione sensazionalistica". "L’idea è creare spazio dialogico tra la città di Taranto e l’altra città rappresentata dal carcere - spiega Annapaola La Catena, sociologa e scrittrice -. Non vogliamo portare l’arte nel carcere ma fare in modo che siano gli stessi detenuti a realizzare l’opera, provando a far capire a chi sta all’esterno cosa significa la perdita di libertà". Il visitatore si troverà quindi a fare tutto il percorso: dall’entrata in carcere, alla detenzione fino all’attesa della libertà. "Pensiamo che stando chiuso in cella anche per pochi minuti, chi usufruisce dell’esperienza possa fare un percorso anche al suo interno - continua La Catena -. Abbiamo lavorato molto con i detenuti attraverso le loro emozioni e stati d’animo, ma anche sul concetto di pena e di colpa. Pensiamo che l’idea di rieducazioni passi anche attraverso la bellezza e la ricostruzione di sé". Nello specifico, il progetto si articola in diversi momenti di interazione con i detenuti. Innanzitutto è stato realizzato un laboratorio sulla didattica dell’arte che ha coinvolto un gruppo di detenute fornendo non solo le basi conoscitive sulle pratiche artistiche dell’arte contemporanea ma anche, e soprattutto, sollecitando una riflessione personale sul proprio percorso esistenziale e sull’esperienza della detenzione. Nella fase successiva sono stati realizzati interventi artistici che hanno mutato la natura della sezione detentiva, realizzando con segni, scritture, simboli e immagini un’eccezionale installazione site specific. Attraverso la sfera emotiva e sensoriale, il potenziale fruitore, sarà poi coinvolto interagendo con la realtà carceraria e compiendo un reale percorso che lo condurrà dalla sensazione di detenzione e di isolamento a quella di emancipazione e condivisione della propria libertà. "Non più escluso, a debita distanza dall’opera come nelle mostre tradizionali, ma letteralmente incluso", come afferma Achille Bonito Oliva. L’esperienza de "L’altra città" è accompagnata da una pubblicazione monografica, curata da Achille Bonito Oliva e Giovanni Lamarca, edita dalle Edizioni Gangemi di Roma. Alla prefazione di Carmelo Cantone, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Puglia e la Basilicata, seguono testi di Achille Bonito Oliva, Giovanni Lamarca, Roberto Lacarbonara, Giulio De Mitri, Anna Paola Lacatena, apparato iconografico (crediti fotografici di Giorgio Ciardo e Roberto Pedron) e note biografiche sugli autori. I proventi della vendita dello stesso sono destinati all’Associazione di volontariato penitenziario "Noi e Voi", ente promotore del progetto, operante da anni all’interno della Casa Circondariale di Taranto, per favorire la realizzazione di progetti di recupero dei detenuti. Milano: migrante del Mali si impicca accanto ai binari della Stazione Centrale di Massimo Luce La Stampa, 8 maggio 2017 Il giovane, 31 anni, è stato identificato grazie alle impronte digitali: aveva fatto richiesta di protezione internazionale. L’assessore Majorino: "Occorre rafforzare ancora di più la rete degli interventi sociali". Aveva 31, era originario del Mali, Africa occidentale, ed era disperato. Per porre fine alla sua giovane vita ha scelto il lato della massicciata della Stazione Centrale che si affaccia su via Ferrante Aporti: lì si è impiccato. L’allarme è scattato subito dopo mezzogiorno quando il corpo dell’uomo, ancora in vita, è stato notato penzolare all’altezza del numero civico 81 della via che costeggia i binari della stazione (che sono sopraelevati), e dove ci sono diversi magazzini e depositi. In poco tempo sono arrivati sul posto carabinieri, vigili del fuoco e 118 e il ragazzo, è stato trasportato all’ospedale di Niguarda dove poco dopo è morto. Addosso non gli sono stati trovati documenti; le autorità hanno potuto accertare le sue generalità solo grazie alle impronte digitali. Era in Italia da un anno e mezzo e aveva fatto richiesta di protezione internazionale. Allo stato non è stata disposta l’autopsia, mentre sul caso del ragazzo - di cui non è ancora noto dove dimorasse - indagano i carabinieri della compagnia Porta Monforte. Per compiere il gesto l’uomo - che si è inerpicato sul muro che porta alla massicciata, da cui poi si è lasciato cadere - ha scelto un posto non distante dal Centro di aiuto sociale del comune (Casc) che si occupa di controllare i documenti e smistare i migranti che giungono in Centrale ai diversi centri di accoglienza del capoluogo lombardo. Da Palazzo Marino, sede del comune di Milano, è stato espresso "cordoglio e dolore" per la tragedia accaduta, specificando che l’uomo "non risulta tra gli assistiti presso l’hub di via Sammartini o presso le strutture di accoglienza del Comune di Milano". Dopo quanto successo l’assessore alle politiche sociali, Pierfrancesco Majorino, ha sottolineato "il bisogno di rafforzare ancora di più la rete degli interventi sociali. In questo Paese è la priorità assoluta". Per ricordare il giovane uomo il parroco della chiesa di Santa Maria Goretti, la più vicina al luogo dove si è consumato il dramma, il parroco don Giulio Savina, ha organizzato un momento di preghiera, anche in rappresentanza della Diocesi, della Caritas ambrosiana, e di chi è alle prese con l’emergenza sociale dei migranti ed è rimasto scosso da quanto avvenuto. Sulmona (Aq): la Uil-Pa chiede la chiusura del Reparto penitenziario ospedaliero abruzzoquotidiano.it, 8 maggio 2017 A seguito delle disposizioni impartite dal manager della Asl Rinaldo Tordera, nell’elenco degli ambulatori siti nell’ala vecchia dichiarata inagibile dell’ospedale di Sulmona e da trasferire entro Maggio, non è contemplato ci sia il locale che, non è sminuente affermare, rappresenta quello più a rischio di tutti vale a dire il repartino penitenziario che ospita i detenuti ricoverati. A denunciare la mancanza di indicazioni in merito è Mauro Nardella Segretario Generale Territoriale Uil-Pa Polizia Penitenziaria. Da anni- afferma Nardella - ci stiamo adoperando per far sì che quella che definiamo essere una vera e propria trappola per topi venga chiusa e non solo per le questioni legate al problema dell’agibilità sismica. Tuttavia, pur essendo in itinere la costruzione del nuovo padiglione penitenziario presso il nuovo ospedale attualmente in costruzione, i ricoveri dei detenuti altamente pericolosi provenienti dal locale carcere vengono tuttora effettuati nell’angusto locale sito nei sotterranei dell’ala vecchia del nosocomio ovidiano e che, lo ricordiamo, è stato reso finora vivibile solo grazie alla preziosa opera