Cresce il numero dei detenuti. Scandurra (Antigone): "è cambiato il clima politico" di Giovanni Augello Redattore Sociale, 6 maggio 2017 Le ultime statistiche ufficiali dell’Amministrazione penitenziaria parlano di oltre 56 mila persone negli istituti di pena: il dato mensile più alto degli ultimi due anni. Nel 2015 erano 52 mila. Preoccupa il trend in costante crescita e la "campagna di allarme sociale che va di pari passo con le elezioni che si avvicinano". Finito il clamore sul sovraffollamento carcerario e sulla condanna per il caso Torreggiani: la popolazione carceraria in Italia torna a crescere e lo fa senza far rumore. Sebbene i dati siano lontani da quelli dell’emergenza (oltre 69 mila detenuti), son i trend degli ultimi anni a spaventare. Le statistiche fornite dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria pubblicate sul sito del ministero della Giustizia e riferite al 30 aprile parlano di una presenza di 56.436 detenuti. Il dato mensile più alto degli ultimi due anni e superiore di circa 4 mila unità rispetto alle 52 mila presenze circa del luglio 2015. Una tendenza evidenziata in parte già lo scorso anno dall’Associazione Antigone che nel suo rapporto annuale denunciava un incremento di circa mille unità. Stavolta, però, la serie storica dei dati è più corposa e non lascia ombra di dubbio. Lentamente, gli istituti di pena italiani stanno tornando ad essere sovraffollati. "Due anni sono un arco temporale in cui sei legittimato a ritenere che non siamo in presenza di una fluttuazione che possa rientrare il semestre dopo - spiega Alessio Scandurra, di Antigone. È una tendenza che si consolida, quindi probabilmente qualcosa è cambiato". Dati che ritroveremo anche nel prossimo rapporto dell’associazione che verrà presentato il prossimo 19 maggio. A crescere in questi mesi è stata anche la capienza regolamentare, ma siamo ancora lontani dal rapporto uno a uno. Gli ultimi dati forniti dall’Amministrazione penitenziaria in merito, infatti, parlano di poco più di 50 mila posti al 30 aprile di quest’anno. Tuttavia, lo stesso Garante nazionale dei detenuti nella sua recente relazione annuale, ha sottolineato che bisogna tener conto anche "dell’alto numero di camere o sezioni fuori uso - si legge nella relazione, per inagibilità o per lavori in corso, che alla data del 23 febbraio sono pari al 9,5 per cento". Cioè circa 4.700 posti non disponibili per varie ragioni, sempre al 23 febbraio. Allo stato attuale, quindi, nelle carceri italiane potrebbero esserci ben 10 mila detenuti in più rispetto a quella che è la capienza regolamentare. Diverse le ragioni dell’aumento della popolazione penitenziaria, argomenta Scandurra. "Le misure normative per limitare il sovraffollamento erano tutte strutturali - spiega - tranne che per la liberazione anticipata. Per un periodo circoscritto è stata portata a 75 giorni al semestre, poi è tornata a 45 giorni. Questa cosa ha avuto un grosso impatto, per cui la sola fine di questa misura probabilmente ha fatto una prima differenza". I dati in crescita, però, suggeriscono anche un’altra lettura. "C’è un cambio di clima - spiega Scandurra. Ai tempi del grande sovraffollamento, gli ingressi cominciarono a calare prima di qualunque intervento normativo, probabilmente perché le forze dell’ordine in alcuni casi avevano ricevuto indicazioni. Da questo punto di vista il clima è cambiato totalmente: da una parte non c’è più la sensazione dell’emergenza e di un sistema al collasso, dall’altra c’è una campagna di allarme sociale che va di pari passo con la campagna elettorale e con le elezioni che si avvicinano. La crescita dei numeri è una conseguenza di questo cambio di clima e neanche l’unica. Penso agli Stati generali, dove sono venute fuori tante idee e tanti temi e tutto questo non è stato tradotto in niente proprio perché c’è un cambio di clima politico". Per Scandurra, "il trend è chiaro", nonostante sia qualcosa a cui "siamo abituati". "Negli ultimi anni avevamo avuto un’inversione per un periodo breve ed eccezionale - spiega - Tuttavia, è dagli inizi degli anni 90 che la tendenza è questa. Una volta si facevano gli indulti, ora non se ne fanno più. È un trend che va tenuto d’occhio, ma di cui sono ovvie le conseguenze. Prima o poi la bacinella traboccherà. Bisogna intervenire, altrimenti è solo questione di tempo". I segnali d’allarme ci sono tutti, ma prima che sia tutto il sistema penitenziario ad essere sotto pressione, può volerci del tempo. "Il sovraffollamento, inizialmente, è molto selettivo - specifica Scandurra. Come un’ondata di piena, anzitutto va a sbattere massicciamente sui circondariali metropolitani. Poi ci si sposta sugli istituti che ci stanno attorno e prima che arrivi a San Gimignano o altrove forse servono anni. Abbiamo un dato nazionale medio che magari non è tanto allarmante, però, se vai vedere nel dettaglio le cose cambiano. Oggi le carceri più affollate sono in Lombardia: Como, Busto Arsizio, Brescia. Probabilmente perché sono territori dove si arresta tanto. Prima o poi inizieranno con i trasferimenti verso il Trentino o verso la Sardegna". Il rischio di un nuovo caso Torreggiani, intanto, è davvero remoto. "Ora è tutto diverso - spiega Scandurra. Girando tra gli istituti abbiamo visto che ce ne sono alcuni dove ci sono detenuti che vivono in meno di 3 metri quadrati, solo che allora quei detenuti potevano fare ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, oggi hanno un rimedio interno: devono far ricorso al magistrato di sorveglianza e questi ricorsi stanno andando a rilento. Finiscono in maniera un po’ confusa. Se si dovesse acclarare che il rimedio non funziona, la Corte può di nuovo pronunciarsi sull’argomento. Ma servirà tempo. Non sarà la Corte europea dei diritti dell’uomo a toglierci le castagne dal fuoco a breve". Mettere mano ai trend e cercare di ottenere una loro inversione, tuttavia, non è semplice, soprattutto in un periodo in cui la politica scalda i motori per le ormai imminenti elezioni. "La ricetta principale è sempre la depenalizzazione - spiega Scandurra, ma è difficile dal punto di vista elettorale". Oltre alla questione delle pene alternative, poi, c’è anche l’annosa questione della legge sulle droghe, dove "ulteriori interventi in materia avrebbero un impatto enorme sul penale e sul penitenziario perché la legge sulle droghe è il grande motore della carcerizzazione". Tuttavia, conclude Scandurra, oggi c’è bisogno soprattutto di una presa di coscienza sul ruolo delle misure detentive. "In tanti hanno l’idea che la pena sia il carcere - spiega. La Costituzione e la legislazione dicono cose diverse, ma la cultura diffusa dice ancora che se non è carcere non è pena". "Ascoltiamo le vittime, ma anche i carnefici" di Giulia Mengolini letteradonna.it, 6 maggio 2017 Due tentati suicidi in carcere in tre giorni. La psicologa Patrizi ci invita a tenere in considerazione anche la loro sofferenza. Perché non ripetano la violenza. E sulla gogna mediatica dice: "Non si risponde al male con il male". 2 maggio: ha usato la lametta di un rasoio da barba per tagliarsi le vene nel carcere di Torino, Luigi Garofalo, torinese di 46 anni accusato di atti persecutori nei confronti della moglie, che nelle ore precedenti la convalida dell’arresto si era detta preoccupata per la sua vita se l’uomo fosse stato scarcerato. "Basta con questa gogna mediatica, non ce la faccio più", ha detto lui spiegando il motivo del gesto. 4 maggio: tenta il suicidio in cella anche Edson Eddy’Tavares, accusato di aver sfigurato l’ex fidanzata Gessica Notaro con l’acido il 10 gennaio a Rimini. Il capoverdiano, detenuto nel carcere di Forlì, avrebbe annodato un lenzuolo al collo tentando poi di appendersi con quello alle sbarre. Nel giro di due giorni in Italia, due uomini che si sono macchiati di un reato violento nei confronti di una donna hanno tentato il suicidio in cella. Cosa li spinge a un gesto così estremo? Il senso di colpa, arrivato troppo tardi? O la prospettiva di marcire in cella senza avere più un futuro? Ne abbiamo parlato con Patrizia Patrizi, psicologa, psicoterapeuta e professoressa di Psicologia sociale e giuridica all’università di Sassari e presidente del Guc (Comitato Unico di Garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni), che ci ha invitato a porre l’attenzione (anche) su un punto di vista che tendiamo a non considerare mai: quello del carnefice. Domanda: Due tentati suicidi in carcere in due giorni da parte di due aggressori. Proviamo a inquadrare il fenomeno? Risposta: Questi fatti mi hanno colpito molto, e direi che dovremmo utilizzare questa come "occasione" per riflettere anche su un sistema che forse non adeguatamente c’entra il problema. D: In che senso? R: È evidente che il carcere non sia proprio il luogo migliore per lavorare su una rielaborazione di quello che è successo rispetto all’obiettivo del cambiamento e della non recidiva. E sappiamo quanto i detenuti lì siano a rischio di suicidio. Questo tipo di rischio si può provare a valutare con alcuni strumenti - test ad esempio - ma a volte dimentichiamo che è legato soprattutto ai vissuti delle persone. D: Come si dovrebbe agire? R: I reati strettamente legati alle relazioni richiedono qualcosa che il nostro sistema, pur prevedendolo teoricamente, nella pratica non mette in atto. Serve una grande attenzione ai vissuti delle persone coinvolte. Mi riferisco alla vittima, alla famiglia della vittima. Per esempio, una vittima deve spendere soldi propri per pagarsi una terapia dopo quello che ha subito? Noi abbiamo una normativa che istituisce servizi di ascolto per le vittime, ma senza budget. D: E l’aggressore? R: Ecco, questo dovrebbe valere altrettanto nei confronti dell’autore. Un aggressore deve essere accompagnato a confrontarsi seriamente con le conseguenze di quello che ha fatto, e anche a rielaborare - e non è buonismo psicologico, ma un ragionamento in termini di utilità sociale - quello che prova dentro di sé. E un intervento a livello culturale è fondamentale. Perché quello che resta è la sofferenza: della vittima in primis, ma anche della collettività spaventata, terrorizzata. Questo senso di insicurezza non trova soluzione attraverso l’esasperazione della pena, ma dovrebbe trovarla in un lavoro fatto con gli interlocutori. D: Come? R: Dobbiamo pensare che sta soffrendo la vittima, ma anche quell’autore di reato. Il problema è che questa sofferenza è utile solo se ci si lavora - a meno che il tentato suicidio non sia strumentale. Se non lo è quella persona ci sta comunicando che su quello che ha fatto ci sta lavorando. E bisogna utilizzare questo lavoro, direzionarlo, perché lui possa comprendere come ci si comporta nelle relazioni, con il femminile. Altrimenti starà in galera 20 anni ma durante questo periodo sa cosa possiamo ottenere al massimo? Che si sentirà una vittima. D: Il fulcro di tutto è una società maschilista? R: Il fatto è che la nostra società ci restituisce una rappresentazione della donna senza potere d’azione, un femminile che si deve sempre parametrare al maschile. Io come docente universitaria lo ripeto quotidianamente, insisto moltissimo sull’uso del linguaggio di genere. Per non parlare poi degli stereotipi con cui veniamo cresciuti: la bambina si deve vestire di rosa e deve avere il bambolotto mentre il maschio deve giocare con le astronavi. D: A proposito, è favorevole alle declinazioni grammaticali al femminile? R: Assolutamente sì. Il paradosso è che la visione del femminile subordinato al maschile è talmente forte da portare a criticare quella che è una correttezza grammaticale. Avvocato al maschile si declina "avvocata": sa quante volte mi è stato detto "non mi chiami così"? Questa non è una questione irrilevante rispetto ad altre come spesso si dice, perché le parole costruiscono pensiero. Definirla tale è un ulteriore modo per discriminare, squalificare. D: L’uomo torinese, accusato di stalking, ha detto di aver provato a farla finita perché non ne poteva più di quella "gogna mediatica". I commenti che si leggono sul web sono: "Dovevi pensarci prima", "era meglio se morivi". R: Che ci siano questi pensieri è legittimo, ma bisogna vedere quanto esasperiamo e strumentalizziamo queste reazioni. La gogna mediatica non fa bene a nessuno. La risposta del male con il male non è una risposta giusta, perché è paradossale. E non dimentichiamo che anche se lui si uccide ce ne sarà un altro che probabilmente agirà allo stesso modo. D: Un aggressore che cerca di suicidarsi in carcere tendenzialmente lo fa più per senso di colpa o per la paura di passare la vita in carcere? R: È molto difficile rispondere: nei nostri comportamenti ci sono tantissime variabili. In generale dobbiamo tenere presente che nella mente di una persona in quella situazione probabilmente ci saranno entrambi gli aspetti che ha citato, oltre ad altre dimensioni. Per esempio chi va in carcere e ha commesso una violenza si trova in una comunità punitiva, in più gli altri detenuti lo marginalizzano. D: Dottoressa, il famigerato raptus esiste? R: No, non possiamo parlare di raptus. Ogni ogni nostro comportamento, anche quello che avviene in modo emergenziale, ha una complessità di anticipazione, anche se non è presente alla mia consapevolezza. D: Anche perché parlare di raptus spesso sembra giustificare il carnefice. R: Esattamente. Invece dobbiamo pensare che ci sono persone che hanno reazioni più immediate e meno pensate, ed esistono situazioni emergenziali. Mettiamo che lei si trovi in mezzo a un incendio: ha un tipo di reazione immediata e se le chiedono "che hai fatto in quel momento?", risponderà: "Non lo so nemmeno io". Ma non così, è vero invece che per me sarà difficile rispondere, riconoscere cosa mi è accaduto. Ma qualcuno può aiutarla a farlo. "Noi, sopravvissuti agli Ospedali Psichiatrici": viaggio tra i malati usciti dagli Opg di Giovanni Tizian L’Espresso, 6 maggio 2017 Campetti da calcio, orti da coltivare, karaoke, laboratori. E la certezza che prima o poi da questo luogo se ne andranno. I reduci degli Ospedali psichiatrici giudiziari e la loro nuova vita nelle Rems, residenze per le misure di sicurezza. Che ora però rischiano il sovraffollamento. Gianluigi è un sopravvissuto. Un reduce degli Ospedali psichiatrici giudiziari. E ora che queste carceri nate per rinchiudere la follia sono state bandite per sempre, lui come tanti altri vivono nelle Residenze per le misure di sicurezza, le Rems. Il passato, però, non si può cancellare con una legge. Così Gianluigi continua a definirsi prigioniero e preferisce starsene rintanato nella sua nuova camera di Ceccano in provincia di Frosinone. Vive in isolamento, un’abitudine inculcata con la violenza durante la lunga sosta nell’Opg di Aversa. Tra quelle mura era solo un reietto e un assassino, senza storia né identità. Un prigioniero, appunto, da rieducare, da legare a un letto sudicio per giorni se necessario. "Nella Rems si sta meglio, ma non sopporto la confusione, almeno nell’Opg chi non rispettava le regole veniva punito in maniera esemplare. Io più volte sono finito legato a letto e ho preso diverse manganellate". A Ceccano non funziona così, ma Gianluigi deve ancora prendere confidenza con la libertà. Sembra invece essersi ambientato molto bene Luigino "Settebellezze", un omone alto e sorridente che indossa la polo blu e gialla del Frosinone calcio. I pazienti in cura in questo comune del frusinate arrivano in gran parte da Aversa. Ora hanno un campetto da calcio, l’orto da coltivare, il karaoke, laboratori, libri, la possibilità di uscire e la certezza che prima o poi da questo luogo se ne andranno. Certo, non sempre tutto va per il verso giusto. Proprio da Ceccano era fuggito due volte il ragazzo di 22 anni poi suicidatosi a Regina Coeli poche settimane fa. In realtà, ci spiega il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia, "l’amministrazione penitenziaria una volta diventata definitiva la sentenza dell’infermità mentale del giovane non voleva più rimandarlo a Ceccano perché da qui era già fuggito". Un limbo rivelatosi fatale. L’ultimo Opg a chiudere con due anni di ritardo è stato quello di Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia. Istituto noto per aver ospitato anche i finti pazzi di ogni mafia italiana. I sopravvissuti a quell’inferno ora vivono nelle residenze gestite dalle Asl locali. L’approccio è interamente sanitario, "non siamo poliziotti, ma medici, il nostro obiettivo è fare di questo luogo una comunità", ci accoglie così il direttore della Rems di Ceccano, Luciano Pozzuoli. All’interno vivono in 17, "finora