Carceri, vi spiego come vivono i detenuti islamici di Giovanni Iacomini Il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2017 Vivendo in contesti che, piaccia o meno, si fanno sempre più multietnici, è naturale che capiti di relazionarsi con persone di origini diverse dalla nostra. Col senno di poi, sembra chiaro che la "scuoletta" in cui siamo cresciuti fosse un’eccezione: tutti in piedi a recitare la preghiera prima e dopo le lezioni. "Il presidente, la croce, il professore", cantava Venditti. Una monocultura cattolica più unica che rara. Complici le semplificazioni dei media, rispetto a tutti coloro che vengono da paesi a maggioranza islamica ci tocca sentir risuonare qua e là, come fosse un mantra, quella pessima supposizione della "guerra di civiltà". Ma poi, gli individui con cui parliamo realmente sembrano principalmente presi da problemi di conduzione della vita quotidiana, dai figli alle bollette, dai disservizi alla sicurezza, molto simili ai nostri. Altro che guerre sante. Ognuno è "differentemente diverso", per dirla col premio Nobel per l’economia Amartya Sen, ma tutti quelli con cui parliamo appaiono molto più "laici" di quel che ci viene raccontato. "È perché tendiamo a rapportarci solo con gente di livello superiore alla media", osserva qualcuno. E mi chiede: "Cosa succede in carcere? C’è la radicalizzazione?". Quel che posso dire è che nella mia ormai ventennale esperienza a Rebibbia, dove finiscono (solo) gli ultimi della gerarchia sociale, i molti magrebini, albanesi, arabi in genere, che mi è capitato di conoscere mi sono parsi tutti concentrati, più che sulle fatwe lanciate dai sultanati, sul modo più efficace di uscire in libertà il prima possibile, ritrovare le famiglie, inventarsi un lavoro, una vita. E se c’è la tendenza a fare gruppo, per cui si trovano comunità di marocchini come di romeni, credo sia semplicemente per l’esigenza che tutti noi abbiamo di ritrovarci in forme identitarie per affrontare la quotidianità. Lo stesso che fanno, suppongo, gli italiani detenuti in Spagna o, riducendo la scala, i romani a Verona, i napoletani e calabresi a Bollate. È un atteggiamento naturale, banalmente umano, che trova ampi riscontri anche fuori dal carcere: è così che gli italiani in Australia si ritrovano al club (o purtroppo davanti a Rai 1) e a New York ci sono Little Italy e Chinatown. È solo questione di condividere le esperienze partendo da una cultura comune che aiuta a trovare l’orientamento. Non so quanto questo mio voler semplificare sia viziato dal retaggio di una fede nella ragione e nel progresso di stampo vetero-illuminista, che vedeva l’inarrestabile ascesa verso la secolarizzazione propagarsi a tutta l’umanità, a partire da quei rari sistemi che aspirano a dotarsi di forme democratiche. In ogni caso, sono convinto che sia inutile continuare a giudicare quel che succede in Europa e nel mondo in termini di minacce terroristiche come frutto di matrici etnico-religiose, e che il tutto andrebbe più correttamente ricondotto alle radici socio-economiche che meglio ne spiegano i fondamenti e gli sviluppi. La battaglia democratica sul tema della sicurezza di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 7 maggio 2017 La sinistra non deve temere di rincorrere la destra, perché solo ripulendole strade si potrà evitare la deriva da giustizieri. Siccome il demonio sta nei dettagli, l’ormai famosa locuzione "di notte" nel testo sulla legittima difesa, prima aggiunta un po’ di soppiatto e poi ripudiata tra gli sfottò del web e degli avversari politici, ci dice molto. Molto sui travagli di una maggioranza di governo a guida democratica da qui alle prossime elezioni legislative. Molto sui mutamenti, da tempo in atto ma accelerati dalla nuova legittimazione delle primarie, nel partito a egemonia renziana. Molto sul tema dei temi con il quale la sinistra e, segnatamente, il Pd saranno chiamati a misurarsi durante una campagna elettorale che già si preannuncia selvaggia: la sicurezza. Tutto infatti sarà opinabile nei prossimi mesi, dai dati del Pil all’impatto del Jobs act sino al senso di un’Europa madre o matrigna, tutto: fuorché la sensazione di insicurezza percepita. Sì, avvertita come una fitta nel cuore dalla gente comune: perché chi non si sente più tranquillo a uscire di casa e magari sussulta perfino tra le mura domestiche non indosserà certo come consolatorie armature le sbandierate statistiche sui reati predatori diminuiti dal 2015 al 2016 (una quantità di piccoli reati sfugge infatti a quelle statistiche oltre che alla sanzione giudiziaria, ed è forse quella che più spaventa). Che la questione sia una ferita aperta nell’identità profonda di un pezzo di sinistra italiana ce lo ha ricordato ancora ieri un’intervista in cui il ministro Andrea Orlando (secondo classificato nelle primarie del Pd) ha accusato Renzi di inseguire la destra su questi temi. Ora, non si tratta di inseguire nessuno ma di mettere quei paletti di buonsenso che gran parte del riformismo europeo ha già piantato dal New Labour di Tony Blair in poi. Tra la pensionata sgomenta nell’attraversare una piazza e i tossici o gli ubriachi che quella piazza hanno trasformato in vespasiano, con chi dovrebbe stare la sinistra? Con chi, tra i condomini che restaurano la facciata di un palazzo e i teppisti che la sera dopo già la sfregiano con le loro tag? Con chi, tra la mamma (magari con passeggino) che parcheggia sulle strisce blu e il posteggiatore abusivo che la taglieggia? Davvero è di sinistra fingere di non vedere le (spesso finte) madri rom che sfruttano i bimbi per l’accattonaggio? Se la sinistra non riesce a distinguere tra i veri deboli e i delinquenti, che sinistra è mai? Eppure quando un ministro degli Interni riformista (e di tradizione comunista) come Marco Minniti ha provato a ricordare che il decoro urbano non è un orpello ottocentesco ma un attualissimo concetto democratico s’è tirato addosso critiche feroci proprio da una parte della sua area di provenienza. Il Daspo urbano non sarà certo la palingenesi delle nostre metropoli piagate, ma è un tentativo di risposta, peraltro già molto adottata nelle nostre città da Nord a Sud, all’inerzia e al benaltrismo della vecchia sinistra secondo cui il problema non è mai lo spacciatore che ci terrorizza all’angolo ma il cartello di Medellín da sconfiggere in futuro, mai l’immigrato allo sbando tra le pieghe della nostra cattiva accoglienza ma l’equilibrio geopolitico dell’Africa subsahariana. Forse è proprio la gran confusione di lingue e anime (aggravata da una certa ipocrisia) dentro la sinistra ad aver generato il pasticcio sulle norme di legittima difesa. Norme che in buona misura esistevano già nell’articolo 52 del codice penale riformato dal centrodestra nel 2006 e che, dunque, nella nuova versione, hanno più che altro un carattere declamatorio, sembrano lì per ribadire. Escludendo di accondiscendere alla vera (e malcelata) pulsione della destra estrema, ovvero che chi ammazza un intruso possa non essere neppure indagato, la parte migliore di quelle norme sembra economica: il risarcimento delle spese processuali per chi, vittima di aggressione, si è legittimamente difeso e l’impossibilità, per la famiglia dell’aggressore ucciso, di attaccarlo sul piano civilistico. Miglioramento ulteriore sarebbe la celerità di indagini e risarcimenti, persino con una corsia preferenziale. Il fatto però che un passaggio risolvibile in tre righe si sia trasformato in ordalia politica testimonia la debole posizione della sinistra. Incapace di difendere "senza se e senza ma" il decreto Minniti, incapace di fermare la speculazione di certa destra sulla pur sacrosanta paura della gente, quando i due provvedimenti vanno chiaramente in direzione opposte: il primo promettendo al cittadino l’intervento difensivo dello Stato, il secondo affidando al cittadino l’autodifesa armata. Il bivio della politica responsabile sta dunque qui, adesso. Solo ripulendo le strade si potrà sbarrare la strada ai giustizieri. Solo se liberato dalla paura quotidiana, il cuore degli italiani potrà riscoprire una parola altrimenti impronunciabile: solidarietà. Governo e legittima difesa agitano l’assemblea del Pd di Tommaso Labate Corriere della Sera, 7 maggio 2017 "Noi dobbiamo pensare solo ai bisogni della gente. Se continuiamo a farlo, dopo un congresso che ci ha premiato col 70% e i sondaggi che ci danno di nuovo primi davanti ai 5 Stelle, cresceremo ancora". La relazione di Matteo Renzi all’Assemblea nazionale del Pd di oggi prende corpo dagli scambi di vedute della vigilia con i suoi. Nessuna impostazione unitaria con l’ala sinistra del partito, confermata dal fatto che tra Matteo Orfini e la rielezione alla presidenza del Pd ci sarebbe soltanto un colpo di scena che non s’intravede all’orizzonte. Nessuno sconto al governo Gentiloni, per quanto il termometro del rapporto col premier - che il segretario ha intenzione di citare nel suo discorso di oggi - sia lontano dal gelo. Il sondaggio - Compulsando il sondaggio di Pagnoncelli pubblicato ieri dal Corriere, in cui il Pd ha scalzato il M5S dal primo posto, Renzi ha capito che bisogna muoversi in "maniera autonoma" rispetto all’esecutivo. "Ci piace la norma sulla legittima difesa o il ddl concorrenza? Li votiamo. Ma se non ci piacciono, come avete visto, non stiamo zitti e buoni". Un modo per ribadire che, il "suo" Pd, non ha nulla a che vedere con quello di Orlando né con le mosse di Padoan né tantomeno con le strategie di Calenda. La cerchia - D’altronde non è un caso, ripetono nella cerchia ristretta dei renziani ortodossi, "se siamo tornati a crescere nei sondaggi. Se il governo Gentiloni piacesse agli italiani, non avremmo nulla da dire. Se invece fa degli errori, com’è capitato