dell’attuale Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione dell’ospedale Marco Lotito. Abbiamo apprezzato - continua il segretario generale territoriale Uil - le parole del dr. Tordera quando ha affermato che "Il problema dell’agibilità dell’ala vecchia dell’ospedale di Sulmona, in passato non era mai stato affrontato e che lo ha da subito fatto perché c’è in ballo la sicurezza di utenti e operatori sanitari, che lavorano nell’ala vecchia dell’attuale ospedale, da anni giudicata inagibile, aggiungendo inoltre che, così facendo, utenti e personale sanitario avranno ambienti più confortevoli rispetto all’attuale condizione di lavoro e che si tradurrà in un miglioramento complessivo delle prestazioni. Tuttavia al manager Asl vogliamo ricordare che sotto i 4 piani dell’ala ospedaliera più insicura del presidio ospedaliero tra le persone da tutelare vi sono anche coloro i quali lavorano e/o sono costretti a stazionare e cioè i poliziotti e i detenuti del supercarcere di Sulmona". Al manager Asl, al quale abbiamo inviato una missiva, chiediamo - conclude Mauro Nardella - che anche questa componente ospedaliera la quale, proprio in virtù delle affermazioni fatte dallo stesso manager risulta essere tra le più insicure d’Italia, venga immediatamente chiusa e trasferita in altre strutture più sicure e, nelle more, atteso che non è dato sapere se vi sono disponibili nell’immediato locali a Sulmona, effettuare gli eventuali futuri ricoveri nella più confortevole e sicura struttura sita nell’ospedale civile de L’Aquila. La Uil vigilerà attentamente non escludendo, qualora non verranno adottate le giuste misure, di ricorrere alla componente magistratura. Torino: "subiamo troppe aggressioni", alla Caritas arrivano i vigilantes di Fabrizio Assandri e Paolo Coccorese La Stampa, 8 maggio 2017 Parroci e volontari picchiati e insultati. E ora a Torino si sperimenta anche un Daspo. Una paura permanente. È il risultato "dell’aumento di tensioni e minacce per i nostri operatori. E non c’è peggior compagna per chi si impegna nel nostro servizio. Si rischia così di reagire in due modi quando un bisognoso bussa alla nostra porta: lo si allontana o se ne diventa schiavi". A parlare è Pierluigi Dovis, direttore della Caritas diocesana di Torino, la cui rete coordina sportelli in ben 130 parrocchie. Da mesi, i tre centri d’ascolto gestiti direttamente hanno ingaggiato un’azienda di vigilanza privata per la sicurezza di volontari e utenti. Non era mai stato necessario. Il corso sulla difesa - E ieri mattina la Caritas ha riunito un centinaio di volontari di chiese, mense, associazioni per seguire un breve corso non sull’accoglienza o sulla pastorale ma, e anche qui è la prima volta, su come difendersi. In platea c’erano suore vincenziane, cappellani degli ospedali e fedeli. Il primo nemico da sconfiggere è il silenzio. "Perché - spiega Dovis - molti volontari hanno pudore e non denunciano quei santi farabutti che ci riempiono di misericordie. E non solo". Il ricatto psicologico - Don Agostino Cornale, parroco di Borgo Vittoria, periferia ex operaia, ha raccontato: "Una persona, dopo che gli ho detto che non potevo dargli denaro, mi ha preso a pugni, mi ha lanciato un portaombrelli. Me la sono vista brutta". La violenza fisica spesso comincia con quella che alla Caritas chiamano "ricatto psicologico e spirituale: visto che siamo la Chiesa, tutto è dovuto". Basta un no a scatenare la rabbia. "I nostri volontari sono 5 mila - dicono dalla Caritas - c’è poco ricambio. L’età media è 70 anni". Sul palco c’è chi parla degli occhiali: "Se li hai, basta un pugno per avere danni seri". Chi del rischio paura: "In un anziano può fare molto più delle botte". Il "Daspo" - Dall’altra parte del banco c’è un esercito di bisognosi: "Un nostro centro da solo ne accoglie 10 mila l’anno. Il numero non è cresciuto, ma sono sempre più disperati e qualcuno sviluppa una rabbia distruttiva". Si alza Umberto Lettieri, carabiniere in pensione, volontario di un emporio sociale. "In un caso di aggressione, non dovremmo fare come dice papa Francesco, rispondere con un pugno?". Una battuta per esorcizzare le paure: "Al nostro sportello, un signore è venuto armato di martello. Lo abbiamo allontanato con una specie di Daspo". Il decalogo per prevenire episodi di violenza - L’incontro era fatto col sindacato di polizia Ugl e una società di vigilanza, con un nome da film, Mib, Men in Black. C’era anche Oro, pastore tedesco impegnato nei controlli antiterrorismo in metro, e adesso anche fuori dal centro d’ascolto. Ai partecipanti è stato distribuito il volantino pubblicitario dei vigilantes. Su richiesta della Caritas, le guardie sono in borghese e senza armi. "La legittima difesa? Non sono per il Far West - dice Dovis - ma non possiamo nemmeno aspettare l’arcangelo Gabriele con la spada". Ai volontari è stato fornito una sorta di decalogo per prevenire episodi di violenza. "È come il fenomeno delle truffe agli anziani - ha spiegato Antonio Zullo, poliziotto e criminologo - voi non rinunciate a far del bene, ma con certe regole". Non restare mai soli. Dotarsi di telecamere. Scrivere alla questura il numero degli utenti e i problemi di sicurezza. Alcuni accorgimenti sono psicologici, altri tecnici: "Dovreste dotarvi di un dispositivo collegato con le forze dell’ordine". I volontari "ultima spiaggia" - Ma per Dovis bisogna riorganizzare anche i servizi: "Meglio aprire un giorno in meno, ma in sicurezza, quando si è in due". Wally Falchi, responsabile del centro di ascolto Le due tuniche, spiega il perché a suo dire i volontari catalizzano la violenza: "Perché siamo l’ultima spiaggia. Chi viene da noi le ha già provate tutte, ha ricevuto no dalle case popolari, dai servizi sociali. Ora cerchiamo di tutelarci, ma c’è da riflettere su questa rabbia". Torino: nasce il sistema anti-bulli, tra sostegno alle vittime e giustizia riparativa di Gabriele Guccione La Repubblica, 8 maggio 2017 Il progetto prevede l’inserimento in programmi di recupero le vittime del bullismo. Ma c’è anche attenzione per i persecutori che saranno presi a carico dai servizi sociali. Nell’ultimo anno scolastico sono state 84 le vittime di bullismo. Progetto della Giunta che coinvolge Procura, Servizi Sociali, Università e Asl. Altolà ai bulli sotto la Mole, dove nasce un sistema "anti-bullismo" che, per la prima volta, vede uniti procura dei minori e vigili urbani, servizi sociali e psicologi, scuole ed educatori, Asl e università. Un salvagente ideato per dare sostegno soprattutto ai ragazzi e alle ragazze vittime