ne abbiamo dimessi 18, un numero molto alto, impensabile ai tempi degli Opg". Al momento gli ospiti totali delle Rems superano di poco le 570 unità. I posti totali disponibili divisi tra le varie regioni ammontano a 604. Non tutte le strutture sono uguali. Ce ne sono alcune più permissive di altre, dove le porte delle stanze restano aperte anche di notte. E dalle quali i pazienti, che non sono più etichettati come internati, possono uscire una volta al giorno accompagnati dall’équipe di psicologi ed educatori. La Rems di Barete, a L’Aquila, rappresenta l’avanguardia di tale approccio. Ospita 13 ex internati diventati pazienti. Finora sono usciti per "fine cura" in 10. Missione compiuta. La direttrice è una giovanissima psichiatra, Ilaria Santilli, e il gruppo di medici, tutte donne, lavora con un approccio rivoluzionario: tra queste mura non si bada al reato commesso, si cura la malattia psichica. Il resto è stigma, etichetta. Superfluo ai fini del reinserimento nella società. E veniamo appunto al secondo grande tema: le strutture sanitarie che hanno preso in carico gli ex internati puntano alla dimissioni dei pazienti, non sono più, dunque, discariche sociali da cui riemergere era praticamente uno sforzo vano. "Le basi concettuali e pratiche di un modello come le Rems, affinché evitino il rischio di diventare nuovi, pur se piccoli, Opg, sono invece la territorialità e il numero chiuso, il rifiuto della coercizione, in particolare la contenzione, e la consapevolezza che la permanenza nella struttura deve avere un tempo definito", ha scritto Franco Corleone nella sua ultima relazione da commissario governativo per il superamento definitivo degli ospedali psichiatrici. All’Espresso, Corleone, spiega inoltre che "è necessario mettere in discussione la logica manicomiale a fondamento degli Opg. Di tale approccio è intrisa la nostra società, che tende a rinchiudere il diverso, il cattivo, il matto, figure cioè di disturbo sociale". C’è però un altro ostacolo che si frappone tra il nuovo equilibrio incarnato dalle Rems e il passato nero delle vecchie istituzioni totali. Al Senato è stato approvato il Ddl penale, che prevede l’entrata nelle nuove strutture residenziali anche dei detenuti comuni con un sopraggiunto disagio psichico. Ecco perché in molti hanno espresso il proprio dissenso, in primis l’associazione Antigone e Stop Opg, a cui va il merito di aver portato avanti una battaglia di certo non popolarissima in un’epoca di becero giustizialismo. E persino i direttori delle Rems hanno chiesto di rivedere la norma, in quanto esiste il rischio concreto di replicare il modello Opg. Anche per questo il comitato Stop Opg guidato da Stefano Cecconi per aprile promette battaglia. Altro punto critico è la diversità tra Rems e Rems. Ci sono le più progressiste e quelle che mantengono ancora dei vincoli più coercitivi. Ne esistono alcune persino senza sbarre ai piani alti, altre in cui massimo alle undici di sera serrano le porte e hanno i letti saldati al pavimento. A Nogara, per esempio, nella bassa veronese, non ci sono sbarre né guardie ma vetri antisfondamento, finestre che si aprono pochi centimetri, porte allarmate. Misure di sicurezza passiva, tipiche dei reparti psichiatrici e applicate a questa Rems. Quaranta posti in totale, tre stanze destinate alle donne, la seconda d’Italia per capienza, realizzata in un’ala del vecchio ospedale Stellini, oggi centro sanitario polifunzionale. I primi sedici posti letto sono stati allestiti in fretta e furia alla fine del 2015, rispondendo così alla diffida del Governo che lamentava ritardi. Altri ventiquattro posti sono stati aggiunti nei dodici mesi successivi e lo Stato ha stanziato undici milioni e mezzo per una struttura nuova di zecca. Gli spazi non sono ampi, tuttavia le stanze sono luminose e colorate con un sistema di videosorveglianza in ogni locale. Le porte delle camere sono aperte e i pazienti possono entrare e uscire a loro piacimento. Poi ci sono gli spazi comuni, la mensa, i laboratori e un giardino attrezzato per fare un po’ di movimento all’aperto e qualche partita di calcetto. Insomma, le giornate scorrono tra momenti di cura, laboratori d’arte, i percorsi beauty per le donne, i film e il karaoke. "La ristrutturazione è costata tre milioni e mezzo di euro", spiega l’architetto Antonio Canini responsabile dell’edilizia ospedaliera del Veneto, "non ci sono tubi, rubinetti, interruttori, lampade, tutti oggetti potenzialmente pericolosi". Per chi è uscito dall’Opg è un cambiamento radicale, non solo perché ora vive in una struttura accogliente e dignitosa, ma soprattutto perché viene curato. Il personale in servizio conta su cinquanta persone tra infermieri, educatori, assistenti sociali, operatori socio-sanitari, psicologi e psichiatri. Ai sanitari si aggiungono due addetti alla vigilanza, non armati ma pur sempre con la divisa a fare da deterrente. Sebbene il passo in avanti rispetto al passato sia evidente, ancora molte cose restano da fare. "Penso al rapporto con la magistratura", riflette il garante dei detenuti del Lazio, "ho seguito il caso di un ragazzo afgano bloccato nella Rems di Palombara perché i giudici che dovevano concedere l’autorizzazione si dichiaravano tutti incompetenti". Anastasia, poi, segnala un’altra anomalia: "Nelle carceri non esiste un supporto per chi durante la detenzione si ammala di patologie psichiche, perciò viene chiesto per loro l’inserimento nelle Rems, dove però dovrebbero stare solo coloro che hanno un’infermità totale certificata in maniera definitiva. Il rischio è il sovraffollamento e l’inserimento di delinquenti comuni tra chi ha veramente bisogno". Insomma, l’ombra inquietante di un ritorno al passato. La tariffa giornaliera a Nogara è di 290 euro a paziente, a Ceccano si arriva a 400, mentre Barete spende 300 euro al giorno per ogni ospite. Nelle altre, dalla Puglia al Piemonte, le quote giornaliere variano dai 170 ai 500. Cifre che includono anche le spese per i farmaci ed esami clinici. Il tutto grava sulle casse delle aziende sanitarie di residenza. Le strutture dovrebbero essere tutte pubbliche, così prevede la Legge. Tuttavia, la Rems provvisoria di Bra, in provincia di Cuneo, è una casa di cura privata e può accogliere 18 persone. Un’eccezione che costa allo Stato quasi 2 milioni di euro, spesa su per giù pari a quella delle comunità interamente pubbliche. La Rems più all’avanguardia è, dicevamo, Barete. Qui i colori pastello delle pareti sono funzionali a stimolare le emozioni. L’ambiente è decisamente curato e pulito. All’interno non ci sono telecamere. Anche le camere rappresentano una novità assoluta: sono dei mini appartamenti, con cucina e bagno. Vivono in due per stanza e non c’è momento in cui siano imprigionati là dentro. La libertà e l’autonomia è la base di questo metodo di cura. C’è persino la possibilità di riunirsi in una trattoria vicina, con l’équipe al seguito. È un modo per riassaporare la normalità, dopo il buio pesto degli anni trascorsi negli ospedali psichiatrici. "Contesto chi tra i miei colleghi vorrebbe Rems più contenitive", si scalda il direttore del dipartimento di salute mentale dell’Aquila Vittorio Sconci, che spiega: "Crediamo fortemente nei trattamenti psichiatrici, se questo è efficace la pericolosità scemerà di conseguenza. Non siamo carcerieri, ma medici e lavoriamo con gli strumenti a noi più consoni". Stretta tra la strada che porta ad Amatrice e un costone della montagna, la residenza di Barete è l’edificio più distante dall’idea di Opg. Verde, accogliente e soprattutto resistente. Qui hanno vissuto in pieno le recenti scosse del terremoto, l’edificio ha retto. Neppure una crepa. E, dicono i medici presenti, i pazienti sono rimasti calmissimi. Non solo, ma vista la neve alta sono rimasti a dormire tutti nella Rems. Medici e pazienti, come una grande famiglia. Tra queste mura vivono persone che hanno commesso anche omicidi, per i quali c’è già una sentenza definitiva di vizio totale di mente, quindi non imputabili, e perciò destinati a rimanere in strutture di questo tipo. Tuttavia ci sono pure ragazzi con reati minori e per i quali il giudice deve ancora stabilire se sono imputabili o meno. Tra loro c’è Paolo, per esempio. Napoletano, di famiglia borghese, ex studente di liceo scientifico. La sua vita a un certo punto prende il crinale della disperazione. Inizia a vivere per strada e dopo aver aggredito un medico finisce in manicomio. Soffre, Paolo, per una situazione che non accetta. "Voglio uscire di qui, lo può scrivere questo la prego", ripete in continuazione. Il suo desiderio è tornare in società. Ma ammette che Barete è un paradiso. "Sono tutti molto affettuosi e professionali, prima ho passato mesi di inferno in un manicomio, stavano tutti nudi, urlavano, e non si poteva uscire mai, un posto pericoloso. Come lo era l’Opg di Aversa, dove ho passato quattro mesi". Alessio è un altro paziente, ha vissuto qualche mese in carcere. "Mi è bastato, ora a Barete sono sereno, anche se i problemi in famiglia che mi hanno condotto fin qui restano. Ma adesso ho un’idea chiara di cosa vorrei dalla mia vita. Uscito di qui mi piacerebbe avere un mio appartamento e iniziare a lavorare". Alessio è appassionato di cucina. Quando entriamo nel suo mini appartamento ci accoglie un profumo di salsa di pomodoro. "Adoro cucinare e poi organizzare pranzi e cene con gli amici con cui ho legato". Scene di vita quotidiana. Istantanee di uomini e donne che cercano di riprendersi a tutti i costi la normalità con gesti semplici, per noi banali. Una ricetta, un tiro al pallone, un corso di cucina, un po’ di palestra, un libro da leggere. Eresie per quell’epoca da poco tramontata degli Opg. Teatro in carcere: l’esperienza italiana fa scuola negli Stati Uniti di Teresa Valiani Redattore Sociale, 6 maggio 2017 Due giornate di incontri e conferenze nel Massachusetts rivolti a educatori e operatori sociali con Vito Minoia, presidente del Coordinamento nazionale Teatro in carcere, e il maestro burattinaio, Mariano Dolci. Minoia: "Un’ottima opportunità per far conoscere il nostro lavoro e i risultati che si possono ottenere". La quarta Giornata nazionale del Teatro in carcere continua a registrare adesioni mentre approda oltre oceano l’esperienza italiana dei palcoscenici rinchiusi, veicolata dalla tradizione delle marionette e protagonista di una serie di incontri e conferenze che hanno visto negli Stati Uniti lo studioso e regista Vito Minoia, presidente del Coordinamento nazionale Teatro in carcere, e il maestro burattinaio Mariano Dolci già docente di Teatro e Animazione all’università di Urbino. Due le tappe fissate nel programma della trasferta: all’Eric Carle Museum of Picture Book Art di Amherst dove la giornata di formazione con conferenze si è conclusa con l’invito a cimentarsi nella costruzione di una marionetta. E, il giorno seguente, alla ‘Dante Alighieri Society’ di Cambridge, a Boston, con una conferenza su "Le marionette come strumento educativo e di promozione delle diversità", svolta in collaborazione con l’Ufficio Educazione del Consolato d’Italia. "Siamo stati negli Stati Uniti - racconta Vito Minoia - per tenere una formazione rivolta a educatori e operatori sociali interessati al rapporto tra il Teatro educativo e inclusivo e i contesti di diversità. Momenti che rappresentano un’ottima opportunità per far conoscere il nostro lavoro e i risultati che si possono ottenere con questo tipo di esperienze. Il pubblico ha apprezzato molto le immagini che ho mostrato, sottotitolate in inglese, su "I burattini di Garcia Lorca", uno spettacolo realizzato dalla compagnia "Lo spacco" composta da detenuti e detenute del carcere di Pesaro. Le lezioni si sono tenute ad Amherst e Boston (Massachusetts), dove ho anche ripreso i contatti con esperti, futuri nostri ospiti per il convegno internazionale "Le scene universitarie per il teatro in carcere", in programma a novembre 2017 a Urbania a cura della rivista europea "Catarsi-teatri delle diversità". Nel corso delle conferenze, Minoia ha presentato il lavoro sviluppato negli ultimi 20 anni all’Università di Urbino con la rivista europea e nel carcere di Pesaro, coinvolgendo detenuti, detenute e studenti universitari nell’allestimento di spettacoli di teatro di animazione ispirati, tra gli altri, a Jarry, Gramsci, Garcia Lorca e Kafka. Direttore artistico del Teatro Universitario Aenigma all’università di Urbino, Minoia ha fondato e presiede il Comitato nazionale Teatro in carcere, organismo costituito da oltre 40 esperienze teatrali diffuse su tutto il territorio nazionale, con il sostegno del ministero di Giustizia - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e il coinvolgimento di oltre 100 istituti penitenziari. Ottimo il bilancio della quarta Giornata nazionale del Teatro in carcere che si avvia alla conclusione e che continua a registrare nuove sorprese e adesioni con ulteriori iniziative che si svolgeranno anche a maggio. Al momento sono 16 le regioni italiane coinvolte, 45 gli istituti penitenziari e 27 le altre istituzioni, tra università, scuole, uffici di esecuzione penale esterna, teatri ed enti locali. Sul tema della sicurezza si gioca il Nazareno-due di Paolo Delgado Il Dubbio, 6 maggio 2017 Il Segretario del Pd farà di tutto per conquistare Forza Italia e rompere il patto con la Lega. Che in ballo ci fosse qualcosa in più di un semplice peggioramento della riforma dell’art. 52 del Codice penale sulla legittima difesa voluto da Berlusconi e dal suo ministro della Giustizia leghista Castelli nel 2006 è stato chiaro la sera di mercoledì scorso, alla vigilia del voto sugli emendamenti chiave. A sorpresa Berlusconi ha diramato un comunicato in cui di fatto ordinava ai suoi deputati di votare contro la legge, come è poi puntualmente avvenuto il giorno dopo. Forza Italia, come FdI, aveva sottoscritto l’emendamento della Lega che chiedeva di fatto di cancellare la discrezionalità del giudice nei casi di "legittima difesa". Era la vera posta in gioco della legge. La riforma Castelli, infatti, già autorizzava ampiamente le reazioni più estreme a fronte di irruzione in casa o in negozio de ladri o aggressori. Il punto dolente era lo spazio lasciato alla discrezionalità del magistrato dall’obbligo di valutare la proporzionalità "tra difesa e offesa". Non si trattava tanto di rafforzare il diritto alla legittima difesa quanto di mettere il giudice "in condizioni di non nuocere". L’emendamento leghista tagliava il nodo come a Gordio: riconoscendo sempre e comunque la legittima difesa. Politicamente l’emendamento a tre firme era molto significativo. Dopo anni di guerriglia i tre partiti della destra si trovavano alleati sul tema più di bandiera di tutti, quello della sicurezza. Però nella gara ingaggiata dal Pd e dalla destra per agguantare il vessillo della politica law and order, l’unico modo per "superare a destra" il decreto del governo, ispirato in realtà da un Renzi convinto che senza il muso duro non si possano conquistare fasce decisive d’elettorato, era chiedere l’impossibile. Sottrarre al magistrato ogni ruolo e togliergli ogni discrezionalità è infatti un’enormità che non avrebbe mai passato il vaglio della Corte costituzionale. Maria Stella Gelmini, plenipotenziaria azzurra sul tema, aveva quindi stretto un accordo col relatore, il Pd David Ermini. Il Pd avrebbe accettato alcune modifiche chieste dai centristi che, pur senza eliminare del tutto la discrezionalità del giudice, avrebbero però reso molto angusti i suoi margini di manovra. Fi, a quel punto, avrebbe votato sia l’emendamento che la legge nel voto finale. Strategia inappuntabile finché si resta al merito della legge, devastante però se si guarda oltre quel perimetro, cioè alle ricadute politiche complessive. La riunificazione della destra si sarebbe risolta in un disastro, in una nuova lacerazione tanto più clamorosa in quanto determinatasi proprio sul tema eminente della sicurezza. Ghedini ha fatto suonare l’allarme rosso e da Arcore il capo è sceso in campo. La Gelmini ha potuto rispettare l’accordo sull’emendamento dei centristi che ha ulteriormente irrigidito la legge, votando a favore, ma non sul voto finale: pollice verso. L’obiettivo della riunificazione sul tema della sicurezza è facilmente visibile anche se non conclamato (ma confermato in abbondanza nei colloqui privati). Fi e Lega non avrebbero alcuna intenzione di presentare alle elezioni una lista comune. Preferirebbero di gran lunga una legge basata sulle coalizioni, che permetterebbe sia a Berlusconi che Salvini di allearsi ma conservando le proprie