Capienza delle carceri: come vengono calcolati i posti disponibili? poliziapenitenziaria.it, 5 maggio 2017 Quante persone possono contenere le carceri italiane? Secondo quali criteri vengono definiti i metri quadrati a disposizione per ciascun detenuto? E in sintesi, cosa indica la "capienza regolamentare" di ciascun istituto penitenziario? Sullo sfondo di tutti i provvedimenti riguardanti il sovraffollamento e di tutti i dati statistici sulle capienze delle carceri italiane, c’è il concetto di "spazio vitale" che deve essere garantito a ciascun detenuto. Tale spazio vitale però, viene utilizzato solamente per definire i metri quadrati a disposizione per ciascuna persona ristretta nelle "camere di pernottamento". Questo è l’unico criterio utilizzato. Trattandosi di una misura in mq, si potrebbe essere indotti a pensare che il calcolo sia semplice ed univoco, ma non è affatto così. In Italia l’articolo 6 della legge 354/1975 si limita a prevedere che "i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente", senza individuare specifici criteri quantitativi circa lo spazio detentivo da assicurare al singolo ristretto. Nel silenzio del Legislatore, l’Amministrazione penitenziaria sembrerebbe aver calcolato la capienza delle carceri secondo un parametro desunto da un decreto dell’allora Ministero della Sanità del 5 luglio 1975, relativo all’altezza minima e ai requisiti igienico-sanitari principali dei locali di abitazione, in base al quale "le stanze da letto debbono avere una superficie minima di mq 9, se per una persona, e di mq 14, se per due persone". Circa gli spazi minimi da garantire a ciascuna persona ristretta, invece, il Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti disumani o degradanti - Cpt (organismo istituito in seno al Consiglio d’Europa in virtù della Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, ratificata dall’Italia con la L. 2.1.1989 n. 7), nel secondo rapporto generale del 13.4.1991, ha indicato come superficie minima "desiderabile" almeno 7 mq per la cella singola e 4 mq pro capite per la cella multipla. Inoltre, la Corte di Strasburgo (Cedu) ha ritenuto che il parametro dei 3 mq debba essere ritenuto il minimo consentito al di sotto del quale si avrebbe violazione "flagrante" dell’art. 3 della Convenzione e dunque, per ciò solo, "trattamento disumano e degradante", indipendentemente cioè dalle altre condizioni di vita comunque garantite nell’istituto penitenziario (ore d’aria disponibili, ore di socialità, l’apertura delle porte della cella, la quantità di luce e aria dalle finestre, il regime trattamentale effettivamente praticato in istituto). Su quest’ultimo parametro dei tre metri quadri a disposizione per ciascun detenuto, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) ha giocato la maggior parte delle sue carte per dimostrare che nessun detenuto, a tutt’oggi, stia scontando la sua pena in condizioni "inumane e degradanti". Tuttavia, nelle statistiche mensili pubblicate dal Dap ogni mese, per quanto riguarda le capienze di ogni istituto penitenziario, vengono riportati i numeri che sembrerebbero essere ancora ricavati dalle indicazioni del Ministero della Sanità del 1975. Per questo, ancora oggi assistiamo al paradosso secondo il quale, nonostante nessun detenuto (come dichiarato dal Dap) è ristretto in condizioni che violano le disposizioni della Corte Edu dei tre metri quadri, siamo ancora in presenza di un sovraffollamento molto diffuso nella maggior parte delle carceri italiane. I doveri dello stato e la sicurezza dei cittadini di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 5 maggio 2017 Una legge giusta e proporzionata (con qualche dubbio sulla differenza giorno-notte) è la migliore risposta sia all’immobilismo di chi non sente l’urgenza del problema, sia di chi vuole dare soluzioni urlate, propagandistiche a un problema reale. La legge sulla legittima difesa votata dalla Camera dei deputati, malgrado lo show da fanatici delle armi orchestrato da Matteo Salvini, è equilibrata e risponde positivamente alla sacrosanta esigenza di sicurezza dei cittadini. Allarga con più nettezza la nozione di "legittima difesa", rafforza il principio che l’irruzione violenta nelle case e nelle proprietà dei cittadini manifesti una minaccia reale per la vita delle persone, evitando di lasciarli soli di fronte al peso, anche economico, delle incombenze processuali. Non modificare la legge, che peraltro già prevedeva la legittimità di una risposta anche armata quando la vita di chi sta nelle case violate viene messa in pericolo, avrebbe conservato un’atmosfera di incertezza giuridica sentita come un’ingiustizia da chi ha già vissuto il trauma di ladri senza scrupoli capaci di forzare porte e finestre per raggiungere il loro obiettivo delinquenziale. Dare assoluta carta bianca alla reazione armata delle vittime, viceversa, avrebbe significato introdurre senza limiti il principio della giustizia sommaria, del Far West in cui la difesa si fa criterio assoluto, senza nessuna attenzione di legittimità, di proporzione, di inevitabilità. Una legge giusta e proporzionata (con qualche dubbio sulla differenza giorno-notte) è la migliore risposta sia all’immobilismo di chi non sente l’urgenza del problema, sia di chi vuole dare soluzioni urlate, propagandistiche a un problema reale. Però bisogna ricordare che non è con la disciplina della "legittima difesa" che si può dare una cornice legale stabile al tema della sicurezza e dell’incolumità dei cittadini. E serve poco anche ricordare che le statistiche parlano di una sia pur lieve diminuzione dei reati che rientrano nella fattispecie di cui si sta parlando. La percezione di insicurezza non è infatti solo una distorsione psicologica. È un comprensibile stato di allarme che avvelena la vita delle persone quando sai che un vicino di casa ha conosciuto un’irruzione notturna di ladri, quando in intere zone della città ti muovi con circospezione e apprensione perché si avverte un’atmosfera minacciosa o perché si sa di numerosi episodi di cui i cittadini sono state vittime, quando si vive in quartieri che hanno conosciuto reati in una misura superiore alle medie statistiche, che poi alla fine sono numeri e i numeri non esauriscono la complessità delle vite delle persone. Non bisogna sottovalutare questo stato di malessere, liquidarlo come se fosse una reazione isterica o addirittura meschina. Anzi, bisogna ricordare che gli Stati moderni nascono proprio da questo patto con i sudditi che poi diventeranno cittadini titolari di diritti inalienabili: ti sottometti alla maestà della legge, perché la legge è la garanzia della tua sicurezza. Lo Stato garantisce secondo questo patto la protezione delle persone, si arroga il monopolio della violenza, si dota di un apparato repressivo e di un sistema giudiziario proprio per tutelare e difendere la vita e la proprietà di chi fa parte di una comunità nazionale regolata dalle leggi. Ma proprio per questo la risposta al senso di insicurezza che serpeggia in Italia deve muoversi in più direzioni. La prima è che le forze della sicurezza e dell’ordine non debbano conoscere tagli e mortificazioni. La percezione dell’insicurezza diminuisce quando vedi lo Stato presente, i territori presidiati, la tutela delle persone avvertita anche fisicamente grazie a una polizia a cui non lesini risorse e aiuto. La seconda è la sempre ricercata certezza della pena, che impedisce a chi delinque di tornare a delinquere e di seminare paura e anzi terrore in chi si sente, indifeso, alla mercè dei violenti, con uno Stato impotente. Se non si imboccano queste due strade il tema della sicurezza resterà per forza un tossico destinato a inquinare lo spirito pubblico e dare spazio a demagoghi e violenti. E la disciplina della legittima difesa si rivelerà fragile e inefficace. Un tratto di penna sul diritto penale di Livio Pepino Il Manifesto, 5 maggio 2017 Mai, neppure in epoca fascista, i principi di civiltà giuridica e le regole di convivenza avevano subito uno strappo così profondo e lacerante. Nel nostro Paese c’è, ormai da anni, un dato costante. I reati diminuiscono: quelli più gravi (gli omicidi sono scesi da 1.901 nel 1991 a 468 nel 2015, molta parte dei quali commessi tra le mura domestiche) e quelli più modesti (nel 2016 i furti d’auto sono stati 108mila, con una diminuzione di oltre il 10% dal 2014). Eppure la grancassa mediatica, sull’onda di alcuni drammatici episodi, racconta una storia diversa di insicurezza crescente. E la politica, alla disperata ricerca di un consenso elettorale che ne occulti la crisi, si adegua e cavalca la tigre. Così la destra e quella che un tempo si definiva sinistra fanno a gara nell’aumentare le pene, nel trasformare i sindaci in sceriffi, nel trasformare lo stato sociale in stato penale. Basta guardare gli ultimi interventi di governo e parlamento. Il 20 febbraio il governo ha varato il "decreto sicurezza" finalizzato al "rafforzamento della vivibilità dei territori" e al "mantenimento del decoro urbano", che attribuisce ai sindaci significativi poteri in tema di ordine pubblico (anche avvalendosi del contributo di "soggetti privati"), amplia il loro potere di emettere ordinanze nei confronti di specifiche categorie di cittadini (legate a presupposti generici e indeterminati come la difesa da "incuria e degrado" o la tutela "del decoro e della vivibilità urbana"), introduce pesanti limitazioni alla libertà di movimento e stazionamento in determinate aree cittadine, estensione del Daspo previsto per le manifestazioni sportive a situazioni di marginalità sociale e via elencando. Poco meno di un mese dopo, poi, il Senato ha licenziato e trasmesso alla Camera il disegno di legge che modifica, tra l’altro, alcune parti del codice penale prevedendo un aumento spropositato delle pene, in particolare per i reati contro il patrimonio (a cominciare dalla fissazione di un minimo di tre anni di carcere per il furto in abitazione o "con strappo"). Evidentemente non bastava. Così ieri la Camera ha approvato un nuovo abnorme ampliamento delle ipotesi di legittima difesa dopo quello intervenuto nel 2006, in un’altra stagione di enfasi securitaria diffusa. Già ora - è bene ricordarlo - è possibile per il cittadino difendersi da offese o aggressioni ingiuste a un proprio diritto e l’articolo 52 del codice penale prevede che è lecito a tal fine anche usare armi per difendere "la propria o l’altrui incolumità" e "i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione" se il fatto avviene in un’abitazione o "in luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale". Il cittadino, dunque, non è certo lasciato in balia della criminalità ed anzi le sue possibilità di reazione legittima sono assai estese (addirittura oltre il limite della proporzione tra offesa e difesa)! Ma il testo approvato dalla Camera - frutto, manco a dirlo, di un emendamento del Pd - va ben oltre, rendendo legittimo il ricorso alle armi in caso di aggressione che si verifichi "di notte" o con "violenza sulle persone o sulle cose", escludendo ogni responsabilità anche a titolo di colpa per chi eccede nella difesa se si trova in uno stato di "grave turbamento psichico causato dalla persona contro la quale è diretta la reazione", prevedendo che siano a carico dello Stato le spese legali sostenute da chi, sottoposto a processo, viene assolto per avere agito in stato di legittima difesa. Siamo - se mai la norma sarà approvata anche dal Senato - a un salto epocale. Mai, neppure in epoca fascista, i principi di civiltà giuridica e le regole di convivenza avevano subito uno strappo così profondo e lacerante. È l’introduzione nel sistema di una sorta di (possibile) pena di morte privata, cioè decisa dalla persona offesa (o dalla presunta persona offesa) e da essa direttamente inflitta. È la cancellazione, con un tratto di penna, del diritto penale moderno che ha come idea guida e ragion d’essere la sottrazione del reo alla vendetta privata e l’attribuzione esclusiva allo Stato del potere di punire le condotte illecite, all’esito di un processo garantito e ad opera di un giudice imparziale. La promessa elettorale di maggior sicurezza ("vi difenderemo meglio") svela, infine, il suo reale contenuto: "difendetevi da soli e, comunque, vi garantiremo l’impunità". La "sicurezza", a cui tutti, legittimamente e giustamente, aspiriamo, non è l’effetto di più carcere, di più repressione o, addirittura, di una diffusa licenza di uccidere. Essa è altro: avere una prospettiva di vita degna di essere vissuta per noi e per i nostri figli, vivere in un ambiente accettabile e ospitale, sapere di non essere considerati rifiuti per il solo fatto di essere vecchi o malati o stranieri e via elencando. Certo la paura e l’inquietudine sono alimentate anche dalla diffusione di forme di criminalità e di comportamenti devianti; e, in ogni caso, a chi ha paura occorre dare risposte e non citare statistiche. Ma ciò rappresenta l’inizio, non la fine, del discorso. È, in altri termini, la base su cui costruire con pazienza e senza demagogia risposte attendibili. Un tempo questa era la strada tracciata dalla sinistra. Oggi a sostenerlo sembra essere rimasto, sulla scena mediatica, solo un comico (Maurizio Crozza che, qualche settimana fa, nel denunciare l’irrazionalità del crescendo repressivo, ha snocciolato con apparente candore i dati della sanguinosa escalation di delitti di sangue che caratterizza gli Stati Uniti, il paese in cui c’è la maggior diffusione di armi per difesa personale). C’è di che riflettere. Il nostro Far West senza lieto fine di Michele Ainis La Repubblica, 5 maggio 2017 Aggiustate gli orologi: cambia l’ora legale. Quella introdotta ieri dalla Camera durerà per tutto l’anno, anziché per sette mesi; in compenso funzionerà solo di notte, perché di giorno continueremo a misurare il tempo con l’ora illegale. È il risultato del voto sulla legittima difesa, che corregge un paio d’articoli del codice penale: puoi sparare contro i ladri, però soltanto quand’è buio. E le rapine diurne in banca o negli uffici postali? Nessun problema, basta lasciare in vista il disco orario. Diciamolo, è una soluzione strampalata. Perché è vero, verissimo, che in politica bisogna accettare qualche compromesso. Tuttavia quest’accordo parlamentare fra il centro della sinistra (Pd) e la sinistra del centro (Ap) apre più problemi di quanti ne risolva. Per esempio: quando scatta l’esimente? È un’aggressione consumata "in tempo di notte" quella che si verifica alle dieci della sera? Oppure occorre attendere che cominci - Linea Notte del Tg3? E i giudici, come decideranno? Davvero questo profluvio di parole inoculate nel corpo del codice penale ne semplificherà il lavoro? O non finirà piuttosto per accrescerne la discrezionalità interpretativa, alimentando decisioni contrastanti? Da qui un paradosso: l’ossessione della sicurezza genera maggiore insicurezza. Intanto sul fronte del diritto, perché indebolisce la certezza dei rapporti giuridici, gonfiando il nostro ordinamento di norme per lo più declamatorie. Difatti in questo caso la norma c’era già, come ha osservato Giuliano Pisapia (La Repubblica, 4 aprile). E c’era dal momento che l’articolo 52 del codice penale dichiara non punibile chi agisca per difendere se stesso o i propri beni, anche in assenza d’una minaccia incombente, purché sussista la percezione soggettiva del pericolo. In secondo luogo, il pistolero improvvisato è spesso più insidioso del rapinatore patentato: lui spara a Tizio, colpisce Caio, e magari un delitto ne genera altri due. Ciò nonostante, Italia dei valori ha raccolto 2 milioni di firme per rafforzare la legittima difesa. Anzi: nonostante i dati, le rilevazioni, le statistiche. In aprile il Servizio analisi criminale della polizia ha comunicato che nel 2016 i furti in casa sono diminuiti rispetto al 2015. In precedenza il Viminale aveva già attestato, nello stesso arco di tempo, un calo delle rapine sia fra le mura domestiche (meno 23%) che nelle pubbliche vie (meno 10%). Succede a Roma, succede anche a Milano, dove però il mese scorso s’è levato l’allarme del questore: troppe richieste di porto d’armi, benché decrescano i reati. E allora ti sale alle labbra una domanda: perché? Per due ragioni, a occhio e croce. Una generale, l’altra particolare, nel senso che s’iscrive fra le peculiarità italiane. La prima causa ha a che fare con la comunicazione, mai così potente, immediata, pervasiva. Sicché ti rimbomba dentro casa l’attentato di Parigi o l’omicidio commesso in una remota cittadina di provincia, e ti sembra d’essere lì in mezzo, in prima fila, anzi in trincea. Dunque hai paura, e la paura ti fa sentire più indifeso. Siccome i media rincorrono le pulsioni popolari, siccome la politica rincorre la rincorsa dei media, il risultato è una slavina, che s’ingrossa rotolando a valle. Però la slavina non diventerebbe una valanga, se noi italiani avessimo qualche grammo di fiducia nello Stato. È questo senso di solitudine che arma la difesa fai-da-te, è questa percezione d’impotenza che genera un moto di rabbia collettiva. La polizia non mi difende, la magistratura lascia i delinquenti a piede libero, allora dovrò cavarmela da solo, come nel Far West. Ma è un western senza eroi, senza lieto fine. È la fiera del cinismo, la sicurezza non c’entra niente di Piero Sansonetti Il Dubbio, 5 maggio 2017 Come per l’omicidio stradale: tutti sanno che è una legge assurda, ma giornali e tv la chiedono, la destra radicale ci sguazza, il centrosinistra, terrorizzato, insegue. Naturalmente non puoi sparare se quello sta scappando, o se è entrato disarmato e di soppiatto e non manifesta nessuna volontà di aggredirti, o se comunque non rappresenta una minaccia seria. Chi stabilisce se tu hai sparato per legittima difesa, e dunque non hai commesso nessun reato, o se invece hai ecceduto, e quanto hai ecceduto, e quindi se sei imputabile per eccesso di legittima difesa o addirittura per omicidio? È un compito che spetta alla magistratura, in Italia come in tutti gli altri paesi del mondo, grandi o piccoli, ricchi o poveri, recenti o antichi. Ancora non è stato inventato nessun marchingegno che permette di affidare la decisione a qualcun altro, fosse anche Matteo Salvini. Un magistrato che si trova di fronte a un morto ammazzato non può fare altro - qualunque sia la legge - che aprire una inchiesta. In Italia, negli ultimi 11 anni, è successo 123 volte e la magistratura per 111 volte ha riconosciuto la legittima difesa. La sensazione è che questa legge, varata dal governo Berlusconi II e preparata dal ministro Castelli, della Lega Nord, abbia funzionato molto bene. E allora perché cambiarla? E perché il capo della Lega Nord è così furioso con una legge scritta da un suo ministro? E perché il centrosinistra, che all’epoca giudicò quella legge troppo permissiva, ora decide di cambiarla per renderla ancora più permissiva? E perché i partiti che l’avevano scritta, e che ora chiedono che diventi più permissiva, non sono contenti se il Pd la fa diventare più permissiva? La risposta a questa catena di paradossi è una sola e si riassume in una parolina, acida, che sta diventando il motore di gran parte della politica italiana: "cinismo". L’intero parlamento sa che la riforma della legge sulla legittima difesa non serve e non ha niente a che fare con la sicurezza o con le politiche della sicurezza. L’intero parlamento sa che nessuna legge può modificare il fatto che un omicidio è comunque un omicidio e cioè un avvenimento molto grave e che in nessun caso può essere archiviato con un’alzata di spalle. L’intero Parlamento sa che cambiare la legge sulla legittima difesa non aumenterà la sicurezza dei cittadini né farà diminuire i furti e le rapine. E però la Lega e la destra radicale urlano che la riforma di quella legge è urgente e che i ladri vanno stesi, e i giornali e le Tv applaudono, e il centrosinistra si impaurisce e decide di inseguire: il risultato è una bolgia inutile in Parlamento, con Salvini che strepita come un ossesso dalle tribune del pubblico, con La Russa che, in piedi, sventola cartelli indignati, e con un testo