del bullismo, ma anche ai loro persecutori, i quali saranno inseriti in un percorso di "giustizia riparativa", mentre ai loro compagni di classe saranno proposti incontri di sensibilizzazione e informazione nelle scuole. L’atto fondativo del nuovo "sistema anti- bulli" è stato adottato dalla giunta comunale e nelle prossime settimane sarà ratificato, con la firma di un protocollo d’intesa, dalla sindaca Chiara Appendino, dal procuratore per i minorenni Anna Maria Baldelli, dal direttore dell’Asl Fabio Alberti, dal presidente dell’Ordine degli psicologi Alessandro Lombardo, dai responsabili dei dipartimenti universitari di Psicologia e di Scienze dell’educazione, Alessandro Zennaro e Renato Grimaldi, dal direttore della Città della Salute Gian Paolo Zanetta e dal dirigente Benedetto Vitiello, dal provveditore Stefano Suraniti e dall’associazione Emdr. Un vero e proprio sistema che si metterà in moto tutte le volte che dalle scuole o dalle famiglie verrà denunciato un caso di bullismo. Su segnalazione della procura dei minori, degli psicologi o dei servizi sociali, infatti, i ragazzi vittime potranno essere inseriti in un percorso di appoggio terapeutico, mentre i loro persecutori saranno eventualmente presi in carico dai servizi sociali. Tutto questo, viene chiarito nel protocollo", per "permettere ai ragazzi di elaborare l’esperienza traumatica vissuta, aumentare l’autostima e trovare nuove strade di crescita che non siano legate al vissuto di vittime". Ma anche per sensibilizzare i compagni di scuola con corsi di formazione, mentre per gli autori degli atti di bullismo potrebbe scattare la "condanna" ad un periodo di volontariato in un’associazione, oltre al confronto con la vittima, secondo il metodo della ricomposizione dei conflitti e della riparazione del danno. Soltanto lo scorso anno scolastico le vittime di bullismo a Torino sono state 98. Numeri che fotografano solo una parte del fenomeno, quella che emerge dal silenzio e trova la forza di denunciare i soprusi agli agenti del nucleo di prossimità della polizia municipale, i quali si occupano del problema su mandato del tribunale dei minori. Casi di ragazzi e ragazze vessati, insultati, picchiati e ghettizzati dai loro stessi coetanei. Un quarto dei quali vittime di soprusi attraverso il web, di quello che ormai viene definito cyber-bullismo. Roma: a Regina Coeli è gara di parole fra detenuti e studenti, nel nome della retorica di Federica Rinaudo Il Messaggero, 8 maggio 2017 Verità contro post-verità. Una sfida a suon di retorica quella che ieri ha coinvolto nella Casa Circondariale di Regina Coeli una squadra formata dai detenuti contro quella degli alcuni studenti dell’Università Tor Vergata. Due round per #Guerradiparole2017, l’iniziativa organizzata dall’associazione per la retorica PerLaRe e sostenuta per la prima volta da Toyota Motor Italia, che scende in campo per una responsabilità sociale e per contribuire al miglioramento della società, come dichiara con fierezza l’ad Andrea Carlucci mentre si accomoda accanto ai giurati. A decretare il verdetto finale una giuria composta da: il giornalista Filippo Ceccarelli, il conduttore del TG1 Alberto Matano, l’attrice Isabella Ragonese, il direttore di Radio Radicale Alessio Falconio, la linguista Valeria Della Valle e l’avvocato penalista Bartolomeo Giordano, oltre allo stesso Carlucci. Premiare la forza delle argomentazioni, nel pieno rispetto delle regole, è l’obiettivo della gara (presentata da Flavia Trupia, presidente PerLare) che intende riconoscere la bravura di chi difende la propria tesi senza perdere la pazienza o insultare. Ogni formazione, composta da quindici persone, ha scelto un proprio portavoce e ha iniziato, non senza emozione e qualche imbarazzo, a dare vita alla kermesse che ha previsto un botta e risposta avvincente e conflittuale incentrato su un quesito: In alcuni casi è meglio dire la verità o una bugia buona?. Il confronto ha generato sorrisi, riflessioni spesso amare, in un sofisticato esercizio di auto-controllo e civiltà che ha premiato alla fine la squadra dei detenuti pronti a concludere la manifestazione con un pensiero originale ed ironico: "Il bugiardo non è un bugiardo ma un visionario, insomma qualcuno che va oltre dando un’interpretazione personale e futura". Con buona pace dei sostenitori della verità. Modena: da mercoledì in scena "Le città invisibili", 130 attori per Trasparenze Festival sassuolo2000.it, 8 maggio 2017 Mercoledì 10 maggio, dalle 19.30, presso il Parchetto di via San Giovanni Bosco a Modena va in scena lo spettacolo-evento "Le città invisibili", ispirato alle suggestioni dell’opera omonima di Italo Calvino. Un attraversamento urbano del quale sono protagonisti 130 allievi-attori del Teatro dei Venti, gli utenti del progetto l’Albatro/Teatro e Salute Mentale, alcuni ospiti della Casa Protetta San Giovanni Bosco, detenuti e internati del Carcere di Castelfranco Emilia, richiedenti asilo del progetto "Mare Nostrum", come apertura ideale di Trasparenze Festival. Lo spettacolo-evento ha la regia di Stefano Tè, con il coordinamento di Oksana Casolari, Francesca Figini, Davide Filippi, Antonio Santangelo. Musica dal vivo di Luca Cacciatore, Igino L. Caselgrandi, Giorgia Frisardi e Mario Sethl. Cura del suono Davide Cristiani. Ingresso Gratuito. "Lo chiamiamo attraversamento urbano - dice il regista Stefano Tè - perché non si tratta di uno spettacolo canonico, ma di una grande passeggiata poetica in cui è coinvolta per la prima volta, tutta insieme, la Comunità allargata che frequenta e dà vita al Teatro dei Venti. Corsisti e partecipanti ai laboratori e ad altri progetti socio-culturali, musicisti, insieme per mettere in scena una piccola visione. ù L’obiettivo è giungere a una riappropriazione simbolica dei luoghi del vivere sociale, il Parchetto, la Chiesa, la Ludoteca, la Casa Protetta, magari per prendercene cura in maniera più consapevole e creativa". L’evento "Le città invisibili" è realizzato con in contributo del Comune di Modena, il sostegno di Funder 35 (progetto Urban Theatre Experience) e di Caleidos Cooperativa Sociale, con la collaborazione di Arci Modena - Ludoteca Strapapera, Casa Protetta San Giovanni Bosco, Parrocchia San Pio X. "Le città invisibili" si colloca in apertura della quinta edizione di Trasparenze Festival, con un brindisi simbolico che darà l’avvio ai quattro giorni di spettacoli ed eventi organizzati dal Teatro dei Venti. Il Festival proseguirà fino al 14 maggio coinvolgendo diversi spazi della città, dal Carcere Sant’Anna, con gli