col telemarketing, possiamo rivendicare la nostra autonomia rispetto al resto della maggioranza". In fondo, nel disegno di Renzi, c’è l’esatto contrario di quello che ha spinto Padoan a chiedere, ancora ieri, quella "continuità nell’azione di governo che è fondamentale per la crescita". "Noi", è il mantra del segretario, "ci muoviamo con la bussola sintonizzata sugli italiani". Anche se, è il sotto testo, questo vuol dire smarcarsi dall’azione dell’esecutivo. I tempi - E gli equilibri interni? Per i renziani della cerchia ristretta, il 20% che ha premiato Orlando vale una manciata di posti della segreteria del partito, che comunque sarà varata non prima di venti giorni. "Se poi Andrea volesse fare il presidente al posto di Orfini", è la malignità di un luogotenente della nuova guardia del segretario, "allora si dimetta da ministro della Giustizia". Una provocazione, insomma. Dietro la quale si nasconde la volontà renziana di "cambiare il meno possibile", tanto nella squadra di governo quanto nel gruppo parlamentare. L’unica sorpresa potrebbe riguardare Maurizio Martina, il secondo passeggero del tandem che ha vinto l’ultimo congresso. Il ministro dell’Agricoltura potrebbe dover dividere la casella con Lorenzo Guerini, vicesegretario uscente, uno dei collaboratori di cui il leader del Pd non vuole fare a meno. Soprattutto adesso che, a ragione o a torto, è convinto di aver finalmente imboccato la strada giusta. Come dice il suo portavoce Michele Anzaldi, "nei sondaggi abbiamo toccato il punto più alto da 11 mesi a questa parte". Segue avviso ai naviganti: "Quelli che hanno ricominciato con gli attacchi riflettano bene". Legittima difesa. L’Anm denuncia: "legge dimostra sfiducia nei magistrati" La Repubblica, 7 maggio 2017 Il presidente dell’associazione interviene duramente sul testo approvato dalla Camera: "I casi più eclatanti si sono conclusi con delle assoluzioni, ma è scorretto e impossibile pensare che ora se uno si difende non sarà più messo sotto processo". "Questa iniziativa legislativa nasce da una sfiducia per il modo in cui i giudici applicano le norme esistenti". Lo ha detto il presidente dell’Anm, Eugenio Albamonte, riferendosi alla proposta di legge sulla legittima difesa approvata nei giorni scorsi a Montecitorio. "In realtà non è così" ha aggiunto, spiegando che "i casi più eclatanti si sono conclusi quasi sempre con l’assoluzione". "L’intenzione è quella di ridurre gli spazi di discrezionalità dei giudici, ma invece sono stati introdotti elementi, come quello sul grave turbamento psichico, che ampliano questo spazio", ha detto ancora. Quanto ai dubbi e alle perplessità del segretario del Pd sull’introduzione di un limite temporale, quello notturno, Albamonte ha sottolineato che "io sono abituato a commentare le norme scritte. Vedremo se questo punto sarà modificato". Ipotesi più che possibile, viste le prese di distanza sulla nuova norma che continuano ad arrivare dopo quella dello stesso Matteo Renzi. Giudizi critici sono stati espressi ad esempio dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, che in un’intervista a Repubblica ha ribadito di essere "contrario al principio che anima la discussione sulla legittima difesa". E un passo indietro lo ha fatto oggi anche il relatore del testo, il pd Davide Ermini, parlando di un "difetto di comunicazione". "Abbiamo sbagliato noi a comunicarla così - ha osservato - per cui o riusciamo a comunicarla bene, spiegando con esattezza, oppure bisogna fare una correzione e un chiarimento per capire come stanno bene le cose". Il parlamentare ha insistito che sulla questione della notte come zona franca: "C’è stata molta confusione". Tornando agli appunti mossi dall’Associazione nazionale magistrati, Albamonte ha chiarito che nella formulazione del provvedimento "c’è un equivoco di fondo" perché è "impossibile" sottrarre al vaglio della magistratura l’uccisione di una persona". "Se attraverso questa legge si vuole ipotizzare una situazione in cui a fronte dell’uccisione di una persona, seppur per legittima difesa, non ci sia un accertamento giudiziario, noi diciamo che questo è impossibile", ha sottolineato, precisando ulteriormente che "l’idea che da oggi in poi se uno si difende non sarà più messo sotto processo è una idea scorretta ed è impossibile". Caselli: "La legge così è un errore, il Pd è finito nella rete della paura" di Liana Milella La Repubblica, 7 maggio 2017 "Il Pd è finito nella trappola della paura". Sulla legittima difesa parla l’ex procuratore di Palermo e Torino Gian Carlo Caselli, giusto nel giorno in cui il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte si smarca e dice: "La legge nasce dalla sfiducia per il modo in cui noi applichiamo le leggi". Che ne dice, il Pd è caduto nel tranello della Lega di cambiare la legittima difesa? "Parlerei piuttosto di rincorsa. Mi spiego. La sicurezza è un bene fondamentale. Se non c’è sicurezza si ha paura e si vive molto male. Per ridurre quanto più possibile la paura da insicurezza è necessario mettere in campo tutto ciò che si ha a disposizione in termini di intelligenza, mezzi, risorse. Ma attenzione. La sicurezza, quindi meno paura, è un obiettivo da raggiungere. Non deve essere un mezzo, una scorciatoia per puntare a un altro obiettivo, ad esempio più consenso o più voti. Così la paura viene strumentalizzata ed enfatizzata. Inevitabilmente aumenta. Un circolo vizioso. Invece di governare la paura, è lei che ci governa. In uno stato democratico è rischioso. Se vogliamo, la trappola sta qui". È "di destra" parlare di presunzione assoluta di non colpevolezza? "Presunzione assoluta di non colpevolezza significa che se qualcuno in casa propria spara a chi ha violato il suo domicilio, non ci sarà mai nessun processo perché si dà per scontato che tutto sia stato "regolare". Un’opzione inaccettabile in uno stato di diritto. Non è neppure immaginabile la rinunzia pregiudiziale all’accertamento di come in concreto sono andate davvero le cose. Sarebbe il Far West, nel senso deteriore di convivenza selvaggia, dove ciascuno si fa la sua legge e nessuno può controllare niente". Saviano è durissimo, parla di fascismo... "Saviano ha visto bene nel caso delle Ong. Leggerlo è sempre utile. Anche in questo caso la sua opinione deve essere considerata con attenzione. Perché, al di là delle formule, segnala un pericolo reale, di involuzione del sistema. Farei solo qualche precisazione in materia di percezione soggettiva. È vero che ci sono state e ci sono pesanti strumentalizzazioni ed enfatizzazioni. Ma di paura in giro ce n’è davvero tanta. Per cui la percezione soggettiva è ormai un elemento della realtà con cui si debbono fare i conti. Senza sufficienza, perché il problema riguarda soprattutto i soggetti più deboli ed esposti, quelli che non si possono permettere palizzate, bunker, vigilantes". Renzi parla di pasticcio. La norma è un pastrocchio? "Non si può dire che questa nuova legge sia un prodigio di chiarezza. Gli esempi possibili sarebbero tanti. Prendiamo il famoso, o famigerato, nuovo secondo comma, quello che considera legittima difesa il fatto accaduto in casa o negozio di notte, ovvero a seguito di introduzione dell’aggressore con violenza, minaccia o inganno. Poiché si dice che resta fermo il primo comma, sembra di capire che occorre sempre dimostrare la proporzione fra difesa e offesa. Per contro, questa proporzione è presunta dal vecchio secondo comma, quello introdotto nel 2006 da Berlusconi e Castelli, norma che si riferisce anch’essa a quel che accade in casa o in negozio. Ne deriva una sovrapposizione contraddittoria su di un punto decisivo, la proporzione, e ciò non corrisponde a criteri di logica e buon senso". Parlare di "notte" è un errore, perché automaticamente non consente di applicare la norma se la rapina avviene di mattina? "La parola "notte" è di per se stessa così incerta nella definizione della sua estensione da risultare ambigua. L’esatto contrario di quel che si richiede alle norme. Che devono assicurare la certezza del diritto anche con formule univoche e precise, non suscettibili di essere lette in modi confliggenti. E poi, se fosse consentito scherzare su cose a volte tragiche, si farebbe un trattamento di favore agli abitanti di Viganella, un paesino in provincia di Verbania, dove per quasi tre mesi non batte il sole". La magistratura è stata troppo rigida con le vittime e ha esagerato nelle indagini? "Non mi sembra proprio. In generale, ritengo che abbia fatto il suo dovere, spesso in condizioni assai difficili. Si è stimato che la percentuale delle assoluzioni per fatti di legittima difesa sia stata del 90%, su un totale di casi che, ad esempio nel 2015, è risultato di 123. Non mi paiono numeri che portino a giudicare in qualche modo abnorme la risposta giudiziaria". Era meglio tenersi la vecchia legittima difesa? "C’erano e ci sono ancora (la nuova legge non è definitiva) tre strade: 1) lasciare le cose come stanno; 2) introdurre qualche modifica (paletti per meglio precisare la fattispecie); 3) negare la procedibilità "tout court". Un modo originale, questo, per riproporre la vecchia tentazione di difendersi non "nel" ma "dal" processo. Questa è l’unica opzione inaccettabile. Delle altre si può discutere". Con la legge attuale, per la sua esperienza, se si viene aggrediti o minacciati in casa si può reagire? "Non mi sembra che la legge lasci il cittadino aggredito o minacciato senza possibilità di difesa. Certo, ci possono essere casi controversi non facili da decifrare. Ma questa è la fisiologia dei processi". Calabria: Quintieri (Radicali) "finalmente avremo il provveditore regionale delle carceri" Ristretti Orizzonti, 7 maggio 2017 Finalmente, dopo circa sei lunghi anni e le nostre continue