di legge francamente paradossale e quasi umoristico, che stabilisce che si può sparare ma solo di notte e solo se il furto provoca un forte turbamento psichico. Questo è il risultato del dilagare di quel fenomeno culturale che prescinde persino dagli schieramenti politici e che si chiama "populismo". È un fenomeno spinge verso posizioni che sono fuori dalla realtà anche i partiti che populisti non sono, ma che del populismo, con terrore, sentono l’alito sul collo. È già successo un paio d’anni fa con l’omicidio stradale. Quando il Parlamento, all’unanimità, varò una legge folle in base alla quale se hai un incidente mentre guidi una macchina, - dovuto magari a una distrazione, a un piccolo errore, a un’imprudenza - e qualcuno muore, e a te, comunque, è attribuibile qualche responsabilità oggettiva, anche se ti fermi a soccorrerlo e fai di tutto per salvarlo, il magistrato ha l’obbligo di arrestarti e poi di condannarti a una pena spropositata che arriva fino a vent’anni e comunque non è inferiore agli otto. E perché è stata approvata questa legge? Perché i giornali e le Tv lo chiedevano. E ora i giornali e le Tv chiedono che sia data licenza di uccidere i ladri, anche se in Italia non c’è la pena di morte e non c’è neanche il diritto dei singoli ad assumere i poteri e i compiti di un tribunale. E così arriveremo a questo paradosso: che se uccidi qualcuno per sbaglio, perché guidavi male, vai in prigione e ci passi un bel pezzo della tua vita. Se invece gli spari, non finisci nemmeno sul registro degli indagati. Una legislatura morente che dà il peggio di sé di Stefano Anastasia Il Manifesto, 5 maggio 2017 Legittima difesa. Nel passaggio all’esame del Senato, non ci resta che sperare nella rapida eutanasia della legislatura. E alla fine si dovrà dar ragione a chi, all’indomani del referendum costituzionale, voleva andare a votare subito. Ma non perché non ci fosse necessità di riformare la zoppicante legislazione elettorale o di portare a compimento qualche sacrosanta riforma rimasta impigliata nelle maglie di un governo di piccola-grande coalizione. No, semplicemente perché le legislature morenti danno il peggio di sé: le forze politiche sentono il fiato sul collo delle ormai prossime elezioni e conducono una surrettizia campagna elettorale votata al primato di chi la spara più forte, incentivando i peggiori sentimenti popolari e producendo abnormità giuridiche. Così, da ultimo, sulla ennesima riforma della legittima difesa, votata dalla maggioranza sulla base delle pressioni della Lega e contestata in aula e fuori dalla stessa Lega, che ne voleva di più. Ovviamente il nostro ordinamento giuridico, come qualsiasi ordinamento giuridico che si rispetti, riconosce la legittima difesa come causa di giustificazione (e dunque di non punibilità) di un comportamento altrimenti considerato delittuoso. Perché la giustificazione del fatto delittuoso possa essere considerata legittima, l’autore deve esserci stato costretto (e dunque non deve avere avuto altre possibilità che quella) per difendere un diritto proprio o altrui, da un pericolo che si stia manifestando nel preciso momento in cui il fatto che si vuole giustificare viene compiuto e sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa che si vuole evitare. Queste norme, vigenti dal fascistissimo codice Rocco del 1930, erano già sufficienti a giustificare una difesa proporzionata all’offesa che una persona, i suoi familiari, i suoi vicini di casa o un passante fosse in pericolo di subire, tanto più che la giurisprudenza aveva da tempo riconosciuto che in circostanze del genere l’aggressore ha diritto a una tutela minore rispetto all’aggredito. Ciò nonostante, nel 2006 (governo Berlusconi, Ministro Maroni, e - anche allora - legislatura in scadenza) il Parlamento aveva già modificato il codice penale, qualificando come legittima la difesa con armi proprie o improprie in caso di violazione del domicilio o del luogo di lavoro, quando si cerchi di difendere la propria o altrui incolumità o ci sia un pericolo di aggressione. Fuori da questi già ampi casi non c’è altro che proposte miranti a giustificare gravi reati contro la persona commessi da parte di chi non stia rischiando di subirne di analoghi. Fuori da questi casi c’è solo la ricorrente tentazione di consentire forme di giustizia sommaria inaccettabili in uno stato di diritto, anche quando siano mascherate sotto fumose condizioni determinate da un "grave turbamento psichico", magari alimentato dall’oscurità (la notte buia e tempestosa). Brutta proposta, dunque, quella approvata ieri dalla Camera. E ciò nonostante attaccata da chi vorrebbe una più ampia licenza di uccidere. Nel passaggio all’esame del Senato, non ci resta che sperare nella rapida eutanasia della legislatura. Legittima difesa più facile, ma resta la discrezionalità del giudice di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2017 Cambiano (alcuni) presupposti della legittima difesa. La Camera ha approvato ieri il disegno di legge di riforma e il testo ora passa all’esame del Senato. Forti le polemiche che hanno accompagnato il voto ispirate in larga parte dall’impianto di un testo sul quale non è stata raggiunta un’intesa tra la maggioranza e una parte almeno delle opposizioni. Oggetto della discussione, alla fine, è sempre il margine di discrezionalità lasciato all’autorità giudiziaria nella valutazione della reazione. Margine che dovrebbe essere pari a zero per la Lega Nord; Matteo Salvini ci va pesante: "Questa legge - prosegue il segretario - non ha senso, la legittima difesa è sempre legittima e non serve il processo per verificarlo. Il governo copia malamente una nostra proposta, ma si tratta di un governo che è scafismo di Stato che difende i violenti e non protegge i cittadini". La vede diversamente Donatella Ferranti (Pd), magistrato e presidente della commissione Giustizia, "Nessuna licenza di sparare, nessuna giustizia "fai da te": spetterà sempre al giudice stabilire se la reazione è proporzionata all’offesa. Più semplicemente, sulla scia dell’esperienza e anche degli ordinamenti stranieri, abbiamo offerto parametri meglio definiti per valutare la condotta di chi si difende. Il testo varato dalla Camera - sottolinea Ferranti - rafforza le tutele giuridiche di chi viene aggredito in casa sollevandolo se prosciolto anche dalle spese processuali, ma sempre nel solco della Costituzione e dei principi dello Stato di diritto". Canta vittoria la componente centrista della maggioranza. Per Enrico Costa, ministro degli Affari regionali, di Alternativa Popolare "la legge è una nostra vittoria a tutela della famiglia e rappresenta la risposta giusta e al passo coi tempi di fronte a una criminalità che in questi anni ha cambiato pelle: non possiamo più consentire che un padre di famiglia sia sottoposto a lunghi anni di processo (che costituisce esso stesso una pena) per aver difeso se stesso, i propri figli e la propria abitazione da bande armate pericolosissime e senza scrupoli che si introducono in casa ben consapevoli della presenza dei proprietari e pronte a neutralizzarli". E Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia, osserva che "è stato trovato un punto di equilibrio su un tema che riguarda tutti i cittadini, nel quadro dei principi generali in materia di legittima difesa e senza abdicare al ruolo dello Stato nel garantire la sicurezza pubblica e privata". Quanto ai contenuti, il disegno di legge interviene innanzitutto per specificare che si considera legittima la difesa quando è espressione di una reazione a un’aggressione in casa, in negozio o in ufficio commessa di notte oppure all’introduzione con violenza, minaccia o inganno. Resta comunque necessario - ed è il punto di dissenso - che vi sia proporzione tra difesa e offesa e l’attualità del pericolo. Un giudizio che non può che essere rimesso all’autorità giudiziaria. Già, sulla base dell’articolo 52 del Codice penale nella versione attuale, si considera legittima la difesa anche con armi quando successiva a un’aggressione domiciliare che mette in pericolo la propria o l’altrui incolumità oppure, ma in questo caso solo quando non vi è desistenza e c’è pericolo di aggressione, se si difende il proprio patrimonio. Nella legittima difesa domiciliare è sempre esclusa la colpa di chi spara se l’errore, in situazioni di pericolo per la vita e la libertà personale o sessuale, è conseguenza di un grave turbamento psichico causato dall’aggressore. Quando è dichiarata la non punibilità per legittima difesa, tutte le spese processuali e i compensi degli avvocati saranno a carico dello Stato. Un onere che per l’erario è stimato in 295.200 euro a partire dal 2017. Licenza di uccidere i ladri (solo di notte): rissa in aula di Errico Novi Il Dubbio, 5 maggio 2017 Ci risiamo, stessa storia dell’omicidio stradale: una legge-spot nella materia più gettonata, il diritto penale. Alcuni ritocchi agli articoli 52 e 59 del codice, che definiscono i limiti della legittima difesa e le circostanze che escludono l’eccesso colposo. Era tutto già disciplinato con sufficiente chiarezza. Ma "serviva un segnale". E la cosa importante per tutti i partiti senza distinzione, era che il proprio, di segnale, fosse percepito meglio degli altri. Tutto qui. Alla fine di una due giorni ad alta intensità polemica, la Camera approva con 225 voti a favore, 166 contrari e un drappello di 11 astenuti (qualche garantista del Psi e il Centro moderato filo- Pisapia di Dellai, che proprio non riescono a far finta di nulla). Se ne dovrà occupare Palazzo Madama, adesso, dove la commissione Giustizia è già pesantemente ingolfata. Non è neppure detto dunque che se ne esca entro la fine della legislatura, nonostante la compattezza di Pd e Alternativa popolare. Restano immutate le indicazioni messe a punto mercoledì, quando Forza Italia era sembrata disponibile a dare l’ assenso e poi, anche grazie all’intervento personale di Silvio Berlusconi, ci aveva ripensato. Si presume legittima la difesa di chi reagisce "di notte" o a un’intrusione nel proprio domicilio compiuta con "violenza, minaccia o inganno", precisazioni ridondanti al preesistente articolo 52, che aveva il pregio della genericità. Visto che Pd e centristi non se la sono sentita di assecondare la spinta iperbolica del leghista Nicola Molteni, e cioè di prevedere che vi sia sempre proporzionalità tra reazione dell’aggredito e minaccia dell’aggressore, viene inserita l’ormai celebre postilla del "perturbamento psichico" (grave). Si tratta della modifica all’articolo 59 del codice penale, con cui appunto lo spavento diventa causa di giustificazione dell’errore e dunque circostanza che esclude l’eccesso colposo di legittima difesa. Un modo, in fondo neppure irragionevole a un primo sguardo, per salvare chi va oltre la famosa proporzionalità della reazione perché preso dal panico e dal dubbio che la pistola salti fuori davvero. Peccato che già oggi di tutte queste circostanze i magistrati tenessero ampiamente conto, e che dunque una previsione così specifica rischia per paradosso di costringere il giudice a disporre perizie psichiatriche sugli aggrediti anche quando è chiaro che hanno sparato perché convinti fosse inevitabile. Non sono serviti gli ammonimenti arrivati da diversi giuristi: ieri Giulia Bongiorno, avvocato ed ex presidente della commissione Giustizia, ha parlato di "riforma trappola, chiaramente incostituzionale" per via della "disparità" creata a proposito del "tempo di notte". Ma il punto, e si torna all’inizio, è che non ci poteva far sorpassare a destra, o comunque come nel caso di Pd e alfaniani apparire inerti su un fronte così caldo. Vallo a spiegare a chi ha sfilato in memoria del tabaccaio di Budrio, che più la legge diventa particolareggiata e più si corre il rischio di allungare il processo. Resta, questo sì, una misura interessante sulle spese legali: il rimborso di tutte quelle sostenute da chi è indagato per aver reagito a un’aggressione e che poi non viene condannato. Forse ci si poteva limitare a questo. Ma sul piano mediatico avrebbe pagato poco. Il relatore pd David Ermini e i centristi di Angelino Alfano ("sono soddisfatto") portano a casa un risultato assolutamente positivo dal loro punto di vista: pur senza eccessi da pistoleri, hanno marcato il territorio normalmente presidiato da Lega e Fratelli d’Italia (Meloni si è incatenata con i suoi deputati davanti Montecitorio). Non a caso chi mastica giustizia fa capire tra le righe che era quello l’obiettivo: la presidente della commissione Giustizia Donatella Ferranti dice "abbiamo evitato il far west", il ministro di Ap Enrico Costa che questa è "la riforma giusta" (cioè quel tanto che basta). Il che non trattiene Roberto Saviano dal definire fascista il Pd. Il resto sono insulti, urla e striscioni. Il non-deputato Matteo Salvini si arrampica in tribuna per gridare "vergogna" e fa pure un sit- in, i suoi srotolano uno striscione tipo ultras della curva con il solito slogan (in vernice verde): "La difesa è sempre legittima". Cartelli minori ripetono il mantra. È passata anche questa. Forse farà meno danni dell’omicidio stradale. Ma neppure di questo si può star sicuri. Legittima difesa, Renzi boccia il testo: "Si perde credibilità" di Maria Teresa Meli Corriere della Sera, 5 maggio 2017 L’ipotesi di ritocchi anche per avere il sostegno di Forza Italia. Il segretario da tempo chiedeva una legge per tutelare chi si difende in casa propria. Quando gli è arrivata l’ennesima mail di protesta per la legge sulla legittima difesa, Matteo Renzi non ci ha visto più. L’ultima lamentela era di questo tenore: "Matteo ti scrivo per dirti, da tuo sostenitore convinto, che la legge sulla legittima difesa, così come è percepita, fa scappare da ridere anche a uno come me! Sono in mezzo alle persone normali tutti i giorni e ti assicuro che una cosa del genere ci fa perdere credibilità e, di conseguenza, voti. O le cose si fanno oppure no". È stato a questo punto che il segretario del Pd ha chiamato David Ermini, l’uomo che per lui si occupa di giustizia in Parlamento. E gli ha chiesto conto di quello che era successo. Renzi, ancora prima di essere eletto alle primarie, aveva chiesto una legge che "tutelasse chi si difende in casa propria" e aveva sollecitato il partito a "fare una cosa seria". Così non è stato, a giudizio del leader, perché non ha senso, secondo lui, che si possa sparare di notte e non di giorno. A suo avviso, o si decide che non ci si può difendere mai (e l’ex premier non è di questa opinione) oppure non si possono prevedere condizioni diverse tra le ore del giorno e quelle della notte. Ermini, che di Renzi è grande amico, gli ha spiegato che l’emendamento così formulato era arrivato dalla ministra Anna Finocchiaro. E che non escludeva la possibilità di difendersi anche nelle ore diurne, ma che era formulato male e quindi poteva lasciare spazio ad ambiguità. Il segretario del Partito democratico gli ha fatto presente che l’unico risultato ottenuto con quell’emendamento era stato di far arrabbiare tutti. Perciò, con grande sorpresa anche dei suoi stessi deputati, Renzi ha deciso di prendere le distanze dalla legge sulla legittima difesa così come è stata licenziata dall’assemblea di Montecitorio. E la sua richiesta a David Ermini e agli altri esponenti del Pd è stata perentoria: questo pasticcio va risolto assolutamente al Senato, perché quella legge, come ha scritto l’ultimo suo sostenitore nella mail che gli ha inviato, "ci fa perdere credibilità". Tra l’altro, particolare di non poco conto, per cercare il compromesso tra l’anima orlandiana, che sponsorizzava una linea più soft, e quella renziana più propensa a indurire la legge, non si è calcolato il fatto che il provvedimento, così com’è, sulla carta non ha i voti per essere approvato al Senato, dove i numeri sono ben più risicati che alla Camera. E questo per Renzi, che vorrebbe farlo diventare legge dello Stato prima delle elezioni, ha un’importanza enorme. Già, per esempio, basterebbero dei ritocchi per ottenere anche il via libera di Forza Italia. L’attrazione fatale della sinistra per le leggi speciali di Paolo Delgado Il Dubbio, 5 maggio 2017 La breve storia dei "pacchetti sicurezza" dal 1999 a oggi. La ministra degli Interni si presentò a palazzo Chigi, di fronte al Consiglio dei ministri, armata di dati e tabelle. Con la vocetta stridula che la aveva resa universalmente nota già dai tempi della vecchia sinistra Dc dimostrò che nell’Italia del 1999 la criminalità era in calo e il Paese era più sicuro di quanto non fosse stato nel passato ma anche di quanto non fossero gli stimati vicini europei. Diminuivano gli omicidi, calavano le rapine, a mano armata e non. Il presidente del consiglio Massimo D’Alema la gelò: "Devi capire che uno scippo a Milano crea più allarme di tre omicidi in Sicilia". Il guardasigilli Olivero Diliberto, comunista cossuttiano, non ci trovò nulla da obiettare. Nasce così il "pacchetto sicurezza" che sarebbe stato approvato dal Parlamento un anno più tardi, e l’evento è a modo suo storico. Di leggi speciali ce n’erano state in precedenza. Ma si trattava di leggi che, per quanto discutibili, rispondevano almeno a emergenze reali. Così era stato negli anni 70 per la legge Reale e poi per le leggi antiterrorismo. Così era stato per le leggi anti- mafia del 1992, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, alle quali tuttavia il Pds di Achille Occhetto si era nonostante tutto opposto. Nel 1999 no. Non c’era nessuna emergenza reale, nessuna impennata della criminalità se non sulle pagine dei giornali. Nessuno, leggendo quelle cronache quotidiane intrise di pura e di allarmismo, direbbe oggi che parlavano di un’Italia più e non meno sicura di prima. A la guerre comme à la guerre. Se il panico era mediatico, fomentato ad arte e poi cavalcato dalla destra di Berlusconi, Fini e Bossi, il centrosinistra di Massimo D’Alema non si sarebbe tirato indietro. Avrebbe risposto con misure dello stesso stampo: fatte apposta per campeggiare sulle prime pagine, competitive sul piano della passione forcaiola con la destra. Dunque stretta sulle misure alternative per i detenuti, anche se i dati dimostravano che la percentuale di recidiva tra i detenuti in misure alternative era minima e la situazione nelle carceri, dove prima della Gozzini fioccavano omicidi ed esecuzioni, si era trasformata. Ma "la gente" reclamava certezza della pena e qualcosa bisognava pur dare in pasto agli imminenti elettori. Poi, anzi soprattutto, irrigidimenti draconiani sui crimini di serie C: gli scippi, i piccoli furti. Erano quei delittucoli a destare l’allarme generale e infatti la parola di moda sui media a sirene spiegate era "microcriminalità". I partiti "di sinistra" che appoggiavano il governo e dunque anche il pacchetto spiegavano che tanto quei provvedimenti a effetto sarebbero rimasti per lo più lettera morta. In parte avevano anche ragione, ma non vedevano che il danno sarebbe stato comunque enorme. Per la prima volta in maniera tanto esplicita e senza più alcuna riserva il primo partito di centrosinistra sdoganava e faceva propria la temperie culturale di destra, accettava di giocare la partita del consenso tutta e solo sul tavolo di quella stessa destra. L’occasione per la nuova levata di scudi "law and order" del medesimo partito, ma sul punto di cambiare nome per ribattezzarsi Pd, arrivò con una tragedia vera. Nell’ottobre 2007 una donna, Giovanna Reggiani, appena scesa dal treno alla stazione di Tor di Quinto fu aggredita e uccisa da un giovane rumeno. Il sindaco di Roma Walter Veltroni, che già da un anno si muoveva pensando molto più alle sorti del partito di cui era segretario che non a quelle della città eterna, convocò seduta stante una conferenza stampa nei giardinetti limitrofi al luogo dell’aggressione e ordinò al governo di varare ad horas leggi speciali. L’allarme rispetto ai tempi di D’Alema premier era cambiato. L’incubo non era più la microcriminalità: erano gli immigrati e in particolar modo i rumeni (preceduti in realtà dagli "albanesi" che avevano incarnato per primi lo spauracchio). Veltroni ci