specificità e senza ipotecare troppo il futuro. Però se, come è molto probabile, Renzi cercherà di sgambettarli con una legge elettorale centrata sulle singole liste e non sulle coalizioni, si rassegneranno alla lista unitaria in nome del comune interesse. Ma dopo mesi di sganassoni reciproci, il percorso non può essere improvvisato, va cementato da passi comuni e il voto sulla legittima difesa è insieme il primo e uno dei più importanti. Per Renzi ostacolare questa operazione di ricongiungimento è fondamentale, tanto più che nelle condizioni attuali la legge sulla legittima difesa non ha nessuna possibilità di passare il voto del Senato. Non senza il voto dell’Mdp, gli scissionisti di Bersani e Speranza, che a Montecitorio non era determinante ma a palazzo madama sì. Se non deciderà di chiudere la legge in un cassetto sperando che venga dimenticata al più presto da tutti, Renzi dovrà quindi cercare di conquistare il semaforo verde di Forza Italia, sia rendendo la legge ancora più dura sia attivando canali diplomatici sotterranei e mettendo sul banco del mercato la sua merce: concessioni sulla legge elettorale, a partire dai capilista bloccati che per Arcore sono questione di vita o di morte Legittima difesa. Il Pd travolto dalle critiche e dal ridicolo di Andrea Colombo Il Manifesto, 6 maggio 2017 L’Anm boccia il testo. Grasso: "Meno male che c’è il Senato". Renzi dà la colpa agli altri, cercando inutilmente il voto di Forza Italia. Ermini: "Via la parola notte". È peggio che un semplice disastro. La legge sulla legittima difesa affonda sommersa non solo dalle critiche ma anche dal ridicolo. La campagna securitaria decisa da Renzi con l’obiettivo di rubare voti alla destra si è risolta in una sgangherata rotta. I magistrati aprono il fuoco. "Intervento che non serviva e anche un po’ confuso", attacca il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte. Non si ferma qui e affonda la lama nella carne viva: non bisognerebbe "assecondare gli umori" popolari, "meglio desistere dal mettere mano a questa normativa". Nella pattumiera. Grasso, presidente di quel Senato che Renzi voleva abolire e al quale ora si raccomanda per modificare la legge, si gode la rivincita: "Meno male che c’è il Senato". Le opposizioni si divertono, non lesinano in sarcasmo. "Se questa legge passa raccoglieremo le firme per abrogarla col referendum", si allarga Salvini. La legge, oltretutto, ha ottime probabilità di non uscire viva dall’aula del Senato. Renzi si è impegnato a modificarla, cioè a peggiorarla, nella speranza di raccattare i voti di Fi ma Berlusconi non ha intenzione di fargli il favore sacrificando la ritrovata intesa col Carroccio. Neppure gli scissionisti dell’Mdp cambiano idea e in queste condizioni una maggioranza al Senato non c’è. Non sarà neppure facile cavarsi d’impiccio ricorrendo all’eterna arma del cassetto. La legge arriverà in commissione tra due settimane e per il Pd la cosa migliore sarebbe seppellirla lì. Più facile a dirsi che a farsi. All’origine si tratta infatti di una delle proposte di legge in quota opposizione. È una legge della Lega e se il Carroccio insiste per portarla in aula non c’è alternativa. Ma il peggio è la rete. La vecchia sigla del programma cult di Renzo Arbore, "Ma la notte no", impazza, vive una seconda giovinezza. Le battutacce si contano a centinaia. Inutilmente il relatore Ermini, fedelissimo del capo e reduce da una lavata di testa che lèvati, prova a correggere: "Toglieremo la parola Notte". Non ce ne sarebbe bisogno per la verità, "ma se serve a correggere un’opinione completamente stravolta". Inutile. La slavina è irrefrenabile, il coro sull’assurda legge che permette di sparare ai malfattori ma solo di notte prosegue. Il povero Ermini in realtà ha ragione. La legge è pessima ma la distinzione tra notte e giorno è frutto solo di un pasticcio mediatico di un testo confuso, che però il gran capo conosceva bene. Renzi aveva fiutato l’aria malsana già giovedì sera, navigando in rete e traendo le conclusioni dal diluvio di critiche e ironie pesanti che già s’abbatteva sulla legge. In questi casi il suo schema è fisso: addossare la colpa agli altri. Si attacca al telefono, strapazza Ermini: "È scritta così male che si comunica male da sé. Bisogna rimediare, cambiarla, sparigliare". Poi ordina al suo portavoce, l’onorevole Anzaldi, di chiamare quattro giornalisti fidati per spiegare che il capo è fuori di sé: "Così non si può andare avanti. Manca una regia. Su questa strada andiamo a sbattere". Trattandosi di una proposta di legge nata in Parlamento e fatta propria dal partito di cui Renzi è segretario, con un suo uomo come relatore, non si capisce bene chi, se non Renzi stesso, avrebbe dovuto occuparsi della regia. Particolari. L’importante è scaricare ogni responsabilità su qualcun altro, meglio se sul governo. Al resto penseranno i media. Quando per la legge arriverà il momento della verità, Renzi è già pronto a sfruttare come d’abitudine la situazione a proprio vantaggio, insistendo sull’impossibilità di andare avanti a fronte di un Senato dove le divisioni interne alla maggioranza non permettono più di procedere. Tanto più che, subito dopo la legittima difesa, arriveranno a palazzo Madama altri due provvedimenti modello Mission Impossible, la legge sul testamento biologico e quella sulla cittadinanza e lo ius soli. Lo sgambetto del capo è stato preso malissimo dal governo, anche se tutti cercano di non rendere palese l’irritazione. La ministra per i rapporti col parlamento, Finocchiaro, incaricata di cercare una difficilissima mediazione sia con Fi che con i centristi della maggioranza, decisi a rendere il testo più severo di quanto non intendesse Ermini, si è ritrovata sul banco degli imputati e mastica amaro. Il ministro Orlando, che al provvedimento leghista era contrario dall’inizio, vede ancora più rosso, tanto che i suoi sbottano: "Siamo alla presa in giro. L’intervento di Renzi è insopportabile". Ma anche tra i capibastone della maggioranza Pd, Franceschini e Martina, l’umore è cupo. Si erano illusi che dopo la batosta del 4 dicembre Renzi fosse cambiato. In meno di una settimana si sono resi conto che non è così. Matteo Renzi è sempre lo stesso. Orlando: "Sulla sicurezza Renzi insegue la destra, sbagliato armare i cittadini" di Goffredo De Marchis La Repubblica, 6 maggio 2017 Il ministro della Giustizia: "Ero e resto contrario al principio che anima la discussione sulla legittima difesa". Ministro Orlando, lei ha sempre sostenuto che sulla legittima difesa c’è una legge in vigore buona e giusta che porta al 90 per cento di proscioglimenti e assoluzioni. Adesso spera in un modifica del nuovo testo o nel binario morto del Senato? "Ho sempre detto che una modifica, se serviva, si poteva fare. Ma ero e resto contrario al messaggio che accompagna la discussione sulla legittima difesa. Ovvero, che la sicurezza si costruisca con più armi in giro. Le armi vanno tolte ai delinquenti, non date ai cittadini". Se il Senato fa finta di niente, a pochi mesi dalla fine della legislatura, meglio? "Attendo le valutazioni dei senatori ". Il Pd di Renzi, su questa materia, insegue gli slogan populisti e della destra? "Il rischio che suoni così c’è". Lo fa anche su altri temi? "C’è questo rischio quando sull’Europa si addossano i problemi politici alla tecnocrazia di Bruxelles. Rischia di suonare così anche quando si dice meno tasse per tutti anziché meno tasse per chi sta peggio. E poi, diciamo che c’è una questione di fondo, un linguaggio che ormai è passato ed è conseguenza dell’egemonia culturale della destra". Ha contagiato il Pd? "Un certo tratto antipolitico è entrato anche nel nostro dibattito ". Chi ce l’ha portato? Renzi? "Lo abbiamo fatto entrare piano piano perché la debolezza di un pensiero finisce per subire l’egemonia di un altro pensiero. Anche Renzi se ne è fatto interprete ". Ma l’ha appena battuta 70 a 20 alle primarie. I numeri danno ragione a lui. "Nessuno mette in discussione l’ampiezza della vittoria ma questa non cancella il pericolo di un isolamento politico del Pd. I fatti credo daranno ragione alla nostra impostazione, cioè quella della ricerca della costruzione di un sistema di alleanze del centrosinistra. Lo vedremo alle prossime amministrative. Dove abbiamo costruito delle alleanze ce la giochiamo. Dove andiamo da soli sarà più complicato vincere". Renzi vuole allearsi con la gente e non con le forze politiche. A cominciare dagli scissionisti. Non sembra una posizione bislacca. "Un vero chiarimento con chi ha abbandonato il Pd va fatto. Ma sono contrario ai veti ad personam, alla nostra sinistra si sta formando un’area politica. Se alla fine la domanda fosse: scegli tra quella e Berlusconi, io scelgo quella". Non è la linea di Renzi che al massimo concede un dialogo con Pisapia. "Le alleanze politiche e sociali si tengono. I grandi soggetti come i sindacati, i movimenti cooperativi, le rappresentanze imprenditoriali, l’associazionismo, il volontariato non si avvicinano dove c’è una rottura. In una coalizione che non esiste e in un campo politico dove c’è un conflitto permanente è difficile mobilitare le forze sociali". Ci vorrebbe una legge elettorale. "Il primo passo dovrebbe farlo il Pd. Ho sentito Renzi dire che vuole tenere conto del dibattito congressuale. E vedo molti suoi sostenitori, da Franceschini a Martina che parla di modello Milano, invocare l’esigenza di alleanze ". Se avesse vinto lei, cosa avrebbe proposto? "Avrei scritto un documento con alcuni sintetici punti: premio di governabilità alla coalizione, collegi uninominali, superamento dei capilista bloccati. Avrei provato a capire chi ci sta e chi non ci sta, quanto è lontano". Invece Renzi fa melina? "Continuare a fare delle proposte secche è il modo per non trovare l’accordo. Nessuno ingoia la proposta di un altro". Senza il centrosinistra largo, il Pd perde le elezioni? "Le probabilità sono più alte, ma il problema non è solo quello. Allearsi significherebbe superare la sindrome dell’autosufficienza. Un atteggiamento che viene considerato da larga parte del centrosinistra arrogante e gratuito. Non ha premiato le altre forze a sinistra del Pd, ma ha demotivato molte energie. Dobbiamo essere orgogliosi di essere una forza che continua a mobilitare centinaia di migliaia di persone, tuttavia il calo di partecipazione alle primarie c’è stato e in particolare tra i giovani". Assomigliano agli argomenti di Mdp. "La scissione non è la risposta. Non credo che Articolo uno raccoglierà quelle energie. Tra i due litiganti, il terzo se ne sta a casa. Questo è il risultato delle scissioni". Volete la presidenza del partito? "Non vogliamo poltrone. Vorremmo un metodo che coinvolgesse tutti. Così avremmo un presidente di garanzia". Anna Finocchiaro, sua sostenitrice? "Nessun nome. Basterebbe non trovarsi di fronte ai fatti compiuti ". La conferma di Orfini? "Al di là del nome il paradosso è che la conferma di Orfini segnerebbe un passo indietro dal punto di vista unitario rispetto al metodo seguito per la sua prima elezione. Se si continua con scelte unilaterali e non condivise il nuovo inizio promesso da Renzi sarà poco visibile e poco credibile". Il procuratore antimafia Roberti propone la legalizzazione della marjuana controllata dallo Stato. Condivide? "Venendo da una personalità che ha molto riflettuto bisogna prestare molta attenzione a un punto di vista così autorevole e valutare senza ideologie i pro e i contro". Intervista ad Eugenio Albamonte. Il capo dell’Anm contro la legge "ammazza-ladri" di Errico Novi Il Dubbio, 6 maggio 2017 "Scrivere così le norme è pericoloso. Va bene tenere conto delle sollecitazioni che vengono dalla società, ma bisogna filtrarle. Queste norme dovevano ridurre lo spazio interpretativo dei giudici: finiscono per ampliarlo". Si corrono almeno due rischi, nello scrivere le leggi sotto sollecitazione popolare: "Trasporre il buonsenso nel diritto, che non sempre aiuta a fare buone norme, e ampliare lo spazio d’interpretazione del magistrato, che a me può stare anche bene ma che è l’esatto contrario di quanto si voleva ottenere con le modifiche alla legittima difesa". A dirlo in un’intervista al Dubbio è il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte. Mentre non si placano le tensioni sul testo appena varato dalla Camera, al punto che lo stesso Renzi chiede che al Senato lo si corregga, Albamonte nota che introdurre "il grave turbamento psichico" come causa di "sicura esclusione della colpa" per chi si difende "crea dei dubbi di interpretazione: i parametri per stabilire l’entità dell’alterazione varierebbero di volta in volta. Si arriva così all’esito più paradossale: si voleva ridurre lo spazio di interpretazione del giudice e invece lo si è ampliato". Non è neppure una questione di destra, sinistra, populismo e moderazione. "È semplicemente pericoloso che il legislatore assecondi in modo acritico le sollecitazioni provenienti dalla società. Tenerle in considerazione è giusto, ma bisogna filtrarle". Il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte ha diverse perplessità sulla legge appena approvata alla Camera in materia di legittima difesa. E nel mettere in guardia il Parlamento, segnala in modo persino benevolo due paradossi. Da una parte quelli che vengono dal "trasporre il buonsenso popolare nel diritto". Dall’altra, Albamonte ricorda le conseguenze di definizioni normative troppo particolareggiate, come l’ormai famigerata presunzione secondo cui la difesa è legittima se l’aggressione avviene "in tempo di notte". Presidente Albamonte, è la prima volta che in materia penale si legifera in maniera un po’ "casereccia" o vede una tendenza ricorrente? Beh, l’aggettivo "casereccio" mi pare ingeneroso. Ogni tanto capita di norme che non vengono scritte secondo la prospettiva di chi si trova a doverle applicare, ossia il magistrato. Non sembrano calate nella realtà giudiziaria, ecco: una norma deve essere definita in modo che il magistrato la capisca e riesca a applicarla correttamente. Ma qui allora c’è il rischio che un giudice tratti l’aggredito in maniera più sfavorevole rispetto a quanto avrebbe fatto senza le nuove norme? Se non si riesce a provare il grave turbamento, chi si è difeso si troverebbe addirittura penalizzato rispetto a quanto avverrebbe con le norme attuali? No, questo direi che non si verificherebbe. Il grave turbamento interviene sull’aspetto della proporzione tra offesa e difesa. Secondo il principio della legge attualmente in vigore, quando c’è equivalenza tra aggressione e reazione si può sicuramente vantare la legittima difesa. Si è pensato di regolare quei casi in cui il timore induce l’aggredito a una reazione superiore alla minaccia. Ma qualora non venisse riconosciuto dal giudice lo stato di grave turbamento, si ritornerebbe alla già prevista valutazione della proporzionalità e quindi non cambierebbe nulla. Ma quindi secondo la norma attuale lo spavento non attenua la colpa dell’aggredito? E invece sì, perché nella legislazione già esistente si afferma anche il principio della legittima difesa putativa. Vuol dire che se chi reagisce all’aggressione commette un errore di valutazione scusabile, la sua colpa viene esclusa. Cioè lo stato di turbamento psichico è già oggi una giustificazione per chi si difende, giusto? Esatto. E quindi questa norma sul turbamento è inutile? È una precisazione non necessaria. E allora anche la previsione sulle aggressioni notturne è inutile, visto che la notte è tirata in ballo proprio perché è un momento in cui un’aggressione può creare uno sconvolgimento ancora maggiore? E sì, è una precisazione non necessaria anche questa. Il quadro è completo: legge del tutto inutile... Guardi, io mi soffermerei sull’aspetto di cui dicevo prima, quello del turbamento. E sul fatto che tale condizione psichica, secondo il legislatore, dovrebbe essere pure ‘ gravè, perché la si possa considerare un motivo di sicura esclusione della colpa. E in base a quali elementi il magistrato determina se il turbamento è davvero grave? Il punto che è lo stato psichico della persona è una categoria che attiene a saperi non giuridici. Il che naturalmente crea dei dubbi di interpretazione: i parametri per stabilire l’entità dell’alterazione varierebbero di volta in volta. Ed ecco che si arriva all’esito più paradossale delle norme appena approvate. Quale sarebbe? Che si voleva ridurre lo spazio di interpretazione del giudice e invece lo si è ampliato. Proprio questo passaggio sul grave turbamento crea il margine perché possano esserci diverse applicazioni della norma. Si voleva