sollecitazioni unitamente a quelle delle Organizzazioni Sindacali del Corpo di Polizia Penitenziaria, la Regione Calabria avrà un Provveditore Regionale delle Carceri in pianta stabile. Ed infatti, la competente Direzione Generale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, nei giorni scorsi, ha avviato le procedure per assegnare, in via definitiva, un Dirigente Generale Penitenziario, con incarico di Provveditore, al Provveditorato Regionale per la Calabria con sede in Catanzaro. Lo rivela Emilio Enzo Quintieri, esponente dei Radicali Italiani e capo della Delegazione visitante gli Istituti Penitenziari calabresi. Attualmente alla guida del Provveditorato Regionale, Ufficio periferico del Ministero della Giustizia, vi è la Dott.ssa Cinzia Calandrino, Dirigente Generale Penitenziario con incarico di Provveditore Reggente, già titolare del Provveditorato Regionale per il Lazio, l’Abruzzo ed il Molise. È stato già emanato apposito interpello rivolto ai Dirigenti Generali Penitenziari - prosegue il radicale Quintieri - i quali potranno presentare domanda entro il prossimo 22 maggio, indirizzandola al Capo di Gabinetto Reggente del Ministro della Giustizia Dott.ssa Elisabetta Maria Cesqui. L’incarico di Provveditore, che dovrebbe avere durata triennale, sarà conferito con Decreto del Ministro della Giustizia On. Andrea Orlando. Per quanto mi riguarda, sino ad ora, la Calabria non è stata tenuta in debita considerazione dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e non solo con riferimento alla mancata nomina del Provveditore in pianta stabile, ma anche per quanto concerne la ridefinizione del circuito detentivo regionale, attraverso una più razionale distribuzione della popolazione detenuta e dell’organizzazione custodiale degli Istituti Penitenziari, ferma ancora a quella tradizionale, ormai quasi sparita in tutte le Carceri della Repubblica. Occorre, infine, una urgente rimodulazione delle piante organiche di tutti gli Istituti Penitenziari della Calabria, al fine di renderle maggiormente rispondenti alle mutate o nuove esigenze ed agli effettivi carichi di lavoro. In modo particolare al personale del Corpo di Polizia Penitenziaria che in alcune sedi, come ad esempio la Casa di Reclusione di Rossano che ospita 210 detenuti a fronte di una capienza di 206 posti, è particolarmente carente specie nei ruoli intermedi (Ispettori e Sovrintendenti). In questo Istituto, in cui peraltro è presente anche un Reparto di Alta Sicurezza ove sono ristretti detenuti imputato o condannati per terrorismo internazionale di matrice islamica, praticamente non vi sono più sottufficiali nelle ore pomeridiane e notturne. Dovrebbero esserci 14 Ispettori ma c’è ne sono 5 di cui 1 Vice Comandante di Reparto e Coordinatore del Nucleo Traduzioni e Piantonamenti. I Sovrintendenti, invece, non esistono più. La pianta organica ne prevede 16 ma in servizio c’è ne soltanto 1, peraltro distaccato dalla Casa Circondariale di Parma. Gli altri due che risultano assegnati sono da tempo in congedo per malattia e prossimi alla quiescenza. Nei prossimi giorni, conclude Emilio Enzo Quintieri dei Radicali Italiani, effettueremo ulteriori visite ispettive in tutti gli Istituti Penitenziari della Provincia di Cosenza (martedì 9 a Castrovillari, mercoledì 10 a Cosenza, martedì 16 a Paola e martedì 23 a Rossano). A tutte le visite, oltre alla collega radicale Valentina Anna Moretti, sarà presente anche una nutrita delegazione di Studenti di Giurisprudenza accompagnati dal Prof. Mario Caterini, Docente di Diritto Penale dell’Università della Calabria. Lombardia: misure alternative al carcere, 94 addetti per oltre 13.500 fascicoli lombardia.cisl.it, 7 maggio 2017 Dimauro (Fp-Cisl): problemi per la sicurezza dei cittadini e il reintegro di chi ha commesso un reato. La Cisl Fp lancia l’allarme organici negli uffici che gestiscono le misure alternative alla detenzione (Uepe - Ufficio esecuzione penale esterna), le pratiche di chi sta scontando la pena fuori dal carcere. In Lombardia sono presenti in sette province (Bergamo, Brescia, Como, Mantova, Milano, Pavia, Varese), con 94 operatori, tra cui diversi in part-time o vicini alla pensione. Da soli si devono occupare di oltre 13.500 fascicoli, riguardanti soggetti che hanno avuto problemi con la giustizia. La questione è stata affrontato oggi durante una riunione in Prefettura, a Milano, che però non ha segnato passi in avanti. "Siamo al collasso - spiega Giorgio Dimauro, segretario della Fp Cisl milanese -, il personale è assolutamente inadeguato a gestire una simile mole di lavoro. I 94 lavoratori sono assistenti sociali, dipendenti del ministero della Giustizia. Costoro devono seguire, innanzitutto, i soggetti a cui è stata applicata una misura alternativa, come l’affidamento in prova ai servizi sociali, ma in molti casi anche chi è arrivato a fine pena e non sa come iniziare una nuova vita. Questa situazione critica va avanti da circa 15 anni. Secondo noi l’organico andrebbe almeno raddoppiato. Tutti i ministri che si sono susseguiti nel tempo si erano impegnati ad intervenire, ma nessuno ha fatto nulla". Il problema non è solo sindacale, ma ha anche un forte impatto sociale, sulla sicurezza, e sul rispetto dell’articolo 27 (comma 3) della Costituzione, secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. "Novantaquattro persone - aggiunge Dimauro - non riescono, ovviamente, a seguire in modo ottimale tutti questi casi. Il loro lavoro diventa puramente amministrativo. Molte persone, poco seguite nei loro percorsi di reinserimento, rischiano di tornare a delinquere, con gravi conseguenze sulla società, sia in termini di sicurezza che di costi. Ogni detenuto in carcere costa allo Stato circa 500 euro al giorno. Le pene alternative, se gestite correttamente, fanno risparmiare risorse, favoriscono il reintegro dei rei e riducono i rischi per la sicurezza dei cittadini". In Lombardia, tra i 13.564 fascicoli aperti, 3.119 riguardano soggetti in affidamento in prova ai servizi sociali. Padova: rivoluzione in carcere, anche i detenuti hanno il loro sindacato di Zita Dazzi Venerdì di Repubblica, 7 maggio 2017 Dopo Bollate, tocca a Padova sperimentare la rappresentanza dei reclusi. I primi effetti? I problemi veri emergono. E gli spioni tacciono. C’è il detenuto di buone letture che "tratta" con la direzione, ottenendo piccole migliorie per la vita quotidiana, magari anche qualche beneficio personale. E c’è quello che non parla neanche l’italiano e resta nell’angolo. Ma ci sono anche carceri - come a Padova - dove i detenuti si sono organizzati eleggendo una rappresentanza unitaria: una sorta di sindacato, sì. Il primo e più avanzato esempio è quello di Bollate, un penitenziario modello sotto molti versi, a partire dalle celle sempre aperte durante il giorno e dal numero impressionante di reclusi - 300 all’anno, su 1.200 - ammessi ai lavori esterni e interni. La nascita di quello che il direttore Massimo Parisi preferisce non chiamare sindacato risale a sei anni fa, quando era ancora direttrice Lucia Castellano, oggi ai vertici dell’amministrazione penitenziaria nazionale. Ogni due anni si svolgono regolari "elezioni" da cui esce una rosa di quaranta nomi, quattro per reparto. Gli eletti frequentano un corso di formazione e hanno diritto a riunirsi e confrontarsi sui temi da sottoporre ai referenti istituzionali. Non si chiama "sindacato", ma ci somiglia tanto. Ed è utile alla direzione per comunicare eventuali decisioni. Un onere non da poco, e infatti fra i detenuti non c’è la corsa a farsi eleggere. Tante responsabilità, e tante lamentele quando le richieste non vengono esaudite e i problemi rimangono irrisolti. In discussione sono spesso questioni vitali, come gli orari dei colloqui, magari il mal funzionamento degli impianti, le tensioni interne, le attività che si vorrebbe sperimentare. "Creare questo organismo è stato un passaggio di grandissima civiltà, perché in tutte le convivenze, soprattutto in quelle coatte, prevale chi ha più carisma, cosa che in carcere può avere ricadute perverse" spiega Lucia Castellano, dirigente generale dell’esecuzione penale esterna del Dipartimento giustizia minorile e di comunità. "Aver fatto sì che i rappresentanti siano "scelti" direttamente dai detenuti, ha fatto emergere il sommerso di quelli che erano più colti e quindi parlavano al comandante o facevano la spia, creando situazioni spiacevoli. Abbiamo "legalizzato" pratiche sommerse". Alcuni volontari coordinano le attività "sindacali" per fare arrivare sul tavolo del direttore questioni collettive, non beghe personali. E il metodo Bollate, fra rappresentanza e misure alternative, funziona: il tasso di recidiva, di ricaduta nel reato, è fermo al 20 per cento, contro una media nazionale del 70. Benevento: detenuto tenta il suicidio, gli agenti e un’operatrice evitano il peggio ntr24.tv, 7 maggio 2017 Un detenuto della casa circondariale di Benevento aveva deciso di farla finita legando al collo un lenzuolo ma l’intervento degli agenti di Polizia penitenziaria, allertati da un’operatrice socio-sanitaria del reparto "Giallo Basaglia", ha evitato il peggio. L’episodio è accaduto nella giornata di ieri, intorno alle 12.20, e a renderlo noto attraverso un comunicato il segretario provinciale Osapp di Benevento, Pietro Riccardi. Gli agenti hanno aperto tempestivamente il cancello di accesso al reparto e entrando nella stanza dell’uomo, sono riusciti ad afferrarlo, a sollevarlo e a tagliare la corda-lenzuolo con delle forbici del tipo consentito. Successivamente gli agenti hanno provveduto a riporre sul letto il detenuto, in forte stato confusionale e con segni evidenti al collo, in attesa dell’intervento del personale medico. "Solo grazie alla