andò giù pesante, non voleva dover invidiare nulla neppure ai più truculenti fra i leghisti: "Prima dell’ingresso della Romania nella Ue Roma era la città più sicura d’Europa. Non si possono aprire i boccaporti e mandare migliaia di persone da un Paese europeo all’altro". Prodi obbedì. La sera stessa varò una legge che facilitava le espulsioni dei rumeni, con l’immancabile codazzo di irrigidimenti e nuove norme. La destra naturalmente non s’accontentò affatto. Invece di votare come Prodi e Veltroni immaginavano a favore urlarono che non era abbastanza. Governo e Pd persero quel po’ di faccia che gli restava sul fronte sinistro senza guadagnare niente tra i patiti del patibolo. Una storia che si sta ripetendo. Nel gennaio 2006, poco prima di lasciare per appena una ventina di mesi il governo, Berlusconi e il ministro Castelli vararono la loro brava legge "rassicurante". Permetteva di sparare ai ladri in casa e a bottega, non solo in caso di pericolo per la propria incolumità ma anche per i propri beni mobili. Ma si sa che, Minniti dixit, "la sicurezza è pane per i denti della sinistra". Quei principianti dei fascio-forzo-leghisti avevano lasciato una falla. Tra offesa e difesa doveva esserci misura, in caso di "desistenza", o fuga che dir si voglia, la situazione sarebbe cambiata. Incredibile ma vero: sparare alle spalle del malvivente in fuga restava illegittimo! Fortuna che adesso è arrivata la sinistra. La legge è stata appena riveduta, corretta e irrigidita, anche a fronte del solito calo della criminalità e pur essendo l’Italia paese tra i più sicuri d’Europa. Ma alla destra è ovvio che non basti, che accusi la legge di essere smidollata. Dal momento che a legittimarne le smanie forcaiole ci sono quelli che dovrebbero fare il contrario, avrà gioco facile. Come al solito. Il governo del Codice penale di Domenico Cacopardo Italia Oggi, 5 maggio 2017 La corruzione si batte con procedure che impediscano la discrezionalità amministrativa. L’ex ministro Paola Severino ha aggravato la situazione. Dobbiamo ringraziare l’esimia avvocata Paola Severino, ministro delle giustizia nel governo di Mario Monti, se il governo del codice penale ha compiuto enormi passi avanti negli ultimi anni. Il primo, in verità, era stato compiuto dal procuratore della repubblica di Milano, Francesco Saverio Borrelli, che, contornato dai suoi fidi, il 7 marzo 1993 (presidente del consiglio Giuliano Amato, ministro della giustizia Giovanni Conso) emise un comunicato-stampa contro il decreto-legge governativo che depenalizzava il reato di finanziamento illecito dei partiti, nel quale si leggeva: "Governo e Parlamento sono sovrani, ma ci auguriamo che ciascuno si assuma davanti al popolo le responsabilità politiche e morali delle proprie scelte". Oscar Luigi Scalfaro, che "doveva" qualcosa o molto all’ordine giudiziario che si stava occupando dei fondi neri a disposizione del ministro dell’interno, capitolò e si rifiutò di firmare il provvedimento. La storia d’Italia (se il decreto-legge avesse avuto corso e il piccolo golpe mediatico non avesse avuto successo) sarebbe stata diversa e il sistema dei partiti sarebbe stato costretto a regolarizzare le proprie fonti di finanziamento, garantendo alla Repubblica la continuità istituzionale e politica. Poco più di un anno dopo, il governo Berlusconi I, in luglio, adottò un decreto-legge che aboliva la carcerazione preventiva per i reati contro la pubblica amministrazione. Questa volta il pronunciamento vide il pool milanese (assente Borrelli) in diretta televisiva, protestare, chiedendo un virtuale trasferimento ad altro incarico. In entrambi i casi, le decisioni legittime del governo avrebbero inciso il perimetro dei poteri attribuiti alle procure, impedendo alcune distorsioni in uso a quei tempi e anche dopo, come quella di formulare l’imputazione di finanziamento illecito (con corollario del "non poteva non sapere" diretto a tutti i segretari dei partiti meno che a quelli del Movimento Sociale e del Partito Comunista) per ottenere la confessione di un reato corruttivo, spesso caduto nel successivo dibattimento. Il decreto-legge Berlusconi era, a dire il vero, rozzo e incideva direttamente su reati ripugnanti come la corruzione e la concussione. Questo antefatto, serve da un lato a ricordare come la ministra Severino, introducendo conseguenze politico-amministrative per condanne in primo grado di esponenti di organi elettivi, abbia ferito i principi costituzionali della presunzione di innocenza (fino alla conclusione del processo) e dell’autodichiarazione del Parlamento che deve giudicare della legittimità dell’elezione dei propri membri e della loro permanenza in carica, valutando anche un eventuale (e piuttosto ricorrente) fumus persecutionis. E come, la stessa (che è avvocato penalista-cassazionista con studio a Roma e profondi legami con il mondo giudiziario e imprenditoriale pubblico e privato) con l’invenzione di una Autorità anticorruzione concepita come un superpotere esercitabile a 360° sull’orbe amministrativo nazionale, abbia messo a dimora un seme di gramigna che sta distruggendo e distruggerà il campo della buona amministrazione. Giacché, l’esistenza di un superpotere delegittima e depotenzia l’attività degli ufficiali di governo incaricati delle varie funzioni dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni, salvo il caso in cui perseguano interessi illeciti e siano, perciò, disposti a correre l’alea che le innumerevoli tagliole messe sulla via di ogni decisione presentano per loro. Naturalmente il becero conformismo che vige nell’informazione nazionale, il metus (parola latina che significa un forte timore) che incute l’Autorità e il suo capo, il magistrato penale Raffaele Cantone, e la nota pigrizia degli operatori del settore dei media hanno impedito e impediscono una lettura critica di tutto ciò che si muove su questo scivoloso terreno. Che è quello, reale e inconfutabile, di una concreta lotta alla corruzione che, in misura medio-europea (secondo l’osservatorio comunitario), affligge l’Italia. Già, c’è poi la categoria dei tagliagole di professione, quelli cui basta un batter di ciglia di un sostituto procuratore di estrema periferia per imbastire un sommario processo mediatico. Ma questo appartiene alla barbarie del nostro sistema e rimarrà vivo e forte finché il popolo - invocato a suo tempo dal poker di magistrati Colombo, Davigo, Di Pietro e Greco (ora a capo dell’ufficio) - non si ribellerà e pretenderà una gestione più giusta di giustizia e informazione. Il problema è semplice: l’attività di prevenzione dei processi corruttivi è amministrativa e impone un intervento sulle procedure volto a impedire la permanenza della discrezionalità (amministrativa). Il ritenere che con norme penali si impediscano i reati contro la pubblica Amministrazione è un’illusione. Riciclaggio, niente segnalazioni tardive di Marco Mobili e Giovanni Parente Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2017 Stop alle segnalazioni tardive e, per semplificare ulteriormente gli adempimenti di intermediari e professionisti, la Camera chiede al Governo di eliminare l’obbligo di Sos prima del compimento dell’operazione a rischio riciclaggio. Allo stesso tempo, però, viene esteso l’obbligo di segnalazione di operazioni sospette ai reati presupposto associati. Non solo: per ampliare la circolazione delle informazioni i deputati delle commissioni Giustizia e Finanze di Montecitorio chiedono che l’Uif comunichi all’autorità giudiziaria competente informazioni e risultati delle analisi svolte nei casi in cui si possano desumere elementi diversi dal riciclaggio, dai reati presupposti associati e dal finanziamento del terrorismo. Sono gli ultimi ritocchi al parere sullo schema di Dlgs di recepimento della quarta direttiva antiriciclaggio che ha ottenuto il via libera con il voto favorevole anche di Sel e quello contrario del M5S. Un parere articolato che alla fine conta 26 condizioni più stringenti per il Governo e oltre 70 osservazioni se si contano anche quelle relative a correzioni formali. All’appello ora manca solo il parere del Senato il cui voto slitta alla prossima settimana per dipanare il nodo dei poteri attribuiti alle diverse strutture delegate a vigilare e monitorare il fenomeno del riciclaggio (Uif, Guardia di Finanza, Direzione antimafia e antiterrorismo). Più in generale, la linea seguita dai deputati è stata quella di ridurre oneri e adempimenti e di rafforzare il sistema sanzionatori sui casi più gravi come quelli di frode (si veda quanto riportato mercoledì su queste colonne). Il parere finale della Camera conferma la necessità di integrare il provvedimento prevedendo la punizione dell’illecito penale nei casi in cui siano violati gli obblighi di adeguata verifica e di conservazione dei documenti perpetrata attraverso attività fraudolente. Non solo perché la mano pesante colpirà anche coloro che utilizzano informazioni false o non veritiere relative al cliente. Anche sul versante delle sanzioni amministrative si punta a introdurre un meccanismo di mitigazione limitando l’applicazione delle penalità più pesanti ai casi di "violazioni gravi, ripetute o sistematiche ovvero plurime". In sostanza per i soggetti diversi da intermediari bancari e finanziari che omettono di effettuare la segnalazione di operazione sospetta la richiesta dei parlamentari è di applicare la sanzione amministrativa pecuniaria da 3mila a 1 milione di euro (con un limite massimo però del 40% del valore dell’operazione sospetta non segnalata) ma solo nelle circostanze più gravi e di recidiva. Meno vincoli vengono chiesti sulla moneta elettronica. Liberando così dagli obblighi antiriciclaggio soggetti particolari come i tabaccai per le ricariche delle carte di credito prepagate. E, tra le novità dell’ultima ora, i deputati chiedono che venga messo nero su bianco il principio della successione delle leggi nel tempo in base al quale nessuno può essere assoggettato a sanzioni se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione e, nel caso in cui un fatto non costituisca secondo una legge posteriore una violazione punibile, nessuno può essere punito per quel fatto, salvo che la sanzione sia già stata irrogata con provvedimento definitivo. Tra le osservazioni che hanno un peso specifico meno vincolante per il Governo, invece, va sottolineata la necessità di prevedere la gratuità o in alternativa costi standard o importi forfettari per la consultazione del Registro imprese nell’ottica dell’individuazione della titolarità effettiva di persone giuridiche e trust. Sul fronte dei professionisti, si segnala la richiesta di far adeguare il proprio comportamento alle linee guida proposte dai rispettivi organismi di autoregolamentazione entro 12 mesi dall’entrata in vigore delle nuove regole e a seguito dell’approvazione da parte del Comitato di sicurezza finanziaria. Giudici di pace in sciopero per un mese di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2017 Giudici di pace in sciopero dal 15 maggio all’11 giugno. L’ennesima protesta delle toghe onorarie avrà l’effetto di sospendere tutte le attività giudiziarie ed amministrative degli uffici, compresa la redazione e il deposito di sentenze, decreti ingiuntivi e atti di competenza del giudice. Motivo dell’astensione la mancata stabilizzazione che riguarda circa 1.400 giudici di pace, 2.000 giudici onorari di tribunale e circa 1.800 viceprocuratori onorari. Tutti interessati alle proroghe annuali dal 2002 degli incarichi, in deroga allo statuto della magistratura ordinaria. Sulle vie per la stabilizzazione si è espresso il Consiglio di Stato con un parere sollecitato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando escludendo che lo strumento per la messa a regime possano essere i provvedimenti attuativi della legge delega 57/2016 sulla riforma organica della magistratura onoraria. Per Palazzo Spada si potrebbe ipotizzare, per parte dei giudici onorari in servizio la semplice "conservazione dell’incarico in corso" sino al conseguimento della età pensionabile. Una "soluzione" già adottata (legge 217/1974) per i vice pretori onorari incaricati. Sulla stabilizzazione Orlando aveva chiesto anche il parere dell’Associazione nazionale magistrati. L’Anm - pur riconoscendo il significativo contributo alla giurisdizione, che da 15 anni viene fornito dai magistrati onorari senza un’adeguata tutela previdenziale e assistenziale - ha escluso, per ragioni di compatibilità con la Costituzione, una possibilità di stabilizzazione senza concorso. L’Anm nel suo parere, del 22 aprile, aveva invece auspicato un’effettiva realizzazione dell’ufficio per il processo, nell’ambito del quale prevedere - previo concorso pubblico, aperto a tutti i cittadini in possesso dei requisiti e con possibili punteggi aggiuntivi per i magistrati onorari attualmente in servizio - una figura ausiliaria senza funzioni giudiziarie e di supporto alla giurisdizione. Secondo la nota delle organizzazioni dei giudici di pace sarebbe imminente la presentazione, da parte di Andrea Orlando, al Consiglio dei ministri "di un provvedimento legislativo che accentuerà tutte le violazioni contestate formalmente dalla Commissione europea e dal Consiglio d’Europa all’Italia e, di fatto, bloccherà completamente le attività degli uffici giudiziari per tutti gli anni a venire, con un impiego dei magistrati onorari e dei giudici di pace, oggi utilizzati a tempo pieno, addirittura ipotizzato dallo stesso ministro Orlando, a parità delle dotazioni organiche, in un solo giorno a settimana". Appello, ammissibili nuove prove se eliminano incertezze di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2017 Corte di cassazione - Sezioni unite - Sentenza 4 maggio 2017 n. 10790. La "prova nuova indispensabile", ai fini del superamento dello sbarramento in appello, "è quella di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto non dimostrato o non sufficientemente dimostrato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado". Lo hanno stabilito le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 4 maggio 2017 n. 10790, così chiarendo un passaggio controverso - salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa - contenuto nel testo dell’articolo 345, comma 3, del Cpc, prima della novella (Dl n. 83 del 2012). Una questione, spiega la Corte, la cui importanza però "si proietta anche in futuro" visto che il medesimo concetto di indispensabilità della prova nuova in appello resta immutato nell’articolo 437, comma 2, e nell’articolo 702-quater del Cpc (oltre che nell’articolo 1, comma 59, legge n. 92/2012 per impugnativa licenziamenti). La vicenda partiva dal rigetto, in un procedimento per diffamazione promosso contro l’autore di un libro, da parte della Corte di appello di Catanzaro della richiesta di poter produrre il provvedimento di archiviazione emesso dal Gip nei confronti del ricorrente da cui si sarebbe potuto evincere la estraneità ai fatti contrariamente a quanto fatto intendere dal volume. Secondo i giudici di merito infatti "l’indispensabilità del documento non può superare le preclusioni istruttorie maturate in primo grado". Tuttavia, secondo il prevalente orientamento di legittimità, il giudizio di indispensabilità "implica una valutazione sull’idoneità del mezzo istruttorio a dissipare un perdurante stato di incertezza sui fatti controversi" (Cass n. 14133/2006). Per l’indirizzo minoritario, invece, "sono qualificabili come indispensabili solo le nuove prove la cui necessità emerga dalla stessa sentenza impugnata, prove delle quali non era apprezzabile neppure una mera utilità nel giudizio di primo grado". Per le Sezioni unite è da preferire il primo indirizzo considerato che la tesi della cosiddette "indispensabilità ristretta" in realtà "finisce con il refluire nella seconda ipotesi di nova consentiti in appello", vale a dire in quella delle nuove prove che la parte dimostri di non aver potuto chiedere in primo grado per causa ad essa non imputabile. Infatti, prosegue, "se indispensabili sono solo le nuove prove la cui necessità emerga dalla stessa sentenza impugnata, prove delle quali non era apprezzabile neppure una mera utilità durante il giudizio di primo grado, va da sé che rispetto ad esse la parte si è trovata, per causa che non le è imputabile, nell’impossibilità di proporle". Del resto, prosegue la decisione, il regime delle preclusioni istruttorie "non è un carattere tanto coessenziale al sistema da non ammettere alternative, essendo soltanto una tecnica elaborata per assicurare rispetto del contradditorio, parità delle parti nel processo e sua ragionevole durata, tecnica che ben può essere contemperata con il principio della ricerca della verità materiale". Né una simile lettura può ritenersi in conflitto con la "ragionevole durata del processo", vuoi perché se no la medesima obiezione si dovrebbe muovere a tutti i casi di assunzione di ulteriore prove in appello, vuoi perché il vaglio del giudice costituisce una sufficiente garanzia contro iniziative dilatorie. Equo indennizzo più basso rispetto alla Cedu se la posta in gioco non è rilevante di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2017 Corte di cassazione - Ordinanza 4 maggio 2017 n. 10887. L’equo indennizzo spettante al cittadino per le eccessive lungaggini della giustizia può scostarsi dalle somme previste dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il giudice in sostanza può ponderare la somma anche in base all’oggetto della controversia. Lo stabilisce la Cassazione con la sentenza n. 10887/2017. La vicenda - La Corte si è trovata alle prese con una domanda proposta ex lege 89/2001 di equa riparazione per violazione del principio di ragionevole durata dei procedimenti giudiziari. La Corte d’Appello di Napoli aveva determinato in 600 euro l’ammontare annuo dell’equo indennizzo spettante al ricorrente, argomentando che la somma era conforme alle usuali liquidazioni della medesima Corte nonché della Corte europea. Sul punto il ricorrente in Cassazione ha eccepito come la stessa Cedu prevedesse in tema di equo indennizzo una forbice tra i 1000 e i 1500 euro l’anno, mentre gli importi determinati dai giudici di merito della stessa Corte d’Appello si attestavano sui 1000 euro. In effetti sussisteva lo scostamento. Ma la Cassazione si è trovata in linea con quanto disposto dai giudici di seconde cure secondo cui è possibile scostarsi dagli ordinari criteri di determinazione dell’indennizzo in quanto, tenuto conto dell’oggetto della controversia, concernente la rimozione di un cancello, hanno implicitamente ravvisato la non particolare rilevanza della posta in gioco. Niente revocazione della precedente sentenza - I giudici di legittimità, peraltro, non hanno ravvisato la legittimità della richiesta del ricorrente sull’apparente difformità della motivazione del decreto dell’appello di Napoli e della precedente sentenza di Cassazione (n. 10261/2014). Nell’atto di merito si riteneva congruo l’importo di 600 euro in rapporto alle somme liquidate dalla stessa Corte di merito e dalla Corte europea. Nella sentenza di Cassazione si leggeva, invece, che la cifra fosse congrua in quanto "…sulla base della sentenza del provvedimento impugnato si desumeva che la Corte di appello avesse ritenuto di potersi scostare dagli ordinari criteri di determinazione dell’indennizzo". Ora tra le due motivazioni spiegano i Supremi giudici non c’è un errore tale da dover revocare la precedente sentenza e cassare al tempo stesso il decreto partenopeo. La Corte ha concluso precisando che il ricorso per revocazione deve considerarsi inammissibile in quanto l’errore denunciato può essere qualificato come errore di decisione ma non come errore di percezione. Campania: patologie psichiatriche per il 40% dei detenuti di Ciro Crescentini ildesk.it, 5 maggio 2017 Fra i disturbi psichici prevalgono quelli da dipendenza da sostanze, i disturbi nevrotici e di adattamento. A rischio il diritto alla tutela della salute per 7.900 detenuti campani. Le pessime condizioni delle carceri ubicate nella nostra regione sono le cause principali di malattie gravissime. Il carcere si è trasformato in un luogo dei diritti negati. Le associazioni come Antigone, "Andrea Tamburi", il Garante dei diritti dei detenuti, il Partito e Radio radicale hanno più volte sollecitato interventi per individuare misure alternative per i carcerati che vivono uno stato grave di salute o colpiti da malattie difficili, quali il cancro o patologie cardiache, che necessitano cure particolari che le strutture penitenziarie non sono in grado di fornire. In alcuni casi, sarebbe opportuno considerare vari tipi di pene alternative come la detenzione domiciliare. Nella nostra regione, oltre tremila detenuti soffrono di malattie mentali, convivono con una patologia psichiatrica. Psicosi, depressione, disturbi bipolari e di ansia severi sono la norma nel 40% dei casi a cui vanno aggiunti poi i disturbi di personalità borderline e antisociale. Fra i disturbi psichici prevalgono i disturbi da dipendenza da sostanze, i disturbi nevrotici e di adattamento. "Nella stragrande maggioranza sono persone già ammalate, altre si ammalano durante la detenzione per colpa del sovraffollamento" - sostengono gli esponenti delle associazioni. E non finisce qui. Secondo un studio prodotto dal ministero della salute, la prevalenza del fumo di tabacco tra i detenuti è superiore al 70% e il numero medio di sigarette fumate al giorno è di circa 18. Circa 5 mila carcerati campani è risultata affetto da almeno una condizione patologica, anche non grave. Dalla ricerca emerge, in particolare, l’importanza che ricoprono, nella popolazione detenuta, i disturbi psichici, le malattie infettive e quelle dell’apparato digerente. I dati mostrano che 3500 detenuti hanno assunto almeno un farmaco. Circa mille detenuti hanno contratto malattie dell’apparato gastrointestinale, gastriti, ulcere gastro-duodenali, patologie dei denti e del cavo orale. Malattie diffuse all’interno delle strutture penitenziarie a causa della scarsa attenzione rivolta all’igiene orale, all’abitudine al fumo, all’alcool, allo stress, all’utilizzo eccessivo di farmaci anti-infiammatori. 