essere più stringenti, obbligare il magistrato in un percorso segnato più nettamente, si è prodotto l’effetto contrario. E questo effetto è negativo. Con un po’ d’ironia le potrei rispondere che a me, come magistrato, sta pure bene che mi si lasci uno spazio interpretativo maggiore. Ma visto che lo si voleva restringere mi chiedo perché si sia scelto invece di ampliarlo. Tutto qui. Meglio accantonare le nuove norme? Sicuramente sembrano confuse e non in grado di cogliere l’obiettivo. E questo è conseguenza di un particolare modo di procedere nell’intervento legislativo. Prendiamo il caso dell’orario notturno: è chiaro che qui chi ha scritto la legge ha riportato l’eco di recenti fatti di cronaca. Il che dimostra quanto il legislatore sia influenzato dalle dinamiche del dibattito sociale. Non che sia una cosa sbagliata, intendiamoci. L’errore è farlo in modo acritico. Gli spunti che provengono dalla società vanno sì colti ma vanno filtrati. Non farlo è pericoloso? Non ricorrere allo spirito critico nel trarre le conseguenze di quelle sollecitazioni è pericoloso. Non porre alcun filtro è ancora più pericoloso. È successo anche con l’omicidio stradale? Si tratta di un’altra norma che ha radice nella percezione diffusa di certi fenomeni. Quella percezione è determinata anche da una dinamica di rimbalzo in cui i media giocano il loro ruolo. Che ha pensato, quando ha visto che nella legge ricorreva l’espressione "tempo di notte"? Sulle prime ho pensato che in effetti di notte si è più indifesi. Poi però è subentrato l’approccio propriamente giuridico e la battuta è stata inevitabile: ma chi lo dice quando è notte e quando è giorno?, mi sono chiesto. Alle 2 di notte non ci sono dubbi. Ma alle 17.30 d’inverno, quando è già buio, come la mettiamo? E già. Un importantissimo accademico del diritto ha scritto un libro davvero godibile, in cui spiega che il rovescio del diritto è proprio il buonsenso popolare. Che aiuta a capire tante cose, ma non sempre a fare buone leggi. Chi le scrive dovrebbe mettersi innanzitutto nei panni di chi sarà chiamato ad applicarle. Intervista a Luca Palamara (Csm): "vita bene primario, necessaria valutazione del giudice" L’Unità, 6 maggio 2017 Il fattore "notte" non è dirimente. Pericoloso decidere su questi temi sotto pressioni mediatiche e legate al consenso. "Comprendo la necessità di dare risposte ai cittadini che hanno paura perché si sentono indifesi o comunque hanno questa percezione. Ma un tema come la legittima difesa e quindi l’uso delle armi per difendersi va trattato lontano da pressioni mediatiche e legate al consenso. Altrimenti è il far west. E a rischiare sono la democrazia e il diritto". Luca Palamara è membro togato del Csm, ha presieduto l’Anm negli anni in cui i governi di destra cercarono di affondare attacchi definitivi all’autonomia della magistratura ma soprattutto, da pm, si è confrontato con quel territorio difficile che è la tutela del principio della vita quando si entra in un altro territorio, ancora più scivoloso, che è il diritto sacrosanto dell’autodifesa. Il legislatore è stretto tra due opposti e una richiesta: la pretesa delle destre che chiedono di eliminare ogni filtro del magistrato quando un cittadino si difende in casa propria; la convinzione della sinistra e del ministro della giustizia Andrea Orlando per cui la legge c’è già e non servono correzioni; la paura dei cittadini. Cosa dice la magistratura? "Nel rispetto del legislatore che può decidere di disciplinare ogni settore, la magistratura è giusto che si faccia sentire per ribadire due principi chiave del nostro ordinamento: è sbagliato dare l’idea che ciascuno può usare le armi in qualsiasi momento per difendersi; non si può in alcun caso togliere al giudice il potere di valutare i fatti per come sono accaduti e quindi la proporzione tra offesa e difesa". La Lega, che vorrebbe eliminare del tutto la valutazione del magistrato, porta gli esempi degli Stati Uniti e della Svizzera. "In Italia abbiamo un sistema sostanziato da numerose pronunce giurisprudenziali che testimonia come nel corso degli anni la prudente valutazione dei fatti sia sempre riuscita ad affermare il principio della difesa pubblica e della proporzionalità e della valutazione tra i beni in conflitto". Intende dire che la legge funziona visto che nel 90% dei casi si arriva all’archiviazione o al proscioglimento? "Intendo dire che nel nostro ordinamento qualsiasi legge, aldilà della più chiara e specifica disposizione legislativa, non può impedire l’interpretazione della norma da parte del giudice tenendo conto che la vita è un bene primario". La gente ha paura e chiede di potersi difendere senza la preoccupazione di finire indagato. "Questo è un tema reale con cui la politica deve confrontarsi. A mio avviso si deve risolvere soprattutto agendo su prevenzione, maggiori controlli e più certezza della pena". Se entra in casa un ladro, magari di notte, che si deve fare? "È chiaro che il cittadino può e deve difendersi. Che può reagire. Faccio osservare però che l’articolo 52 attuale, modificato e rafforzato nel 2006 dalla Lega, già prevede la legittima difesa in nome della quale la maggior parte dei casi sono assolti o archiviati. Però il cittadino che si difende non può sparare se il ladro o il rapinatore sono in fuga". Sparare nella notte, come dice l’emendamento che sta suscitando tante polemiche, è più legittimo? "È un dettaglio non dirimente. Se un cittadino per difendersi può sparare di notte come di giorno è un tema che va svolto nel processo. Può farlo di notte e di giorno ma a determinate condizioni". In un primo tempo la maggioranza era intervenuta solo sull’articolo 59, allargando le fattispecie dell’errore scusabile. È la strada giusta? "Può essere la strada giusta. In ogni caso è sempre rischioso indicare nelle leggi le fattispecie perché qualcosa resta sempre fuori. Ed ecco che serve il giudice". Le polemiche non aiutano... "C’è molta confusione mediatica e altrettanta pressione legata al consenso. Materie così delicate andrebbero invece disciplinate in tempi e condizioni neutre". Intervista a Riccardo Arena (Radio carcere): "vero problema l’applicazione della norma" di Dimitri Buffa Il Tempo, 6 maggio 2017 "Anche la magistratura è responsabile del caos". Riccardo Arena è una voce nota a Radio Radicale. Da anni conduce ogni martedì e giovedì intorno alle 21 la rubrica "Radio carcere", che dà voce ai problemi e alle situazioni dei disperati che affollano i penitenziari italiani. È anche un avvocato e conosce bene le tematiche legate ai furti nelle abitazioni e alle legittime difese dei proprietari. A lui abbiamo chiesto di commentare la normativa approvata alla camera tra mille polemiche. Riccardo Arena, dal suo punto di vista privilegiato nessuno meglio di lei può parlare di questi temi. Che ne pensa di questa riforma? "È inutile e dannosa". Perché inutile? "Perché già oggi la legge che risale al governo Berlusconi prevede un’ampia presunzione di legittima difesa a prescindere che sia notte o sia giorno. Inoltre anche con la normativa approvata dalla Camera dei deputati sarebbe sempre e comunque eccesso di legittima difesa sparare al ladro che si dà alla fuga". Perché dannosa? "Perché generica". Che significa generica? "È una norma che non specifica in modo adeguato cosa voglia intendere per notte. Si riferisce a una generica oscurità o al cielo stellato? E quando tratta il turbamento che escluderebbe l’eccesso di legittima difesa, cosa vuole dire? È ovvio che se qualcuno entra in casa mia di notte o di giorno io sono turbato, c’era bisogno di scriverlo all’interno della normativa?". E allora quale è il problema? "Quello che non funziona, la vera patologia, è l’applicazione della legge vigente nel caso concreto". Cosa intende? "Voglio dire che noi oggi abbiamo un enorme problema culturale nella applicazione della legge da parte della magistratura. Come per le intercettazioni e per le misure cautelari, anche per la legittima difesa siamo di fronte a delle normative ben scritte ma che vengono applicate in maniera disomogenea da parte della magistratura". Di conseguenza? "La conseguenza è che cittadini che si sono legittimamente difesi sono stati costretti a subire un processo che di per sé è una pena. Quando invece molte di queste vicende eclatanti che abbiamo letto sui giornali potevano e dovevano essere risolte e concluse in tre mesi di indagini preliminari senza passare per le aule dei tribunali dove purtroppo tutto può accadere". E del ladro, o del rapinatore… chi se ne preoccupa? "La norma già oggi sanziona l’eccesso colposo di legittima difesa. Poi, come tutte le professioni, anche quella del ladro e del rapinatore comporta i suoi rischi. Ad esempio il ladro che si introduca in casa altrui deve poi accettare l’eventualità di essere fermato da un cittadino che si difende in modo legittimo. È il rischio di fare il ladro. Se non lo vuole correre, cambi lavoro". Se le cose sono così semplici perché il legislatore si è mosso con tanta fretta? "Perché siamo dinanzi a un corto circuito". Cioè? "A una patologia della magistratura si risponde con un’altra patologia, una legge inutile". Che vuole dire? "Invece di risolvere l’autentica causa del problema si interviene con una legge del tutto irrazionale perché varata sulla consueta onda emotiva suscitata nella pubblica opinione". Allora il corto circuito riguarda anche il mondo dell’informazione? "Purtroppo mi sembra evidente. Basti pensare che un cittadino di media formazione che oggi legge i titoli sui giornali è portato a credere che al ladro si possa sparare solo di notte e in qualsiasi caso". Qual è allora la soluzione, se non questa normativa? "Cominciamo dal controllo sul territorio: certamente occorre investire e gestire meglio le forze di polizia a disposizione". In che modo? Può fare un esempio? "Mi sembra evidente che organizzare tanti posti di blocco serva a ben poco. Più sensato sarebbe impiegare quelle risorse di polizia pattugliando le zone più a rischio, sia nelle città che nelle nostre campagne". Il nostro quotidiano ha raccontato storie di persone aggredite in casa e ricoverate in ospedale che hanno visto il proprio aggressore essere rilasciato prima che loro fossero dimesse. La pena, per i malviventi, non dovrebbe avere prima di tutto una funzione di deterrenza? "Si potrebbe prevedere finalmente una certezza del diritto per questo tipo di furti e di rapine in casa per cui nei casi di flagranza il processo sia immediato e l’applicazione della pena pure". Subito in carcere dopo il primo grado di giudizio? "Beh, sarebbe meglio no? Stiamo parlando di arresti in flagranza di reato. Adesso invece che succede? Prendono il presunto colpevole, lo processano e lo rimettono fuori una, due, tre volte con la pena sospesa, salvo poi andarselo a riprendere quindici anni dopo, quando magari quella persona vive ormai onestamente. Un modo stupido e controproducente di applicare una sanzione penale". Con le carceri che ci ritroviamo... per di più strapiene... "Lei ha ragione. Così come sono le carceri rappresentano una vergogna e producono so -lo disperazione, criminalità e morte". "Scioperiamo per un mese". Giustizia verso la paralisi per la protesta dei giudici di pace di paolo colonnello La Stampa, 6 maggio 2017 Gli oltre cinquemila magistrati onorari sono sul piede di guerra dopo l’ultimo Ddl che di fatto li ridimensiona senza averli mai regolarizzati. Lo scenario è da paura: per un mese i giudici di pace, a partire dal 15 maggio, saranno in sciopero. Ciascuno di loro potrà far saltare non più di 4 udienze (una alla settimana, ma a sorpresa), sufficienti però per mettere in ginocchio un sistema, quello giudiziario, perennemente in affanno e che tutto sommato regge ancora proprio grazie ai 5165 giudici "onorari" (ma sarebbe meglio dire precari) che quotidianamente amministrano la giustizia più spicciola. Quella cioè più vicina e in fondo più importante per i cittadini e per i fondamenti della convivenza sociale: dalle piccole liti fino a 5000 euro, alle multe dei vigili, ai contenziosi con le assicurazioni per gli incidenti stradali fino a 20 mila euro. E per finire, cosa oggigiorno importantissima, decidono sulla permanenza o meno degli immigrati sul suolo patrio. Non è esattamente come se scioperassero i conducenti di autobus ma quasi. Perché i giudici di pace e quelli onorari, vera ossatura del processo in Italia, coprono grosso modo, il 90 per cento delle cause di primo grado. Civili e penali. Il che significa che la giustizia in Italia è affidata a un esercito di precari. Che adesso, secondo Maria Flora Di Giovanni, in servizio a Chieti e rappresentante dei giudici di pace a livello nazionale, rischiano di vedere decurtate ulteriormente le entrate, si parla di 800 euro al mese, di vedersi raddoppiare le competenze e di essere espulsi, infine, dallo stesso sistema che hanno fedelmente servito generalmente per almeno 20-25 anni. Merito dell’applicazione dell’ultimo decreto attuativo che disciplina lo status dei magistrati onorari e dovrebbe introdurre centinaia di nuove leve, pagandole ovviamente di meno: la goccia che ha fatto traboccare il vaso in uno sciopero senza precedenti. I giudici di pace hanno dalla loro parte anche la Commissione europea che ha ritenuto fondata la procedura d’infrazione contro l’Italia richiesta dai togati onorari, trovando scandaloso che a 26 anni dalla loro istituzione, la situazione non sia mai stata sanata con la messa in ruolo dei quasi 500 mila magistrati onorari che procuratori di città come Milano, Torino o Napoli hanno richiesto a gran voce al ministro Orlando, ben sapendo che senza di loro sarebbe la paralisi. Un po’ di numeri: giudici e procuratori onorari, svolgono mediamente una quindicina di udienze al mese, pagati a cottimo: 100 euro a udienza che diventano 200 se scatta il raddoppio dopo le 14. I giudici di pace invece ricevono un fisso di 256 euro al mese più 36 euro a udienza e 56 euro a sentenza. Lordi, ovviamente Si arriva a fine mese generalmente portando a casa, tra i 1500 e i 3000 euro lordi al mese. Senza indennità di alcun genere, malattia, assicurazione, maternità, pensione. Nulla. "Un paradosso, se pensa che spesso condanniamo imprenditori che non versano i contributi. Ma i primi ad essere maltrattati e dallo Stato, siamo noi". Articolo "Il Carcere parli con l’esterno". Richiesta di precisazione di Valerio Pappalardo* Ristretti Orizzonti, 6 maggio 2017 A norma degli artt. 8 legge sulla stampa n. 47 del 1948 e 42 e 43 legge 416 del 1981, quale Direttore della Casa Circondariale di Trento, chiedo che la presente nota di precisazione trovi integrale pubblicazione nel quotidiano in indirizzo. In data 4-5-2017 il Corriere del Trentino ha dato ampio risalto alla conferenza tenuta presso il Museo Diocesano cittadino dalla dr. Favero, responsabile della redazione di Ristretti Orizzonti presso il carcere di Padova, durante la quale la stessa avrebbe espresso poco lusinghieri giudizi sulla casa circondariale trentina (Articolo "Il Carcere parli con l’esterno". Cento alunni trentini a Padova" di Stefano Voltolini). Leggo, con grande stupore, che la "virtuosità" dell’istituto padovano sarebbe stata dalla dr. Favero contrapposta alla "criticità" dei rapporti con l’esterno che vivrebbe la struttura trentina, e che la visita al carcere di Padova di alcune decine di studenti trentini sarebbe stata parimenti contrapposta ad un perplesso "Perché a Trento non si fanno"! Il mio stupore si accompagna alla mia amarezza, perché in tale lettura riscontro non solo una particolare competenza della relatrice padovana sulla peculiare situazione trentina, senza che peraltro siano state richieste specifiche delucidazioni in merito alla presente Direzione e pertanto senza un sia pur minimo approfondimento della reale valenza e affidabilità circa la fonte delle informazioni del tutto ignota, ma, soprattutto, una sostanziale inesattezza di quanto viene riportato a proposito della situazione stessa. Quanto alle "criticità" che l’istituto cittadino vivrebbe col territorio, mi piace qui riportare testualmente quanto certificato dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dr. Consolo in data 2-2-2017. A seguito di taluni rilievi del garante Nazionale dr. Palma, e dopo approfondita ispezione dell’istituto trentino da parte del provveditore Regionale - con tanto di acquisizione di dati e ripresa di immagine fotografiche di aule, lavorazioni e laboratori - del carcere cittadino è stato fornito un giudizio finale lusinghiero. Nel documento valutativo il massimo vertice della gerarchia penitenziaria