competente professionalità degli agenti delle Polizia Penitenziaria - scrive Riccardi - si è evitata una ennesima tragedia. Appena il detenuto è ritornato cosciente. La direttrice dell’istituto, Maria Luisa Palma, si è adoperata nell’immediato al fine di capire le motivazioni che hanno portato l’uomo a tale gesto, in modo da scongiurarne eventualmente altri. Un grazie sentito e dovuto a tutto il personale della Polizia Penitenziaria di Benevento per l’eccellente intervento e per l’alta professionalità sempre dimostrate in tutte le operazione di servizio interne ed esterne dell’istituto beneventano". Volterra (Pi): detenuti faranno accoglienza turistica, intesa Casa circondariale-Comune controradio.it, 7 maggio 2017 Protocollo d’intesa tra Casa circondariale e Comune per "favorire l’acquisizione di nozioni di cultura dell’accoglienza turistica nonché tutte le altre attività ad essa connesse" Raggiungere una sempre maggiore integrazione della casa circondariale di Volterra con la città ampliando le possibilità occupazionali per i detenuti e il loro definitivo reinserimento nella società e nel mondo del lavoro. Con questo obiettivo è stato siglato un protocollo d’intesa tra Comune di Volterra, la direzione della casa di reclusione e tre soggetti attivi nel settore turistico. L’accordo, spiega una nota del Comune, "prevede che tutti i firmatari si impegnino a partecipare fattivamente alla realizzazione di progetti e interventi indirizzati verso i detenuti: ognuno per la propria specificità si impegna inoltre ad apportare il proprio know how per incentivare e favorire l’acquisizione di nozioni di cultura dell’accoglienza turistica nonché tutte le altre attività ad essa connesse". La direzione della casa di reclusione si impegna a favorire l’apertura della struttura alla città e alle iniziative, compatibilmente con le esigenze di sicurezza legate alla propria attività istituzionale. Viene inoltre favorito lo sviluppo e l’ampliamento delle attività organizzate nell’ambito dell’apertura della Fortezza Medicea, in particolare l’apertura al pubblico della Torre del Maschio. La Cooperativa sociale Torre si impegna ad assumere due detenuti che svolgeranno che svolgeranno le mansioni di custodi. Tutti i firmatari si impegnano, ognuno per le proprie possibilità, ad agevolare e proporre l’assunzione dei detenuti che ne hanno la possibilità giuridica, in aziende, ristoranti e altre imprese della zona che si occupano di accoglienza turistica anche facendo riferimento all’accresciuta professionalità raggiunta con la frequenza ai corsi di formazione organizzati. Roma: #GuerradiParole, i detenuti vincono il match di retorica contro gli studenti Redattore Sociale, 7 maggio 2017 È stata la squadra dei detenuti di Regina Coeli ad aggiudicarsi la vittoria della competizione con gli studenti di Tor Vergata: un confronto dialettico che premia chi è più in grado di difendere la propria tesi con argomentazioni credibili e sintetiche, senza perdere la calma, sbraitare o insultare. Per il secondo anno consecutivo è la squadra dei detenuti ad aggiudicarsi la vittoria della #Guerradiparole, match di retorica tra gli studenti di Tor Vergata e i detenuti della casa circondariale di Regina Coeli. L’evento, che si è tenuto questa mattina presso l’istituto penitenziario romano, è stato organizzato da PerLaRe, Associazione Per La Retorica ed è stato sostenuto, per la prima volta, da Toyota Motor Italia. Sono partner del progetto la Crui, Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, la Casa Circondariale di Roma Regina Coeli e l’Università di Tor Vergata. Il progetto ha ottenuto il patrocinio della Regione Lazio. La #GuerradiParole, quest’anno incentrata sul tema della verità e della post verità è un confronto dialettico che ha l’obiettivo di premiare la squadra maggiormente in grado di difendere la propria tesi con argomentazioni credibili e sintetiche, senza perdere la calma, sbraitare o insultare. Un sofisticato esercizio di auto-controllo e di civiltà, che consiste nell’affermare le proprie ragioni solo con lo strumento pacifico della parola. Le gare di retorica hanno l’obiettivo di preparare i partecipanti ad affrontare la vita e il lavoro, contesti in cui è inevitabile confrontarsi con opinioni diverse. Ad aprire il match sono stati due portavoce dei gruppi, per gli studenti ha parlato Luca Rotondi, a Tor Vergata per un master di specializzazione dopo una laurea in biologia e con sordità. Nel suo appello, in parte parlato in parte in LIS lo studente ha ricordato l’importanza della verità "che, a prescindere dalla diversità politica, razziale, religione e sociale, ha un grande valore simbolico-psicologico per le persone coraggiose come segno di rispetto verso la società umana e, soprattutto, verso se stessi come sincerità, onestà, correttezza, precisione, fiducia, autenticità". "La Guerra di Parole - ha spiegato Flavia Trupia, presidente di PerLaRe e moderatrice dell’evento - porta nuovamente al centro il tema della retorica, una tecnica che riesce a dare gambe e respiro alle idee. Oggi abbiamo avuto la prova del fatto che la retorica non è appannaggio dei letterati, ma riguarda ognuno di noi. Tutti possiamo imparare a parlare meglio, a difendere le nostre ragioni e le nostre idee attraverso lo strumento pacifico della parola". Lo scontro dialettico si è svolto sul tema della verità e della post verità, sviscerato dai 30 partecipanti (15 per squadra) in ogni suo aspetto: dalla post verità vista come fantasia alla difesa della verità come base del vivere civile. Non è mancata l’ironia, dalla direttrice della casa circondariale Silvana Sergi che ha plaudito alla "bellissima iniziativa", affermando che in carcere su verità e post verità "siamo molto competitivi" ai detenuti e gli studenti che nel corso del dibattito hanno accennato alla loro vita, alle scelte, agli sbagli e alle speranze personali con battute e momenti di scambio giocoso. "Siamo felici di ospitare qui questo evento, vogliamo che emerga che qui non c’è il ‘malè contro il ‘benè che è fuori - ha spiegato Anna Angeletti, vice direttrice di Regina Coeli - ma ci sono delle persone in carne ed ossa. Eventi del genere danno la misura della reale democrazia di un paese, siamo orgogliosi di avere aderito a #GuerradiParole". "Abbiamo deciso di sostenere #GuerradiParole, una sfida diversa, innovativa, come quelle in cui Toyota crede da sempre - ha commentato Andrea Carlucci, Amministratore Delegato Toyota Motor Italia. A proposito di retorica, c’è una storia che raccontiamo ai neo assunti e ai nuovi concessionari, per trasferire loro i valori in cui crediamo. Mettendoli di fronte a tre immagini diverse che rappresentano il miglior dentista al mondo, il miglior dentista del paese, il miglior dentista della città, chiediamo quale scegliere. La risposta è generalmente il miglior dentista al mondo o del paese. Noi di Toyota pensiamo invece di voler diventare il miglior dentista della città, per essere vicini e sostenere la comunità in cui viviamo. Il nostro obiettivo è creare valore in ogni attività che intraprendiamo, come l’attenzione che poniamo sempre nei confronti dell’ambiente. Per noi, è fondamentale la nostra reputazione, come siamo considerati proprio dalle comunità in cui viviamo". La giuria del confronto dialettico #GuerradiParole che ha valutato le performance dei due gruppi era composta dall’amministratore delegato Toyota Motor Italia Andrea Carlucci, il giornalista Filippo Ceccarelli, il conduttore del TG1 Alberto Matano, l’attrice Isabella Ragonese, il direttore di Radio Radicale Alessio Falconio, la linguista Valeria Della Valle e l’avvocato penalista Bartolomeo Giordano. Femminicidio. Leggi severe e sentenze dure: così si proteggono le donne dalla violenza di Dacia Maraini Corriere della Sera, 7 maggio 2017 Stalking, omicidio volontario aggravato da premeditazione, futili motivi, distruzione di cadavere, incendio dell’auto della vittima. Per questi reati è stato condannato all’ergastolo Vincenzo Paduano, l’assassino dell’ex fidanzata Sara Di Pietrantonio. Per la madre della vittima è una sentenza "morale", oltre che giusta, perché lui non si è pentito. Ma anziché una condanna dopo la morte, vorremmo che le donne minacciate potessero continuare a vivere. Ricordo il recente caso di Elena Farina, torinese, sposata e con 4 figli, che per ben 15 volte è stata in questura a denunciare il suo ex marito che non accetta la separazione e la minaccia in continuazione di morte. Elena è titolare di un bar nel quartiere di Madonna di Campagna a Torino che gestisce col figlio maggiore. In marzo, l’amorevole marito e padre, ha picchiato la moglie e sparato sul figlio che tentava di allontanarlo. Per fortuna la pistola si è inceppata. L’uomo è stato arrestato ma dopo due giorni era libero. E nonostante la proibizione assoluta di avvicinarsi alla casa della moglie, l’ha fatto e ha ripreso a minacciarla. Per Elena Farina e il figlio si tratta di "una morte annunciata". Nel caso di un collaboratore di giustizia o di un politico, verrebbe loro assegnata una scorta. Nel caso di una donna disarmata che lavora, no. Se duecento uomini all’anno morissero per mano delle proprie mogli, scoppierebbe il finimondo. Si parlerebbe di massacro, di istinti diabolici, di una femminilità perversa, di guerra di genere, ecc. Essendo donne che muoiono strangolate, accoltellate, sparate, fatte a pezzi, bruciate, buttate nei cassonetti o dalla finestra dai loro mariti, si risponde con un’alzata di spalle, quasi facesse parte del destino femminile. Aspettando di cambiare la cultura (ci vorrà tempo), occorrono leggi più severe per questi uomini arcaici e possessivi e sentenze esemplari. "Cannabis libera gestita dallo Stato". Fronte dei giudici per