700 detenuti campani colpiti da malattie infettive e parassitarie. L’epatite C costituisce la malattia infettiva più diffusa all’interno delle strutture penitenziarie, seguita da epatite B e Aids. L’epatite C è legata alla tossicodipendenza. Meno frequenti risultano essere, invece, patologie come tubercolosi e sifilide, che hanno coinvolto solo una ventina di carcerati. Pochissime iniziative sono state assunte dalle istituzioni campani per garantire i diritti alla salute dei detenuti. Lo stato tecnicamente illegale della realtà carceraria italiana e campana è noto: detenuti ben oltre il numero massimo ospitabile; agenti di custodia sottorganico; medici, psicologi e operatori sanitari in numero irrisorio; l’emergenza è divenuta tragedia quotidiana. La rieducazione dei condannati, per espressa previsione costituzionale, necessita di adeguata tutela del diritto alla salute e dignitose condizioni di detenzione che possono realizzarsi solo se si eliminerà il sovraffollamento carcerario. Eppure, l´assistenza sanitaria alla popolazione detenuta è di competenza del Servizio sanitario nazionale e dei Servizi sanitari regionali. Il trasferimento delle competenze sanitarie dal Ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale e ai Servizi sanitari regionali è stato definito con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell´1 aprile 2008. Con esso, assieme alle funzioni, sono state trasferite al Fondo sanitario nazionale e ai Fondi sanitari regionali le risorse, le attrezzature, il personale, gli arredi e i beni strumentali afferenti alle attività sanitarie nelle carceri. Il decreto fino ad oggi ancora non è attuato, a discapito dei detenuti. Sicilia: percorsi di cura dalla pedofilia, progetto nelle carceri di Cavadonna e Augusta siracusapost.it, 5 maggio 2017 Il resoconto di un progetto, unico in Sicilia, portato avanti nelle carceri di Cavadonna e Augusta. Un progetto-pilota portato avanti dal 2009 nelle carceri di Cavadonna a Siracusa e in quello di Augusta sui percorsi di cura dei pedofili sarà illustrato domani al centro convegni del Santuario della Madonna delle Lacrime alle 18.30, nell’ambito di un incontro organizzato dall’Istituto Superiore di Scienze Religiose San Metodio. Un disturbo clinico terribile sul quale alcune operatrici carcerarie hanno lavorato e stanno lavorando seguendo da anni alcuni detenuti. Sono Teresa Tringali, psicologa nel carcere di Cavadonna, Felicia Cataldi responsabile del Settore educativo del carcere siracusano e Franca Nicolosi, funzionario giuridico pedagogico nel carcere di Augusta. "Stiamo portando avanti da anni - spiega la psicologa - un percorso di riabilitazione che, vede inizialmente i soggetti coinvolti negare il reato per poi acquisire man mano consapevolezza. Proviamo a entrare nei loro meccanismi mentali per farli rendere conto dei loro comportamenti di devianza". Dal 2009 a oggi sono stati un centinaio i detenuti accusati di pedofilia seguiti in questo percorso dagli educatori e dalla psicologa, ma c’è ancora tanto da fare: tra le iniziative del gruppo di lavoro c’è quello di istituire una linea telefonica dedicata, aperta a coloro che pensano di aver bisogno d’aiuto per non soccombere a questo che è a tutti gli effetti un disturbo clinico. Mancano le risorse e un numero adeguato di educatori formati a seguire questo tipo di percorso, ma l’esperienza maturata in queste due realtà è senza alcun dubbio importante perché consente di stilare un protocollo di intervento. A testimonianza del lavoro svolto durante l’incontro di domani saranno proiettate delle interviste che sono state realizzate nei giorni scorsi in carcere e nelle quali le persone raccontano la loro vita, prima della detenzione e durante, ed il percorso di riabilitazione intrapreso. Nuoro: il carcere di Lanusei verso la chiusura di Giusy Ferreli La Nuova Sardegna, 5 maggio 2017 Una nota del ministero che parla di "probabile dismissione" mette in allarme gli avvocati e gli amministratori comunali. L’altolà è arrivato con una comunicazione del Ministero della Giustizia e suona come un "de profundis" per il carcere di San Daniele. "Non utilizzate fondi per la messa a norma della struttura perché oggetto di probabile dismissione", è il contenuto della lettera che ha fatto allarmare amministratori e avvocati. La notizia è rimbalzata ieri pomeriggio e ha turbato il clima di fiducia che si respirava in Ogliastra sulle sorti del carcere di Lanusei. Ora nella cittadina si è in attesa di una conferma ufficiale che vada nel segno opposto e che rafforzi, invece, le rassicurazioni piovute lo scorso marzo a Roma. Quanto detto nella capitale dal vice capo di gabinetto del ministro Andrea Orlando è, infatti, in contrasto con quanto scritto nella comunicazione ministeriale. E l’incongruenza, certo non induce all’ottimismo. "Non c’è nessuna volontà di creare allarmismi ma sul carcere non siamo neanche disposti a sottostare al gioco delle smentite continue", tuona il sindaco Davide Ferreli che era volato nella capitale per scongiurare il rischio chiusura della Casa circondariale. Il primo cittadino ricorda che, nemmeno due mesi fa, nel corso dell’incontro al Ministero, ricevette numerose rassicurazioni. "Ci dissero chiaramente - racconta ancora Ferreli - che il nostro carcere non era interessato da nessun progetto di riorganizzazione. Ora non possiamo più accettare tentennamenti: che la parte politica di competenza si pronunci definitivamente accollandosi una posizione in merito al futuro del San Daniele". Presidio indispensabile. Il braccio di ferro, se non dovessero arrivare chiarimenti concreti, è solo all’inizio. "Per quanto ci riguarda - incalza l’amministratore comunale - difenderemo senza risparmiarci il presidio circondariale così come abbiamo già fatto in passato. Questo perché riteniamo che sia di fondamentale importanza per l’amministrazione della giustizia, non solo per Lanusei ma anche per l’intero territorio ogliastrino". Va giù duro anche il presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati ogliastrini, Gianni Carrus, che, assieme alla collega del Coa Mara Cuboni, aveva accompagnato il primo cittadino nella trasferta romana. "Se questa notizia dovesse essere confermata - rincara la dose l’avvocato - sarebbe l’ennesimo impegno mancato dopo le rassicurazioni provenienti dalla politica nazionale e locale, Non possiamo accettarlo, anche le toghe saranno in prima linea per evitare la chiusura". Il San Daniele è una vecchia struttura che ospita una quarantina di detenuti. Si tratta per lo più di "sex offender", persone condannate per reati di natura sessuale. Da convento francescano risalente al 1700 è stato trasformato in carcere giudiziario nel 1874 ed ora rischia, nuovamente di cambiare destinazione. Scenari futuri a parte, ciò che rimane sul tappeto è la battaglia quotidiana che il territorio ogliastrino sta mettendo in atto per il mantenimento dei servizi essenziali, da quelli giudiziari a quelli sanitari. Una battaglia che impegna puntualmente le istituzioni, le quali si trovano a dover affrontare una serie di disegni di riorganizzazione nei diversi campi. Il fronte della protesta. Appena lo scorso anno si lottò contro il disegno di una nuova geografia giudiziaria che prevedeva la chiusura del Tribunale di Lanusei. Alla stessa maniera, qualche mese prima ci fu una mobilitazione popolare contro il paventato declassamento del Nostra signora della Mercede, unico presidio ospedaliero dell’Ogliastra, ipotizzato dalla Regione nel suo Piano di riorganizzazione della rete ospedaliera. Entrambi i pericoli sembravano scongiurati fino a quando, qualche tempo fa, si fece strada un’altra voce: quella della chiusura della struttura carceraria. Voce messa tacere a Roma e che ora improvvisamente riprende corpo. Milano: Scola ai detenuti "lavorare insieme perché mai vada perduta la dignità" di Annamaria Braccini chiesadimilano.it, 5 maggio 2017 L’Arcivescovo ha dialogato con i detenuti del carcere di Bollate. Tanti gli argomenti toccati, tra cui quelli del perdono, della giustizia, della misericordia e, naturalmente, della casa e del lavoro per un vero reinserimento nella società. Un dialogo "in famiglia", a cuore aperto e a 360°. È quello che il cardinale Scola ha voluto e realizzato nel Casa di Reclusione di Bollate con alcuni detenuti. Nel teatro della struttura, ad ascoltare l’Arcivescovo, ci sono circa 150 reclusi, anche molte donne, in rappresentanza dei 1.200 ospiti del carcere, 110 al reparto femminile, tra cui tre mamme con bimbi piccoli. Il canto "Madonna Nera" apre lo scambio tra domande - anche molto stringenti, elaborate dai reclusi del I Reparto - e le risposte del Vescovo. Accanto a lui, accompagnato dal vicario episcopale per l’Azione Sociale, monsignor Luca Bressan, i due cappellani, don Antonio Sfondrini e don Fabio Fossati e il direttore di "Bollate", Massimo Parisi. Iniziano le donne: Surrei domenicana, mamma, chiede dell’oratorio e se dopo alcuni fatti che hanno coinvolto preti pedofili siano un luogo sicuro; Rosio ventiseienne peruviana, si interroga sul "perché non ci sposa più né con rito religioso né civile". "I nostri oratori, oltre 1000 in Diocesi, sono un luogo educativo fondamentale che viene ammirato in tutto il mondo, basti pensare ai 400.000 ragazzi che partecipano all’oratorio estivo ed è, poi, molto interessante che tanti giovani che li frequentano provengano da altre religioni, specie la musulmana. Tutto questo è apprezzato dai genitori che sanno di poter affidare a sacerdoti e laici i loro figlioli in un ambiente sano e rispettoso", nota subito l’Arcivescovo che, tuttavia, in riferimento appunto a fatti che hanno coinvolto alcuni sacerdoti, aggiunge: "Non nego che vi siano stati taluni episodi - nella nostra Chiesa pochissimi perché siamo 3000 tra preti diocesani e consacrati e non si è mai arrivati a superare i 10 casi in due o tre anni -, ma credo che tutte le famiglie possano, in modo sostanziale, restare serene". Problema grave, anche quello posto della seconda domanda, di cui il Cardinale loda la franchezza: "Qui, nelle carceri, ho sempre trovato la possibilità di parlare chiaro e di essere ascoltato, comprendendo i cambiamenti profondi nella nostra società: per questo vi ringrazio". "Diminuiscono i matrimoni perché la gioventù è immersa in un ambiente liquido che è molto frammentato. La difficoltà è il "per sempre", che dipende da talune condizioni oggettive, come la mancanza della casa e del lavoro, ma non possiamo negare che lentamente sta scomparendo, soprattutto nelle nostre società opulente europee, il vero senso dell’amore. Tutti crediamo di sapere già amare, mentre bisogna imparare ad amare l’altro come altro. I giovani hanno paura e pensano che legarsi per sempre sia troppo impegnativo, invece il "per sempre" è parte costitutiva dell’amore. Il "per sempre" non si sostituisce cambiando continuamente partner: dobbiamo dirlo ai nostri ragazzi". Vangeli, misericordia e giustizia, perdono - Si prosegue: Erjon, che da due anni si sta preparando per ricevere il battesimo con una formazione attraverso il Vangelo di Marco, dice: "Ci possiamo fidare dei Vangeli, anche perché pare che ora ne sia uscito un altro (il Vangelo di Giuda n.d.r.)". "Questa è una domanda molto profonda. In ultima analisi, i Vangeli sono frutto non solo dell’uomo, ma anche dello Spirito santo; sono autentici e veritieri, perché sono ispirati. Questo non vuol dire che gli "Apocrifi" non abbiamo anche elementi utili, ma ricordiamo che su questi ultimi non c’è l’impegno autorevole della Chiesa che non è, anzitutto, una struttura o un’organizzazione, ma un’esperienza viva. Su ciò dobbiamo fondare la nostra certezza di fronte alla verità, garantita dalla Spirito, dei 4 Vangeli". È la volta di Marco, che si definisce "un credente che ha sbagliato e ammetterlo è già un primo passo per un nuovo percorso". Parla, Marco, della parola "misericordia, come ci ha detto il Papa, che in un carcere coinvolge tutti anche gli operatori. Vorremmo sapere se coloro che amministrano abbiamo recepito il messaggio di papa Francesco; ci chiediamo se tale messaggio viene trasmesso a chi gestisce la giustizia terrena". Mauro è consapevole di fare una domanda scomoda sul "perdono che, per alcuni di noi, è uno scoglio impervio. Dobbiamo chiedere perdono alle vittime dei nostri reati, ma la cronaca ci dice che esistono condanne ingiuste o sproporzionate, magari vedendo riconoscere, dopo anni, la propria innocenza. In questo caso, il perdono è difficile da elaborare e rimane il risentimento perché chi sbaglia verso di noi e, comunque, continuerà tranquillamente a inquisire e a emettere sentenze". Particolarmente sentita la risposta di Scola che cita le parole rivolte ai reclusi di "San Vittore" dal Santo Padre, "Io sono qui perché, per me, voi sete Gesù è Gesù dal cuore ferito". "Ho visto tanti piangere, questa è un’importante espressione di misericordia e non di compatimento. La misericordia, infatti, è l’abbraccio del figlio di Dio fatto uomo che è morto per la nostra salvezza e che ci può liberare dal male". "In 26 anni di Episcopato ho visitato 3-4 volte l’anno le carceri e raramente ho trovato la possibilità di un dialogo così libero, perché spesso noi, che siamo al di là delle sbarre, non siamo disposti a riconoscere i nostri errori. Certo, non è facile tenere insieme misericordia e giustizia che sono coincidenti solo in Dio. La nostra giustizia umana è sempre imperfetta e, quindi, dobbiamo come corpo organico di cittadini, pur con idee diverse, creare le condizioni perché ognuno svolga bene il proprio compito con onestà e appassionato desiderio affinché ogni uomo possa essere riconosciuto nella sua dignità che non va mai perduta". Un applauso spontaneo sottolinea il richiamo dell’Arcivescovo chiaramente rivolto anche a chi ha responsabilità nel giudizio e nelle condanne. "Per poter continuare ad abbracciare e riabbracciare l’altro occorre riconoscere il nostro male e lasciarci perdonare. Che, anche nell’amministrazione della giustizia vi sia ingiustizia, è terribile, ma è umano. Vi consiglio di affidare a Dio la capacità di perdonare. Il nostro compito è testimoniare a tutti la bellezza del perdono, ma per farlo bisogna lasciarci perdonare nel profondo da Dio, cambiando vita. Questo è un campo in cui non si può fingere". L’impegno della Chiesa a favore dei detenuti: casa e lavoro - Francesco, milanese, chiede quale sia "l’impegno che la Chiesa ambrosiana ha per un aiuto concreto e istituzionale nel sostenere i detenuti e per la reale possibilità di mettere a disposizione luoghi formativi e operativi al fine dell’inserimento nella vita sociale e lavorativa". Battista: "Come le parrocchie, i movimenti possono aiutare, soprattutto i giovani, a non avere problemi con la giustizia e il carcere?"; Khan riflette sulle difficoltà, specie tra le celle, della coesistenza con chi è immigrato; Aristide: "Cosa può fare la comunità Cristiana per far crescere una cultura del perdono che porti all’accoglimento e non all’esclusione?". Infine Ernesto che, in riferimento agli appartamento ristrutturati dalla Diocesi e offerti a canone agevolato a famiglie (il dono simbolico al Papa per la sua Visita), domanda: "Tra questi qualche casa sarà destinata a detenuti che possono godere dei benefici dei permessi premio e non hanno un luogo dove andare?". Scola riparte dal concetto di perdono: "Non è del tutto vero che "gli uomini non perdonano mai", ma semmai facciamo fatica a perdonare nel senso vero e totale della parola: Al massimo chiediamo scusa, mentre il vero perdono fa sentire un germoglio nuovo nella vita con il cuore che si spalanca in modo diverso: chi perdona così trova ultimamente pace. Perdonando si impara a lasciarsi perdonare da Dio. Questo richiede un impegno quotidiano di riscatto e per evitare che i giovani commettano peccati e reati, si deve trasmettere loro appunto il senso pieno della vita: questo è il problema numero 1 della nostra Europa di oggi, l’educazione. Quello che noi possiamo fare come parrocchie e associazioni è realizzare ambiti belli in cui vivere tale senso autentico trovando ogni giorno il desiderio di rincominciare e il "per chi" farlo, Gesù". "Come Chiesa, il primo grande dono che diamo sono i Cappellani che - dice il Cardinale ai presenti - vi vogliono bene e non cessano di far sentire il perdono di Dio che è vostro alleato. Certo, abbiamo talune iniziative, come le Cooperative legate a Caritas ed è innegabile che si sia fatto molto negli ultimi tempi, ma è ancora poco. Per la casa ci stiamo muovendo perché casa e lavoro sono gli elementi di cui avete assolutamente bisogno. Occorre essere onesti: al di là dei cappellani e dei volontari, dal punto di vista strutturale facciamo ancora poco. Però, soprattutto negli ultimi due o tre anni, ci stiamo organizzando, perché c’è la coscienza del problema". Accoglienza e volontariato - Anche sui migranti l’indicazione è chiara: "Mi pare di poter dire che la Chiesa fa la sua parte, con un primo intervento, ma bisogna che le realtà dell’Europa unita elaborino un progetto politico equilibrato per aiutare i migranti nelle loro terre e fare, ove necessario, spazio qui. Ma occorrerà che anche l’immigrazione si adegui a quella che è la nostra realtà e sensibilità". C’è ancora tempo per un emozionato Anacleto, 76 anni che, detenuto da 9 anni a "Bollate", vorrebbe fare qualche lavoro di volontariato. "Giusto, bello", scandisce l’Arcivescovo, "dobbiamo essere aperti all’altro e il modo è condividere il bisogno: questo permette di sentirsi vivi". Alla fine, tanti applausi, la stretta di mano portata a ognuno, i moltissimi selfies con il Cardinale che spiega: "Ho cercato di dire ciò che veramente ho nel cuore e penso. Se qualcuno vuole continuare questo colloquio può scrivermi. Manderò al carcere una somma per acquistare libri". Insomma, davvero, come evidenzia un soddisfattissimo direttore Parisi: "È la capacità di relazione umana che fa la differenza della qualità degli Istituti di pena". Como: i detenuti del Bassone pronti