spettacoli "Malaluna" di Vincenzo Pirrotta l’11 maggio e "All’inferno" di Kronoteatro il 12 maggio; il Teatro dei Segni con la prima regionale di …. l’11 maggio, il 12 maggio…e "Albania casa mia" di Aleksandros Memetaj, "Acqua di Colonia: Zibaldino Africano" il 13 maggio, e l’Esito del progetto "Cantieri" il 14 maggio. In scena anche la prima nazionale della compagnia messicana Vaca 35, che sarà in scena con lo spettacolo "…." il 12 e 13 maggio nello spazio non convenzionale del Magazzino di Via Morandi 71. Anche quest’anno la musica continuerà ad attraversare il programma di Trasparenze, con gli intervalli musicali a partire dalle ore 19.00 e i concerti dalle 22 in poi, con sonorità e generi diversi: 11 maggio Waymon Changes; 12 maggio The Royal Stompers Dixieland Band; 13 maggio Krasì e Biagio Mele Dj; 14 maggio Samba De Quintal. Tutti i concerti sono a ingresso gratuito. Extra-Festival. Trasparenze prosegue sul filo con Andrea Loreni - Il Funambolo che sarà presente con un Laboratorio sull’arte del funambolismo presso il Carcere di Modena e con una Camminata sul cielo di Modena in Piazza Grande, sabato 20 maggio (ore 00.30) nell’ambito della Notte Bianca. Evento realizzato in collaborazione con il Comune di Modena, la Casa Circondariale di Modena e la Casa di Reclusione di Castelfranco, ideale appendice di Trasparenze Festival e della sua camminata tra reale e immaginario. Programma e prenotazioni sul sito trasparenzefestival.it. Info e contatti: 3456018277; biglietteria@trasparenzefestival.it. Torino: i dialoghi di Shady Hamadi con i ragazzi del "Ferrante Aporti" di Monica Cristina Gallo La Repubblica, 8 maggio 2017 Un mese ricco di appuntamenti per conoscere meglio il carcere attraverso gli autori che lo raccontano con le iniziative: Adotta uno scrittore, Volta pagina e Salone off. "Adotta uno scrittore" è un’iniziativa collaterale del Salone Internazionale del Libro cosi come il Salone off e Volta pagina, e da quindici anni introduce gli scrittori contemporanei tra i ragazzi nelle scuole della nostra Regione e nelle carceri piemontesi sedi di Istituti secondari. Quest’anno i ragazzi dell’Istituto Minorile Ferrante Aporti hanno "adottato" lo scrittore italo - siriano Shady Hamadi trascorrendo con lui alcune giornate di dialogo e confronto, hanno toccato temi importanti come la convivenza tra cristiani e musulmani, la difficoltà di una giovinezza trascorsa in parte dietro le sbarre, e la possibilità di riemergerne migliori e più forti. "Volevo anche inoltrarmi nel tema della radicalizzazione" dice Shady "e ho appurato come il carcere può essere terreno fertile per gli imprenditori dell’odio, i fondamentalisti. I ragazzi mi hanno ascoltato e al termine degli incontri collettivi alcuni hanno voluto uno spazio riservato per potersi confidare e per il desiderio di farmi conoscere le ragioni per le quali si trovano li." La tragicità della loro condizione di reclusione, la tragedia della guerra in Siria, gli amici e i parenti inghiottiti nelle carceri siriane sono stati alcuni dei temi sui quali ci siamo soffermati a lungo". I ragazzi preparati dai loro insegnanti attraverso la lettura dell’ultimo libro di Shady Hamadi "Esilio dalla Siria. Una lotta contro l’indifferenza" scritto dopo il successo de "La felicità araba" erano desiderosi di sapere altro e l’autore un po’ in lingua Italiana e un po’ in lingua araba ha narrato le vicende del padre, le torture subite e l’esilio. " Ho trovato ragazzi attenti e partecipi ai temi della sofferenza, e soprattutto sconvolti dai miei racconti sul carcere siriano: un macello fra quattro mura aperto a tutti coloro ritenuti responsabili di essere contro il regime". Non ha risparmiato le storie più intime che ben conosce ed è cosi che ha catturato l’interesse di tutti i giovani ospiti del carcere minorile che hanno ritrovato in Shady qualcuno come molti di loro di "doppia appartenenza". Shady Hamadi tornerà al "Ferrante Aporti" perché vuole unire il dentro e il fuori con il dialogo e la comprensione e l’evento sarà aperto al pubblico il giorno 9 maggio alle ore 15. Per parecipare all’incontro con lo scrittore e i ragazzi del Ferrante Aporti è necessario inviare la scansione del proprio documento d’identità all’indirizzo: ipm.torino.dgm@giustizia.it "Bisogna intervenire sui giovani, io sento, investire su percorsi di de radicalizzazione". Quello di Shady Hamadi non è un progetto ambizioso ma un progetto urgente ed indispensabile nelle nostre carceri. Parlare di carcere attraverso i libri, con narrazioni che raccontano il " dentro" è un impegno verso il quale è necessario investire. Creare un ponte fra il "dentro" e il "fuori" con lo strumento della cultura della lettura e della scrittura sarà il tema centrale degli incontri organizzati dall’Ufficio Garante del Comune di Torino presso lo spazio Freedhome di via Milano 2 in occasione della prossima edizione del Salone Off con i seguenti appuntamenti: 18 maggio alle ore 18 Remo Bassetti - Derelitti e delle pene; Chiara Castiglioni - Filosofia dentro; 20 maggio alle 18: Paolo Bellotti - Visti da dentro; Giancarlo Capozzoli - Signora libertà signorina fantasia; 23 maggio alle 18: Claudio Bottan - Pane e malavita; Eletta Revelli - Un amore di clochard. Foggia: 1.100 volumi donati al carcere dal Rotary Giordano e dal Rotaract Gazzetta del Mezzogiorno, 8 maggio 2017 È giunto alla sua conclusione il progetto solidale "Sulla scia… delle ali della libertà", ideato dal Rotaract club prendendo spunto dal noto film del 1994 "Le ali della libertà" diretto da Frank Darabont, con protagonisti Tim Robbins e Morgan Freeman. Nel film il protagonista, dopo innumerevoli ed insistenti lettere inviate al Senato, ottiene finanziamenti e libri per rinnovare la biblioteca del carcere in cui è detenuto. Con il nuovo materiale a disposizione, aiuta i detenuti a conseguire il diploma e a smettere di delinquere. Il service nazionale "Sulla scia… delle ali della libertà" mira a diffondere, attraverso la raccolta di libri da destinare alle biblioteche e ai programmi di studio carcerari, la cultura all’interno degli istituti di pena di tutta Italia. Il progetto ha un duplice obiettivo: risocializzazione e rieducazione dei detenuti. Lo scopo è fornire ai detenuti gli strumenti e/o aiutare l’Amministrazione carceraria (in particolare con il servizio di rieducazione) nel fornirli, affinché possano non tornare più a delinquere. Lo scorso aprile, il Rotaract club di Foggia ha effettuato la donazione dei libri raccolti nel capoluogo del tavoliere alla casa circondariale di