fermare i clan di Michele Bocci La Repubblica, 7 maggio 2017 Dall’Olanda agli Stati Uniti, aumentano i Paesi anti proibizionisti. Ma non i consumatori. Un fiume di soldi, che ora finisce nelle tasche dei trafficanti e invece potrebbe dare vita a un nuovo comparto industriale. Contemporaneamente, nelle casse dello Stato entrerebbe un bel po’ di denaro e forze dell’ordine e magistratura potrebbero smettere di dedicare il loro tempo all’inseguimento di chi spaccia hashish e marijuana. Ma mentre molti Stati americani ed europei hanno legalizzato o depenalizzato l’uso di cannabis, in Italia la sostanza oggi può essere utilizzata solo come farmaco e la può produrre esclusivamente l’Istituto farmaceutico militare di Firenze. Una lotta vana - Bisogna pensare a 10.751 operazioni di polizia, guardia di finanza, carabinieri. In un solo anno, cioè 30 al giorno. Ecco, tutti quegli uomini impiegati talvolta a inseguire 10 grammi di fumo, quei magistrati che devono indagare e convalidare fermi, quelle camere di sicurezza e carceri piene, tutto questo e altro ancora per sequestrare circa un decimo della cannabis che circola in Italia. Lo sforzo del sistema di polizia e giudiziario è enorme ma le stime dicono che non si avvicina nemmeno lontanamente a disturbare un fenomeno molto più grande. Fatto di importazione e di spaccio ma da qualche anno anche di produzione. La criminalità, organizzata e non, si è accorta da tempo che la marijuana frutta bene e ha iniziato a coltivarla in campi, serre, capannoni. Nel 2015 la Direzione centrale dei servizi antidroga ha contato 24mila piante sequestrate in Sicilia, e 45mila in Calabria, giusto per fare due esempi. I numeri degli spinelli - In piazza, per strada, nei locali o in casa. A colpi di qualche grammo per ogni acquisto dal pusher, si stima che i consumatori italiani brucino nelle canne tra 1,5 e 3 milioni di chili all’anno. Il dato è una stima legata ai sequestri di cannabis fatti dalle forze dell’ordine. A un prezzo intorno agli 8 euro al grammo vuol dire una spesa minima di 12 miliardi e massima - ma forse questo dato è davvero sovrastimato - addirittura di 24 miliardi. Anche il numero di coloro che fanno uso di cannabis non è certo, ma l’intergruppo parlamentare raccolto da Benedetto Della Vedova intorno alla proposta di legge per la legalizzazione della cannabis parla di 3-4 milioni di persone all’anno. Considerando anche i consumatori saltuari, che fumano molto di rado, si sale a quasi 6 milioni di italiani. I benefici per lo Stato - E se la cannabis fosse legale in Italia? Forze dell’ordine e magistratura potrebbero dedicarsi ad altro, nascerebbe un comparto produttivo, le mafie perderebbero introiti e lo Stato ci guadagnerebbe. Si è calcolato che le tasse su hashish e marijuana frutterebbero alle casse del nostro Paese circa 8 miliardi di euro. Il dato è stato ottenuto da alcuni ricercatori assimilando la tassazione a quella già in vigore per le sigarette e tenendo conto della spesa attuale di 12 miliardi di euro al mercato nero. Ovviamente la cifra non tiene conto di alcune variabili, ad esempio quella del prezzo al grammo, che cambia molto tra quello praticato in strada e quello di eventuali rivenditori autorizzati, probabilmente un po’ più alto. I modelli all’estero - In principio fu l’Olanda, che con il suo "Opium act" del 1976 rese possibile possesso e vendita delle sostanze. E dopo oltre 40 anni di coffee shop, le statistiche dicono che il numero dei consumatori di derivati della cannabis di quel Paese non è superiore al resto d’Europa. Oggi però quando si parla di legalizzazione si guarda soprattutto agli Usa. Intanto al Colorado, Stato da 5,5 milioni di abitanti che nel 2012 ha aperto alla cannabis per scopo ricreativo. Nel 2015 è stata venduta marijuana per quasi un miliardo di euro e il giro d’affari generale è stato di 2,4 miliardi. Il numero dei consumatori giovani (la sostanza può essere venduta a chi ha più di 21 anni) sarebbe rimasto costante rispetto agli anni precedenti la legalizzazione. A suo tempo sono partiti anche Alaska, Stato di Washington, District of Columbia (dove c’è Washington, la capitale) e Oregon. Con le ultime presidenziali ci sono stati 9 referendum. Uno, in Arizona, è stato perso, gli altri hanno aperto alla legalizzazione per uso ricreativo in California, Maine, Massachusetts, Nevada e per uso medico in Florida, Arkansas, Montana e North Dakota. In Canada il premier Trudeau ha appena presentato un disegno di legge per rendere legale l’utilizzo ricreativo dal 2018. In Europa, il Portogallo ha depenalizzato l’uso delle droghe e la Spagna ha creato i "Cannabis social club" dove si può fumare liberamente. In India la sostanza può essere venduta da certi negozi, in Uruguay malgrado la legalizzazione, ben due terzi dei consumatori continuano ad acquistare dai narcotrafficanti, che fanno prezzi più bassi e minacciano le farmacie che possono vendere la cannabis per legge. Per curare il dolore - Sono circa 30 i chili di cannabis di Stato già distribuiti alle farmacie private italiane e alle Regioni. Nel nostro Paese l’uso della sostanza è permesso soltanto per ragioni sanitarie. Il produttore è uno solo: l’Istituto farmaceutico militare di Firenze, che ha iniziato a lavorare a pieno regime alla fine dello scorso anno. Nel 2017 si dovrebbe arrivare a 100 chili di prodotto, ma vista la domanda molto alta si stanno già preparando gli spazi per produrne 300 nel 2018. La cannabis è prescrivibile a carico del sistema sanitario nazionale per lenire il dolore neurologico e oncologico ma anche per ridurre i sintomi di gravi malattie come la sclerosi multipla. Cannabis: tra Trudeau e Trump, dove sta Gentiloni? di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 7 maggio 2017 Meglio legalizzare le canne che non le canne di pistola. In attesa che si smontino l’orrendo dibattito e l’orrenda proposta di legge sulla legittima difesa rinvigoriti entrambi dalle dichiarazioni elettorali di Renzi, anche in materia di politica sulle droghe il governo deve decidere da che parte stare. Dalla parte del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti che ieri ha ribadito che è favorevole alla legalizzazione della cannabis con monopolio statale oppure dalla parte di Carlo Giovanardi secondo cui un ragazzo che a 15 anni fuma marijuana a 18 avrebbe i buchi nel cervello. Dalla parte dei milioni di consumatori di cannabis, soprattutto i più giovani, affinché siano messi nelle condizioni di comprare sostanze controllate e non tagliate oppure dalla parte di chi nel nome di una morale assoluta benda i propri occhi non preoccupandosi della salute dei propri figli. Dalla parte dello Stato o della criminalità organizzata. Dalla parte di Justin Trudeau, presidente del Canada che ha annunciato la legalizzazione della cannabis o dalla parte di Donald Trump che pare voglia nominare quale nuovo zar antidroga il deputato Tom Marino, repubblicano, favorevole alla cura coatta dei "drogati". Paolo Gentiloni incontrerà sia Trudeau che Trump in occasione del vertice del G7 proprio in Italia. Vedremo, se su questo e su altro, l’Italia sceglierà il campo liberale (non solo sulle droghe ma anche sull’immigrazione) del leader canadese o quello militare e proibizionista del tycoon americano. In occasione del G7 speriamo non ci sia Marine Le Pen. Tra il primo e il secondo turno Farid Ghéhiouèche, fondatore dell’organizzazione Cannabis sans frontières, e organizzatore della marcia pro-cannabis, ha detto che mentre Le Pen vuole intensificare la morsa repressiva, spera che Macron segua il sentiero anti-proibizionista di Trudeau. Ci sono motivi etici (il rispetto della libertà individuale di scelta), di politica criminale (riduzione della forza economica delle mafie), di origine medica (valore terapeutico della cannabis), di natura economica e fiscale (risparmi di spesa da investire in programmi sociali di recupero) che dovrebbero indurre il governo a usare questo scorcio finale di legislatura per un cambio di paradigma. Di questi motivi il nostro portale Nonmelaspaccigiusta.it ha dato conto nell’ultimo anno guardando a ciò che succede all’estero. È trascorso quasi un anno da quando la Camera aveva calendarizzato, avviato e quasi contemporaneamente anestetizzato la discussione della proposta di legge per la legalizzazione della cannabis elaborata da un ampio gruppo di parlamentari coordinato dal sottosegretario agli esteri Benedetto della Vedova. Su questo, così come sull’introduzione del delitto di tortura, nulla è più accaduto. Mentre le sirene securitarie hanno iniziato a suonare pericolosamente e le carceri hanno ricominciato a riaffollarsi, sono stati due procuratori nel giro di un paio di giorni, prima John Woodcock e poi Franco Roberti, a riaprire il dibattito. Un dibattito che non sappiamo come vedrà schierato il governo. Sono tutti molto cauti. Il ministro della Giustizia Orlando, l’anno scorso all’Onu durante i lavori dell’Assemblea generale straordinaria sulle droghe, aveva auspicato il superamento della war on drugs. Matteo Renzi non si è mai espresso a riguardo. Se però la politica fiorentina ha un peso allora dobbiamo considerare buona notizia quella del comune di Firenze che ha votato una mozione a favore della legalizzazione della cannabis. Obama non va solo imitato per la camicia bianca ma anche per la politica anti-repressiva sulle droghe. Duecento deputati: votiamo sulla cannabis di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 7 maggio 2017 Le due presidenti delle commissioni dove si è arenata la legge: "Mancano le condizioni politiche". I parlamentari a favore della legalizzazione: "Non c’è più tempo, portiamola in aula anche senza accordo". È solo questione di ore, la rivolta parlamentare è