a lavorare per il territorio Il Giorno, 5 maggio 2017 Verranno coinvolti in progetti di collaborazione con i Comuni comaschi. Saranno tanti Comuni, della provincia di Como e non solo, a dare una mano ai detenuti del Bassone coinvolgendoli in lavori di volontariato e pubblica utilità. Una nuova opportunità di reinserimento sulla quale si sono confrontati, nel corso di un convegno, la direttrice del carcere comasco Carla Santandrea, e il sottosegretario di Regione Lombardia, Alessandro Fermi. "La visione che sta alla base di questi progetti è quella per cui la pena non è solo detentiva, ma è anche una possibilità che consente di riparare il danno che, con il reato, è stato recato alla vittima e più in generale alla collettività - spiega Fermi - La sicurezza sul territorio si realizza anche attraverso il recupero dei detenuti ed è in proprio in quest’ottica che l’istituto penitenziario entra in interazione con gli enti locali per concretizzare percorsi in cui i detenuti stessi possano essere impegnati, soprattutto per la cura del territorio e del patrimonio". Al termine dei lavori è stato deciso di inviare a tutti i Comuni della provincia una bozza della convenzione in modo che si possano attivare fin da subito nuovi progetti che saranno valutati dalla direzione della casa circondariale. Massa Carrara: "Sentieri della libertà", firmata convenzione tra carcere ed enti locali lagazzettadimassaecarrara.it, 5 maggio 2017 Sentieri più puliti e sicuri grazie alla convenzione siglata martedì mattina dal Comune di Montignoso, Cai Sezione Massa, Casa di reclusione di Massa e Uepe. Il progetto, dal titolo "Sentieri della libertà", rientra all’interno delle attività per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità da parte di soggetti in stato di detenzione e permetterà tutta una serie di interventi di recupero dei percorsi montani di bassa quota. "È un progetto estremamente importante - spiega l’Assessore Giorgia Podestà - perché accanto al servizio che viene reso alla comunità rendendo nuovamente fruibili sentieri del nostro stupendo territorio, possiamo offrire anche un progetto di recupero e risocializzazione a soggetti che stanno vivendo in stato di detenzione. Questo significa sostenere concretamente persone spesso circondate da disagi e difficoltà e sviluppare nuove competenze che potranno rivelarsi utili all’interno del mercato del lavoro. Ma soprattutto credo che sia un bellissimo gesto di solidarietà". La convenzione, resa possibile grazie al Protocollo d’intesa sottoscritto da Anci e il Dipartimento amministrazione penitenziaria nel 2012, rappresenta un’opportunità di reinserimento nella collettività proprio grazie allo svolgimento di lavori di pubblica utilità, attività che verrà eseguita in modo volontario e gratuito come misura alternativa alla detenzione. Due i sentieri che dal mese di maggio verranno ripuliti da quattro detenuti individuati grazie alla collaborazione con la Casa di reclusione di Massa e l’Ufficio Esecuzioni Penali Esterne, il sentiero 140\33, tratto che dalla località Termo del Pasquilio arriva fino al Monte Folgorito compresa l’area sottostante la vetta, mentre l’altro percorso riguarderà il sentiero che da località Pasquilio porta a Cerreto e al Canal Magro. I lavori di pulizia e manutenzione verranno seguiti dalle squadre di volontari del Cai di Massa per tutto il periodo di esecuzione grazie ai mezzi e alle attrezzature messe a disposizione con il contibuto del Comune di Montignoso, "è la prima volta che viene realizzata un’iniziativa del genere anche nel nostro Comune - conclude Podestà - valorizzazione e promozione del territorio accanto al sostegno di soggetti in difficoltà, come amministrazione non possiamo che essere soddisfatti per questo nuovo progetto". "È il terzo anno che i soci volontari del Cai di Massa E. Biagi collaborano al reinserimento dei detenuti attraverso un progetto di utilità pubblica - spiega il presidente Sauro Quadrelli - attività che prevede la pulizia di sentieri e delle mulattiere delle nostre montagne. Gli interventi previsti vanno oltre la manutenzione dei sentieri di competenza istituzionale del Cai perché sono finalizzati al recupero anche di storici collegamenti fra la montagna e i piccoli centri abitati per consentire una sicura e piacevole percorribilità agli escursionisti. Tra le funzioni degli interventi programmati è riconosciuta anche quella di realizzare tracce "tagliafuoco" necessarie a contenere i frequenti incendi delle nostre montagne. Auspichiamo che la collaborazione su progetti di pubblica utilità si estenda anche ad altre sezioni Cai". Lecce: il candidato Sindaco Delli Noci "restituire dignità ai detenuti" salentolive24.com, 5 maggio 2017 Comunicato del candidato sindaco di "Un’Altra Lecce", Alessandro Delli Noci. Rendere il carcere parte integrante della città e restituire dignità a tutti coloro che, per varie ragioni, il carcere lo vivono. Parte da qui la proposta di Alessandro Delli Noci per la casa circondariale di Lecce, la più grande della Puglia che ad oggi conta 928 detenuti e oltre 600 agenti. "In questi ultimi mesi - dichiara Delli Noci - ho incontrato molti concittadini e tante realtà, ognuna con le sue esigenze, con le sue priorità e voglia di riscatto. Nei nostri incontri e confronti abbiamo dato priorità a chi è ai margini, a chi troppo spesso vede le proprie istanze cadere nel dimenticatoio, a chi vive la città e i suoi problemi ed è pronto a mettersi in gioco non per il proprio benessere ma per il bene collettivo, di tutti. In questo senso, l’incontro avuto con la direttrice del carcere Rita Russo mi ha permesso di implementare la mia proposta che riguarda una realtà di cui sappiamo troppo poco e che può e deve essere una risorsa per l’intera città". Rafforzare la relazione tra amministrazione comunale e carcere significa per Delli Noci attivare una serie di azioni anche attraverso delle convenzioni che abbiano come obiettivo principale il reinserimento sociale e lavorativo e la tutela delle persone e dei loro familiari. "È necessario creare una rete tra istituzioni pubbliche e private - continua Delli Noci - che guardi alla formazione come strumento di rieducazione ma, soprattutto, di reinserimento sociale con percorsi formativi compatibili con i reali bisogni dei detenuti, che sono quasi sempre persone povere e ai margini della società. Vogliamo attivare una convenzione che consenta ai detenuti di scontare parte della pena prestando servizio nel comune e svolgendo mansioni di recupero del decoro urbano o dei terreni agricoli abbandonati, come si fa già in alcuni paesi della nostra provincia. Si potrebbe pensare a lavori di manutenzione e rigenerazione urbana a Borgo San Nicola, per esempio, che vive una condizione di abbandono e degrado". E a proposito di reti e collaborazioni, è fondamentale che anche il Comune di Lecce contribuisca al lavoro già avviato da carcere e Confindustria entrando a far parte del protocollo sul carcere minorile, ora in stato di abbandono, che deve diventare un hub dell’innovazione per consentire ai detenuti di avvicinarsi alla formazione digitale e acquisire nuove competenze utili per il loro percorso di reinserimento sociale e nel mercato del lavoro. "Ai fini del reinserimento lavorativo e per insegnare ai detenuti un mestiere - afferma Delli Noci - credo sia importante attivare percorsi formativi per l’artigianato e, magari attraverso una convenzione con il Cna e Confartigianato, lasciare che le lezioni siano tenute proprio presso le nostre botteghe artigiane". Non solo, il carcere ha il suo teatro, uno spazio sociale importante, da inserire nella rete dei teatri cittadini che devono dialogare tra di loro e vivere tutti del fermento creativo cittadino. Tra le proposte messe in campo da Delli Noci un garante per i diritti dei detenuti che si faccia promotore dell’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e un supporto per il trasporto pubblico sia per i detenuti che svolgono il lavoro all’esterno sia per le loro famiglie: i primi potranno viaggiare gratis sui mezzi pubblici e sarà previsto uno sconto per le famiglie che devono raggiungere il carcere. "In questi anni, tante associazioni si sono occupate di restituire speranza e dignità ai detenuti e alle loro famiglie, realizzando attività culturali, di reinserimento lavorativo, laboratori artistici e progetti rivolti ai bambini e alle bambine dei detenuti, ricucendo così quello strappo tra città e carcere. Penso, per esempio, a "Made in Carcere" di Luciana Delle Donne o alla compagnia teatrale "Io ci provo" di Paola Leone. Credo che questo sforzo debba passare anche dal Comune - conclude Delli Noci - che non può delegare totalmente questo importante compito alle associazioni e alle realtà del terzo settore". Rimini: il Garante dei detenuti visita i "Casetti", carcere ancora sovraffollato riminitoday.it, 5 maggio 2017 Altre criticità riscontrate sono la carenza di organico di polizia penitenziaria, la mancanza di un Comandante in pianta stabile e di una direzione presente non più di due giorni a settimana. Giovedì mattina il Garante delle persone private della Libertà personale del Comune di Rimini, dott. Ssa Ilaria Pruccoli, si è recata in visita alla Casa Circondariale di Rimini. Il garante, è stato accompagnato dal dott. Marcello Marighelli, Garante dei detenuti della regione Emilia Romagna, da due sue collaboratrici e dalla Direttrice, dott. Ssa De Lorenzo. La visita è stata l’ occasione per mostrare l’ Istituto penitenziario al dott. Marighelli, nominato Garante Regionale da inizio anno, dopo il fine mandato della Dott. Ssa Desi Bruno. È stato soprattutto occasione per confrontarsi insieme alla direttrice, all’ equipe educativa e al Comandante provvisorio, sulla situazione attuale della Casa Circondariale di Rimini e rilevarne criticità ed aspetti positivi. A fronte di una capienza regolamentare di 126 posti, i detenuti presenti al momento della visita sono 167, palesando nuovamente il problema del sovraffollamento. Altre criticità riscontrate sono la carenza di organico di polizia penitenziaria, la mancanza di un Comandante in pianta stabile e di una direzione presente non più di due giorni a settimana: infatti alla dott.ssa De Lorenzo è affidata la direzione sia della Casa Circondariale di Rimini che quella di Ravenna. La visita all’ interno dell’ Istituto è iniziata verificando le condizioni degli alimenti nel magazzino e tutto è parso ben conservato. È stato possibile visitare le due sezioni che ospitano i detenuti definitivi, la I e la II sezione, ristrutturate da non molto tempo. Queste sezioni, così come le altre all’ interno della Casa Circondariale, hanno il regime delle celle aperte per 9 ore al giorno, tale da permettere la libera circolazione dei detenuti all’ interno delle sezioni. Le celle possono ospitare dalle 2 alle 4 persone e sono risultate in buone condizioni. La visita è proseguita nella VI sezione, denominata Vega, dove vi sono reclusi attualmente 4 detenuti transessuali, separati dal resto della popolazione carceraria per questioni di sicurezza. Qui si è avuto modo di constatare come la parte esterna dove si svolge l’ora d’aria per i detenuti transessuali sia inadeguata in quanto piccola di dimensioni. I detenuti della Vega non hanno evidenziato comunque particolari criticità. La visita è terminata con l’ ispezione delle condizioni della SEATT, sezione a custodia attenuata, denominata Andromeda, dove i detenuti con problemi di dipendenza osservano un percorso educativo differenziato in collaborazione con il Sert. È parsa una struttura in buoni condizioni dove i detenuti hanno modo di sperimentare una vita comunitaria incentrata sul recupero del problema della dipendenza. Aspetto positivo da sottolineare che è stato riscontrato durante la visita ispettiva dei due Garanti è la presenza di un volontariato attivo e partecipe, insieme ad un equipe educativa attenta ai bisogni dei detenuti, all’ interno dell’Istituto di Rimini che da modo alle persone recluse di partecipare a numerose attività ricreative e formative di non poco rilievo. Napoli: CampoAperto, lavoro e agricoltura nel carcere di Secondigliano terranuova.it, 5 maggio 2017 CampoAperto è un’impresa agricola sociale che è sorta sui terreni del carcere di Secondigliano, a Napoli, ed è operativa da oltre un anno. L’impresa è nata con lo scopo di offrire ai detenuti un percorso concreto di riabilitazione tramite un lavoro regolarmente retribuito. Il progetto è nato grazie alla cooperativa sociale L’Uomo e il Legno, che da vent’anni opera sui territori di Scampia e dell’area Nord di Napoli e che ha deciso quindi di fare qualcosa in più in considerazione del fatto che il sistema penitenziario, caratterizzato da sovraffollamento, incremento dei suicidi e atti di autolesionismo, non sempre riesce a garantire ai detenuti un autentico percorso di riabilitazione. L’articolo 27 della nostra Costituzione non potrebbe essere più chiaro: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". "La cooperativa ha inoltre pensato di focalizzare la produzione agricola sui prodotti tipici campani famosi in tutto il mondo, combinandone l’eccellenza con il concetto di consumo critico - spiegano i promotori che hanno avviato una iniziativa di raccolta fondi - agricoltura bio, filiera corta, tradizione artigianale. Pomodorini del Piennolo del Vesuvio, melanzane lunghe napoletane, zucchine San Pasquale: due ettari di terreno che, grazie ad un contratto di comodato d’uso stipulato con l’Amministrazione Carceraria, danno vita a questi ed altri prodotti grazie proprio al lavoro dei detenuti, sostenuti dal tutoraggio e dall’accompagnamento da parte degli operatori della cooperativa". "La produzione di ortaggi freschi in maniera biologica e la successiva distribuzione e commercializzazione nei gruppi di acquisto solidali, oltre nei canali commerciali tradizionali, potranno infine garantire la futura sostenibilità del progetto, anche in termini di incremento dell’occupazione. Per i detenuti un impegno stabile e quotidiano, inoltre, è fondamentale per valorizzarne le competenze e le energie in vista del successivo reinserimento nel tessuto sociale, oltre che per diminuire l’impatto sociale ed emotivo della restrizione della libertà. Se questa raccolta fondi avrà successo, sarà possibile costruire ben 2 serre che saranno incentrate sulla produzione specializzata di fragole e frutti di bosco". "Tuttavia CampoAperto è un’impresa che nasce senza alcun tipo di finanziamento pubblico: per questo, al fine di continuare questo progetto e dare la possibilità anche ad altri detenuti di intraprendere questo percorso, abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile". Roma: arte della retorica, sfida tra detenuti e studenti di Maria Lombardi Il Messaggero, 5 maggio 2017 "Non si dà cultura senza formazione retorica, imparare l’arte del dire significa già imparare a essere". Oliver Reboul. L’arte del dire, quella sofisticata e dimenticata capacità di persuadere con la potenza e la grazia delle parole. Senza urlare e insultare, senza l’arroganza di pretendere la ragione ma con l’abilità di convincere gli altri delle proprie ragioni, senza vaffa e senza sgambetti. Semplicemente parlando bene, come insegnava Cicerone. A scuola di retorica, ci dovrebbero andare un po’ tutti: chi fa discorsi per mestiere e riesce ad offendere anche il congiuntivo, o chi lascia cadere sui social o nei dibattiti frasi che sono bombe, inconsapevole del potere distruttivo di un verbo usato male. Una bella lezione di dialettica e civiltà arriva dal carcere. I detenuti di Regina Coeli sfidano domani gli studenti di Tor Vergata in una pacifica guerra di parole, una vera gara di retorica. Le due squadre proveranno a convincere la giuria della propria opinione. L’argomento della competizione è d’attualità: post-verità e bufale nel dibattito pubblico, ossia è giusto dire bugie o mezze verità per ottenere il consenso? Due round da 20 minuti, i duellanti sosterranno di volta in volta tesi opposte. Retori non ci si improvvisa. Detenuti e studenti sono stati preparati allo scontro dagli esperti dell’Associazione Per La retorica (che organizza il dibattito con il sostegno di rettori, Regina Coeli, Tor Vergata e Toyota). Alla fine la giuria di cui fa parte anche l’attrice Isabella Ragonese deciderà il vincitore del match di Regina Coeli. Buona parola ai concorrenti e a tutti noi, che l’arte di discutere non sappiamo più cosa è. Taranto: quella prigione che è dentro di noi di Piero Di Domenicantonio L’Osservatore Romano, 5 maggio 2017 Un’installazione artistica realizzata dalle detenute del carcere di Taranto. "Cella di isolamento" scandisce l’uomo in divisa mentre chiude la porta blindata. Due giri di chiave e si rimane soli. La finestra è troppo alta per vedere cosa succede fuori, ma la luce che filtra dalla grata basta a evitare di sbattere contro la branda e il tavolino. Il resto è buio. Silenzio. Intorno e dentro di sé. Benvenuti nell’"Altra città", l’installazione artistica ed esperienziale realizzata da alcune detenute del carcere di Taranto. La prigione, vista dal parcheggio del centro commerciale che sta di fronte, sembra un pezzo di periferia, tra prati abbandonati e cemento. Ma dentro non c’è quello che ci si aspetta. È davvero un’altra la città che le detenute raccontano. Lontana anni luce da quella vista al cinema o in televisione. Non nasconde che tra i suoi abitanti c’è chi ha ucciso, rubato, spacciato, ma ricorda pure che quelle stesse persone sono lì a scontare la pena per quello che hanno commesso o ad aspettare di conoscere quanto sarà salato il loro conto con la giustizia. Il luogo della punizione diventa metafora di un percorso esistenziale che dalla presa di coscienza delle proprie colpe può portare al recupero e al riscatto. Ideata da Giovanni Lamarca, comandante della locale polizia penitenziaria animato dalla forte convinzione che il carcere debba essere luogo di rieducazione come la Costituzione della Repubblica italiana stabilisce, l’installazione è stata allestita in un’ala fino a poco tempo fa inutilizzata della sezione femminile. I visitatori entrano uno alla volta. Da soli. Perché l’esperienza è individuale: una discesa agli inferi. Anche quelli del proprio io. Si comincia percorrendo un lungo corridoio dove, per avanzare, bisogna farsi largo tra il dolore. Quello di chi sta dentro, rappresentato dalle foto segnaletiche dei detenuti che pendono ad altezza d’uomo dal soffitto, e quello di chi sta fuori, richiamato da un tappeto fatto con le fotocopie delle carte d’identità che i familiari devono esibire ogni volta che chiedono un colloquio. Perché non è poi sempre vero che le colpe di un padre, di una madre, di un marito o di un figlio non ricadano anche su chi continua a volergli bene. La prima "stazione" è all’ufficio matricola. Dichiarazione delle generalità, foto di fronte e di profilo, impronte digitali. E la rabbia di vedere tutta la propria vita ridursi a un mucchio di carte accatastate insieme a tante altre. Poi, scortati, si entra nella cella dei "nuovi giunti". Sui muri scritte e disegni colorati, pensieri confusi, messaggi lasciati da chi ha già imparato cosa vuol dire perdere la libertà. La seconda è la cella ordinaria. Qui si aspetta. Si aspetta che il giudice emetta la sentenza (al 31 luglio 2015 in Italia i detenuti erano 52.000, il 16 per cento dei quali in attesa di giudizio). E che passino i giorni, i mesi, gli anni fino al momento di tornare a casa, a una "normalità" che non sarà più quella di un fornello da campeggio dove riscaldare il caffè o di un posacenere scolpito in una saponetta. Altri tre minuti, tanto dura la sosta in ogni cella, e la porta si riapre. Trasferimento in isolamento. Le pareti sono dipinte di nero, il colore della disperazione che prende quando la reclusione diventa insopportabile: si pensa a ciò che si è commesso, alle vittime, a quanto si è sprecato della propria vita e l’unica via d’uscita sembra essere talvolta solo quella di farla finita. Un male oscuro che non colpisce solo i detenuti (nel 2015 sono stati 42 i casi di suicidio) ma