nazionale parla di "apprezzamento per la molteplicità degli interventi posti in essere e la capacità di motivare la popolazione detenuta ad aderire agli stessi"; di "una rete ben intrecciata e condivisa tra operatori istituzionali, enti formativi, volontariato sociale, istituzioni del territorio"; di un "impegno profusi sul versante trattamentale reale"; "dell’accesso nell’istituto di una trentina di realtà del territorio, che accreditano quasi 300 operatori professionali o volontari" per garantire lavoro, "gli oltre 30 diversificati moduli dell’alfabetizzazione e del quadriennio liceale" e tutte le altre attività laboratoriali tematiche. Ma anche a voler restringere l’analisi alla più limitata (in tutti i sensi) questione dei momenti di sensibilizzazione del mondo scolastico che il carcere e il suo staff possono svolgere, sembra di capire che la relatrice non sa, o non è interessata a sapere, che il carcere cittadino accoglie ogni anno diverse rappresentanze studentesche. Si tratta sia di visite all’istituto che di incontri con i detenuti all’interno di apposito "progetto legalità" con la Facoltà di Sociologia di Trento; ma, d’altro canto, io e i miei collaboratori siamo reduci da due recenti accessi al liceo "Prati" e all’istituto "Barelli" sempre per incontrare studenti superiori; il 16 maggio 3 detenuti andranno in permesso presso il liceo "Rosmini" per incontrare studenti al termine di un percorso "legalità" intramurario; infine, il 26 maggio ci faranno visita 26 universitari del corso di diritto penitenziario della prof. Menghini. Ancora, e soprattutto, il 12 maggio p.v. si svolgerà presso la sala teatro dell’istituto un grande convegno sui temi della legalità e della cittadinanza, alla presenza di magistrati e docenti quali relatori e, soprattutto, di oltre un centinaio di invitati esterni scelti non solo e non tanto tra le autorità cittadine, ma tra tutti i tanti, tantissimi collaboratori dell’istituto sul versante trattamentale. La mattinata di studi si concluderà con un doppio rinfresco offerto da due enti gestori di attività occupazionali e formative intramurarie, e varrà anche come ringraziamento di questi tanti operatori, spesso silenziosi e poco visibili, ammirevoli nel loro continuativo impegno rivolto all’offerta di attività migliorative per la popolazione detenuta. Nell’ulteriormente confermare il mio stupore e la mia amarezza per quanto di gratuitamente infondato è stato diffuso nella serata del 4 maggio, chiedo fortemente la pubblicazione di questa mia precisazione, che considero opportuna ed anzi doverosa ai fini del ristabilimento della verità della cronaca. Ringrazio e porgo distinti saluti. *Direttore della Casa Circondariale di Trento La risposta di Ornella Favero alla lettera del Direttore della Casa circondariale di Trento Gentile Direttore, ho letto la sua lettera, e sono rimasta semplicemente sbalordita, perché durante l’incontro al Museo non è stato di certo il carcere di Trento l’argomento in discussione, si trattava di un incontro sulla legalità, su progetti che affrontano la questione di come si può finire a commettere reati a partire da piccole trasgressioni e scivolamenti in comportamenti a rischio, con testimonianze dirette delle persone che hanno conosciuto l’esperienza della detenzione. Del resto le posso far avere la registrazione. Quanto alla frase scritta dal giornalista "Ornella Favero, ideatrice e direttrice della rivista Ristretti Orizzonti, nata nella casa circondariale di Padova, definisce un modello di detenzione virtuosa. Il riferimento, sottinteso, è alla situazione del carcere di Trento, che oltre ai problemi di sovraffollamento sconta delle criticità nel rapporto con l’esterno", io nel corso dell’incontro ho detto in modo chiaro e inequivocabile che non intendevo parlare del carcere di Trento, non era quello il tema né il mio compito, e neppure nella breve intervista prima dell’incontro ho espresso giudizi sul carcere che lei dirige, ma non posso certo rispondere di quello che il giornalista scrive, (per altro niente di offensivo, accenna solo a sovraffollamento e criticità), tanto più che lui stesso parla di "riferimento sottinteso", quindi di una sua interpretazione personale di una mia riflessione generale sulla detenzione e sulle pene. La prego quindi di leggere l’articolo per quello che è, e di non scambiarlo per quello che è stato detto all’incontro dove, le ripeto, non si è parlato del carcere di Trento, ma di altro. Peccato che non abbia partecipato, perché avrebbe potuto rendersene conto di persona. Ornella Favero La risposta della Direttrice del Museo diocesano tridentino alla lettera del Direttore della Casa circondariale di Trento Gentile dott. Pappalardo, non ho avuto modo di leggere l’articolo al quale fa riferimento anche perché reduce da un incidente automobilistico, avvenuto la sera stessa, piuttosto grave. Ero però presente all’incontro, ovviamente, e posso dire che la dott.ssa Favero non ha mai fatto confronti tra Padova e Trento. Ha solo auspicato che l’apertura alle scuole promossa dal carcere di Padova possa essere condivisa da altre realtà carcerarie. Il focus dell’incontro erano le testimonianze di persone che hanno fatto l’esperienza del carcere che, accettando di raccontare il loro vissuto, hanno offerto importanti spunti di riflessione al pubblico. Queste testimonianze possono aiutare altri a non commettere gli stessi errori: questo era l’obiettivo della serata e non certo un giudizio sulla casa Circondariale di Spini, dove anche noi operiamo in un clima di grande collaborazione. Di qui la mia sorpresa nel leggere questa sua lettera, dalla quale mi pare traspaia un giudizio critico sui contenuti dell’iniziativa promossa dal nostro museo. Le ricordo che stiamo lavorando tutti ad un medesimo obiettivo e che nessuno di noi intende porsi ‘contrò ciò che voi state facendo. Fin dall’inizio abbiamo infatti posto l’accento sulla volontà di collaborare e di progettare con voi i nostri interventi, perché solo la condivisione di metodo e obiettivi può garantire il successo di un’iniziativa. Confido quindi che questo nostro cammino insieme continui in uno spirito di reciproca fiducia. Cordiali saluti. Domenica Primerano Direttore del Museo Diocesano Tridentino Sardegna: 642 detenuti per 567 posti letto a Cagliari, anche a Sassari superato il limite cagliaripad.it, 6 maggio 2017 Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento ai dati relativi alle 10 strutture penitenziarie isolane al 30 aprile 2017. "Hanno raggiunto la ragguardevole cifra di 642 presenze per 567 posti letto i detenuti della Casa Circondariale di Cagliari-Uta, superando di gran lunga quindi il limite regolamentare e costringendo molti reclusi a convivere in quattro dentro celle progettate per due persone. In un solo mese nell’Istituto "Ettore Scalas" il numero dei ristretti è ulteriormente aumentato. Erano infatti 623 al 31 di marzo (588 a gennaio). I dati del Ministero della Giustizia, che fotografano la realtà detentiva isolana al 30 aprile, mostrano un quadro preoccupante anche perché la maggior parte dei reclusi - 1.591 su 2.268 - sono ristretti in cinque Istituti. Un dato particolarmente indicativo del fatto che la crescita esponenziale riguarda soprattutto persone sottoposte a un regime di sicurezza medio-alto mentre le carenze di organico degli Agenti e degli altri operatori limitano fortemente le attività trattamentali". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento ai dati relativi alle 10 strutture penitenziarie isolane al 30 aprile 2017. "La condizione di disagio per l’alto numero di ristretti - sottolinea - riguarda quindi anche Sassari 468 presenze (455 quelle regolamentari), Tempio-Nuchis 173 (167), Oristano-Massama 267 (260), Lanusei 41 (33). Si deve infatti considerare che, eccetto Lanusei, gli Istituti di Tempio e Oristano sono destinati al regime di Alta Sicurezza; a Sassari c’è il padiglione del 41bis e a Cagliari è stata attivata una sezione AS. Soltanto 677 cittadini privati della libertà si trovano nelle altre strutture detentive comprese le tre Colonie Penali. In Sardegna insomma sembra delinearsi purtroppo sempre più nettamente una realtà fuori dalla logica del reinserimento sociale ma piuttosto orientata al puro contenimento. Nonostante le rassicurazioni del Dap e del Ministero della Giustizia che hanno sostituito al termine celle quello di "camere di pernottamento", nella maggior parte degli Istituti sardi, ed in particolare in quelli con il più alto indice di presenze, le attività diurne sono ridotte al minimo e i detenuti restano chiusi dalle 20 alle 22 ore al giorno". "Occorre altresì ricordare che le condizioni di vita dei reclusi sono rese ancora più difficili dalla distanza dai centri abitati e dalla mancanza di prospettive di lavoro e reinserimento. In particolare la Casa Circondariale di Cagliari è ubicata in un’area industriale dove predomina la desolazione. E non si può sottacere che la pianta organica è gravemente insufficiente al punto che non ha neppure un vice direttore, mentre ne sono previsti due. Dispiace insomma rimarcare - conclude la presidente di Sdr - che la Sardegna nella visione del Dipartimento è ancora un luogo dove la reclusione è fine a se stessa". Cuneo: in isolamento nel carcere di Saluzzo, si uccide un giovane detenuto infoaut.org, 6 maggio 2017 È accaduto a Saluzzo nella Casa di Reclusione "Rodolfo Morandi" dove un giovane detenuto di 33 anni si è tolto la vita impiccandosi nella sua cella. Un altro giovane finito nel girone dei dannati. Questo perché la sezione di isolamento del carcere di Saluzzo crea una situazione devastante per chi la vive. Bisogna chiedersi il perché questo giovane il giorno prima di togliersi la vita sia stato messo in isolamento. Un detenuto che fino a quel momento si trovava in una sezione insieme ad altri di colpo è stato spostato in una dove l’ora d’aria viene fatta all’interno di un cubicolo. C’erano dei provvedimenti disciplinari nei suoi confronti? Che cos’è successo? I giornali non danno risposte sulla gravità di questa situazione. I mezzi di informazione tali domande non le hanno nemmeno poste. I quotidiani non hanno nemmeno pubblicato il nome del giovane, rendendo così impersonale l’accaduto e di fatto sminuendone la gravità. Giorgio Leggieri, direttore della Casa di reclusione, ha dichiarato: "Non c’è stato alcun segnale che potesse metterci in allarme". Ma che cos’avrebbe fatto per finire in isolamento? È una responsabilità enorme quella con la quale oggi si dovrebbe confrontare il Direttore Leggieri. Il Garante dei detenuti seguirà la vicenda o anche lui farà finta di niente? E il suo avvocato, se ce l’ha, avrà la dignità di seguire la vicenda con coraggio? Il diretto si dovrà assumere le sue responsabilità per quel che successo. Il segretario generale dell’Osapp Leo Beneduci ha affermato: "Le condizioni dell’istituto penitenziario sono certamente gravi e preoccupanti ma soprattutto in ragione della gravissima carenza di organico e della crescente disattenzione degli organi dell’amministrazione penitenziaria centrale che dispongono a che il personale aumenti i propri carichi di lavoro con minori risorse". Il giovane doveva scontare ancora 7 mesi per reato di furto, quindi era prossimo al fine pena. Una nuova vita sulla coscienza del capitale che calpesta tutto ciò che incontra. Questo è un sistema distruttivo e inaccettabile. Il nostro sostegno va alla famiglia del giovane e a tutti i detenuti che in questi giorni saranno venuti a conoscenza della perdita di un giovane di 33 anni che tra sette mesi sarebbe stato libero. Apprendiamo che il giovane che si è tolto la vita si chiamava Sasha. Torino: ricoverato in gravi condizioni, la famiglia chiede invano il suo trasferimento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 maggio 2017 Per Ciro Lepre, boss della camorra, ricoverato alle Molinette il legale parla di stato vegetativo. L’istanza è stata rigettata dalla Corte di appello di Napoli, ma la moglie e i figli chiedono che venga assistito in una struttura sanitaria più vicina ai suoi. È ricoverato in gravi condizioni fisiche in detenzione ospedaliera presso il "Molinette" di Torino e i famigliari chiedono, invano, di poterlo trasferire in un ospedale più vicino possibile nel luogo dove risiedono, in maniera tale da poterlo assistere. Parliamo di Ciro Lepre, indicato dagli inquirenti come il boss del Cavone e conosciuto come ‘o sceriffo. Nel 2015 è stato condannato a 12 anni di carcere con l’accusa di aver preteso, in accordo con i Casalesi, soldi da un’azienda che si occupava di pulizia di materiale ospedaliero, la American Laundry. La famiglia, che vive a Napoli, chiede di farlo trasferire in una zona più vicina, anche a Roma, in maniera tale da poterlo assistere visto che il viaggio con il treno e l’albergo presenta dei costi insostenibili da affrontare ogni settimana. Assistenza più che necessaria visto che le condizioni sono sempre più peggiorate essendo, nel frattempo, sopraggiunta un’infiammazione al cervello. Ma l’istanza è stata rigettata dalla quinta sezione penale della Corte d’appello di Napoli. Secondo la magistratura dopo aver preso in esame la relazione del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Ciro Lepre risulta ancora pericoloso e quindi deve rimanere dov’è. Ma non solo, sempre facendo riferimento al Dap, durante l’eventuale svolgimento delle traduzioni e del piantonamento, "potrebbero trovare una maggiore e concreta attuazioni di possibili azioni criminali che potrebbero essere particolarmente cruente, ove si verificassero, ponendo a rischio non solo l’incolumità fisica del detenuto, ma anche quella del personale di polizia penitenziaria incaricato alla traduzione". Ma l’avvocato difensore Vincenzo Strazzullo non ci sta. Spiega al Dubbio che la relazione del Dap "mette in luce la pericolosità di un soggetto che attualmente è definito dai medici quale paziente che vive in uno stato vegetativo. Inoltre gli stessi, esprimono difficoltà di controllo riguardo al piantonamento in sottoposizione degli arresti terapeutici. Pertanto ciò non è sottoponibile al piantonamento". Il Dubbio già si è occupato di vicenda. Da tempo soffre di cirrosi epatica, patologia che si è aggravata negli anni. Quando la malattia era stata diagnosticata, dal carcere di Pavia era stato tradotto nell’istituto penitenziario di Nuoro, poi in quello di Cuneo e infine nella casa circondariale "Lorusso e Cutugno" di Torino, nel padiglione dove è attrezzato il centro clinico, un luogo, quest’ultimo, dove vengono trasferiti molti detenuti da tutta Italia in condizioni di salute che non possono essere trattate all’interno. Di fatto le condizioni di Ciro Lepre hanno avuto un peggioramento. Infatti, subito i sanitari del centro clinico della struttura penitenziaria di "Lorusso e Cutugno" si sono resi conto che non avrebbero potuto apprestare adeguate cure al detenuto, le cui condizioni diventavano ingestibili. Così, la direzione sanitaria del carcere torinese ha deciso il trasferimento all’ospedale Molinette di Torino specializzato proprio per la cura di malattie acute e croniche del fegato. Il tribunale di Napoli, però, dopo la visita di un perito medico di ufficio, ha deciso di ripristinare la detenzione in carcere. Dopo una dura lotta da parte dei famigliari, l’interessamento da parte dell’esponente radicale Rita Bernardini, compresa la denuncia riportata sulle pagine de Il Dubbio, finalmente il giudice ha accordato a Ciro Lepre il regime degli arresti domiciliari e quindi il trasferimento in un reparto dell’ospedale Molinette più consono e attrezzato per far fronte alle sue condizioni fisiche. Nel frattempo però lo stato di salute peggiora di mese in mese e i famigliari chiedono a gran voce la possibilità di ricoverarlo in una struttura sanitaria più vicina a Napoli, soprattutto perché nel frattempo a Lepre è sopraggiunta una encefalopatia. Il dato oggettivo è che riversa in condizioni precarie. Dalla cartella clinica redatta da un perito medico che Il Dubbio ha potuto visionare, emerge che il Ciro Lepre presenta insufficienza epatica, cirrosi da epatite c in attiva fase di replicazione, vasculite alle mani e ai piedi, tumore del sistema linfatico a basso grado di malignità e altre patologie ancora. Rieti: i detenuti di cureranno le aree verdi delle Sae corrieredirieti.it, 6 maggio 2017 I detenuti della Casa Circondariale di Rieti cureranno il verde nelle aree destinate alle Soluzioni Abitative di emergenza. Approvato dalla Giunta Comunale di Amatrice il protocollo d’intesa tra il Comune di Amatrice e la