pronta. Duecentoventi deputati sono sul piede di guerra, disposti a battersi per la cannabis di Stato. Si incontreranno già la prossima settimana, con l’obiettivo di strappare alle sabbie mobili di Montecitorio la proposta di legge che legalizza la marijuana. E già, perché il rischio, ormai più che probabile, è che neanche questa diventi la legislatura dello spinello legale. Non basta infatti il pressing dei magistrati e del pm di Napoli John Woodcock, né la scelta di schierarsi del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti: la riforma - preparata da Benedetto Della Vedova e presentata da Roberto Giachetti - ha buone chance di restare lettera morta. Manca un accordo in commissione. Manca, soprattutto, il via libera del Pd alla legalizzazione tout court della cannabis. L’intervista a Repubblica con cui Roberti ha proposto di affidare ai Monopoli la coltivazione e la vendita della cannabis ha certamente smosso le acque placide della politica, raccogliendo applausi e qualche fischio. "Una svolta storica", l’ha definita Mdp. Stessa linea di Sinistra italiana e dei Radicali: "Basta con le resistenze proibizionista". Critica, invece, Forza Italia - "stupidaggini" - e il procuratore aggiunto di Bologna Valter Giovannini, da anni impegnato in indagini sui reati di droga: la cannabis di Stato, sostiene, è più costosa e quindi "fuori mercato" rispetto a quella illegale. Ma a che punto della storia si è incastrata la battaglia per la legalizzazione? Il testo di legge, forte di 221 firme, galleggia da quasi un anno in commissione. Il nodo è la "destinazione" della marjivana legalizzata: quasi tutti sono favorevoli all’uso terapeutico, ma soltanto sinistra e cinquestelle sono compattamente schierati a favore dell’utilizzo ricreativo. Per superare lo stallo, il presidente dell’intergruppo parlamentare Della Vedova ha deciso di passare all’azione. Poche settimane fa, ha scritto una mail ai presidenti delle commissioni Giustizia e Affari sociali- e ai capigruppo di Montecitorio - per lamentare una "situazione inaccettabile". "Dopo la lunghissima fase di audizioni non è stato esaminato neppure un emendamento - ha fatto presente. La verità è che la legge è stata parcheggiata su un binario morto. Incontriamoci. E poi si passi al voto". La risposta di Donatella Ferranti e Mario Marazziti - a capo delle due commissioni- ha però gelato i fan dello spinello legale: "Finora non si sono realizzate le condizioni politiche per predispone un testo condiviso. Nessun intento dilatorio - mettono nero su bianco - ma soltanto l’esigenza di procedere a un’approfondita indagine conoscitiva". La verità è che proprio il Pd si trova di fronte a un bivio. L’unico capogruppo a non rispondere all’appello di Della Vedova è stato proprio Ettore Rosato. Dopo la sconfitta referendaria e il congresso, al Nazareno ci si muove con cautela, soprattutto su un tema tanto sensibile. La relatrice dem Anna Miotto, tra l’altro, preferirebbe limitare la legalizzazione al solo uso terapeutico, mentre i grillini insistono: "Le responsabilità di questa interruzione è del Pd". La prossima mossa dell’intergruppo sarà allora quella di chiedere che si passi al voto, anche senza un accordo, partendo dal testo Giachetti e dall’uso terapeutico, che mette quasi tutti d’accordo. "Ognuno si assuma le proprie responsabilità", questa è la linea. Sono prevedibili le barricate di Forza Italia e Nuovo centrodestra, certo. Ma sarà comunque il Pd, ancora una volta, a rappresentare l’ago della bilancia. Franco Roberti: "I nemici sono i signori della droga, non i tre milioni di consumatori" di Conchita Sannino La Repubblica, 7 maggio 2017 Il Procuratore Nazionale Antimafia spiega il suo sì "Ma tutto il processo, dalla produzione alla vendita, va affidato ai Monopoli". "Prima di parlare di legalizzazione della cannabis, nei suoi più precisi termini, mi fate dire come si rafforza la strategia contro le droghe pesanti?". Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia, è un pm di vecchia scuola che pesa le parole. E si interroga non solo sull’azione, ma anche sull’immagine dello Stato. "Il mio pensiero è che se questa scelta va attuata, deve essere assunta a una condizione: che se ne occupino i Monopoli". Procuratore, par di capire che lei non aderisce ideologicamente al "partito" dei magistrati che spingono per questa soluzione. "Capisco la provocazione, ma "partito" è ovviamente un termine fuorviante..." È per questo che non era, ieri, al convegno aperto a Napoli da giudici e operatori sociali? "No, assolutamente. Ero assente perché ero atteso a Carpi, nelle stesse ore, per partecipare ad un’iniziativa sulla legalità. Ma ho inviato una nota ai lavori di quel convegno. Un testo che è stato letto dal collega Francesco Curcio e che rispecchia fedelmente l’analisi e il lavoro compiuto su questi temi dalla Direzione nazionale antimafia, nel parere formulato sui disegni di legge all’esame del Parlamento. Quanto all’immagine di un "partito" dei magistrati per la legalizzazione, essa non solo non è reale, perché esistono orientamenti e pareri diversi; ma anche perché non rispecchierebbe la complessità e anche l’impegno e la partecipazione civile e sociale che non può essere vietata ai magistrati, e che comunque arricchisce un dibattito magari utile al paese. E al legislatore". Quindi, lei è d’accordo sulla liberalizzazione, ma ad alcune condizioni. "Non si tratta di dettare condizioni, ma di precisare priorità e articolazioni di una strategia". Cosa significa? "Abbiamo già avuto modo di segnalare come, di fronte all’incredibile incremento dell’uso e dello spaccio di droghe leggere - un vero e proprio boom che ormai conta 3 milioni di consumatori abituali solo nel nostro paese - l’azione di contrasto ai cartelli criminali e al terrorismo tende a potenziare i suoi strumenti e le sue risorse investigative contro i narcos, contro i trafficanti e i grandi riciclatori con i loro spaventosi volumi d’affari, e il relativo inquinamento dell’economia a livello internazionale". Quindi, cala fatalmente la lotta ai cosiddetti pesci piccoli? "Comprensibilmente, io dico, si razionalizza su quel fronte della cannabis l’impiego delle forze dell’ordine, che comunque sono sul campo, specie in alcune realtà del paese, con grande impegno e abnegazione". Sta dicendo che legalizzare non è una sconfitta per lo Stato, ma quasi una scelta obbligata? "Il punto è che stilare le priorità è fondamentale. E non può che essere prioritario concentrarsi nella lotta contro gli imperi criminali dei narcos e le droghe pesanti e sintetiche. Ma sia chiaro che nei nostri pareri siamo sempre stati rispettosi delle opinioni diverse, talora anche molto autorevoli ". Concretamente, queste priorità come si traducono? "Stiamo operando, anche sulla base di un protocollo di intesa con la Direzione centrale dei Servizi antidroga della polizia, per promuovere una svolta vera e propria nelle inchieste e nell’attacco alle finanze di questi trafficanti. Quindi, concentrarsi sul web, sul deep web a livello mondiale, sulla diffusione delle operazioni sotto-copertura, sulle indagini economiche e finanziarie, su intercettazioni telematiche". Il punto resta lo Stato. Legalizzare sì, ma che se ne occupino i Monopoli. "Certo. Deve essere lo Stato nella sua centralità, e in via esclusiva, a occuparsi della coltivazione, lavorazione e vendita della cannabis e dei suoi derivati. Così spottrarremo spazi di mercato alle organizzazioni criminali come ‘ndrangheta e camorra, o ai clan nord africani, afgani, albanesi". Niente gestione a ragazzi o giovani coop. "Radicalmente contrari". Sarebbe troppo rischioso? "Sì, lo sarebbe soprattutto per lo Stato. Non si può correre il pericolo che i criminali rientrino dalla finestra". Cannabis. L’Anm: "dai magistrati nessuna posizione univoca sulla legalizzazione" La Repubblica, 7 maggio 2017 Dopo le prime adesioni di importanti esponenti della magistratura all’appello lanciato dal sostituto procuratore presso il tribunale di Napoli John Woodcock a favore della legalizzazione della cannabis, l’Associazione nazionale magistrati interviene oggi per precisare che "all’interno della magistratura non c’è una posizione univoca sul tema: ci sono illustri magistrati che si esprimono infatti a favore di una liberalizzazione e altri, altrettanto illustri e apprezzati, che invece espongono delle posizioni contrarie". "L’Anm - spiega il presidente Eugenio Albamonte - non può e non vuole dunque prendere una posizione pro o contro relativamente a questo argomento". "Alcuni mesi fa - ricordato Albamonte - l’Anm ha dato al Parlamento un proprio parere su questo tema, un parere tecnico e che non sceglie quale opzione perseguire. Semplicemente evidenzia, nell’articolato della legge, quali sono i pro e quali sono i contro". A sostegno dell’ipotesi di legalizzazione della marijuana è intervenuto oggi in particolare, con un’intervista a Repubblica, il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Un parere "pesante", il suo, che non ha mancato di suscitare reazioni. "Sorprende il reiterato e clamoroso analfabetismo del procuratore nazionale antimafia Roberti, che continua a parlare di droghe da legalizzare senza guardare l’evidenza dei fatti", ha attaccato il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. "Dovrebbe andare a rileggersi i testi di Borsellino - ha aggiunto l’ex ministro - magistrato di ben altra levatura e davvero protagonista della lotta alla mafia. O dovrebbe fare una bella conversazione con il procuratore di Catanzaro Gratteri, che più di Roberti conosce la lotta alla droga. Il mercato della cannabis riguarda il 5 per cento dei proventi delle cosche. Di questo 5 per cento, tre quarti sono acquistati da minorenni che vengono esclusi da