anche gli agenti della Polizia penitenziaria (100 negli ultimi dieci anni). Il percorso si conclude nella cella dei dimittendi, l’anticamera verso una libertà riconquistata. La luce è azzurra, il colore che nei mandala tibetani esprime il superamento del turbinio delle passioni. I cartoncini colorati attaccati alle pareti hanno la forma di farfalle perché il ciclo della metamorfosi si è compiuto. Sul tavolo, una clessidra a ricordare quanto possa essere diversa la percezione del tempo quando si sta rinchiusi dentro una prigione. Sono suggestioni forti. "L’altra città" le propone usando il linguaggio della creazione artistica. Parlando alla mente con il lessico del cuore. Quello che le detenute hanno imparato a conoscere e a usare sotto la guida del maestro d’arte tarantino Giulio De Mitri, che ha tenuto il laboratorio artistico e didattico, e insieme con la sociologa Anna Paola Lacatena che ha animato una serie di incontri di riflessione e autocoscienza. "Si sono impegnate con entusiasmo" racconta. "L’hanno fatto per se stesse, per gli altri, per uscire dalla cella e mettere un punto su una parete. Una parola, una frase, un’emozione. Tempo strappato alla noia e al nulla di una branda". Non bisogna entrare con le manette ai polsi per lasciarsi coinvolgere. Anzi, svincolato dal ruolo canonico di spettatore, il visitatore diventa egli stesso, attraverso le proprie azioni ed emozioni, parte costitutiva dell’installazione. Un processo che ha suscitato l’interesse dello studioso e critico Achille Bonito Oliva tanto da portarlo ad assumere, insieme con Giovanni Lamarca, la cura del progetto. "La parte che più mi sta a cuore - ha dichiarato alla vigilia della presentazione - è proprio il fatto di stimolare una diversa esperienza nello spettatore, che non guarda la mostra a una distanza platonica, ma è completamente coinvolto nello spazio: la mostra diventa un esercizio violento, anche spirituale, di sottrazione dello spettatore al mondo che lo circonda per immergersi nel silenzio della cella. Entra in una diversa lettura del tempo e dello spazio: inedita, minuziosa, capillare, attenta al dettaglio. Da qui, credo, può venir fuori una nuova regola dello sguardo e una nuova percezione". Se a Roma la mostra "Please come back. Il mondo come prigione?" ha permesso di riflettere sulle tematiche della detenzione e del controllo nella società contemporanea, portando nelle sale del Maxxi le opere di ventisei artisti di tutto il mondo, a Taranto è il carcere stesso che si fa opera d’arte dalla forte valenza sociale. Dove l’esperienza diretta della vita ristretta diventa pretesto non solo per richiamare l’attenzione sulla questione carceraria, ma ancor più per proporre e avviare un processo autobiografico sulle proprie, personali prigioni. Non a caso all’inizio del percorso, viene fatta firmare una liberatoria nella quale - con tono dantesco - si chiede al visitatore di rinunciare, per il tempo dell’esperienza, alla propria libertà. Gli sarà restituita all’uscita ma, si precisa, non è detto che sarà più la stessa. Prato: va in scena fuori dal carcere lo spettacolo realizzato dai detenuti della Dogaia di Laura Sciortino corrierespettacolo.it, 5 maggio 2017 Sul palcoscenico del Teatro Cantiere Florida. Trae spunto dall’opera "A Streetcar Named Desire" lo spettacolo "Proteggimi", il lavoro nato all’interno del carcere maschile di Prato grazie alla residenza artistica dell’associazione Teatro Metropopolare in collaborazione con il Teatro Metastasio di Prato. Livia Gioffrida firma la regia e la drammaturgia di questo dramma ispirato al più celebre - e più rappresentato - dello statunitense Tennessee Williams. Il lavoro presentato sul palcoscenico del Cantiere Florida giovedì 16 marzo fa parte della rassegna "Scena Libera Materia Prima", una settimana di appuntamenti e incontri sul tema della detenzione suddivisi tra il Teatro, la Casa Circondariale di Sollicciano e la Sala degli Specchi di Palazzo Medici Riccardi. E sono proprio i detenuti i protagonisti di questo lavoro, accompagnati nella messa in scena da attori professionisti. La rappresentazione è il frutto di un rigoroso laboratorio di ricerca teatrale realizzato nel carcere La Dogaia di Prato luogo in cui, peraltro, venne già presentato lo spettacolo nel febbraio del 2016. In quell’occasione furono gli spettatori ad entrare dentro il luogo della reclusione, adesso sono stati gli attori ad uscire fuori quei confini. Sul palcoscenico ci sono solo uomini liberi di esprimere la fragilità delle relazioni, il concetto di perdita, il tema della follia e quello del desiderio. L’opera sembra nascere nel momento in cui viene proposta, con tanto di deux ex machina che accompagna il pubblico agli argomenti dell’opera e ne osserva, talvolta quasi impotente, lo svolgimento e la sua naturale risoluzione. Un’opera "incomprensibile, ma straordinariamente ricca, che nasce come una bambina che piange e sembra dire "proteggimi", in cui "il tempo scorre lentamente" nelle vite di donne così fragili da sembrare "fatte di vetro". Con queste parole, e in un accento molto americano, veniamo accompagnati dentro la vicenda che si discosta dalla New Orleans degli anni Quaranta immaginata da Williams, pur mantenendo personaggi e temperamenti di ognuno. Stanley, prepotente e violento, un "bruto" con "la tracotanza orgogliosa del maschio, in paziente attesa che le facoltà mentali si affinino", Stella, taciturna e silenziosa Blanche, "affetta" da un melanconico squilibrio e senso di alienazione alla vita. La signora DuBois, dopo aver perso tutto, irrompe nella vita della sorella alterandone gli equilibri; Stella si è infatti allontanata dalla vita cui era destinata e, nella scelta di amare un giovane marocchino, ha accettato il compromesso di vivere secondo gli standard della sua cultura. L’attrazione e l’affetto verso di lui si manifestano con regolarità anche dopo azioni di prepotenza e aggressività in cui la donna sembra essere ostaggio non tanto fisico, quanto psicologico, di un "codice penale" maschilista che - solo in parte - autorizza alla violenza. Ma "passione e violenza possono essere correlate?" domanda Blanche al suo più diretto nemico, offrendo in realtà la condizione di una riflessione più ampia anche allo stesso spettatore. In questa concezione di malata protezione che dalla possessiva difesa sfocia nella aggressività per tornare, ciclicamente, all’unico senso di rifugio possibile, sembrano dirci che nella vita ("una vita di merda dove nessuno ci aiuta") è importante scegliere le carte giuste nonostante l’esito della partita sia comunque incerto. Il gioco del poker viene preso come metafora all’esistenza perché nel gioco, come nella realtà, possono essere messe in atto abilità che vanno a influenzare gli altri giocatori secondo valutazioni di probabilità che permettono di intuire le mosse altrui, in modo da precederle o condurle nella direzione più adatta a chi, con onestà o semplice astuzia, vuole solo vincere. "Life is a poker game. You win. You loose. Sometimes I win. Sometimes I loose" dice, quasi con un senso di resa, Robert Da Ponte in apertura dello spettacolo. Non a caso vengono consegnate delle carte agli spettatori. "Take a cart". Prendila. Quella che, del mazzo, ti capiterà non è dato saperlo. Ma sta a ognuno di noi scegliere in che modo e soprattutto quando puntarla. E questo senso di imprevedibilità della vita in cui però abbiamo comunque una facoltà di arbitrio rispetto alle situazioni in cui ci troviamo, è un fattore universale. Sul palcoscenico, infatti, si mescolano le lingue: italiano, americano, cinese, arabo. L’incomprensibile diventa comprensibile da traduzioni in lingua che sembrano come un’eco teso a sottolineare solo il significato di un messaggio che vuole - e deve - essere assoluto. E niente è più assoluto di una stretta di mano, quella che gli attori tendono agli spettatori in apertura del dramma. Una vicinanza che diventa anche fisica, niente muri, limiti, sbarre che dividono la libertà dalla reclusione. Un momento in cui è esistito solo l’arte del teatro e le infinite realtà possibili di cui il palcoscenico diventa l’unico, e più autentico, custode. Non conosciamo le storie o le pene di quelle persone arrivate con l’autobus della polizia penitenziaria parcheggiato proprio davanti all’ingresso del teatro. Per una sera, l’unica carta che tutti abbiamo voluto giocare, è stata quella che ci ha permesso di essere, indistintamente, parte della stessa esperienza. Bologna: Giallo Dozza, i detenuti-rugbisti che danno un calcio ai pregiudizi di Luca Bortolotti La Repubblica, 5 maggio 2017 La squadra del carcere bolognese è nata tre anni fa. Sabato si gioca il trofeo Illumia, che fa da sponsor: "Il progetto nasce per combattere l’idea questa sia la pattumiera della società". Un pallone ovale per riprendere in mano la propria vita e giocarsi una seconda occasione. Sabato il Giallo Dozza, la squadra di rugby del carcere di Bologna, sarà in campo per il trofeo di Illumia, l’azienda felsinea che ne fa da sponsor, tra le mura della casa circondariale della Dozza. Ma i 40 atleti della squadra da tre anni giocano un campionato vero, la C2 della Federazione italiana rugby, contro avversari di tutta Italia. Certo, per ovvie ragioni le partite dei Giallo Dozza sono tutte in casa, e pazienza se i risultati sportivi sono altalenanti. Il successo che si cercava era su un altro campo: "In questi tre anni ho visto delle persone cambiare completamente il loro atteggiamento verso di me, la società e gli altri carcerati, che grazie allo sport si preparano al reinserimento", commenta l’allenatore Massimiliano Zancuoghi. Del resto, i Giallo Dozza sono nati tre anni fa da zero, con atleti che mai avevano visto un pallone da rugby e un turnover continuo dettato dai nuovi arrivi nel carcere e da chi invece nel frattempo è tornato in libertà. Un centinaio di detenuti sono passati dagli insegnamenti di Zancuoghi, ora sono 40, da 23 a 39 anni, di cui sei italiani e gli altri da 13 nazionalità diverse. "Il progetto nasce per combattere l’idea che il carcere sia la pattumiera della società, con noi ci sono persone che hanno commesso sbagli anche grossi ma che devono avere l’opportunità di tornare alla socialità - spiega il presidente dei Giallo Dozza Stefano Cavallini -. Il rugby ha insegnato ai detenuti a sostenersi, condividere i problemi e proporre soluzioni, non pensare più solo a se stessi ma al gruppo, mettendoli sulla strada della rieducazione alla società". Sui Giallo Dozza è stato girato anche un docufilm dalla regista bolognese Enza Negroni, "La prima meta", che a Bologna sarà proiettato stasera alle 21 alla Cà Bura del Parco dei Giardini; mentre sabato alle 14,30 al carcere della Dozza la squadra si giocherà il secondo trofeo Illumia, voluto dall’azienda che ha sponsorizzato il progetto sin dalla nascita. Avversari i Cinghiali del Setta, squadra amatoriale dell’Appennino bolognese. Bologna: zero recidiva per chi gioca a rugby dietro le sbarre di Davide Landi Dire, 5 maggio 2017 Ormai sono squadra a tutti gli effetti e definirli detenuti-sportivi suona riduttivo. Nel terzo anno di attività della squadra di rubgy del carcere di Bologna "Giallo Dozza" è tempo di valutazioni, sia per quanto riguarda gli aspetti sociali, che ovviamente hanno la priorità, ma anche quelli sportivi che sono in costante miglioramento. L’occasione per fare il punto della situazione è la presentazione del secondo Trofeo Illumia, che si terrà dopodomani all’interno della casa circondariale, in cui si affronteranno appunto i "Giallo Dozza", team che milita nel campionato C2 della Federazione italiana rugby, e la squadra amatoriale dei "Cinghiali del Setta", nata nel 2005 da un gruppo di amici nell’omonima località dell’Appennino bolognese. Fischio di inizio sabato alle 14.30 al carcere della Dozza, via del Gomito 2, Bologna. Oltre alle prime affermazioni conquistate sul campo in campionato (dalle due della prima stagione alle cinque di quella appena trascorsa, con sconfitte in calo) i dati parlano di un’altra vittoria, ovvero "nessun recidivo tra quelli che sono usciti" dal carcere passando da quest’esperienza sportiva, oltre a un "comportamento interno di gran lunga migliorato: il rugby è un’attività molto educativa per chiunque ma in particolare per chi ha commesso errori e non è abituato a controllarsi nel comportamento e nella forza fisica" spiega Massimo Ziccone, responsabile dell’area educativa della Dozza. Al momento "Giallo Dozza" coinvolge circa 40 detenuti, tra i 23 e i 40 anni, e comprende persone di 13 nazionalità differenti, con prevalenza del Nord Africa, mentre sono sei gli italiani coinvolti. "Non si può fare risocializzazione senza un contatto con la società esterna, incontrando solo operatori penitenziari o persone che come te hanno sbagliato- prosegue Ziccone- di solito la soluzione è fare esperienze positive con gente positiva: più gente da fuori viene dentro e mostra un’esperienza diversa da quella a cui sono abituate queste persone e più riusciamo a centrare l’obiettivo di fare uscire persone che sono cambiate in meglio". Soddisfazione anche in casa Illumia, azienda promotrice del trofeo: "Stiamo supportando l’esperienza da più di due anni, risponde alla nostra visione dello sport e del fare le cose insieme. È una sfida che stanno giocando tutti in maniera positiva", afferma a nome dell’azienda Matteo Carassiti. "Siamo talmente convinti della bontà di questo progetto che stiamo sponsorizzando anche i suoi primi frutti come il film "La prima meta", che racconta la loro storia, uscito a dicembre nelle sale italiane" ha aggiunto Marco Bernardi, presidente dell’azienda. "A volte il semplice giudizio è anche troppo semplice, approfondendo un po’ le cose si scoprono delle realtà difficili. A livello tecnico partiamo da zero, mi hanno chiesto perché la palla è ovale", scherza Max Zancuoghi, allenatore della squadra nonché protagonista del docufilm "La prima meta" di Enza Negroni. "Ci sono difficoltà continue ma sono migliorati molto, hanno molta voglia e in poco tempo hanno capito come si gioca a rugby- prosegue il coach- ma soprattutto hanno capito che con questo mezzo possono avere una rivincita e quindi il loro impegno è tre volte tanto quello che potresti vedere in un campo". Concorda sulle difficoltà Stefano Cavallini, presidente dei "Giallo Dozza": il progetto è "prima di tutto una grande fatica, ma gli sforzi fatti stanno comunque portando frutti". Non solo dal punto di vista sportivo, anche se i risultati cominciano a intravedersi, regalando le prime gioie: "Da vecchio rugbista mi piaceva l’idea di vedere come dei ragazzi, detenuti, che non avevano mai giocato a rugby riuscissero in così poco tempo a diventare una squadra. La prima vittoria in campionato è stata per me una delle emozioni che mi ricorderò per tutta la vita" conclude Francesco Paolini, presidente dell’associazione Bologna Rugby 1928. A supportare il Trofeo Illumia è anche la Uisp, che da oltre trent’anni lavora nella Casa circondariale bolognese per promuovere il diritto allo sport per tutti. Il torneo nasce dalla collaborazione tra Illumia, Uisp, provveditorato, amministrazione penitenziaria e il privato sociale sportivo del Bologna Rugby. Teatro in carcere, l’Italia fa scuola di Claudia Tarantino lametasociale.it, 5 maggio 2017 L’esperienza italiana dei "palcoscenici rinchiusi", un’eccellenza nel mondo per diffusione e qualità artistica ed educativa, è stata protagonista di una serie di incontri e conferenze negli Stati Uniti con lo studioso e regista Vito Minoia e con il maestro burattinaio Mariano Dolci. Mentre si avvia alla conclusione dopo oltre un mese di eventi programmati in tutta Italia, la IV edizione della Giornata nazionale teatro in carcere, fissata il 27 marzo in concomitanza con il World Theatre Day 2017 (giornata mondiale del teatro), approda anche oltreoceano, nel Massachusetts, con incontri e conferenze rivolti a educatori e operatori sociali tenuti da Vito Minoia, presidente del Coordinamento nazionale Teatro in carcere, e dal maestro burattinaio Mariano Dolci. Nel nostro Paese le arti sceniche negli istituti penitenziari vedono coinvolte, al momento, 16 Regioni, 45 istituti penitenziari, 27 istituzioni, tra università, scuole, uffici di esecuzione penale esterna, teatri ed enti locali, che ogni anno, attraverso una serie di appuntamenti, contribuiscono a "cementare il rapporto tra il dentro e il fuori", facendo del teatro italiano in carcere un’eccellenza nel mondo per diffusione e qualità artistica ed educativa ed evidenziando l’importanza di "costruire ponti tra il carcere e il territorio", proprio attraverso l’arte del teatro. In diverse occasioni anche l’Ugl Polizia Penitenziaria ha richiamato l’attenzione sulla necessità di "favorire il reinserimento sociale di chi ha sbagliato", offrendo "occasioni di recupero attraverso un percorso di rieducazione". E questa iniziativa del teatro in carcere, che coinvolge appunto detenute e detenuti nella messa in scena di opere teatrali o nella costruzione di marionette per le rappresentazioni, è un’ottima opportunità per offrire possibilità di riscatto oltre che momenti di serenità e svago. Due le tappe fissate nel programma della trasferta americana di Minoia e Dolci. La prima all’Eric Carle Museum of Picture Book Art di Amherst e la seconda alla ‘Dante Alighieri Society’ di Boston. Tema delle conferenze "Le marionette come strumento educativo e di promozione delle diversità". Minoia ha presentato il lavoro sviluppato negli ultimi 20 anni all’Università di Urbino con il carcere di Pesaro, coinvolgendo detenuti, detenute e studenti universitari nell’allestimento di spettacoli di teatro di animazione, e ha promosso il convegno internazionale "Le scene universitarie per il teatro in carcere", in programma a novembre 2017 a Urbania, a cura della rivista europea "Catarsi-teatri delle diversità". Migranti. Il Csm: da noi ogni sostegno alle indagini di Zuccaro sulle Ong La Stampa, 5 maggio 2017 Il procuratore potrebbe essere convocato, ma non corre il rischio di un trasferimento d’ufficio. Il Csm assicurerà "ogni sostegno possibile" al procuratore di Catania Carmelo Zuccaro perché le sue indagini "possano svolgersi con la massima efficacia e celerità". Lo ha garantito il vice presidente Giovanni Legnini, dando conto delle decisioni del Comitato di presidenza. Il Comitato di presidenza "non intende affatto incidere sullo svolgimento delle investigazioni" da parte della procura di Catania, sottolinea una nota che riassume le decisioni prese. "Anzi intende impegnare l’organo di governo autonomo a offrire al procuratore Zuccaro ogni sostegno possibile (attingendo a tutte le risorse di cui dispone il Csm, compreso il ricorso a eventuali applicazioni), affinché le indagini condotte dalla procura di Catania, così come quelle svolte da altri uffici inquirenti sulle medesime ipotesi investigative, possano svolgersi con la massima efficacia e celerità". Nondimeno, a fronte del "frequente ripetersi" di "dichiarazioni ed esternazioni" da parte di magistrati che hanno creato "sconcerto" nell’opinione pubblica, il Comitato di presidenza del Csm ha disposto l’apertura di pratiche per "definire con urgenza linee guida nel rapporto con i media" e regole che consentano di intervenire "con efficacia" contro chi viola i doveri di "moderazione e continenza". Zuccaro potrebbe essere chiamato a spiegare al Csm le sue parole sui presunti rapporti tra trafficanti di esseri umani e ong. Ma, almeno per ora, non corre il rischio di un trasferimento d’ufficio. Il Comitato di presidenza ha disposto l’acquisizione di atti, ma non l’apertura di una pratica per verificare l’eventuale incompatibilità di Zuccaro con il suo ruolo o con la sede in cui opera. Sulla convocazione del pm deciderà la Prima Commissione. In particolare, la Prima Commissione, secondo le indicazioni del Comitato di presidenza, "potrà valutare accuratamente i profili concernenti la modalità e i termini delle esternazioni del procuratore di Catania". E "in particolare, mediante l’eventuale audizione del procuratore Zuccaro si potranno