Casa Circondariale di Rieti per "l’avvio al lavoro volontario e gratuito dei detenuti". Gli eventi legati al sisma, si legge nella delibera, hanno: "generato emotivamente nella popolazione detenuta presso la Casa Circondariale di Rieti, la volontà ed il desiderio di mettere a disposizione della comunità di Amatrice, la loro forza ed energia, al fine di offrire un contributo, attraverso l’impiego volontario in qualsiasi attività che verrà ritenuta utile all’amministrazione di Amatrice per contribuire alle attività di rinascita della Città di Amatrice". La decisione è stata presa anche in merito al protocollo già esistente e firmato nel 2012 tra l’Associazione Nazionale dei Comuni e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che sottolinea "la centralità del lavoro come misura altamente risocializzante per i detenuti". Ma anche dalla Casa Circondariale di Rieti e dal personale arriva il riscontro positivo a questa iniziativa che prevede "un contributo solidale e partecipativo per la ricostruzione della città di Amatrice; nonché il valore altamente risocializzante e la positiva ricaduta di tale iniziativa sulla popolazione detenuta". Così il protocollo prevede che l’attività individuata per il lavoro dei detenuti sarà la cura delle "Aree verdi dei Sae", che l’attività potrà essere avviata dopo la conclusione di tutte le aree e che infine "il Soggetto referente del Progetto per l’amministrazione è il Segretario Comunale che, di concerto con l’Ufficio Manutenzioni fornirà indicazioni sulle lavorazioni da svolgere". Insomma un’attività che oltre ad avere un valore riqualificante e molto formativo per i detenuti che si troveranno impegnati a lavorare ad Amatrice, costituirà un modo per mantenere a costo zero tutte le aree dove appunto si stanno assemblando le casette Sae. Massa Carrara: Alpi Apuane, sentieri più sicuri grazie ai detenuti La Nazione, 6 maggio 2017 Sentieri più sicuri e puliti grazie alla convenzione siglata martedì mattina dal Comune di Montignoso, Cai di Massa, casa di reclusione di Massa e Uepe. Il progetto, dal titolo "Sentieri della libertà", rientra nelle attività per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità da parte di soggetti in stato di detenzione e permetterà interventi di recupero dei percorsi montani di bassa quota. "È un progetto estremamente importante - spiega l’assessore Giorgia Podestà - perché accanto al servizio che viene reso alla comunità rendendo nuovamente fruibili sentieri del nostro stupendo territorio, possiamo offrire anche un progetto di recupero e risocializzazione a soggetti che stanno vivendo in stato di detenzione. Questo significa sostenere concretamente persone spesso circondate da disagi e difficoltà e sviluppare nuove competenze che potranno rivelarsi utili all’interno del mercato del lavoro". La convenzione, resa possibile grazie al protocollo d’intesa sottoscritto da Anci e Dipartimento Amministrazione Penitenziaria nel 2012, rappresenta un’opportunità di reinserimento nella collettività proprio grazie allo svolgimento di lavori di pubblica utilità, attività che verrà eseguita in modo volontario e gratuito come misura alternativa alla detenzione. Due i sentieri che dal mese di maggio verranno ripuliti da quattro detenuti individuati grazie alla collaborazione con la casa di reclusione di Massa e l’Ufficio Esecuzioni Penali Esterne, il sentiero 1403, tratto che dal Termo del Pasquilio arriva fino al Monte Folgorito compresa l’area sottostante la vetta, mentre l’altro percorso riguarderà il sentiero che dal Pasquilio porta a Cerreto e al Canal Magro. I lavori di pulizia e manutenzione verranno seguiti dalle squadre di volontari del Cai di Massa grazie ai mezzi e alle attrezzature messe a disposizione con il contributo del Comune di Montignoso. "È il terzo anno che i soci volontari del Cai di Massa, sezione "E. Biagi", collaborano al reinserimento dei detenuti attraverso un progetto di utilità pubblica - spiega il presidente Sauro Quadrelli, attività che prevede la pulizia di sentieri e delle mulattiere delle nostre montagne. Gli interventi previsti vanno oltre la manutenzione dei sentieri di competenza istituzionale del Cai perché sono finalizzati al recupero anche di storici collegamenti fra la montagna e i piccoli centri abitati per consentire una sicura e piacevole percorribilità agli escursionisti. Tra le funzioni degli interventi programmati è riconosciuta anche quella di realizzare tracce "tagliafuoco" necessarie a contenere i frequenti incendi delle nostre montagne. Auspichiamo che la collaborazione su progetti di pubblica utilità si estenda anche ad altre sezioni Cai". Volterra (Pi): i detenuti diventano custodi del Maschio quinewsvolterra.it, 6 maggio 2017 Firmato un protocollo per il reinserimento dei carcerati nel mondo del lavoro. La Cooperativa sociale Torre si impegna ad assumere 2 detenuti. Raggiungere una sempre maggiore integrazione della Casa circondariale di Volterra con la città ampliando le possibilità occupazionali per i detenuti e il loro definitivo reinserimento nella società e nel mondo del lavoro. Con questo obiettivo è stato siglato un protocollo d’intesa tra Comune di Volterra, direzione Casa di reclusione di Volterra, Cooperativa sociale Torre, Consorzio turistico Volterra Val di Cecina e Associazione Volterra Duemila6. Il protocollo prevede che tutti i firmatari si impegnino a partecipare fattivamente alla realizzazione di progetti e interventi indirizzati verso i detenuti. Ognuno per la propria specificità si impegnano inoltre ad apportare il proprio know how per incentivare e favorire l’acquisizione di nozioni di cultura dell’accoglienza turistica nonché tutte le altre attività ad essa connesse. La direzione della Casa di reclusione si impegna a favorire l’apertura della struttura alla città e alle iniziative, compatibilmente con le esigenze di sicurezza legate alla propria attività istituzionale. Viene inoltre favorito lo sviluppo e l’ampliamento delle attività organizzate nell’ambito dell’apertura della Fortezza Medicea, in particolare l’apertura al pubblico della Torre del Maschio. "Non solo la città si è allargata nel proprio centro storico col recupero della Torre del Maschio - spiega il Sindaco Marco Buselli - ma oggi diventa fruibile per tutti, ampliando l’offerta culturale della città". Tutti i firmatari si impegnano, ognuno per le proprie possibilità, ad agevolare e proporre l’assunzione dei detenuti che ne hanno la possibilità giuridica, in aziende, ristoranti e altre imprese della zona che si occupano di accoglienza turistica anche facendo riferimento all’accresciuta professionalità raggiunta con la frequenza ai corsi di formazione organizzati. Siracusa: la scuola in carcere, il Linares di Licata, incontra i corsisti dell’Ambrosini sicilia24h.it, 6 maggio 2017 Un momento di grande senso civico e arricchimento quello vissuto al Carcere Petrusa di Agrigento. I corsisti dell’Alberghiero "Ambrosini" di Favara, diretto dalla Professoressa Milena Siracusa, ristretti nella suddetta Casa circondariale, hanno incontrato gli alunni del "Linares" di Licata. Un incontro dibattito, svoltosi nell’ambito del progetto "legalità" dell’istituto scolastico licatese, che ha visto i giovani confrontarsi con una realtà spesso troppo lontana, quale quella della reclusione. L’evento, organizzato dalla dottoressa Maria Clotilde Faro e dalla Professoressa Wilma Greco, è stato moderato dal capo dell’aria trattamentale dott. Giovanni Giordano. A partecipare inoltre lo staff dell’aria educativa, la dirigente del liceo "Linares" professoressa Rosetta Greco insieme a due docenti. Un dialogo con gli studenti, portato avanti dal direttore della casa circondariale dott. Aldo Tiralongo, dal comandante commissario Giuseppe Lo Faro che hanno focalizzato l’attenzione su importanti temi quali le dinamiche della struttura carceraria, della "missione", come quella svolta dagli educatori con a capo il dott. Giornano e la Dottoressa Faro, che si trovano ad operare con i detenuti, il cui lavoro ha come fine quello di "riplasmare" l’individuo recluso attraverso attività svolte nell’area trattamentale con programmi individualizzati e mirati messi in atto dalle diverse figure cardine della casa circondariale: da un lato il direttore Tiralongo che crede fermamente che i perni centrali attorno cui ruota la rieducazione comprendano il lavoro, la formazione e l’istruzione; dall’altro il comandante Lo Faro il cui compito è quello di osservare e controllare al fine di assicurare la sicurezza in carcere. Tra le diverse attività svolte dai detenuti, spicca anche il corso dell’istituto Alberghiero di Favara. Una sfida che viene raccolta ogni singolo giorno, dunque, da tutti gli operatori, professori compresi. La carcerazione, con questi validi supporti, non viene vissuta come un "Time out" ma come un momento di formazione che possa permettere al detenuto, una volta libero, di poter spendere gli insegnamenti ricevuti e concretizzarli trovando anche lavoro, così come è avvenuto a diversi ex alunni dell’alberghiero. Toccante l’intervento dei corsisti dell’Ambrosini che hanno raccontato il "mondo della reclusione", hanno parlato delle loro giornate, dell’esperienza formativa che svolgono grazie al corso scolastico che contribuisce non soltanto ad occupare gran parte delle loro interminabili giornate, ma anche ad aprire degli orizzonti in un "mondo" in cui si rischierebbe di vedere tutto filtrato dalle sbarre. Alla fine dell’incontro gli studenti dell’Ambrosini hanno allestito un coffee break che gli stessi corsisti, ristretti al carcere Petrusa, hanno offerto ai giovani dell’istituto Linares, indossando la divisa della scuola e svolgendo professionalmente il proprio compito. Teatro. "Novantadue: Falcone e Borsellino, 20 anni dopo", di Massimo Cotugno di Gianfranco Capitta Il Manifesto, 6 maggio 2017 A teatro. "Novantadue: Falcone e Borsellino, 20 anni dopo" in scena il testo sulle stragi di Claudio Fava, per la regia di Massimo Cotugno, una possibile lettura degli intrecci tra mafia e Stato. Filippo Dini e Giovanni Moschella nei panni dei due magistrati. Claudio Fava aveva scritto questo testo cinque anni fa, a vent’anni dal quel buio 1992 in cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono fatti saltare in aria, a poche settimane di distanza l’uno dall’altro. Oggi che la ricorrenza è al quarto di secolo, risulta sempre bruciante, e per alcuni versi ancora più amaro. Perché nel frattempo le informazioni e i retroscena, e in qualche modo l’intera coscienza nazionale, sono cresciuti. E molti aspetti sono stati acquisiti quanto a intreccio tra criminali decisioni e responsabilità mafiose e esponenti ed apparati dello stato: connivenze e convergenze di interessi e comportamenti, che stabiliscono di fatto complicità ormai non più "inconfessabili". "Novantadue: Falcone e Borsellino, 20 anni dopo" sarebbe quindi uno spettacolo da mostrare alle scuole, possibile chiave di lettura per gli studenti di quella storia recente, e fondativa dell’oggi, che ancora è tenuta ben fuori dei programmi scolastici ministeriali. A Roma lo si è visto per poche sere al Teatro biblioteca Quarticciolo, per la regia di Marcello Cotugno e con tre attori di livello, in grado non solo di avvincere gli spettatori, ma di insinuare in ciascuno la consapevolezza di una trama e di una criminosità che si allarga e fa sistema, appena sotto una fragile crosta di democrazia. Falcone e Borsellino scoprono perfino una carica di umana simpatia sotto la coscienza tragica del lavoro che vanno compiendo, mentre smontano finte certezze e trasgressioni abissali, quasi che l’orrore su cui vanno indagando (e che avvicina anche loro alla morte, come in una tragedia classica) li renda per necessità spiritosi e sodali, in grado perfino di ridere e scherzare delle proprie umanissime debolezze, che da una birra si spingono a un piccolo sostegno superalcolico. Perché il primo momento in cui incontriamo in scena i due magistrati, si svolge all’Asinara, dove furono segregati con le loro famiglie per scrivere al riparo da attentati la famosa requisitoria di ottomila pagine per il maxiprocesso nell’aula bunker palermitana. Ma quel primo momento di ilare alacrità è presto dissolto dal successivo, quando a Falcone fu negata la promozione a capo della procura palermitana con la scusa tutta formale che Antonino Meli aveva una maggiore anzianità di servizio, a dispetto del lavoro effettivo svolto fino a quel momento. Lo spettacolo ha il pregio raro di scandire in tempi fulminanti il racconto, la successione della cronaca, senza che se ne perdano o impallidiscano le ragioni, gli interessi e gli snodi. In un impianto spoglio ma non "povero", nella migliore tradizione del teatro civile o politico. Merito anche degli attori, sicuri senza essere saccenti o peggio didascalici, ma sempre in grado di riempire di umanità anche le parole più dure o "minacciose" (per chi ascolta). Filippo Dini (ormai uno degli attori migliori della sua generazione) impersona Falcone, Giovanni Moschella dà voce e tensione a Borsellino; Pierluigi Corallo, ricco dei suoi trascorsi con Castri e con Ronconi, dà vita, come in un teatro orientale, a tutti i personaggi del "cattivi" che contro i due magistrati lavoravano. Non si esce allegri dalla serata, ma certo con la consolazione di una minima chiarezza su qualche passaggio oscuro del nostro recente passato. Libri. "New men’s land, storia e destino della Jungle di Calais", di Gian Maria Tosatti di Giovanna Ferrara Il Manifesto, 6 maggio 2017 Gian Maria Tosatti in giro per la "jungle", con un progetto che si divide in una mostra e in un libro. Chiunque guardi bene un’opera d’arte, ovunque capiti di incontrare quel fluido reminiscente e avveniristico capace di parlare a parti atrofizzate o mai esistite delle nostre passioni e dei nostri desideri, portandole al mondo (per dirla alla Boetti), non potrà non notare che attorno a "quella cosa" girano e gridano e ridono le visioni che ne hanno consentito la nascita. "New men’s land, storia e destino della jungle di Calais", per Deriveapprodi (prefazione di Nicolas Martino, postfazione di Marco Trulli, pp.96, euro 12) di Gian Maria Tosatti, che espone al Museo Madre di Napoli un progetto diverso da quello raccontato nel libro ("sette stagioni dello spirito", una metropolitana con tutte le fermate di una vita, la bellezza, la bruttezza, il miracolo di una comunità di bambini che smettono di dare nomi e date ai proiettili e cominciano a plasmare la materia e la vita, l’orrore di un ufficio anagrafe con la sua ripetitiva ottusità e l’esistenza scandita in nascite, pratiche, matrimoni, decessi), è la storia di un’opera che non è nata ma che è comunque esistita. Un arcobaleno di ferro e legno e bulloni, dal peso di qualche tonnellata, sette (di nuovo il sette per gli amanti della cabala!) colori, venti metri di altezza per cinquanta di larghezza. Avrebbe avuto ai suoi piedi il tesoro meno scontato di questi tempi: la vita nuova dell’Europa. Migrazioni non respinte, una civiltà che invece di morire sceglie di nascere, la fine dei confini e dei loro precipitati istituzionali, le sovranità. Un arcobaleno su Calais, "per invadere la narrazione di quel luogo". Un posto piantato "tra le tre grandi capitali del colonialismo di ieri e di oggi, Parigi, Londra e Bruxelles, dove sono arrivati senegalesi, eritrei, afghani, curdi, tutti assieme prima di giungere nelle città dell’occidente per insegnare la gioia di vivere, prima di disperdersi in questa decadente Europa per insegnare a essere liberi, prima di andare al di là dell’oceano per insegnare come si è fratelli". Il lavoro di Tosatti non è cominciato in uno studio con la porta chiusa. È iniziato lungo molti viaggi fatti a Calais, durante i momenti di emergenza umanitaria, quando le frontiere si facevano più cattive perché gli sbarchi più numerosi. È proseguito camminando, da solo o accompagnato da altri artisti, come Alessandro Bulgini, per la giungla dei non diritti, tra le mangrovie urbane dei senza nomi, ed è diventato idea e da lì si è fatto azione; trovare i soldi, tra l’altro, delle azioni per lottare. Le risorse, racconta Tosatti, furono trovate quasi subito, prima di ritornare a Calais, furono trovate perlopiù a Napoli (un caso?). La burocrazia francese, invece, non rispondeva alle chiamate, disdiceva appuntamenti con un’ora di anticipo. La Jungle, così è stato chiamato questo pezzo di terra di spalle alla Manica, dove è nato, diciamolo con un linguaggio mainstream, uno dei campi profughi più grandi d’Europa intanto esponeva al mondo le sue ferite, le sue