eventuali ipotesi di legalizzazione anche da chi propone sciagurate leggi. Pertanto, la legalizzazione della cannabis non scalfirebbe i proventi delle mafie. Questa palese disinformazione diffusa dal procuratore nazionale antimafia è gravissima". Sulla stessa lunghezza d’onda il capogruppo di Forza Italia alla Camera Renato Brunetta: "Sono ferocemente contro la droga e contro la legalizzazione della cannabis. Legalizzare le sostanze stupefacenti non serve a nulla, allarga solo la platea di chi ne fa uso. Dire che con la legalizzazione e con la gestione da parte dello stato si batte la malavita, si battono i clan, è una stupidaggine. Altri magistrati la pensano in maniera totalmente diversa". "I magistrati - prosegue Brunetta - facciano bene e unicamente il loro mestiere, li inviterei a combattere con decisione e determinazione i clan, piuttosto che pensare a legalizzare la cannabis. Anche i bravi magistrati ogni tanto dicono sciocchezze". Un plauso alle parole di Roberti arriva invece da Sinistra italiana e Scelta Civica. "‘Parole sagge e responsabili. È ora che il Pd, il governo e la sua maggioranza sblocchino la discussione sulla legge di legalizzazione, arenata da 2 anni in Parlamento", afferma Nicola Fratoianni, segretario nazionale di Si. Parole simili a quelle usate dal sottogretario agli Esteri Roberto Della Vedova: "Anche oggi, in un’intervista a la Repubblica, il Procuratore Capo della Direzione Nazionale Antimafia, Franco Roberti, ha ribadito che la legalizzazione della cannabis toglierebbe tre milioni di consumatori italiani dall’illegalità e libererebbe risorse per la lotta al crimine più pericoloso. Come si sta facendo in Canada, ad esempio, e si fa da qualche anno in alcuni Stati Usa, con vantaggi rilevanti anche per il bilancio pubblico". "Mi auguro - prosegue il parlamentare di Scelta civica - che il Pd colga questo richiamo e consenta finalmente la discussione della proposta di legge depositata da due anni alla Camera e sottoscritta anche da molti parlamentari democratici e da quasi tutti i deputati del principale partito di opposizione, il M5S". Pena di morte. Iran: almeno 90 minorenni nel braccio della morte La Repubblica, 7 maggio 2017 È quanto si legge nel report periodico diffuso da Nessuno Tocchi Caino. Un gruppo di esperti dell’Onu chiede alle autorità di Teheran di porre fine immediatamente all’esecuzione. Altri patiboli attivi in Somalia, Egitto, Tunisia, Singapore. Almeno 90 prigionieri del braccio della morte in Iran hanno meno di 18 anni, ha affermato un gruppo di esperti dell’Onu, che chiede alle autorità di Teheran di porre fine immediatamente all’esecuzione di minorenni al momento della condanna. È quanto si legge nel report periodico diffuso da Nessuno Tocchi Caino. Tre esperti delle Nazioni Unite - Asma Jahangir, relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nella Repubblica Islamica; Agnes Callamard, relatore speciale sulle esecuzioni extragiudiziarie, sommarie o arbitrarie; e Benyam Dawit Mezmur, presidente della Commissione per i diritti del Fanciullo, hanno avanzato la loro richiesta alla fine della settimana scorsa, dopo aver appreso che un uomo che aveva 15 anni al momento della condanna sarà impiccato la settimana prossima. Condannato a morte quando aveva 15 anni. Peyman Barandah aveva appena 15 anni quando fu condannato a morte nel 2012 per aver accoltellato a morte un adolescente. La sua esecuzione è prevista per il 10 maggio. L’annuncio della data è giunto dopo che un’altra esecuzione - quella di Mehdi Bohlouli che aveva 17 anni quando fu condannato a morte nel 2001, anche lui per aver mortalmente pugnalato un uomo - è stata fermata poche ore prima dell’orario previsto, il 19 aprile. Non è chiaro quando l’esecuzione di Bohloudi sarà praticata. "Siamo sgomenti per l’aumento senza precedenti nel numero di casi di esecuzione di minori in Iran", hanno detto gli esperti in una dichiarazione. "La sofferenza psicologica inflitta agli adolescenti che passano anni in carcere con una condanna a morte è spaventosa, e rappresenta una tortura e un maltrattamento". Una promessa non mantenuta. Chiedendo che entrambe le esecuzioni vengano "fermate immediatamente" e le sentenze di morte vengano annullate, i tre esperti hanno anche invitato l’Iran a "commutare senza indugio tutte le condanne inflitte ai minorenni". Gli esperti hanno detto che i due casi portano a sei il numero di minori la cui esecuzione è stata fissata in Iran da gennaio, comprese due condanne a morte già eseguite. Hanno aggiunto che mentre nel 2016 il governo iraniano ha assicurato al Comitato delle Nazioni Unite per i diritti del Fanciullo che un emendamento del 2003 al codice penale che apre la possibilità per i minori condannati a morte di essere riprocessati sarebbe stato applicato sistematicamente a tutti i minori condannati a morte, "queste promesse non sono state mantenute". Esecuzioni arbitrarie. Hanno osservato che, ratificando sia il Patto internazionale sui diritti civili e politici che la Convenzione sui diritti del fanciullo, l’Iran si è impegnato a tutelare e rispettare il diritto alla vita dei minorenni, nonché a mettere fuori legge la pena di morte per i minori di 18 anni. "Qualunque ipotesi che una ragazza di nove anni o un ragazzo di età superiore ai 15 anni possa essere considerato abbastanza maturo per essere condannato a morte, infrange i principi fondamentali della giustizia minorile e viola entrambi i trattati", hanno detto. "Inoltre, qualsiasi condanna a morte emessa in violazione degli obblighi internazionali del governo, in particolare il suo dovere di istituire un sistema giudiziario minorile in linea con gli standard internazionali per i diritti umani, è illegale ed equivale ad un’esecuzione arbitraria". Puntland (Somalia). Cinque minorenni giustiziati per terrorismo. Cinque minorenni sono stati giustiziati nel Puntland dopo essere stati riconosciuti membri del gruppo terroristico Al-Shabaab. I cinque ragazzi, di età compresa tra 14 e 17 anni, erano stati condannati a morte nella regione nordorientale somala del Puntland per il loro presunto ruolo nelle uccisioni di tre alti funzionari dell’amministrazione, avvenute lo scorso febbraio. Un tribunale militare ha eseguito le condanne a morte. Sarebbero in programma le esecuzioni di altri due ragazzi, Muhamed Yasin Abdi (17 anni) e Daud Saied Sahal (15), anche loro per presunta adesione ad Al-Shabaab e per l’uccisione di funzionari governativi. Amnesty International ha denunciato che i ragazzi sono stati giustiziati dopo un processo iniquo nel corso del quale sono stati torturati e costretti a confessare, gli sono stati negati l’accesso ad un avvocato e ulteriori protezioni accordate ai minori, inoltre sono stati processati da un tribunale militare. "La vita degli altri due ragazzi deve essere risparmiata", ha dichiarato Michelle Kagari, vice direttore regionale di Amnesty International. Tunisia. Diciotto condannati per terrorismo. Un tribunale tunisino ha condannato a morte due persone e altre 16 a pene detentive per atti di "terrorismo" commessi nel 2014, che costarono la vita di un agente della sicurezza. Il portavoce della magistratura Sofiene Sliti ha detto all’agenzia di stampa AFP che nove degli imputati sono stati condannati in contumacia. Le due condanne capitali sono state emesse in relazione all’uccisione dell’agente, avvenuta a Kebili, nel sud del Paese. Gli altri 16 imputati sono stati condannati a pene detentive comprese tra quattro e 36 anni per "appartenenza a gruppo terroristico" e per degli scontri con le forze di sicurezza, vicino Tunisi. La Tunisia osserva una moratoria sulle esecuzioni dal 1991. Dalla rivoluzione del 2011, nel Paese si sono verificati attacchi jihadisti che hanno provocato la morte di decine di poliziotti e di 59 turisti stranieri. Singapore. Impiccato per traffico di droga. Mohd Jeefrey bin Ismail è stato impiccato all’alba, almeno secondo quanto comunicato dalle autorità carcerarie di Singapore alla sua famiglia. È stato giustiziato dopo che il pubblico ministero ha deciso che Jeefrey non avesse "aiutato in maniera sostanziale" l’Ufficio Centrale Narcotici (CNB) a "contrastare le attività di traffico di droga all’interno o all’esterno di Singapore". Jeefrey, 52 anni, era un tossicodipendente e un trafficante, arrestato nel 2012 e successivamente condannato a morte per traffico di un quantitativo di diamorfina eccedente rispetto al limite fissato dalla legge. Il procuratore pubblico avrebbe potuto, grazie ai poteri attribuitigli dalla legge, risparmiare la sua vita se avesse rilasciato a Jeefrey un Certificato di Cooperazione (COC). Il COC avrebbe permesso a Jeefrey di rivolgersi ai tribunali nel tentativo di ottenere la commutazione della pena di morte in una pena all’ergastolo e alle frustate. Egitto. Sei giustiziati per omicidio. Le autorità carcerarie egiziane hanno giustiziato sei prigionieri, in relazione a due casi distinti. Un uomo di 22 anni è stato giustiziato per aver violentato e ucciso una bambina di cinque anni nel governatorato di Minya nel marzo 2014. Le indagini hanno appurato che il condannato ha rapito la vittima, prima di portarla in un edificio abbandonato nel villaggio di Maghaha e di stuprarla. Poi l’avrebbe uccisa colpendola alla testa. La condanna capitale era stata approvata dalla Corte di Cassazione nel febbraio 2016. Il dipartimento delle carceri di Minya ha inoltre giustiziato, tra ingenti misure di sicurezza, cinque persone condannate per omicidio a Qena e Gharbeya. Venezuela. "Scariche elettriche e stupri, così la polizia tortura i giovani oppositori" di Paolo Mastrolilli La Stampa, 7 maggio 2017 La denuncia del padre di uno studente in carcere senza incriminazione: "Vogliono estorcere accuse contro i