attentamente vagliare l’opportunità e le scelte di comunicazione da questi compiute nei giorni scorsi". Migranti. Le Ong: "da Frontex solo fango, tra noi e i trafficanti nessuna rapporto" di Fabrizio Caccia Il Dubbio, 5 maggio 2017 L’accusa di Msf: "Basta polemiche, ci sono i morti. Che sono colpa delle ipocrisie delle politiche europee". Moas: "I nostri interventi in mare non sono mai autonomi e indipendenti, noi ci muoviamo solo dopo la chiamata del centro operativo di Roma". Hanno letto il dossier segreto di Frontex e adesso le 7 Ong internazionali, chiamate in causa con le loro 8 navi private, reagiscono con indignazione: "I conti non tornano - dice Marco Bertotto, di Medici senza Frontiere, Frontex ha fatto solo un’analisi campione su 10 giorni del 2017, la realtà è ben diversa". "La nostra coscienza è pulita al 300 per cento - gli fa eco Riccardo Gatti di Proactiva Open Arms. Ci stiamo consultando con gli avvocati. Sull’operazione della nostra nave Golfo Azzurro, di cui parla il dossier, abbiamo video e documenti da mostrare. È intollerabile trovarci a rispondere ancora, dopo due mesi, a delle dicerie". L’ipotesi di chi accusa è che, nel 90 per cento dei casi in questo inizio di 2017, siano state le Ong ad andarsi a cercare i migranti vicino alle acque territoriali libiche, addirittura prima che fosse partita una richiesta d’aiuto. Sui telefoni satellitari in mano agli scafisti, inoltre, sarebbero stati trovati i numeri diretti delle navi delle Ong. Bertotto, di Msf, respinge tutto al mittente: "In nessun caso di salvataggio le due navi Prudence e Aquarius (gestita insieme a Sos Mediterranee, ndr) hanno ricevuto chiamate dirette dalle imbarcazioni in difficoltà né tantomeno dai trafficanti basati in Libia". Quelli di Moas (Migrant Offshore Aid Station), con le loro due navi che battono bandiera del Belize e dell’isola Marshall, finiti pure sotto la lente del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, ieri mattina si sono difesi direttamente in Senato, davanti alla Commissione Difesa e al Comitato Schengen: "I nostri interventi in mare non sono mai autonomi e indipendenti, noi ci muoviamo solo dopo la chiamata del centro operativo di Roma". E "odiosa e inesistente" viene definita da tutti l’ipotesi di coordinazione coi trafficanti libici. Nessun business, nessun intreccio perverso sulla pelle dei migranti. A questo proposito Sea-Watch e Jugend Rettet, le due Ong tirate in ballo come pure Lifeboat Project e Sos Mediterranee, hanno già scritto a Fabrice Leggeri, il capo di Frontex, l’Agenzia Ue della guardia costiera e di frontiera, chiedendogli un incontro a Berlino il 12 maggio per chiarire. "Quelli di Frontex sono numeri irrealistici" - Intanto, questa mattina alle sette, al porto di Catania sbarcherà la nave Prudence di Medici senza Frontiere: ma scenderanno solo i cadaveri di 5 giovani donne e un uomo, raccolti in mare al largo della Libia. "Torniamo con una nave vuota, invece di soccorrere dei vivi abbiamo recuperato sei salme - racconta amaro Michele Trainiti, coordinatore delle operazioni per Msf. Forse dovremmo spegnere per un attimo tutte le polemiche sulle Ong e osservare un minuto di silenzio per questi morti senza nome, che rappresentano la conseguenza diretta delle ipocrite politiche europee sulla migrazione". "Quelli di Frontex sono numeri irrealistici - chiosa Marco Bertotto -. Quest’anno su più di 60 operazioni, con 6.355 persone soccorse, solo 25 sono avvenute in seguito ad avvistamento diretto, cioè con i nostri binocoli o col radar di bordo. Anche in questo caso, comunque, prima di iniziare il salvataggio è stato sempre avvisato il centro di coordinamento della Guardia Costiera di Roma. Mai le imbarcazioni di Msf hanno spento i transponder". E mentre, prevedibilmente, anche nei prossimi giorni si continuerà a litigare, già 1.090 persone, secondo Msf, in questo 2017 hanno perso la vita nel tentativo di attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Europa. Nel 2016, l’anno dei record, i morti furono oltre 5 mila. Migranti. Intervista a Luigi Manconi: "hanno vinto gli imprenditori della xenofobia" di Giulia Merlo Il Dubbio, 5 maggio 2017 "È stata allestita una velenosa campagna diffamatoria, basata su "conoscenze" come ha detto zuccaro e non su prove. Il frutto di complottismi e voglia di sporcare tutto". "La campagna diffamatoria contro le Ong basata sulle illazioni del procuratore Zuccaro è tragicamente penetrata a fondo". E, secondo il senatore del Pd e presidente della commissione per la tutela e la promozione dei diritti umani Luigi Manconi, la guerra contro le organizzazioni non governative che salvano migranti in mare ha dei vincitori: "gli imprenditori della xenofobia". Senatore, che cosa sta succedendo secondo lei? È in atto un conflitto ideologico particolarmente acuto e la nostra parte, quella di chi crede che sia stata allestita la più velenosa campagna di diffamazione nei confronti delle ong e delle politiche intelligenti in materia di immigrazione, ha drammaticamente perso. Una campagna di diffamazione che ha attecchito? Certo, ed è penetrata a fondo, ottenendo esiti rovinosi nel nostro mondo, quello della sinistra così come nel mondo cattolico: ovvero dove finora i valori dell’accoglienza si sono rivelati più robusti. Come ha fatto a penetrare così a fondo? Perché si tratta di un’operazione molto suggestiva, basata su due pulsioni: una è il cosiddetto ‘ complottismo’, che fa risalire qualunque azione umana a una catena di soggetti l’uno collegato all’altro che, procedendo dal basso verso l’alto, arriva fino a una centrale organizzata, tanto meglio se personificabile in un grande cattivo, che trama per acquistare potere, condizionare le politiche e le economie, influire sui sistemi democratici. E questo, secondo lei, sta succedendo con il fenomeno migratorio? Credo che uno dei più antichi fenomeni umani, quello delle migrazioni, venga trattato da troppi quasi fosse la conseguenza di una serie di manovre economico- finanziarie o di strategie geopolitiche, determinate da interessi oscuri, che fanno capo a soggetti sovranazionali che rappresentano il nemico, che oggi gode della massima impopolarità: il globalismo, il mondialismo, la finanza internazionale, la speculazione economica, la finanza internazionale. E fatalmente spunta il nome del cattivo per eccellenza, George Soros, che tra i suoi connotati ha quello di essere ebreo. Scompaiono da questo scenario le carestie, le povertà, i disastri ambientali, le guerre, i conflitti tribali, le dittature... Torniamo alle cause di cui diceva prima. Non basta il complottismo a spiegare questo attacco alle ong. L’altra spiegazione è in qualche modo più sottile, perché può camuffarsi con molte maschere, tutte dotate di un loro fascino e tutte unite da una velleità che si vorrebbe provocatoria e anticonformista, ma che più banalmente io definisco come volontà di sporcare tutto. Sotto questo punto di vista le ong sono il bersaglio ideale, perché costituiscono un fattore di solidarietà che applica le proprie energie agli ultimi tra gli ultimi e nel momento ultimo della loro esistenza. Cosa c’è di meglio che sfregiarne l’immagine e sfigurarne l’identità, introdurre il sospetto e presentare come ambiguo ogni loro atto, trasformare un bene possibile nell’insidia di un male? Dunque come valuta le dichiarazioni del procuratore di Catania, Zuccaro? Intanto ricordando che il 3 maggio il procuratore di Catania ha candidamente dichiarato: "non posso formulare alcuna accusa, lo farò se avrò quella prova, ma attualmente non ce l’ho". E quindi non c’è nulla di concreto? Ci possono essere sospetti, illazioni, ipotesi, ricostruzioni di fantasia e, come ha detto lo stesso Zuccaro, conoscenze. In altre parole, una sorta di elaborazione storico-sociologica fondata solo ed esclusivamente su sospetti e sensazioni, che è legittimo lui abbia ma che avrebbe dovuto tenere per sé fino a quando non si fossero tradotti in prove concrete o almeno in indizi da approfondire e verificare. Oggi non c’è nulla del genere e un lungo elenco di alte cariche istituzionali hanno smentito qualsiasi rapporto tra scafisti e Ong e l’esistenza di finanziamenti illegali. La questione sembra essere diventata, però, se ci sia o meno qualcosa di illegale nei salvataggi. Il messaggio mai dichiarato, ma sempre evocato, è: dobbiamo soccorrere chi sta affogando? Quando poniamo questa domanda, si deve rispondere chiaramente che la risposta non comporta alcuna fattispecie penale perseguibile, se non l’omesso soccorso. Tanto è vero che tutti quelli indicati come possibili indizi a ben vedere sono comportamenti che variamente interpretano il dovere del soccorso ma che mai sono qualificabili come reati. Ma a chi giova tutto questo? Agli imprenditori della xenofobia. E giova a loro perché crea sospetto e ostilità. Diffonde l’equazione che il soccorso in mare significa complicità con gli scafisti. Conferma ciò che tanti pensano: gli immigrati non sono persone da salvare ma nemici da respingere e quindi vanno salvati, forse, ma in un numero il più ridotto possibile. Lei crede che questo messaggio faccia presa sull’opinione pubblica? Io credo che il danno sia stato mettere in discussione il dovere del soccorso. Il soccorso è stato assimilato a un comportamento che può diventare fattispecie penale. E la politica dove è stata, in questo dibattito? Se si può parlare della politica come blocco omogeneo, ma non la penso così, ha fatto certamente una figuraccia perché in larga parte ha accolto una tesi che si è rivelata ben presto un’ipotesi fantasiosa, fatta di una serie di considerazioni extragiudiziarie. Non ci si è resi conto dell’importanza della questione? La si è sottovalutata. Il dramma è che la posta in gioco riguarda domande essenziali sull’esistenza stessa del dovere di salvare vite umane e la discussione pubblica è stata profondamente condizionata da menzogne. Io mi chiedo come mai un procuratore che parlava di politica estera, che esponeva le sue idee sul numero di immigrati accoglibili in Italia sia stato presentato come più credibile di un altro procuratore capo, quello di Siracusa, che ha detto: non abbiamo alcuna prova. E allora le ong, parte lesa in questo dibattito, che cosa potrebbero fare? Dovrebbero mettersi insieme e ripartire da capo, spiegando concretamente con testimonial e racconti, nomi e cognomi, storie vere, la loro attività e chiedere fondi per rilanciarla, dopo i danni subiti. Migranti, guerre e povertà? È tutta colpa di Soros di Angela Azzaro Il Dubbio, 5 maggio 2017 È la teoria del complotto. Da Salvini a Forza Nuova: la colpa dell’ondata migratoria è del magnate che avrebbe il progetto di creare una cultura meticcia in Italia. Destra radicale e sinistra radicale ultimamente sono unite su due cose. Il populismo: penale, sociale, economico, comunque sia populismo. E da qualche tempo hanno un altro elemento in comune: l’avversione nei confronti del magnate George Soros. Qualsiasi cosa accada nel mondo la colpa è di quel signore riccastro, che sarebbe impegnato in un gigantesco complotto per ridisegnare a suo favore i confini e addirittura i caratteri somatici dei popoli del mondo. A sinistra li abbiamo visti in azione sul caso del giornalista Gabriele Del Grande, tenuto, senza motivo, nelle carceri turche e poi liberato grazie anche all’intervento delle autorità italiane. La sua immagine, giustamente osservata con grande rispetto e apprensione, si è incrinata davanti a questa accusa: i suoi lavori - è anche infatti un documentarista - sono finanziati da Soros! Accusa che Del Grande ha respinto con uno sdegno sinceramente incomprensibile: che cosa ci sarebbe infatti di male, qualora fosse vero, a farsi finanziare dalla sua Fondazione? Ma Soros oggi ha soprattutto un’altra colpa. Sarebbe il responsabile di un progetto preciso per far saltare in aria il nostro Paese. L’obiettivo, attraverso il finanziamento dell’immigrazione, è quello di favorire... il meticciato. Lo pensa il leader della Lega, Matteo Salvini. "Sono sempre più convinto ha detto - che sia in corso un chiaro tentativo di sostituzione etnica di popoli con altri popoli. Questa non è un’immigrazione emergenziale ma organizzata che tende a sostituire etnicamente il popolo italiano con altri popoli, lavoratori italiani con altri lavoratori". Le guerre, la povertà, la disperazione per Salvini non hanno alcuna valenza. Il vero responsabile, la mente diabolica, il Grande Fratello, è uno, è lui: il magnate. "È un’operazione economica e commerciale - dice il segretario leghista - finanziata da gente come Soros. Per quanto mi riguarda metterei fuorilegge tutte le istituzioni finanziate anche con un solo euro da gente come lui. Non potrebbero poter mettere piede in Italia". Sì, perché l’imprenditore ungherese naturalizzato statunitense nei giorni scorsi era in Italia dove ha incontrato il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. L’equazione è presto fatta. Mentre il pm Carmelo Zuccaro veniva audito dalla commissione difesa a proposito delle sue accuse rivolte alle Ong che lavorano per salvare i migranti, il premier italiano riceveva il responsabile dell’invasione migratoria. Come non vedere la coincidenza? Come non leggere il significato recondito ma vero? Insieme a Salvini lo hanno pensato diversi utenti del web che hanno rilanciato la notizia dei due incontri paralleli e anche Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) lo ha sottolineato: "Non mi è chiara la ragione per la quale, in questi giorni, in cui il tema delle Ong è al centro del dibattito, Gentiloni abbia ricevuto Soros". Il complotto è servito. E poco importa che il premier lo abbia incontrato proprio per chiedergli di fare investimenti in Italia come suggeriva polemicamente la stessa leader di destra. La convinzione è questa. Forza Nuova, che ha srotolato uno striscione ("Ong scafisti") davanti alla sede dell’Oim, lo ha ribadito: tutta colpa di Soros. Contano non i fatti, ma le paure; non le notizie, ma le bufale. L’intreccio tra fake news (notizie false), complottismo e giustizialismo è molto forte. Si alimentano l’uno con l’altro, istigando le paure delle persone. Non si cerca di comprendere che cosa sia davvero il lavoro delle Ong, in quale situazione si muovano. Questo passa in secondo piano. Emerge invece il complotto che favorirebbe il meticciato, come se già non vivessimo in una cultura meticcia. I fatti restano altri. Migliaia e migliaia di persone che fuggono da guerre e povertà e un magnate che, per fortuna, aiuta chi li aiuta. Ma le teorie complottiste per quanto assurde o campate in aria hanno sempre più presa sulle persone: il complotto dà comunque una visione lineare della realtà, la semplifica a uso e consumo del senso comune. Ed è sempre più difficile non cadere nella trappola. Migranti. Msf: "con 12 morti in mare al giorno non siamo noi sul banco degli imputati" di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 5 maggio 2017 Intervista. Marco Bertotto: "Siamo solamente noi, organizzazioni non governative e Guardia costiera, a fare soccorsi". Uno stillicidio. Sembrava che le smentite arrivate da Copasir, Commissione europea, procura di Siracusa, avessero interrotto la campagna contro le ong, invece il can can è ripreso con la divulgazione di un fantomatico "allegato" segreto al rapporto Frontex 2017. "Ne abbiamo letto sulla stampa, ma le accuse non sono nuove", risponde Marco Bertotto di Medici senza Frontiere. Cosa c’è di vero e cosa è palesemente falso? Quello che c’è di vero è che dopo tre anni di attività di search and rescue, ricerca e soccorso, sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana finalmente anche molti giornalisti e politici, tolti quelli che sono venuti a bordo delle nostre navi, si sono accorti che il soccorso in mare lo facciamo praticamente soltanto noi, Guardia costiera e ong. Prima dovevamo assistere dopo ogni naufragio a lacrime di coccodrillo, ora è chiaro che a parte le organizzazioni come la nostra, tanto meno Frontex, ha come priorità soccorrere le vite umane nel Mediterraneo. Frontex ci ha sempre accusato di essere un pull factor, un fattore di attrazione dei migranti. Fin qui è vero. Non è vero che ci sia una preordinata collaborazione o complicità di qualche tipo con i trafficanti. Meglio, è un elemento vergognoso che si continui con queste ricostruzioni false della realtà per le quali il problema sembra essere il soccorso in mare e non invece la fallimentare politica europea che di fatto genera il business dei trafficanti. è una pratica di distrazione di massa che consiste nel distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dal fallimento della lotta ai trafficanti. Quali sono i motivi per cui non funziona la lotta ai trafficanti di esseri umani? Perché non basta erigere un muro o rendere più pericolosa la traversata per contenere il flusso di chi fugge. Questa strategia alimenta solo il business dei contrabbandieri senza alcun effetto sulle partenze se non quello di aumentare i morti in mare. Vede, magari come ong interveniamo in modo imperfetto, sicuramente in modo limitato, ma cerchiamo di attenuare gli effetti negativi delle attuali politiche europee. Altra accusa che rimbalza è l’elenco dei telefoni delle ong nei satellitari degli scafisti. Parlo per la nostra organizzazione: noi non siamo mai stati contattati direttamente dai migranti. La procedura d’intervento è: o li avvistiamo direttamente oppure seguiamo le indicazioni della Guardia costiera. Nelle audizioni in Senato lo abbiamo detto e le dichiarazioni di tutte le altre ong sono analoghe. Di queste cose poi non c’è traccia né nel rapporto Frontex né in quello della Guardia costiera. E se ci fossero state evidenze di contatti simili, non credo che nessuno avrebbe taciuto. E la questione dei finanziamenti opachi? I nostri bilanci sono pubblici. Quando poi mi chiedono se abbiamo l’elenco completo dei donatori si deve capire che non siamo una parrocchia dove la famiglia Bonetti dona 20 euro e si sa, abbiamo 300 mila sostenitori, la maggior parte attraverso il 5 per mille, i Rid bancari e altre anche all’estero, più una fondazione bancaria. Una situazione condivisa anche da altre ong internazionali come il Moas, a quanto emerge. Se ci sono prove di fondi non trasparenti o di finanziamenti di trafficanti, saremmo lieti di una sentenza di condanna. Al momento sembrano illazioni e macchine del fango. Sareste disposti a accettare poliziotti di controllo sulle vostre imbarcazioni? La polizia era dispiegata sui mezzi della missione Mare Nostrum a cavallo tra 2013 e 2014 per combattere i trafficanti e per il salvataggio in mare dei migranti. Poi la missione è stata interrotta perché, si disse, troppo costosa e per le polemiche di esseere un fattore attrattivo, la stessa accusa che ora viene mossa alle ong. Evidentemente dà fastidio che ci si faccia soccorso in mare, visto che la priorità delle politiche europee è il controllo e la polizia giudiziaria. Noi non crediamo in questa strategia. Ma ammettiamo per un attimo che la priorità sia il contrasto agli scafisti, non si può chiedere però ai medici e agli operatori umanitari un ruolo di supplenza su questo. Noi abbiamo messo in mare le navi quando, dopo l’interruzione di Mare Nostrum, a metà aprile 2015, in 4 mesi i morti salirono di 30 volte. Intervenivano i mercantili, ma non attrezzati, morirono 1.200 persone. Capimmo allora che l’Europa se ne fregava e decidemmo di mettere gli assetti in mare. Si riattivi dunque Mare Nostrum. Noi non accettiamo di stare sul banco degli accusati. Con 5 mila vittime l’anno, 12 al giorno, la mortalità nel Mediterraneo è equivalente a quella di un conflitto di media intensità. Quando finirà questo stillicidio di accuse alle ong? quando entrerà in funzione solo la Guardia costiera libica? Non voglio fare speculazioni. La speranza è che in questo chiacchericcio su transponder spenti, interventi a 11 miglia e mezzo dalla costa e altre piccole cose non finisca nel dimenticatoio la trave di politiche fallimentari che oltre a fare 12 morti al giorno fomentano odio e xenofobia. Altrimenti noi dormiremo sonni tranquilli, qualcun