domande. Lo stradone era aperto dal Caffè Kabul, quattro tavoli e una caffettiera su un fornello a gas e poi tende, tante tende piantate a disegnare una mappa di desiderata (una vita migliore, una vita senza guerre, una vita senza povertà). Quelle visioni sono bruciate assieme a tutto il campo, lo scorso anno tutto l’insediamento è stato raso al suolo dalla prefettura. L’arcobaleno non è mai stato costruito e un mondo nuovo non ha ancora il suo simbolo. I migranti continuano a vivere su una zona lunare, in attesa che il mondo si faccia migliore. Nell’accampamento sono arrivati a vivere settemila migranti. La Francia prevedeva un campo con al massimo millecinquecento persone. Per rispettare quest’obiettivo, gran parte della giungla è stata distrutta ed è stato approvato il divieto di montare tende o organizzare accampamenti. I militari presidiarono la striscia di terra larga cento metri che correva lungo il porto. Ma anche se lo spazio diminuiva sempre di più, le persone che arrivavano aumentavano. Ed è questo l’arcobaleno: nonostante tutto i desideri degli uomini sono più grandi delle loro stupidità. Il Medioevo di questi anni di Alessandro Gilioli L’Espresso, 6 maggio 2017 Rodolfo il Glabro, monaco di Cluny ma soprattutto grande cronista del suo tempo, descrisse molto bene cosa accadeva nella Francia di mille anni fa. Non tanto per quanto riguarda ciò che si studia a scuola - re, battaglie, papi e imperi - quanto nella mente delle persone sconvolte dalle carestie che devastavano in quel tempo l’Europa. Accadeva infatti, in quegli anni, che un insieme di concause naturali ed economiche avessero drasticamente ridotto la produzione agricola e quindi i raccolti, portando alla fame milioni di persone e comunque immiserendo chi aveva fin lì vissuto dei frutti della terra. Il resto lo facevano la scarsissima sicurezza delle vie di comunicazione, l’instabilità e la debolezza dei poteri politici, le scorrerie e le incursioni da parte di popoli non ancora stanzializzati che abitavano più a nord o più a est. Il tutto creava tempi di profonda incertezza nei quali, racconta Rodolfo, per disperazione e paura l’umanità aveva gradualmente perso se stessa, le sue regole di base, i suoi tabù più fondati. Così ogni debole se la prendeva con il più debole, e lo attaccava, lo derubava, lo uccideva. E se le prime vittime di questa mortale lotta tra poveri erano i vecchi, con il peggiorare delle cose a essere rapinate e uccise furono le donne, quindi i bambini, nei confronti dei quali partì una caccia senza più alcuna remora morale il cui scopo era il cannibalismo: realtà fattuale, in quelle lande e in quei tempi, ma anche metafora di ciò che stava accadendo all’umanità. Leggere Rodolfo il Glabro chiarisce le idee sul difficile percorso del progresso umano: che non è una linea dritta e costante ma contorta, piena di curve sbagliate, rallentamenti, frenate, retromarce spaventose. Lo stesso cronista dell’epoca era attonito dal vedere fuori dalla sua finestra barbarie di cui mai era stato testimone negli anni della sua gioventù. Poi, sul finire dei suoi giorni, raccontò anche i deboli segni di un miglioramento - tanto nell’economia quanto nei comportamenti - che poi in effetti avrebbe portato alla rinascita del XII secolo, primo bagliore di ciò che mezzo millennio dopo sarebbe stato l’Illuminismo. Non viviamo l’epoca di Rodolfo il Glabro, grazie al cielo ma soprattutto grazie a noi, umani, che abbiamo saputo lasciarci alle spalle buona parte del nostro peggio, ciò che appunto chiamiamo inumano e che invece è purtroppo parte del nostro essere, contro cui non dobbiamo mai smettere di combattere: la violenza contro il più debole, la legge del più forte, nessuna idea di un destino comune. Fenomeni che riesplodono, o rischiano di riesplodere, quando le cose vanno male: quando la società diventa più povera, quando ciascuno pensa solo a salvare se stesso (e vuole farlo da solo), quando ciascuno si sente oggetto di violenza e vessazione da parte di qualcuno più forte e quindi trasforma in oggetto di violenza e vessazione chiunque veda più debole. Ed è difficile non vedere come questi siano i segnali del tempo che viviamo: lontanissimi, certo, da quelli di Rodolfo il Glabro, ma sempre più lontani anche da quelli assai più recenti in cui si era capito che il destino di ciascuno è legato a quelli di tutti. Ieri un venditore abusivo senegalese è morto a Roma, inseguito dai vigili durante una retata. Il vicecomandante della polizia municipale si è detto dispiaciuto della morte di quel "ragazzo", parola che ha ripetuto due volte. Non era un ragazzo, si chiamava Nian Maguette, aveva 54 anni. "Ragazzo" è diventato un modo per mancare di rispetto ai più deboli: si chiamano così i lavoratori precari, i rider di Foodora, i poveri in genere e naturalmente gli stranieri immigrati. Un modo per insultare nel contempo loro e una generazione, considerata equivalente di uno stato di minorità. Sempre ieri, e sempre a Roma, il presidente della commissione Ambiente di Roma Capitale e consigliere capitolino del M5S, tale Daniele Diaco, ha chiesto alla Caritas di togliere i pasti serali ai senzatetto che si trovano nel parco di Colle Oppio, "che poi restano a dormire all’interno e il parco diventa una pensione completa". Ma non fatene una questione di partito, vi prego, che la barbarie è trasversale: il decreto Minniti è del Pd e del Pd è il sindaco di Ventimiglia, Enrico Ioculano, quello che ha cercato di vietare la distribuzione di alimenti ai migranti nel suo comune. Tre cittadini francesi sono stati indagati per aver violato l’ordinanza, revocata solo dopo un appello firmato tra gli altri da don Ciotti e padre Zanotelli. Quanto ai leghisti non c’è bisogno di dire nulla, se non l’ultima follia dell’ex sindaco di Padova Massimo Bitonci, ora ricandidato, che ha invitato i cittadini ad avvertirlo se qualcuno ospita migranti in città, poi ci pensa lui. Non credo che la campagna in corso contro le Ong che salvano vite in mare sia molto diversa queste cose. Cioè non credo che chi ripara dietro la formula "si faccia chiarezza" non abbia dentro di sé un altro pensiero. Vale a dire che queste Ong hanno rotto i coglioni, a portare in Italia gli africani. Del resto, anche l’intoccabile pm Carmelo Zuccaro - il più amato dai leghisti e da Di Maio, ma difeso anche da un ministro di questo governo - ieri ha detto che in Italia "i migranti sono troppi". Un giudizio politico, che fa pensare a un’avversione personale verso chi li aiuta a raggiungere le nostre coste. Non credo neppure che a tutto ciò sia estranea la nuova legge sulla legittima difesa, un’autorizzazione a uccidere i ladruncoli che al contempo appaga e stimola le paure diffuse, un passo in più verso lo sdoganamento del principio per cui ciascuno di noi è solo ed è aggredito. La società e lo Stato sono lontani e quindi ci autorizzano a sparare, a trasformarci tutti in piccoli Rambo da villetta a schiera. Non credo infine che tutte queste cose siano prive di correlazione neanche con quanto avviene da alcuni anni in questo Paese, cioè l’atomizzazione sociale e il risentimento conflittuale diffuso, insomma il tutti contro tutti che vediamo ogni giorno nelle nostre città, nei nostri autobus e nei nostri bar: precari contro pensionati, vecchi contro giovani, partite Iva contro cassintegrati, genitori contro insegnanti, impiegati contro tassisti, nord contro sud, città contro campagna, vegetariani contro carnivori e tutti contro gli immigrati e gli zingari perché c’è sempre qualcuno sotto di noi contro cui possiamo sfogarci per consolarci delle botte prese da chi sta un po’ sopra. No, certo, non siamo ai tempi di Rodolfo il Glabro. Non mangiamo bambini. Al massimo, diamo a fuoco qualche clochard, dopo avergli tolto la cena. Al massimo siamo in una fase di retromarcia della storia, se crediamo che la storia sia anche miglioramento individuale e collettivo, perenne autoriforma, controllo delle nostre pulsioni peggiori, cammino verso più civiltà, creazione di un ambiente armonico attorno a noi e averne cura quotidiano. L’avere cura di noi e degli altri, di ciò che siamo insieme, dato che in questo mondo siamo tutti intersecati, intrecciati nello stesso ordito, e ciascuno di noi è anche gli altri e gli altri sono ciascuno di noi - "diversi corpi, stessa mente" dice il buddismo. Ammettiamolo: il pacifismo oggi è morto di Gigi Riva L’Espresso, 6 maggio 2017 Trump sgancia bombe in Afghanistan, minaccia la Corea del Nord e promette di entrare nel conflitto siriano. E non si vede un solo corteo di opposizione. Ecco perché. Essere pacifisti con le guerre degli altri è facile. Si testimonia un’opposizione di principio, astratta come la lontananza. Più complicato essere pacifisti quando si ha la sensazione di avere la guerra in casa. È il caso dell’Occidente oggi. La neutralità diventa un lusso che non ci si può permettere, scompaiono i grigi, vincono le posizioni nette. Ogni tentennamento davanti a un’aggressione viene bollato come intelligenza col nemico, il rifiuto delle armi una complicità tecnica: e si diventa delle "quinte colonne". Il pacifismo è un "ismo" che chiama l’assoluto. È, o almeno è stato nella sua versione recente, "senza se e senza ma". Non contempla nemmeno il pronto soccorso. La sua variante metadonica è la non violenza, predicata e praticata, in Italia, quasi esclusivamente dal partito radicale. Prevede che le vittime abbiano il diritto-dovere di difendersi davanti a un’aggressione. Fu anche la "scandalosa" posizione di Giovanni Paolo II. Questa rigidità ideologica mette il pacifismo fuorigioco quando c’è il nemico alle porte. In mancanza di una possibile diversa elaborazione, ammaina le sue bandiere e le ripone in cantina in vista di tempi migliori. Lo abbiamo visto. Donald Trump, come un dottor Stranamore, sgancia la superbomba in Afghanistan, minaccia la Corea del Nord, dice di voler entrare nella mischia siriana, altro ancora promette: e non si vede un corteo. Purtroppo, viene da aggiungere, perché se era deleterio un eccesso di pacifismo, è ugualmente nefasta un’assenza di pacifismo. La Terza guerra mondiale a pezzi (papa Francesco dixit) ci induce a far apparentare ogni conflitto. Non è così e bisognerebbe rimboccarsi le maniche, distinguere caso per caso, per decidere quando il ricorso all’arsenale aumenta o riduce il livello di violenza. Invece, se tutto è uguale, nessuno corre il rischio di essere additato come colui che vuole disarmare la mano in grado di colpire lo Stato islamico, sanguinario e genocida (degli ezidi). Il Califfo assassino è la carta assorbente dei dubbi. Alla dimensione psicologica e contingente, se ne aggiunge una politica per spiegare la fine momentanea del movimento arcobaleno. Esattamente 14 anni fa subì una sconfitta storica, quando portò in piazza cento milioni di persone (un milione in Italia) per fermare, senza riuscirci, l’armata di George W. Bush e dei "volenterosi" che stavano con lui per invadere l’Iraq. Allora esisteva ancora nel mondo la sinistra. Una sua declinazione era orientata al pacifismo e si era trovata i suoi pensatori, pur dimentichi del fatto che una loro icona indiscussa, il Che Guevara, portava il fucile. La sinistra è in crisi, il pacifismo è morto. Persino chi lo osteggiava non si deve sentire molto bene: manca l’Altro, cioè la dialettica. In Italia il relatore speciale Onu sui difensori dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 6 maggio 2017 Michel Forst, dal 2014 relatore speciale delle Nazioni Unite sui difensori e sulle difensore dei diritti umani, sarà in Italia dal 7 al 9 maggio per una serie di incontri pubblici e istituzionali. Domenica 7 Forst sarà ospite del Festival dei Diritti Umani di Milano. L’evento si svolgerà dalle ore 10 alle 13 presso il Salone d’Onore, Triennale di Milano. Il giorno successivo, lunedì 8 maggio, Forst sarà invece a Roma, per un incontro pubblico presso la sede della Federazione Nazionale Stampa Italiana (corso Vittorio Emanuele II, 349, dalle 17 alle 19). Durante l’evento, Michel Forst parlerà del suo mandato, della situazione dei difensori e delle difensore dei diritti umani, dei rischi che corrono e di quali sono gli strumenti per garantire loro protezione. Parteciperanno anche la difensora dei diritti umani afgana Malalai Joya, il presidente della FNSI Giuseppe Giulietti, il presidente del Tribunale Permanente dei Popoli Franco Ippolito e il portavoce della rete "In Difesa Di" Francesco Martone. Il mandato sulla situazione dei difensori e delle difensore dei diritti umani è stato stabilito nel 2000 dalla Commissione delle Nazioni Unite sui diritti umani, per dare attuazione alle Dichiarazione sui difensori e sulle difensore dei diritti umani, approvata dall’Assemblea generale nel 1998. Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International, nel 2016 difensori e difensore dei diritti umani sono stati assassinati in 22 paesi. La regione più pericolosa è quella dell’America latina, dove queste coraggiose persone si trovano a sfidare enormi interessi politici ed economici, prevalentemente legati allo sfruttamento della terra. "Il Bello dell’Italia", progetto nelle scuole per fermare il cyberbullismo di Silvia Morosi Corriere della Sera, 6 maggio 2017 Una vera e propria epidemia che colpisce i ragazzi, spesso coglie impreparati docenti e genitori, e lascia sole le vittime che vivono dei veri e propri drammi. Parliamo del cyberbullismo e di tutti i fenomeni violenti e aggressivi che corrono in Rete, e diventano virali. Dalle offese agli insulti, dalla derisione per l’aspetto fisico alla diffamazione, dall’esclusione per le proprie opinioni che possono poi sfociare in vere aggressioni fisiche. Il tema sarà al centro dell’ incontro gratuito che si terrà sabato 6 maggio alle ore 9.30 al Grattacielo di Intesa San Paolo di Torino, in occasione del nuovo appuntamento del "Il Bello dell’Italia" del Corriere della Sera (qui il programma). All’evento "Portare il bello a scuola, stop al cyberbullismo", moderato dalla giornalista Giusi Fasano, parteciperanno Ivano Zoppi con una mostra sul sexting (il fenomeno che vede l’invio e/o la ricezione e/o la condivisione di testi, video o immagini sessualmente esplicite/inerenti la sessualità, spesso realizzati con il telefonino), e Paolo Picchio, il papà di Carolina, la giovane che morì suicida, a 14 anni, nel gennaio del 2013 dopo che venne diffuso in Rete un video a sfondo sessuale che aveva lei come protagonista. L’idea è quella di creare, partendo dalle scuole, una rete che argini il fenomeno e sensilizzi i giovani su un uso corretto delle nuove tecnologie e delle parole in Rete (qui il Manifesto che come Corriere abbiamo presentato il occasione dell’evento triestino di Parole Ostili). Un’azione preventiva efficace sui ragazzi è importante. Ma allo stesso tempo è indispensabile agire sugli adulti di riferimento, genitori e insegnanti, perché riconoscano i segnali che arrivano dalle vittime, che si estendono anche nella sfera emotiva e scolastica, fornendo loro degli strumenti efficaci, non solo per conoscere i mezzi, ma anche per insegnare un uso corretto del web. Migranti pagati 1 euro l’ora nei campi. I "caporali" reclutano al Centro di accoglienza di Alessandro Fulloni e Carlo Macrì Corriere della Sera, 6 maggio 2017 14 arresti dei carabinieri: fermati caporali e gestori della struttura che falsificavano i fogli presenze per ottenere le sovvenzioni. Gli africani reclutati ogni mattina lavoravano 10 ore al giorno e pagati una miseria. Accuse per tentata truffa e sfruttamento. Lavoravano dieci ore al giorno per 15, massimo 20 euro. Sveglia all’alba e poi nei campi a coltivare fragole e patate sull’altopiano silano, o guardare il gregge. Sfruttati da coloro i quali avrebbero dovuto ospitarli in strutture d’accoglienza, perché questi lavoratori, per la maggior parte senegalesi, nigeriani e somali, altri non sono che rifugiati. Una trentina in tutto da qualche anno ospitati in due Centri di accoglienza straordinaria di Camigliatello Silano(Cosenza). La procura della Repubblica di Cosenza, guidata da Mario Spagnuolo, ha chiesto ed ottenuto dal gip Salvatore Carpino 14 misure cautelari nei confronti di altrettante persone accusate di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, abuso d’ufficio e tentata truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Nell’operazione condotta dai carabinieri del comando provinciale di Cosenza, per la prima volta, viene contestato il reato di "intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro". I responsabili dei due centri dovranno anche rispondere della