leader dell’opposizione". "Mio figlio, Fernando Caballero Galvez, è stato arrestato alle tre del pomeriggio del 6 aprile, e torturato con scariche elettriche. È ancora detenuto con l’accusa di terrorismo, senza essere stato incriminato in tribunale". Chi fa questa denuncia è il padre di Galvez, Fernando Caballero Arias, che accusa il governo del presidente Maduro di "violare i diritti umani per restare al potere". Lo incontro a una messa per ricordare i caduti delle proteste in Venezuela, organizzata a Las Mercedes dal Foro Penal Venezolano, una ong di avvocati che difendono gratuitamente i detenuti politici. Il foro accusa il regime chavista di torture, e Arias è disposto a metterci la faccia: "Mio figlio - racconta - ha 29 anni, e frequenta il quinto anno di Economia alla Universidad Central de Venezuela. Il 6 aprile stava partecipando a una marcia, che passava davanti al Centro Comercial El Recreo, quando ha visto una ragazza caduta a terra per i lacrimogeni. Si è fermato ad aiutarla, ed è stato arrestato dalla Guardia Nacional Bolivariana e della polizia". Erano le tre del pomeriggio, e da quel momento è cominciato il calvario di Fernando: "Come prima cosa gli hanno rubato tutto, soldi e cellulare. Verso le sette della sera lo hanno portato nella sede del Servicio Bolivariano de Inteligencia Nacional, Sebin, la polizia politica del regime. Lo hanno pestato con i bastoni, frustato con corde bagnate, e poi torturato con le scariche elettriche. Quindi lo hanno incappucciato e rinchiuso in una cella buia di isolamento. Volevano che confessasse di aver commesso reati, e soprattutto di essere stato spinto a farlo dai leader dell’opposizione. Le torture sono continuate fino alle 4 del mattino, quando lo hanno incappucciato di nuovo per portarlo nelle prigioni del Centro de Investigaciones Cientificas Penales y Criminalisticas, dove è ancora detenuto con l’accusa di terrorismo. Il suo caso è stato assegnato al Tribunal 23 de Control de Caracas, ma il giudice incaricato si è ricusato, e quindi è nel limbo. Detenuto, ma senza incriminazione: potrebbe restare così all’infinito. È una situazione angosciante per noi genitori, ma lui non si perde d’animo. Mi ha detto che è determinato a portare il suo caso alle estreme conseguenze". Arias ha deciso di lanciare questa denuncia, con tutti i rischi che comporta, "perché la comunità internazionale deve sapere cosa accade in Venezuela. Una dittatura ha fatto un colpo di stato istituzionale, quando il Tribunale supremo ha esautorato il parlamento, e ora cerca di restare al potere con la repressione". Alfredo Romero, direttore esecutivo del Foro Penal, descrive così la situazione: "Nel mese di aprile sono stati fatti 1.668 arresti, e oltre 600 persone sono ancora in carcere senza essere passate in tribunale. Abbiamo ricevuto oltre cento denunce di torture, che ora stiamo investigando: per confermarle in maniera ufficiale richiediamo il certificato del medico forense. Non sarebbe la prima volta, però. Durante la repressione del 2014 ci furono diversi casi, tra cui quello denunciato anche all’Onu di Juan Manuel Carrasco, violentato con una canna di fucile nell’ano". Tra le denunce sotto inchiesta ci sono quella del professore dello stato di Monagas Joel Bellorin, "torturato e poi messo davanti a una telecamera per registrare la confessione. Si è rifiutato, e quindi è stato nuovamente brutalizzato. Nello Stato di Merida invece hanno arrestato un quindicenne, di cui non posso fare il nome perché è minorenne, picchiato con i bastoni nello stomaco". La repressione sta diventando sempre più brutale: "La Guardia nazionale ormai usa i lacrimogeni per sparare sui dimostranti. Così hanno ucciso Juan Pernalete e ferito Jolita Rodriguez". Le torture più ricorrenti, secondo Romero, sono "le scariche elettriche, le bastonature, le minacce di violenza sessuale, che nel caso delle donne sono costanti". Gli arresti sono diventati selettivi: "Sono andati a prendere a casa un blogger che dava fastidio. Fanno le retate alla fine delle manifestazioni, prendendo anche persone estranee alla protesta, proprio perché sono più impreparate e deboli. Lo scopo è costringerle a confessare, ma soprattutto ad accusare i leader dell’opposizione, così poi vanno ad arrestarli sulla base di queste accuse estorte con la tortura". A marzo è stata scoperta anche una fossa comune, nel carcere della Penitenciaria General de Venezuela a San Juan de los Morros: "Non era legata alle proteste, ma dimostra lo stato del sistema. Il governo lascia che le mafie gestiscano le prigioni, e quando si ammazzano tra loro li butta nelle fosse comuni. Speriamo che questi metodi non vengano applicati anche ai detenuti politici". Nigeria. Rilasciate 82 studentesse rapite nel 2014 da Boko Haram Corriere della Sera, 7 maggio 2017 Erano 276 le ragazze della scuola di Chibok sequestrate dagli estremisti. Una ventina erano state liberate a ottobre scorso. Il governo: "Liberate grazie ai negoziati". Almeno 82 delle 276 studentesse della scuola di Chibok nello stato nigeriano di Borno rapite dagli terroristi islamisti nigeriani Boko Haram sono state liberate al termine di negoziati tra i loro sequestratori ed il governo di Abuja. Lo riferiscono fonti governative e dei servizi di sicurezza. A dare la notizia il quotidiano locale Daily Post oltre all’agenzia anglo-canadese Reuters. La Bbc ricorda che prima delle 82 ragazze liberate ancora 195 giovani erano nelle mani di Boko Haram. Stando alle dichiarazioni di una fonte militare, attualmente le giovani donne si trovano in Banki, al confine con il Camerun, per dei controlli medici prima di essere trasferite a Maiduguri, capitale dello stato di Borno. Il sequestro - Il sequestro avvenne il 14 aprile del 2014 e per mesi attirò l’attenzione di tutto il mondo salvo poi scomparire dai riflettori: venne lanciata una campagna a lungo virale su trwitter, #bringbackourgirls. Una ventina di loro era stata liberata lo scorso ottobre ma il grosso era rimasto nelle mani di Boko Haram. La maggioranza delle ragazze rapite erano cristiane (la Nigeria è sostanzialmente spaccata in due dal punto di vista religioso, al nord vivono i musulmani e a sud i cristiani) ma vennero costrette in alcuni casi a convertirsi e a sposare i loro carnefici. Il gruppo liberato oggi è il più consistente, anche se alcune fonti dicono che le giovani liberate sono solo 50. India. La Corte suprema condanna a morte i carnefici dell’Indomita di Matteo Miavaldi Il Manifesto, 7 maggio 2017 "Delhi Gangrape case. Zero attenuanti per i quattro che stuprarono in gruppo una studentessa poi morta dopo due settimane di agonia. È la sentenza che l’opinione pubblica e i genitori della ragazza invocavano a gran voce. Venerdì 5 maggio la Corte suprema indiana ha confermato la pena di morte per i quattro imputati del "Delhi Gangrape case", in riferimento alla violenza di gruppo subìta dalla studentessa Jyoti Singh nel dicembre del 2012 a bordo di un autobus nei pressi di un centro commerciale di Delhi sud. La ragazza, 23 anni, morì per le ferite inferte dai violentatori dopo due settimane di agonia. Soprannominata dai media nazionali "Nirbhaya" (l’indomita, la coraggiosa), la vicenda di Singh contribuì ad abbattere parzialmente il tabù delle violenze sessuali nel discorso pubblico indiano, portando in strada centinaia di migliaia di giovani a manifestare per la sicurezza delle donne nel paese. Parallelamente, l’opinione pubblica indiana ha chiesto a gran voce una "punizione esemplare" per quattro dei sei violentatori arrestati dalle autorità della capitale indiana più di quattro anni fa: uno, minorenne all’epoca dei fatti e perciò rimasto anonimo, è tornato in libertà a fine 2016 dopo tre anni di carcere minorile; Ram Singh, maggiorenne, si suicidò in carcere dopo tre mesi di detenzione. Per i quattro - Akshay Thakur, Vinay Sharma, Pawan Gupta e Mukesh - è stata confermata la pena di morte in primo, secondo e terzo grado, in linea col principio di eccezionalità seguito per comminare la pena capitale nel codice indiano (il crimine deve essere "rarest of the rare" per efferatezza e gravità). I giudici della Corte suprema, secondo quanto riportato dai media indiani, confermando il verdetto dell’Alta Corte di Delhi hanno dichiarato: "Se c’è un caso che merita la pena di morte è proprio questo. Alla lussuria umana è stato permesso di prendere una forma demoniaca". La Corte ha ritenuto che le aggravanti di crudeltà e sadismo superassero le circostanze mitiganti evidenziate dalla difesa, tra cui il comune background di povertà dal quale provenivano i quattro imputati. Il governo in carica, attraverso la Union Minister for Women and Child Development Maneka Gandhi, si è detto soddisfatto della sentenza, facendo eco alle speranze della famiglia di Jyoti Singh, che ha auspicato a più riprese la pena di morte per tutti gli imputati. L’avvocato difensore dei quattro, A.P. Singh, annunciando un ricorso al verdetto, ha spiegato che "Nessuno dovrebbe essere sentenziato a morte per mandare un messaggio alla società. Questo verdetto ha annichilito i diritti umani". La violenza sessuale, in India, rientra tra i reati passibili di pena di morte solo dal 2013, per effetto di un inasprimento delle pene chiamato a gran voce proprio in seguito alla morte di Nirbhaya. Yakub Menon, condannato per terrorismo, è stato impiccato nel luglio del 2015 nel carcere di Nagpur, ultima pena di morte eseguita nella Repubblica indiana. Al momento, nel paese, i condannati a morte in terzo e ultimo grado di giudizio sono più di 20. Il presidente indiano Pranab Mukherjee, in carica dal 2012, ha respinto tutte le richieste di perdono arrivate negli ultimi cinque anni; durante il suo mandato sono state eseguite tre pene capitali.