Foggia, con una cerimonia svoltasi, all’interno dell’Istituto di pena, alla presenza del Direttore, Maria Consiglia Affatato, della Responsabile dell’area educativa, Eleonora Arena e dei rappresentanti del Rotaract di Foggia, il Presidente in carica Antonio D’Aries e il Presidente incoming Andrea Idea. Ha presenziato alla cerimonia il Presidente del Rotary Club Foggia "Umberto Giordano", Antonio Stango, poiché il suo club è stato il maggior contributore a livello nazionale. Su 9000 libri raccolti in tutta Italia, ben 5000 sono stati raccolti in Puglia e, di questi, 1100 dal solo club Rotary Foggia "Umberto Giordano". Palmi (Rc): la forza del teatro in carcere, scoprirsi attori per un giorno di Viviana Minasi inquietonotizie.it, 8 maggio 2017 I volontari del centro "Presenza" hanno portato a termine il percorso di rieducazione dei detenuti, recitando nell’opera di Eduardo Scarpetta "Na Santarella". "Sul palcoscenico si può fingere e recitare, nella vita no". È il vescovo della Diocesi di Oppido-Palmi, Francesco Milito, a pronunciare queste parole al termine della messa in scena di un’opera teatrale tra le più simpatiche di Eduardo Scarpetta, "Na Santarella". Lo dice al cast che ha recitato, attori non di professione ma per passione, per diletto, per scelta e in fondo anche per necessità. Necessità di vedersi nuovi e diversi, di scoprire sensibilità e capacità personali. Di rivivere. A recitare, infatti, sono stati alcuni detenuti nella Casa circondariale di Palmi, che grazie alla sensibilità del direttore della struttura Romolo Pani ed alla dedizione dei volontari del centro "Presenza" di Palmi, hanno messo in pedi uno spettacolo teatrale di tutto rispetto, mostrando impegno e passione, dedizione ed attenzione. Diretti dal regista Mauro Del Sordo, con la collaborazione di alcuni volontari del centro "Presenza", gli ospiti del carcere di Palmi (così il vescovo ha preferito chiamarli) hanno vissuto un’esperienza unica, l’esperienza del gruppo teatrale, che ha permesso loro di sperimentare ruoli differenti da quelli detenzione, basati sullo scambio e sulla condivisione. L’esperienza teatrale in carcere, curata dai volontari del dentro "Presenza", da diversi anni permette ai detenuti di intraprendere percorsi di rieducazione e di valorizzazione delle proprie abilità, magari da spendere all’esterno una volta scontata la pena detentiva. Erano presenti alla rappresentazione in carcere il direttore della struttura Romolo Pani, il sindaco di Palmi Giovanni Barone, la dirigente dell’area cultura del comune di Palmi Mariarosa Garipoli, il vescovo della Diocesi di Oppido-Palmi Francesco Milito, il presidente del Tribunale di Palmi Concettina Epifanio. Il cast dei volontari che hanno seguito il progetto e recitato insieme ai detenuti, era composto da Sabrina Esposito, Flavia Tedesco, Laura Romeo, Stefania Montebianco, Priscilla Ielati. Tanta l’emozione del pubblico, soprattutto dei familiari degli attori, che hanno potuto apprezzare bravura e la dedizione dei loro cari, dai quali si trovano costretti a vivere lontani. Un volontariato più diffuso e creativo di Elio Silva Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2017 Fino a qualche tempo fa l’attenzione per il volontariato era prevalentemente connessa alla dimensione civile ed etica dell’impegno speso gratuitamente per il bene comune. Non a caso l’associazionismo ha conquistato la ribalta delle cronache soprattutto in occasione di calamità ed eventi che hanno sollecitato la mobilitazione delle energie migliori del Paese, o si è reso protagonista nella narrativa delle "buone notizie", contrapposte a una quotidianità arida di esperienze e progettualità positive. Questo approccio rimane anche oggi prevalente, ma non è più il solo a pesare quando si considera il fenomeno del volontariato. La tendenza più recente tra gli osservatori qualificati segna, infatti, un cambio di passo, dettato dalla consapevolezza di almeno altre due dimensioni rilevanti: il valore economico prodotto, decisamente importante anche se basato sul principio di gratuità, e la capacità di creare competenze e innovazione sociale, con esiti concretamente apprezzabili sia durante i percorsi scolastici, sia nella sfera del lavoro. Sul valore economico delle prestazioni rese gratuitamente esiste ormai un’ampia letteratura. Basti ricordare che il volontariato in Italia coinvolge, secondo i più recenti dati Istat, almeno 6,6 milioni di persone, delle quali 4,1 milioni in forma organizzata e gli altri con modalità individuali e spontanee. Nel 2013, ultima annualità consuntivata, le ore di attività sono state oltre 126 milioni, "una mole di risorse umane ed economiche - osserva Luigi Bobba, sottosegretario al Lavoro e al Welfare con delega per il Terzo settore - che sono costantemente al servizio delle comunità territoriali di riferimento e, spesso, costituiscono il primo antidoto contro la disgregazione del tessuto sociale". Si fa così largo la consapevolezza del fatto che anche il volontariato (così come il non profit produttivo, ovviamente in maniera diversa) opera all’interno di una "sfera pubblica allargata", pilastro del welfare e delle reti dei servizi di pubblica utilità. Questa visione è oggetto di dibattito all’interno del mondo associativo ma, se ci si limita ai numeri, quanto meno il punto di partenza non appare in discussione. E non si può nemmeno immaginare in quale modo il nostro Paese potrebbe reggere alle emergenze sociali che quotidianamente lo affliggono, se non si rendesse continuamente disponibile il grande bacino operativo del volontariato. "Dai territori continuano a spuntare fermenti di vitalità di questo mondo", osserva Edoardo Patriarca, presidente del Cnv, Centro nazionale per il volontariato, che dal 12 al 14 maggio organizzerà a Lucca - insieme alla Fondazione volontariato e partecipazione - la settima edizione del Festival del volontariato, manifestazione che ha fatto registrare oltre 100mila presenze negli ultimi quattro anni. "Ciò che più sorprende in positivo - aggiunge - è che, mentre da un lato il fenomeno si rafforza nei settori dove può vantare una più radicata tradizione, come quello dell’assistenza, dall’altro si reinventa e moltiplica le energie in ambiti meno frequentati, come la cultura o il turismo sociale". Su questi fronti si innesta il secondo fattore di novità, che risiede appunto nell’inedita attitudine "professionalizzante" del volontariato, vissuto da sempre più persone come esperienza formativa. Anche a tal proposito esiste una vasta serie di best practices e importanti