altro dovrà rispondere al tribunale della storia oltre alla propria coscienza. Droghe. Legalizzare la marijuana di Henry John Woodcock La Repubblica, 5 maggio 2017 Il 5 e 6 maggio, nelle sale dell’Istituto Italiano per gli Studi filosofici, si terrà un convegno promosso dalla associazione "Not dark yet" (Non è ancora buio), dal titolo "Prima (invece) di punire". La mattinata di venerdì sarà dedicata al tema della legalizzazione della cannabis, proposta come una strategia per combattere l’illegalità. Parteciperò anche io a questa sessione, insieme ad altri autorevoli personaggi come Franco Roberti (Procuratore Nazionale Antimafia), il senatore Benedetto Della Vedova (promotore di una proposta di legge sul tema che ha raccolto moltissimi consensi) e il giurista Fernando Rovira, che ha contribuito alla stesura della prima legge che, in Uruguay, ha regolamentato la vendita della cannabis, come specifica strategia per combattere il narcotraffico. Dopo la coraggiosa iniziativa di questo piccolo Stato dell’America Latina, anche alcuni Stati nord americani, come il Colorado e Washington DC, hanno liberalizzato l’uso delle droghe leggere per scopi ricreativi, ad essi si sono poi aggiunti l’Oregon e l’Alaska e, in concomitanza con le elezioni presidenziali dello scorso novembre, anche in altri 8 Stati (tra cui l’immensa California) sono passati referendum che proponevano il libero uso della marijuana per scopi medici e/o ricreativi. Si tratta, io credo, di un fiume che sarà difficile arrestare. Recentemente anche il premier canadese Justin Trudeau si è fatto promotore di una legge di legalizzazione dell’uso della marijuana per scopi ricreativi e, anche in Italia, qualcosa si sta muovendo. A partire dalla sentenza del 12 febbraio 2014, con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della legge Fini-Giovanardi, ripristinando una rilevante differenza di pena tra droghe leggere e droghe pesanti. E dal modo in cui, già in più occasioni, la Direzione nazionale antimafia (Dna) ha trattato la questione nelle sue annuali relazioni al Parlamento. Nella prima di queste, si parla infatti del notevole incremento di sequestri (nello scorso anno 147.132 kg, pari al +120%), e si conclude che - calcolato il sequestrato inferiore di almeno 10-20 volte al consumato - la massa circolante di cannabinoidi soddisfa un mercato di "dimensioni gigantesche". Insomma ogni abitante in Italia, compresi vecchi e bambini, avrebbe a disposizione dalle 100 alle 200 dosi all’anno. Si tratterebbe dunque di un fenomeno paragonabile, secondo la Dna, "quanto a radicamento e diffusione sociale" a quello dell’utilizzo di altre sostanze lecite quali alcool e tabacco. Ciò che è più importante, però è che la Dna afferma il "totale fallimento dell’azione repressiva" e suggerisce al legislatore la depenalizzazione, di cui descrive i vantaggi: deflazione dei carichi giudiziari, possibilità di dedicarsi al contrasto di fenomeni criminali più gravi e, non ultimo, sottrazione alle gang di un mercato altamente redditizio. Fra i vantaggi, non vengono contemplati gli introiti che lo Stato italiano ricaverebbe da una legalizzazione, e si tratterebbe di svariati miliardi di euro. Intanto in Colorado prosegue la corsa a quello che viene oramai definito "l’oro verde", con l’apertura di centinaia di dispensari, che impiegano migliaia di dipendenti e pagano le tasse. Per non parlare dell’indotto, con avvocati specializzati nel "diritto della marijuana", commercialisti, tecnici della coltivazione e della trasformazione… La scelta della depenalizzazione si fa dunque sempre più matura e si consolida nell’opinione pubblica. E riguarda molto Napoli, da alcuni additata come "la capitale dell’illegalità". Sommessamente penso che debba affermarsi l’idea che il contrasto solo "militare" dei fenomeni criminali sia troppo costoso (in termini di risorse materiali, ma anche di sperpero di vite e destini individuali) e si sia dimostrato fallimentare, come dice oggi la Dna a proposito delle droghe leggere. Varrebbe la pena di cominciare a pensare a strategie di contrasto dell’illegalità che superino una impostazione meramente repressiva, e soprattutto bisognerebbe immaginare ad un progetto che in un futuro, speriamo non lontano, consenta di impiegare le "energie umane", oggi impiegate nel mercato illegale della cannabis (e, di regola, sfruttate dalla criminalità organizzata), nell’auspicabile "mercato legalizzato" della stessa. *Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Napoli Medio Oriente. Mille giorni di guerra all’Isis: uccisi 70mila jihadisti, 3.200 vittime civili di Giordano Stabile La Stampa, 5 maggio 2017 Il rapporto di Airwars: 21mila raid a partire dall’8 agosto 2014, al costo di 13 milioni al giorno. Il sito specializzato Airwars ha pubblicato il bilancio dei primi mille giorni di guerra aerea all’Isis, cominciata l’8 agosto 2014 con raid americano vicino a Erbil, in Iraq, allora minacciata dall’avanzata dei jihadisti del Califfato. La mole di dati evidenzia una delle più lunghe e sanguinose campagne della storia dell’aviazione. Al costo medio di 13 milioni di dollari al giorno, quindi 13 miliardi in totale, gli aerei della coalizione a guida statunitense hanno condotto 21.064 raid, e sganciato almeno 76 mila bombe. Terroristi uccisi e vittime civili - Secondo le ultime stime del Pentagono, la campagna aerea ha condotto all’eliminazione di circa 70 mila terroristi dell’Isis, cioè i due terzi delle loro forze, in base alle stime più alte. Airwars ha però anche calcolato le perdite fra i civili, che ammonterebbero a oltre 3200. Di mille è stata anche ricostruita l’identità. Il dato arriva dopo le polemiche per le centinaia di vittime in un raid statunitense a Mosul Ovest, lo scorso mese. Le perdite nella coalizione ammontano a 7, compreso un pilota giordano catturato e bruciato vivo dagli islamisti nel gennaio 2015. Le operazioni - La prima bomba, a guida laser, è stata lanciata da un F-18 americano l’8 agosto 2014. Da allora la coalizione ha condotto 12.552 raid in Iraq e 8502 in Siria. Gli americani hanno condotto il 95 per cento dei raid in Siria, e il 68 per cento in Iraq. Al secondo posto arrivano i britannici con 1214 raid in Iraq e 92 in Siria. Seguono poi l’Olanda, che però si è ritirata nel giugno del 2016, con 493 bombardamenti e l’Australia con 489 azioni. Il numero di ordigni usati era pari a 76.649 a fine marzo 2017. Nei primi tre mesi del 2017 c’è stato un aumento del 58 per cento nel numero di bombe utilizzate rispetto al 2016. I raid russi - Airwars ha anche analizzato i raid russi in Siria in particolare ad Aleppo, che non fanno parte del conteggio. Fra il 30 settembre 2015 e il 30 aprile 2016 avrebbero causato fra 2210 e 2984 vittime civili, a fronte delle 3294 causate dalla coalizione occidentale in quasi tre anni di guerra. Le conseguenze sul terreno - Nei mille giorni di campagna aerea, unita alle offensive delle forze curde in Siria e Iraq, e delle forze regolari irachene appoggiate da milizie sciite, l’Isis ha perso il 57 per cento del territorio che controllava nell’autunno del 2014, all’apice della sua espansione e il 73 per cento della popolazione sotto il suo dominio, da 11 milioni di persone a meno di 3. Nelle battaglie, oltre a migliaia di vittime civili, sono caduti anche almeno 1200 guerriglieri curdi e fino a 8 mila soldati e miliziani iracheni, secondo le stime più alte, smentite però dal governo di Baghdad. Brasile. Amnesty International: polizia assassina, record di uccisioni di Sara Volandri Il Dubbio, 5 maggio 2017 Uno Stato di polizia, nel senso più endemico e cruento del termine perché la sua polizia agisce di fatto come uno squadrone della morte e le cifre della mattanza stanno lì a testimoniarlo. Il Brasile fotografato dal rapporto presentato da Amnesty International alle Nazioni Unite è un paese feroce in cui le forze dell’ordine solo a Rio de Janeiro hanno ucciso 185 persone nei primi due mesi del 2017, una media da guerra civile, novanta morti al mese per mano delle autorità, oltre mille l’anno in un’unica metropoli. Un aumento del 78% rispetto allo stesso periodo del 2016. L’anno scorso in città sono state registrate 920 uccisioni da parte di agenti, contro 419 nel 2012. "Dal 2012 il Brasile non ha preso misure sufficienti per affrontare lo scioccante livello di violazioni dei diritti umani, comprese le uccisioni da parte della polizia, che causano centinaia di vittime ogni anno", ha dichiarato Jurema Werneck, direttrice generale di Amnesty International Brasile. "È stato fatto davvero molto poco per ridurre il numero delle uccisioni, controllare l’uso della forza da parte della polizia o garantire i diritti delle popolazioni native sanciti dalla Costituzione. Gli stati membri dell’Onu devono dire in modo chiaro al Brasile che tutto questo deve cambiare", ha aggiunto Werneck. Il Brasile - sottolinea ancora Amnesty International - vanta un livello assai alto di omicidi, circa 60mila nel 2015. La maggior parte delle vittime sono giovani neri. Confrontate a una criminalità organizzata storicamente molto violenta anche le forze di polizia si macchiano da sempre di crimini efferati come se agissero in un territorio di guerra al di fuori del perimetro della legge. Molti omicidi commessi da poliziotti possono essere considerati esecuzioni extragiudiziali ovvero un crimine che riguarda il diritto internazionale. Nel 2015 sempre a Rio del Janeiro le forze di polizia sono state responsabili di un’uccisione su cinque, a San Paolo di una su quattro. Nonostante il fatto che oltre il 70% degli omicidi in Brasile avviene mediante l’uso di armi da fuoco - denuncia l’organizzazione - il Congresso sta purtroppo discutendo una proposta di legge che ridurrebbe le limitazioni al possesso di armi da fuoco in vigore dal 2004. La violenza è aumentata negli ultimi anni anche nelle zone rurali del paese, soprattutto nel contesto delle dispute sulla terra che vedono vittime le comunità contadine e native. Nel 2016, la Commissione pastorale della terra ha registrato 61 uccisioni, 200 minacce di morte e 74 tentati omicidi relativi alle dispute sulla terra e sulle risorse naturali. Si è trattato del secondo anno più violento in un quarto di secolo, dopo il 2013 in cui furono registrate 73 uccisioni. Finora nel 2017 le uccisioni sono state 19. Nel rapporto sottoposto alle Nazioni Unite in occasione dell’Esame periodico universale del Brasile, Amnesty International ha espresso anche gravi preoccupazioni in materia di diritti dei popoli nativi, maltrattamenti e torture, condizioni delle carceri, libertà d’espressione e repressione delle proteste pacifiche. Argentina. Torna l’impunità per i militari degli anni 70 di Claudio Tognonato Il Manifesto, 5 maggio 2017 Proteste in tutto il paese contro la sentenza della Corte suprema. Con una sentenza che ha già suscitato diffuse proteste in tutto il paese, la Corte suprema argentina ha equiparato i delitti di lesa umanità ai crimini comuni concedendo il beneficio del cosiddetto 2 per 1. Tale misura consente di ridurre la pena considerando doppi gli anni trascorsi in prigione prima della sentenza definitiva. In questo modo molti genocidi potrebbero uscire dal carcere. La norma era stata derogata nel 2001. Le abuelas de Plaza de Mayo hanno convocato d’urgenza una conferenza stampa e dichiarato insieme a Taty Almeida, di Madres di Plaza de Mayo, Horacio Verbitsky, del Centro de Estudios Legales y Sociales e altri organismi di diritti umani, il loro ripudio alla misura che potrebbe trasformarsi a breve in un’amnistia verso i militari responsabili del terrorismo di stato nell’ultima dittatura (1976-1983). "Questa sentenza conferma il cambio di paradigma che si vive nel paese da quando si è insediato Mauricio Macri e apre alla possibilità d’incontrarsi per strada con gli assassini dei nostri genitori. Noi non lo consentiremo", ha dichiarato Carlos Pisoni, rappresentante di Hijos, i figli dei desaparecidos. La decisione della Corte, che ha avuto il parere favorevole di 3 dei 5 membri, è stata applicata al caso di Luis Muiña condannato per il sequestro di 22 persone e torture nel campo di concentramento clandestino che funzionò nell’ospedale Posadas, nella città di Buenos Aires. I membri in minoranza hanno argomentato che "la riduzione della pena non è applicabile ai crimini della dittatura perché si considera che il delitto sussiste in tanto non si conosca il destino dei desaparecidos e dei loro figli appropriati illegalmente". Non è un caso, ha dichiarato Taty Almeida, che la sentenza arrivi dopo la dichiarazione dell’Episcopato argentino che chiede la riconciliazione nazionale. Una riconciliazione impossibile in quanto i repressori non hanno mai chiesto perdono né collaborato con la magistratura mantenendo un totale silenzio sulla fine dei desaparecidos. "Non perdoniamo, non accettiamo la riconciliazione: chiediamo giustizia". Horacio Verbitsky ha giustamente considerato che la lentezza nei processi "non è responsabilità delle vittime ma dei giudici che non hanno agito con la dovuta premura e della stessa Corte che ha accumulato sentenze, consentendo in molti casi che gli imputati morissero senza arrivare alla condanna definitiva". Si tratta di una delle sentenze più gravi nella storia della magistratura argentina, che per anni era riuscita a bloccare i processi contro i genocidi con le leggi di Obbedienza dovuta, che toglieva ogni responsabilità agli autori materiali di sequestri, torture e uccisioni, in quanto obbedivano ordini, e il Punto finale, che direttamente impediva l’apertura di nuovi processi. Ora si prevede che centinai di militari, condannati o in attesa di sentenza, presentino ricorso per rientrare nella riduzione di pena che darebbe luogo ad una tacita amnistia generalizzata. È "un grave errore" equiparare i delitti comuni con quelli di lesa umanità concedendo le stesse garanzie, ha dichiarato lo stesso ministro di Grazia e giustizia del governo Macri, noi rispettiamo la divisione dei poteri e quindi accettiamo le decisioni del massimo tribunale, ma la misura adottata dalla Corte applica "una delle peggiori inventive" in materia di politica criminale. L’incubo di un ritorno al passato serpeggia tra i familiari delle vittime, ma di incubi nella loro lunga storia, ne hanno visti tanti. Stati Uniti. La meditazione entra nelle carceri, per i detenuti e per il personale di Giovanni Galli Italia Oggi, 5 maggio 2017 La meditazione è considerata un metodo efficace per la riabilitazione dei detenuti, ma anche un valido sostegno per il personale di uno dei luoghi di lavoro più duri quale è il carcere. A raccontarlo al Wall Street Journal è Justin von Bujdoss, 42 anni, una moglie e tre figli a Brooklyn. È il primo lama buddista autorizzato a operare con lo staff della prigione di Rikers Islands di New York, in accordo con i funzionari del dipartimento carcerario della Grande Mela. In questo caso la religione non c’entra. La sua missione è quella di aiutare lo staff della prigione "considerato il carcere degli orrori" a liberarsi, o almeno a controllare, lo stress e superare le crisi di un lavoro con i detenuti che è molto duro. Durante una seduta di meditazione, Justin von Bujdoss, cravatta e giubbotto blu antivento, ha insegnato ai suoi 19 allievi, seduti in circolo, a chiudere gli occhi e a meditare sulla loro sedia di plastica, liberando le tensioni sulle spalle e immaginando di prendere fra le braccia una sfera di luce. I meditanti trovano la pratica molto rilassante. Seguendo le sue istruzioni molti meditanti, che fanno parte del personale della prigione, hanno sorriso. Uno addirittura ha cominciato a russare piano. Lo sbattere della porta metallica è passato apparentemente inosservato. Il dipartimento carcerario di Rikers Islands impiega 27 cappellani (otto protestanti, otto cattolici, sette musulmani e quattro ebrei) e tutti si occupano dei detenuti. Invece il buddista von Bujdoss è concentrato sullo staff del complesso carcerario, amministrativi compresi. E ha cominciato le sue sedute di meditazione dal 2013, quando il Dharma center di Brooklyn (l’1% degli adulti nello stato di New York è buddista), del quale era direttore esecutivo, ha deciso di lavorare a un progetto sociale. Nigeria. La tribù Ikebiri denuncia l’Eni "un oleodotto esploso ha rovinato le nostre terre" di Paolo Colonnello La Stampa, 5 maggio 2017 La rottura di una conduttura petrolifera a 250 metri da un torrente avrebbe compromesso la vita dei villaggi, danneggiando la fauna ittica e la vegetazione. Non c’è solo la grana delle presunte tangenti pagate in Nigeria. Dallo stato africano questa volta a denunciare l’Eni si è alzata nientemeno che la voce di un Re, il sovrano degli Ikebiri, tribù composta da diversi villaggi situati sul delta del Niger nello stato di Bayelsa. Secondo il monarca, la multinazionale petrolifera italiana non avrebbe pagato il giusto risarcimento per il danno ambientale provocato dalla rottura di una conduttura petrolifera a 250 metri da un torrente con sversamenti che hanno inquinato il fiume e gli stagni adiacenti, fondamentali per la vita dei villaggi, danneggiando la fauna ittica e la vegetazione, compromettendo in modo irreparabile le fonti di sostentamento della comunità. Re e sudditi Ikebiri, grazie all’aiuto di Friends of The Eart, dopo essersi rivolti alla giustizia nigeriana, hanno deciso, attraverso l’avvocato Luca Saltalamacchia, di depositare un esposto anche a Milano, competente sulla sede centrale di Eni a San Donato. E oggi la citazione è stata notificata all’Ente controllato dal Tesoro, chiedendo la bonifica del territorio e un risarcimento "adeguato" pari a due milioni di euro. Si tratta del primo giudizio nel nostro ordinamento introdotto da una comunità straniera nei confronti di una multinazionale italiana. Le trattative interrotte per un risarcimento - Il 5 aprile del 2010 la conduttura petrolifera, di proprietà della Naoc, società controllata dall’Eni in Nigeria, è esplosa a 250 metri dal torrente che scorre nella zona settentrionale dei territori della comunità Ikebiri le cui principali attività economiche vanno dalla produzione dell’olio di palma, alla costruzione di canoe, alla pesca e all’agricoltura. Una comunità rurale ma sveglia, visto che ha deciso di promuovere una causa internazionale. Inizialmente gli Ikebiri si erano rivolti all’Eni, ottenendo "un pagamento di due milioni di naira, equivalenti a 6.000 euro attuali e a 10 mila nel 2010", spiega l’avvocato Saltalamacchia. L’offerta iniziale di 4,5 milioni di naira (pari a 13 mila euro attuali e 22 mila nel 2010) è stata rifiutata dal Re, che l’ha giudicata insufficiente. Da allora le trattative si sono interrotte e la comunità ha deciso di rivolgersi agli avvocati anche in Italia. I quali spiegano che "secondo gli standard applicati in passato dalle corti nigeriane, e tenuto conto del tempo trascorso dal 2010 a oggi senza che sia stata effettuata una bonifica, un risarcimento congruo dovrebbe ammontare a poco più di 700 milioni di naira, circa due milioni di euro". "In molti si sono ammalati" - Spiega Emilia Mattew, residente della comunità Ikebiri che "in questi anni molti di noi si sono ammalati. La pesca, che è sempre stata auna nostra fonte di sostentamento è ormai a rischio. Anche le coltivazioni che comprendono le piante medicinali che usiamo per curarci, sono state compromesse". Ai giudici milanesi, gli Ikebiri chiedono di "accertare la responsabilità dell’Eni e di Naoc in relazione allo sversamento di petrolio del 2010", di verificare le condizioni attuali del territorio e "condannare le convenute a risarcire tutti i danni patiti dalla comunità e a eseguire la bonifica dell’area inquinata". L’Eni comunque da tempo si è dotata di una serie di strumenti di "due diligence" che applica in generale nella propria attività e nello specifico in quella nigeriana, vincolanti anche per la Naoc. Lo scorso gennaio la multinazionale ha ulteriormente rafforzato la sua partnership in Nigeria contribuendo a promuovere nuove attività in gradi di contribuire in misura significativa allo sviluppo economico e sociale in Nigeria.