manipolazione dei fogli di presenza dei rifugiati. I titolari delle strutture avrebbero infatti manipolato i registri delle presenze in modo tale da ottenere i finanziamenti per il fabbisogno giornaliero di ogni rifugiato. Pastori e braccianti - Gli elementi raccolti dai militari hanno permesso di accertare che i rifugiati, principalmente senegalesi, nigeriani e somali, venivano prelevati da due centri di accoglienza straordinaria di Camigliatello Silano (Cosenza) e portati a lavorare in campi di patate e fragole dell’altopiano della Sila cosentina o impiegati come pastori per badare agli animali da pascolo. In particolare, il presidente e due responsabili della gestione di un centro di accoglienza risultano accusati di aver illecitamente reclutato i rifugiati loro affidati per essere impiegati in nero come braccianti e pastori in numerose aziende agricole del luogo, in concorso con i titolari di quest’ultime. Manipolazione dei fogli presenza - I responsabili del centro di accoglienza dovranno rispondere anche della manipolazione dei fogli presenza dei rifugiati, che venivano dati come presenti nel tentativo di ottenere i finanziamenti previsti dalla legge a sostegno della struttura di accoglienza. Il fenomeno ha riguardato complessivamente una trentina di rifugiati che sono stati sfruttati in nero per somme oscillanti tra i 15 e i 20 euro per una giornata lavorativa di 10 ore. Le intercettazioni: minacce ai migranti - L’inchiesta è partita dopo la denuncia fatta lo scorso settembre da un nigeriano, Uyi Ekogiawa, ospite del centro di accoglienza "Villa Letizia" di Camigliatello Silano. Il rifugiato ha messo nero su bianco le condizioni di vita cui erano assoggettati, ma soprattutto, ha raccontato agli investigatori lo sfruttamento cui erano sottoposti lui e gli altri rifugiati. Da quel momento i carabinieri hanno iniziato il monitoraggio delle cinque strutture presenti sul territorio che ospitano 183 immigrati. Le immagini delle telecamere piazzate dentro e fuori i centri di accoglienza e soprattutto le intercettazioni ambientali hanno aperto il sipario sullo sfruttamento dei rifugiati. In una delle intercettazioni captate uno degli arrestati Giorgio Luciano Morrone, responsabile del centro di accoglienza "Santa Lucia" parlando con alcuni imprenditori agricoli al telefono riporta il dialogo avuto con alcuni immigrati minacciati. Gli ho detto: "dovete fare come dico io… e non state firmando verrete cacciati fuori perché le leggi sono cà… li ho fatti spaventare, io i documenti li ho già mandati e si sono spaventati, si sono proprio morti". Il Governo italiano stanzia 35 euro per ogni immigrato ospitato nei centri di accoglienza. Denaro che gli immigrati non ricevono direttamente, ma che serve per il loro fabbisogno. Eppure i rifugiati ospitati nei centri di Camigliatello Silano hanno raccontato agli inquirenti di aver patito il freddo durante l’inverno. "I riscaldamenti non funzionavano e anche il cibo che ci portavano era scarso e scadente", ha sostenuto Piliph Ibhariagbe, uno dei migranti. "La selezione dei migranti più forti e miti" - Di "una vera e propria tratta degli schiavi che andava avanti da tempo" ha parlato il comandante provinciale dei carabinieri di Cosenza, colonnello Fabio Ottaviani. "Dalle intercettazioni - ha detto l’ufficiale - abbiamo appreso che veniva fatta una selezione tra i migranti, cercando d’individuare quelli dal carattere più mite e nello stesso tempo fisicamente più forti, che venivano trattati come schiavi, ai quali davano al massimo 15 euro al giorno. Cifre che per queste persone rappresentano tanto rispetto ai luoghi da dove provengono, ma che ovviamente sono impensabili per un Paese civile". Sono stati una trentina i migranti che sono stati sentiti dai carabinieri di Camigliatello Silano rendendo testimonianza su ciò che accadeva nei due Centri di accoglienza. Minniti: "Ispezioni in tutti i centri" - Nei prossimi giorni partirà un piano di ispezioni presso tutte le strutture di accoglienza dei migranti, che prevede un programma di 2.130 controlli ai centri, compresi quelli attivati in via d’urgenza. Lo ha annunciato il ministro dell’Interno, Marco Miniti, commentando l’operazione dei carabinieri in Calabria contro presunti sfruttatori di rifugiati ospitati in centri di accoglienza. "Grazie al prezioso lavoro svolto dalla Procura della Repubblica di Cosenza, diretta dal dr. Mario Spagnuolo e dall’Arma dei Carabinieri - ha detto Minniti - è stata individuata e bloccata un’organizzazione che sfruttava i migranti ospitatati in due centri di accoglienza per impiegarli in lavori in nero come braccianti e pastori in diverse aziende agricole del luogo. Per la prima volta è stato contestato ai responsabili il nuovo reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro". Migranti. Ong coordinate dalla Guardia Costiera, cambiano le regole dei soccorsi in mare di Francesco Grignetti La Stampa, 6 maggio 2017 La proposta del Parlamento al governo. Le organizzazioni dovranno "accreditarsi". Non c’è ancora un testo che metta per iscritto le conclusioni dei senatori della commissione Difesa che stanno studiando il lavoro delle ong in alto mare, ma sta prendendo corpo un’idea: per mettere ordine in una situazione caotica, considerando l’enorme responsabilità italiana che "de facto" deve garantire il soccorso su un milione e centomila chilometri quadrati di mare, occorre che ci sia una salda regia. E il regista delle operazioni Sar ("search and rescue", ricerca e soccorso) è giusto che sia la benemerita Guardia costiera. Questo è quanto il Parlamento proporrà al governo. Alla Guardia costiera verrebbe affidato però un ruolo di regia attiva. Non può continuare la prassi dell’attesa passiva dietro i telefoni, aspettando la telefonata satellitare che implora soccorso da parte di un barcone di migranti, e nemmeno la comunicazione burocratica da parte delle navi umanitarie che si trovano in posizione avanzata, al largo di Tripoli, al limite delle acque territoriali libiche, una volta che sono loro ad effettuare gli avvistamenti. Come si articolerà in dettaglio il futuro piano di ricerca e soccorso in mare nell’area Sar di competenza italiana (con doverosa estensione all’area di competenza libica, almeno finché su quella sponda non sia nato uno Stato degno di questo nome, con proprie articolazioni, Guardia costiera compresa) è presto per dirlo. Quando si è quasi al termine dei lavori della commissione conoscitiva, comunque, è sempre più evidente che si richiederà alle ong presenti nell’area di competenza italiana una sorta di "accreditamento" presso la Guardia costiera. Per entrare nella "white list" delle organizzazioni private che accettano di collaborare alle operazioni di soccorso coordinate dalla Guardia costiera, sarà indispensabile fornire la massima trasparenza sui bilanci, sia per le entrate che per le uscite, e si dovrà accettare una "certificazione" da parte del Paese europeo dove la singola ong ha sede. Va da sè, che se un’associazione non accettasse l’accreditamento entrerebbe automaticamente nella "black list" delle organizzazioni cui non sarà consentito interloquire con la nostra Guardia costiera. E alla fine - sempre che il governo approvi il piano prospettato dal Senato - spetterà all’ammiraglio Vincenzo Melone, e ai suoi ufficiali alla guida della Guardia costiera, di disporre al meglio le forze in mare. Sia le navi istituzionali, sia quelle dei volontari. Nessuno può ignorare, infatti, anche i più acerrimi critici delle ong, che attualmente sono centinaia i migranti che muoiono in mare ogni settimana e che occorre fare di tutto per evitare i naufragi. Il soccorso in mare - ricordava ieri anche Emma Bonino, al convegno "La grande bugia delle navi-taxi" - è "un dovere". Secondo l’ex ministro degli Esteri, tutto quel che sta accadendo è stato "manipolato politicamente" e "serve evidentemente a non affrontare con serietà il problema vero che non ha soluzioni semplici - pensiamo alla stabilizzazione della Libia - e che conferma che la mobilità globale è un dato strutturale". Bonino partecipava al convegno con tutte le principali Ong che operano in mare. "Il problema - spiegava - non sono le Ong, ma trovare soluzioni per l’accoglienza e l’integrazione". E una atmosfera "mefitica", fatta di "sospetti e discredito" non aiuta. Indicava a tal proposito la gran retata alla stazione di Milano dei giorni scorsi, ma anche le esternazioni del procuratore capo di Catania, Carmelo Zuccaro. "Un magistrato parla per atti e non per sospetti o per ipotesi e illazioni. Quando ero piccola mi hanno insegnato che le prove servono in tribunale". Infine, la questione maltese. È emerso che da troppi anni il rapporto bilaterale non funziona. Si è scoperto che a Malta la centrale Sar non risponde alle chiamate oppure sottovaluta scientificamente lo stato del pericolo e si rifiuta di intervenire. Un contrammiraglio della Guardia costiera, Nicola Carlone, ha parlato esplicitamente di "conflittualità" tra Italia e Malta: "Si limitano ad un monitoraggio, fino a quando le imbarcazioni non lasciano le loro acque territoriali". Ecco, secondo i senatori va sciolto il nodo del rapporto con Malta, che peraltro è presidente di turno dell’Unione europea. Migranti. "Fango sulle Ong, ma l’obiettivo sono i salvataggi in mare" di Carlo Lania Il Manifesto, 6 maggio 2017 Emma Bonino: "Si è creato un clima mefitico e il risultato è l’assalto alla sede dell’Oim". "Quello che mi interessa è difendere lo stato di diritto, le garanzie per tutti i cittadini, italiani e no. Deve essere chiaro che un magistrato deve parlare con gli atti e non con i sospetti. Invece da due mesi il procuratore di Catania va in giro a lanciare accuse, salvo poi dire che non ha le prove per dimostrare quello che afferma. Non sono io che devo provare di essere innocente, ma qualcun altro che deve dimostrare la mia colpevolezza". Emma Bonino va come al solito dritta al cuore del problema. Da due mesi contro le Ong che soccorrono i migranti nel Mediterraneo si è scatenata una campagna basata su presunti dossier dei servizi segreti subito smentiti e sul comportamento a dir poco ambiguo dell’agenzia europea Frontex, che prima accusa le Ong di connivenza con i trafficati di uomini e poi fa marcia indietro. Il tutto mentre dalla procura di Catania arrivano accuse, anzi "ipotesi di lavoro", che se fossero dimostrate stenderebbero un alone inquietante sul lavoro delle Ong. Per stessa ammissione del procuratore Carmelo Zuccaro, però, al momento sono proprio le prove a mancare. Il risultato di questo polverone, prosegue Bonino, "è che si è creata un’atmosfera mefitica di sospetti che provoca gesti come il blitz contro i migranti fatto dalla polizia alla stazione di Milano o l’aggressione di Forza Nuova alla sede dell’Oim di Roma". La leader radicale parla al Senato nel corso di una conferenza stampa che gli organizzatori - il presidente della Commissione Diritti umani di palazzo Madama Luigi Manconi, Caritas Italia e le Ong Msf, Save the Children e Open Arms - non a caso hanno voluto intitolare "La grande bugia delle navi taxi" proprio per smentire una delle accuse rivolte alle organizzazioni umanitarie. "È stata messa sotto accusa la pratica dei salvataggi in mare" spiega Manconi, per il quale lo scopo dei sospetti messi in giro ad arte, e non a caso definiti "malevoli e maleodoranti" dal senatore dem, è quello di colpire l’idea di solidarietà umana. "Qual è il reato di cui dovremmo discutere? Qual è la colpa?", chiede Manconi. "Dobbiamo salvare l’onore di Ong che nei loro bilanci devono inserire non solo i finanziamenti ricevuti, ma anche le migliaia di vite salvate". Il quadro si fa più preoccupante se si considera che l’attacco contro le Ong non riguarda solo l’Italia ma anche l’Ungheria, paese nel quale il governo guidato da Viktor Orban sta discutendo un disegno di legge che limita fortemente l’attività delle Ong, alcune delle quali non a caso si occupano di migranti. La posta in gioco, allora, sembra essere un’altra: le politiche europee sull’immigrazione che non devono più basarsi sull’accoglienza (ammesso che riescano, vedi la fallimentare distribuzione dei profughi tra gli Stati membri), piuttosto sul contenimento e respingimento di chi fugge da guerre e miseria. Ne è convinto ad esempio il direttore della Caritas don Francesco Soddu, per il quale le accuse alle Ong altro non sono che "un pretesto per distogliere l’attenzione dalle evidenti fatiche nel trovare soluzioni politiche a più ampio spettro nella gestione di questo fenomeno". "Nel momento in cui stiamo parlando le nostre navi stanno soccorrendo undici gommoni, più di mille persone", dice Riccardo Gatti di Open Arms. "Contro di noi ho sentito accuse che non sono mai state formalizzate. Ho capito che l’obiettivo è farci sparire dalla zona in cui operiamo". L’ong spagnola è nel mirino per un soccorso avvenuto il 18 febbraio e nel quale, secondo l’ennesimo rapporto di Frontex, si sarebbe fatta consegnare dei migranti dalla guardia costiera libica. Accuse respinte da Open Arms e sulle quali stanno lavorando i suoi legali. "Quello che posso dire è che la Guardia costiera ha ringraziato noi e le altre Ong per essere nel Mediterraneo, perché loro da soli non ce la fanno", ricorda Gatti. Per i prossimi giorni sono attese le conclusioni dell’indagine avviata dalla commissione Difesa del Senato sul lavoro delle Ong. Dalle audizioni svolte finora non sono però risultate prove che dimostrerebbero la validità delle accuse contestate. Come ha ricordato un membro della commissione, il senatore Mdp Federico Fornaro: "Tutte le autorità militari ascoltate negano comportamenti anomali da parte delle Ong, così come anche il procuratore di Siracusa Giordano afferma che non esiste alcun riscontro di un collegamento tra Ong e trafficanti. E questi - afferma il senatore - mi sembrano dati oggettivi". "Il problema è l’impossibilità e l’incapacità per l’Italia di fare accoglienza", conclude Loris De Filippi, responsabile di Msf Italia. "Paghiamo Frontex 250 milioni di euro l’anno, possibile che non si riesca a mettere in piedi un soccorso in mare europeo? Noi torneremmo volentieri a fare quello che facevamo in giro per il mondo". Migranti. Alcuni dubbi sul ruolo delle Ong di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 6 maggio 2017 Ci sono aspetti di polizia, security e intelligence che le Ong non sono in grado di affrontare. Non hanno la legittimità e neppure il mandato per modificare gli assetti demografici europei. Ma siamo proprio sicuri che andare con le navi a prendere i migranti in mare competa alle Ong? Il dubbio è più che lecito e pone fondamentali questioni di principio. Questioni che vanno ben oltre le correnti inchieste giudiziarie circa i presunti collegamenti tra alcune Ong e scafisti; oltre gli argomenti umanitari; oltre le pur accese polemiche tra coloro che difendono l’apertura dei nostri confini a chi scappa da guerre, carestie, povertà, persecuzioni, insomma dal caos del suo Paese di origine, e invece i sostenitori delle frontiere chiuse, o comunque strettamente regolate. Il punto è infatti che ci sono funzioni che sono di stretta competenza degli Stati, dei governi, o, meglio ancora, di una confederazione tra più entità statuali quale è l’Unione. E ci sono invece ruoli, interventi, attività che calzano benissimo alle organizzazioni non governative, che appunto in quanto "non governative" godono dell’agilità operativa, dell’autonomia e dello slancio umanitario e generoso dei loro attivisti, sostenitori e funzionari. Tanto per fare un esempio. Sappiamo bene che in Italia il sistema carcerario fa acqua da tutte le parti. Eppure a nessuno viene in mente di permettere a una Ong di costruire e gestire una prigione. Così per la questione recuperi presso le coste libiche: delicatissima e importantissima per gli stessi equilibri interni della Ue, tanto da essere diventata ormai profondamente politica. Non va dimenticato che la Brexit è anche figlia della paura dei migranti. La loro presenza sta dando forza a pericolosi movimenti razzisti e xenofobi in tutta Europa. Ci sono aspetti di polizia, security e intelligence che le Ong non sono in grado di affrontare, inoltre non hanno la legittimità e neppure il mandato per modificare gli assetti demografici europei. Per contro sono perfettamente attrezzate per aiutare l’integrazione dei migranti una volta sbarcati. Ma spetta allo Stato italiano, o meglio ancora alla politica europea, garantire che vengano preservati i controlli dei nostri confini e selezionati i diritti d’asilo per gli aspiranti cittadini.