segnali di attenzione sono giunti dallo stesso legislatore, da ultimo con l’istituzione del Servizio civile universale, che potrà "certificare" le competenze acquisite. Non a caso Parlamento e Governo, nel ridisegnare l’intero assetto del Terzo settore, attraverso la legge di riforma 106/2016, che attende a breve i decreti d’attuazione, hanno individuato proprio nel volontariato, e più specificamente nei Centri di servizio che lo organizzano in reti, il motore dell’auspicato nuovo protagonismo della galassia non profit. Così, "nel momento stesso in cui si richiede maggiore tutela per il profilo dei volontari - osserva Stefano Tabò, presidente di CSVnet, il coordinamento nazionale dei Centri di servizio - si è messa in cantiere una promozione ad ampio spettro della loro presenza, con un raggio d’azione allargato a tutti i soggetti del Terzo settore. Questo dimostra che il volontariato riesce a muovere qualche cosa su cui non incidono con altrettanta energia ed efficacia i diversi contesti relazionali. La propensione all’associazionismo risponde direttamente a logiche che sono un patrimonio valoriale diffuso". Medio Oriente. L’estrema lotta per la dignità dei prigionieri politici di Patrizia Cecconi articolo21.org, 8 maggio 2017 La chiamavano lady di ferro. Sembrava quasi un complimento e magari ne andava fiera. In realtà era una donna terribile e non averla definita in modo corretto ha fatto sì che non si percepisse il suo essere un’assassina. Parliamo della Thatcher, premier britannica negli anni "80, la donna che ha fatto grandi danni alla Gran Bretagna distruggendo il welfare a favore del liberismo più sfrenato. La donna-premier che ha ordinato che morissero di fame dopo lunga agonia Bobby Sands e altri nove prigionieri politici nord irlandesi alle cui proteste rispondeva che "i carcerati non rappresentano nessuno e non hanno diritto di essere ascoltati". La donna che alla sua nomina di Primo ministro aveva dichiarato "dove regna la disperazione porterò la speranza." E il mondo delle istituzioni aveva finto di crederle. L’etichetta di "democrazia" ha coperto e copre tuttora le peggiori nefandezze, basti vedere Israele come esempio paradigmatico di questa affermazione. La Thatcher pensava che la morte dei prigionieri politici sarebbe stata la fine delle rivendicazioni dell’IRA, e si sbagliava. Così come si sono sbagliati finora tutti gli statisti israeliani, dai vecchi terroristi sanguinari come Begin, poi diventato Primo ministro di Israele, ai nuovi razzisti come Lieberman o Bennet. "Sono un prigioniero politico perché sono l’effetto di una guerra perenne che il popolo irlandese oppresso combatte contro un regime straniero, schiacciante, non voluto, che rifiuta di andarsene dalla nostra terra" questo aveva scritto Bobby Sands nei pezzetti di carta igienica che riusciva a far uscire dal carcere, quando aveva iniziato la forma di lotta non violenta - che lo avrebbe portato alla morte - per rivendicare i diritti dei prigionieri politici che lottavano per l’indipendenza della loro terra. Ma la "lady di ferro" li scherniva, i carcerieri li massacravano e la più antica democrazia d’Europa non perdeva "per così poco" la sua definizione di nazione democratica, grazie a quella complicità mondiale tra i potenti della terra che supera anche le loro stesse rivalità. Le supera quando il nemico non ha altri padrini che la solidarietà umana e politica dei movimenti di piazza. Ora nelle carceri israeliane sono ben 1.600 i prigionieri in sciopero della fame. Non fa riflettere questo numero? No, non solo non fa riflettere, ma non fa neanche notizia se è vero - come è vero - che alla conferenza stampa convocata dall’Ambasciata palestinese a Roma non si è presentato neanche un giornalista. Neanche uno! Non fa notizia ciò che non si vuole dire né ciò che "non si può" dire. E sappiamo molto bene quanto la stampa mainstream sia addomesticata tra bastone e carota, al punto che piuttosto che mettere a rischio la propria carriera (spesso peraltro misera) molti giornalisti preferiscono autocensurarsi. Per questo è di fondamentale importanza l’uso dei social, per questo chi ha fatto simbolici digiuni ad acqua e sale e li ha condivisi sul web supplisce alla mancanza dell’informazione mainstream. Per questo è importante la stampa libera online. Poi, quando ormai la notizia sarà comunque arrivata, non potrà più essere ignorata neanche da Tv e quotidiani a libro paga. Ma fino al momento in cui questo articolo viene redatto, neanche la disgustosa reazione israeliana allo sciopero della fame ha fatto notizia in Italia. È dai giornali israeliani che si è appresa la notizia della reazione allo sciopero, ma solo i social l’hanno rilanciata. È stata una reazione di un razzismo e di una ferocia degna della più abietta sub-cultura in stile ku klux klan. Sappiamo che la feccia di quel tipo è trasversale ad ogni nazione e ad ogni credo, ma il particolare gravissimo per uno Stato che si dice democratico, è che le stesse esternazioni le ha fatte il ministro della Difesa Avigdor Lieberman il quale ha tranquillamente affermato, sapendo di avere il favore di gran parte del popolo israeliano, per lui i prigionieri dovrebbero essere lasciati morire di fame. Ma siccome la disumanità, unita alla ferocia di chi sa che resterà impunito non ha limiti, sono varie le esternazioni di rappresentanti istituzionali di Israele, le quali hanno raggiunto picchi da denuncia. È grave che i media siano rimasti distratti, perché la conoscenza di tali dichiarazioni è fondamentale per capire quale grave rischio sta correndo la cosiddetta democrazia israeliana visto che non c’è sanzione ma, al contrario, plauso per affermazioni quali quella del parlamentare della Knesset, Oren Hazan, che dileggia con feroce ironia le legittime proteste dei prigionieri dicendo che possono morire anche tutti tanto "le prigioni sono sovraffollate, mentre sulla terra c’è posto per tutti i loro cadaveri". Se questo esprimono ministri e parlamentari di uno Stato definito democratico, è naturale che la feccia, compresa probabilmente quella fatta di leggiadre bambine invitate nel 2014 a scrivere insulti sui missili mortali destinati ai loro coetanei a Gaza, aggiunga odio a odio invocando addirittura l’uso del gas e dei campi di sterminio nei confronti dei palestinesi. Quel "mai più" invocato da Primo Levi ha finito per avere la sua reinterpretazione in un "mai più per noi, popolo eletto" ma i palestinesi sono altra cosa! Ma cosa chiedono i prigionieri politici che stanno mettendo consapevolmente a rischio la propria vita, esattamente come fecero Bobby Sands e gli altri ragazzi irlandesi lasciati morire per decisione della Thatcher? Chiedono ciò che non dovrebbe neanche essere chiesto in uno Stato realmente democratico se, come già affermato oltre due secoli da Voltaire, il grado di civiltà di uno Stato si giudica dalle sue prigioni. Dunque, imporre trattamenti degradanti, rinchiudere centinaia di persone senza capo d’accusa, consentire percosse e torture diverse ai prigionieri, privarli dell’assistenza dei loro avvocati, delle visite dei loro familiari, lasciarli morire di tumore incatenati e senza cure, privarli dei più elementari diritti stabiliti dal Diritto universale e dalle varie normative della legalità internazionale a partire dalle Convenzioni di Ginevra, tutto questo non solo mette in mostra la vera faccia di Israele ma mette nella giusta luce la nobiltà di una protesta come quella lanciata da Marwan Barghouti, in galera da 15 anni, e accolta da quasi 1600 detenuti che sanno che forse questa forma di lotta segnerà la fine della loro vita. Ma la speranza dei detenuti è quella di conquistare la solidarietà di tutte le fazioni palestinesi dentro e fuori le galere israeliane e l’attenzione del mondo. Se il silenzio dei media verrà rotto dai social attivi nel web, forse ce la faranno. Il "Comitato palestinese per i prigionieri" chiede che si faccia pressione su Israele affinché accolga le richieste legittime dei detenuti. Ma non basta. Israele è paese occupante e questo il mondo democratico non può sottacerlo o tollerarlo. Ne va della democrazia di tutti. Questo lo sanno bene i leader dello sciopero i quali hanno rilasciato un comunicato in cui chiedono al popolo palestinese,sia in Palestina che in diaspora, di scatenare la sua rabbia contro l’occupazione e di bloccare le ambasciate israeliane in tutto il mondo, di organizzare presidi ovunque possibile sia dentro che fuori dalla Palestina. Intanto si sa che la Lega araba, finalmente, ha chiesto all’ONU di aprire immediatamente un’inchiesta internazionale sulle violazioni commesse da Israele nelle sue carceri, mentre il governo israeliano sta cercando medici che si prestino a praticare l’alimentazione forzata, pur sapendo che è vietata dalle convenzioni internazionali e in particolare dal protocollo di Malta del 1991 che la considera una forma di tortura. Se i prigionieri ce la faranno, Israele sarà comunque sostenuto dai suoi protettori internazionali, ma la sua immagine ne uscirà macchiata. Se i prigionieri non ce la faranno, perché Israele può contare sul sostegno del presidente degli Usa e di tanti altri Paesi alleati, alcuni di loro cominceranno a morire, ma l’immagine di Israele sarà comunque compromessa perché ciò che ormai non si potrà più nascondere sarà la superiorità morale dei prigionieri politici, i quali interpreteranno il ruolo che la storia gli assegna: quello di rappresentanti di un popolo oppresso da un Paese occupante, armato e potente contro il quale si batte chi lotta per la giustizia. Da qui il motto del loro sciopero: Dignità e Libertà. Siria. Il fondatore di Citizens for Syria: "non siamo solo terrorismo e guerra" di Giulia Torlone L’Espresso, 8 maggio 2017 Il progetto di Hozan Ibrahim è ambizioso: creare una rete tra tutte le organizzazioni che, nel mezzo di un conflitto sanguinoso, hanno continuato a lavorare per la società civile. Con una certezza: che i cittadini saranno l’unica vera forza in grado di dare il via a una transizione verso la pace. In Europa è difficile avere un’idea chiara di quello che è ed è stata la Siria. Nell’immaginario occidentale è il Paese da cui arrivano i rifugiati, e la loro fuga è diventata il terreno di scontro tra ideologie politiche che nulla hanno a che fare con l’emergenza umanitaria che il paese mediorientale sta vivendo da anni. La Siria divide, fa inasprire i toni del dibattito politico, commuove. In tutto questo scenario esiste e resiste una società civile silenziosa che non si è data per vinta. Di questa fa parte Hozan Ibrahim, che dal 2013 porta avanti un progetto ambizioso, Citizens for Syria. Il suo scopo primario lo racconta così: "fare una mappatura delle realtà coinvolte in Siria è stato un primo passo dettato dalla necessità di fare chiarezza. Abbiamo sentito il bisogno di creare una rete unica in cui tutte le Organizzazioni Non Governative coinvolte nel conflitto siriano potessero conoscersi e riconoscersi grazie a una piattaforma che le mettesse in collegamento". Il progetto del team guidato da Ibrahim tenta di collegare la società civile siriana che è in esilio, lontana dal proprio Paese, con le realtà locali e internazionali che si muovono all’interno dei confini della Siria. "Questo progetto, inizialmente nato per tenere insieme le persone costrette ad abbandonare la propria città per il conflitto o per le minacce ricevute dal regime, si è sviluppato fino a diventare un database completo, e disponibile a tutti, di tutte le Ong (ad oggi 750) che supportano i cittadini siriani, correlato da valutazioni dell’operato sul territorio." "Nel 2011 tutti speravamo di ottenere una vita migliore" racconta Hozan Ibrahim, siriano di Qamishliyah - cittadina a nord della Siria, confine con la Turchia, ricordando la primavera araba, quel momento in cui - dalla Tunisia all’Egitto - i movimenti popolari hano pensato di poter mettere in scacco i regimi autoritari. "Fu allora che la mia gente cominciò a esplorare la propria identità e a riconoscersi per la prima volta anche nelle differenze. Proprio quelle differenze che erano state a lungo nascoste o soppresse. Le persone iniziarono a parlare di religione ed etnia come di un’immagine che fa parte di un puzzle più grande e non più come un fattore di divisione". Il regime di Bashar al Assad fu duramente colpito dalle proteste popolari. Dopo la caduta dei regimi tunisino ed egiziano, infatti, le proteste si propagarono fino ad interessare il regime bàathista siriano. Nonostante i due principali centri urbani del Paese, Damasco ed Aleppo, non fossero il fulcro delle proteste (al contrario di quanto avvenuto in Tunisia ed Egitto dove le piazze principali erano quelle delle capitali), il movimento raggiunse comunque una portata tale da mettere in pericolo il regime. Assad scatenò una violenta repressione nei confronti dei manifestanti. Nei piccoli centri come Jisr al-Sughur o Homs, la terza città del Paese, le forze dell’ordine spararono sulle folle causando numerosissimi morti. Il seguito, è cronaca di guerra quotidiana che ancora non si placa. Non è stato facile il percorso di Hozan Ibrahim. Incarcerato due volte per aver partecipato ai movimenti della Primavera araba, ha fatto richiesta di asilo politico in Germania e all’inizio del 2012 la sua domanda è stata accettata. Così Hozan ha mosso i primi passi a Berlino. Racconta di aver scelto la capitale tedesca per essere vicino ai centri decisionali internazionali, essendo stato portavoce dei "Local Coordination Committees of Syria", il network che ha raggruppato i gruppi locali che hanno animato le rivolte del 2011. Un’organizzazione definita dal New York Times come "forza fondamentale" per una transizione democratica, perché opponeva il dialogo e la non violenza alla repressione del regime. "Oggi, dopo sei anni e dopo tutta questa violenza, quei giorni sembrano così lontani. Ma le speranze e i sogni non sono morti. Ogni volta che, viaggiando, incontro colleghi ed attivisti recupero la speranza di un tempo. Anche loro mantengono gli stessi sogni e lo stesso coraggio di non arrendersi". Citizen for Syria serve proprio a questo, a non arrendersi. E a mostrare al mondo quanto sia operosa quella società civile siriana che fa rete, collabora, lavora sul territorio o a distanza. "Collaboriamo in maniera a-politica. Ciò che sta a cuore a me e al mio gruppo di lavoro è tentare di mettere al centro del discorso politico internazionale il cittadino siriano. Né Assad né l’Isis né altri gruppi armati meritano di essere protagonisti del discorso internazionale. La transizione verso la pace si otterrà solamente coinvolgendo gli attori che sopravvivono a questa guerra spietata tra fazioni politiche. L’uso della forza sarà sempre fallimentare e poco lungimirante". Verso questa direzione, silenziosamente, si stanno muovendo le organizzazioni attive in Siria e per la Siria. Per promuovere qualcosa in più del mero aiuto umanitario che, pur nella sua massima utilità, non cambia gli equilibri a lungo termine. Nei paesi limitrofi alla Siria invece, numerose Ong hanno creato posti di lavoro per gli sfollati, affrontano i problemi legati alle documentazioni per le richieste d’asilo, denunciano i soprusi del regime. "È stato difficile riuscire a contare e analizzare tutte le realtà che si muovono in Siria. Nel regno della paura, partecipare al nostro sondaggio è stato molto pericoloso per loro. Eppure lo hanno fatto ed è per questo che il nostro lavoro è il primo nel suo genere". Queste organizzazioni formate dalla società civile siriana, secondo i dati che mostra Hozan, stanno al momento dando una mano a 5 milioni di rifugiati. Un auto-organizzazione difficile, ma che è uno schiaffo morale alla diplomazia internazionale che non trova una soluzione al conflitto. "La Siria non è la fonte del terrorismo ma il paese che in assoluto sta soffrendo di più proprio a causa di questo stigma. Sta combattendo la sua battaglia verso la democrazia, attraversando un momento di estrema violenza. Non banalizzate la nostra realtà". Stati Uniti. Il Texas "ridateci le forniture per le condanne a morte" di Riccardo Noury Corriere della Sera, 8 maggio 2017 Il Texas cita in giudizio la Food and Drug Administration. Nelle attuali, grottesche quanto macabre cronache sulla pena di morte negli Usa, dopo le esecuzioni in serie avvenute in Arkansas prima della data di scadenza di un farmaco (quattro delle otto previste), entra in scena anche il Texas, stato leader della pena capitale negli Usa con 543 esecuzioni su 1452 portate a termine negli ultimi 40 anni. Il Dipartimento di giustizia penale del Texas ha portato in tribunale il governo federale per ottenere la restituzione di una partita di tiopentale sodico (uno dei tre farmaci usati nell’iniezione letale) bloccata dalla Food and Drug Administration (Fda) in quanto "fornitura illegale". Dopo la decisione delle principali aziende farmaceutiche occidentali di non fornire più farmaci utilizzabili per eseguire condanne a morte, secondo quanto ricostruito da BuzzFeed News nel 2015 il Texas aveva contattato un piccolo produttore in India. La spedizione era quasi in partenza, quando la Direzione indiana per il controllo sui narcotici aveva perquisito il laboratorio chiudendolo dopo aver arrestato tutto il personale e sequestrato tutta la produzione. Allora il Texas si era rivolto a un tale Chris Harris, sempre in India, acquistando 1000 fiale di tiopentale sodico. Lo stesso avevano fatto Arizona e Nebraska. Nonostante il produttore avesse assicurato che non ci sarebbe stato alcun problema, la spedizione era stata bloccata appena arrivata in territorio statunitense. Secondo la Fda, si trattava di medicinali non approvati e dall’etichetta non conforme. Peraltro, esiste una sentenza emessa nel 2012 da un giudice federale che vieta l’ingresso negli Usa del tiopentale sodico. Nel ricorso il Texas sostiene di dover essere esentato da tale divieto in quanto userebbe il tiopentale sodico per "applicare la legge", ossia per eseguire condanne a morte e lamenta che, fino a quando quel divieto sarà in vigore, esso costituirà un ostacolo all’esecuzione di condanne emesse nel rispetto della legge. La Fda è anche accusata di danni alla reputazione del Texas in quanto lo stato sarebbe stato associato a chiunque cerchi d’importare illegalmente medicinali in violazione delle leggi federali. Corea del Nord. Si allarga il fenomeno degli arresti dei cittadini americani di Piero Chimenti giornaledipuglia.com, 8 maggio 2017 La Corea del Nord ha dato notizia dell’arresto di un cittadino americano, Kim Hank Song, accusato di atti "ostili". L’uomo lavorava per la facoltà di Scienze e Tecnologie dell’Università di Pyongyang. L’arresto di ieri non è un caso isolato, in quanto è il secondo arresto di questo tipo in 15 giorni. Il 3 Maggio il governo nordcoreano ha confermato il fermo di un altro uomo americano, di origini sudcoreane, Sang-Duk o Tony Kim, bloccato all’aeroporto, anch’egli professore all’Università della capitale. L’agenzia di stampa statale Kcna ha riferito che sarebbero 4 i cittadini americani detenuti in Paese per motivi discutibili. Kim Dong-Chul, 60enne anch’egli di origine sudcoreana arrestato al confine con la Cina, condannato a 10 anni di lavori forzati, e lo studente Otto Frederick Warmbier, fermato per il presunto furto di un cartello di propaganda politica nella zona riservata al personale in un hotel in cui alloggiava come turista, condannato a 15 anni di lavori forzati. Poi c’è il caso del pastore protestante Lim Hyeon-soo, canadese di origine coreana, condannato ai lavori forzati a vita per presunte attività sovversive contro il regime.