"Il carcere parli con l’esterno". Cento alunni trentini a Padova di Stefano Voltolini Corriere del Trentino, 4 maggio 2017 "Le uniche carceri che hanno senso sono quelle più aperte che, tramite il confronto con la società, responsabilizzano i detenuti, li rendono consapevoli del male compiuto. Altrimenti, la pena "cattiva" e la prigione chiusa finiscono per rendere la persona peggiore: con un rischio per i cittadini al momento dell’uscita". Ornella Favero, ideatrice e direttrice della rivista "Ristretti Orizzonti", nata nella casa circondariale di Padova, definisce un modello di detenzione "virtuosa". Il riferimento, sottinteso, è alla situazione del carcere di Trento, che oltre ai problemi di sovraffollamento sconta delle criticità nel rapporto con l’esterno. La giornalista e volontaria interviene al museo diocesano di Trento durante uno degli incontri che concludono la mostra "Fratelli e sorelle. Racconti dal carcere". Con lei, al Diocesano, ci sono tre ex detenuti, con le loro storie dolorose (per loro e per gli altri), raccontate a fini educativi. A beneficio di tutti. Sono A. e B., oggi redattori della rivista padovana, e R., un trentaduenne di Trento. La realtà di Padova, nata nel 1997 e diventata un punto di riferimento, attira molte scolaresche. Anche dal Trentino. "Abbiamo appena fatto un incontro con un centinaio di studenti e ne abbiamo altri due a breve, l’8 e il 23 maggio. Perché a Trento non si fanno?", prosegue Favero. Il confronto per la giornalista è fondamentale, in un’ottica di consapevolezza e prevenzione. "Favorire il racconto della propria esperienza aiuta a capire cosa è successo nella propria vita. Il "marcire in galera" infatti non serve a niente, la persona può solo peggiorare e resta un pericolo per gli altri all’uscita. Per chi è fuori invece ascoltare le storie personali è altrettanto utile. Perché non si può pensare che da una parte ci siamo noi, i buoni, e dall’altra loro, i cattivi. Scivolare in comportamenti a rischio è facile. Ecco perché è importante imparare a stare attenti". E per rendere viva l’introduzione di Favero ci sono i racconti in prima persona di A., B., R.. Il primo, oggi quarantenne, ha finito di scontare una pena di 21 anni per l’omicidio compiuto in un periodo di tossicodipendenza. "È vero, ho ucciso una persona. Avevo 21 anni ed ero dipendente dall’eroina. Una cosa che avevo sempre ritenuto impossibile. Da ragazzo ero persino severo con i coetanei che si sballavano. All’inizio usavamo la sostanza per divertirci nei weekend. Poi, aumentando la frequenza è iniziata la sindrome di astinenza. Tremori, sudori freddi, febbre, vomito e diarrea: stai talmente male che pensi solo a come ottenere altra "roba". Non mi interessava nient’altro che quello". Oltre alla storia di B., che ha passato decenni in carcere per reati contro il patrimonio ("Da ragazzi ci affascinò il mito della bella vita" racconta), c’è quella di R.. In convitto, durante la scuola alberghiera, da adolescente, iniziò un periodo fatto di furti e spaccio per avere i soldi che servono allo sballo. "Entravo e uscivo in carcere, senza fare niente dentro e parlando solo con persone che avevano un’esperienza di reati maggiore. Non mi interessava nulla. La ripresa del percorso scolastico mi ha aiutato a farmi amicizie anche fuori. E ora sto cercando di cambiare". Legittima difesa, la legge cambia: "libertà di reagire in casa di notte" di Dino Martirano Corriere della Sera, 4 maggio 2017 Accordo nella maggioranza: Pd e Ap aprono all’autotutela per chi usa la forza in caso di "grave turbamento". Mercoledì il voto alla Camera. FI si schiera per il no con la Lega. Dopo la riforma del 2006 del governo Berlusconi, si allargano di nuovo le maglie della legittima difesa. Potrebbe non essere più punito chi, in casa, di notte, magari con figli minori che dormono nella stanza accanto, reagirà in preda a "un grave turbamento". Anche sparando. Per reagire a un assalto "violento, con minaccia e inganno", che mette a rischio la sua incolumità fisica e quella dei suoi cari. In altre parole, con la legge che oggi la Camera si appresta ad approvare in prima lettura con i soli voti della maggioranza (il centro destra, unito, è contrario perché ritiene il testo troppo blando e anche i grillini sono orientati per il no) il magistrato avrà uno strumento in più per valutare con un proscioglimento tutti quei casi limite che ora finiscono con una condanna per eccesso colposo di legittima difesa. L’impianto della legge voluto dal relatore Davide Ermini (Pd) e fortemente sostenuto dai centristi di Ap può essere applicato anche per assalti effettuati di notte nei negozi e negli uffici. Resta comunque ferma la necessità che vi sia proporzione tra offesa e difesa, che rimanga costante l’attualità del pericolo e che l’aggressore non desista dandosi alla fuga davanti alla reazione. La colpa - Nella legittima difesa domiciliare, dunque, è sempre esclusa la colpa di chi spara se l’errore, in condizioni di pericolo per la vita e la libertà personale o sessuale della persona aggredita, è conseguenza di "un grave turbamento psichico causato dall’aggressore". A questo si aggiunge poi la norma contenuta in un emendamento Lupi-Marotta (Ap) che rafforza ulteriormente i confini della legittima difesa nel caso di assalti notturni armati. Un’altra novità riguarda il rimborso delle spese legali per gli indagati che vengono prosciolti. Nel caso in cui venga dichiarata la non punibilità per legittima difesa, tutte le spese processuali e i compensi per gli avvocati saranno a carico dello Stato. La copertura, è stato calcolato, sarà di 295.200 euro l’anno a partire dal 2017. La cifra non è enorme, ha chiarito il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, perché attualmente i processi pendenti per i quali è riscontrabile la legittima difesa sono appena 126: "Appena il 5% - ha aggiunto - dei reati consumati tra le mura domestiche". Il Pd, che ha accolto molte richieste dei centristi e del ministro Enrico Costa (Ap), causando qualche mal di pancia al suo interno, aveva quasi raggiunto un accordo anche con Forza Italia. Ma alla fine il centro destra (anche con Fratelli d’Italia) si è ricompattato sulla linea dura della Lega che considera troppo blando il provvedimento, puntando invece sulla legittima difesa automatica (escludendo cioè la valutazione del giudice) ogni qual volta si verifica una aggressione violenta nell’altrui domicilio. Forza Italia - In serata Silvio Berlusconi ha dato la linea a Forza Italia: "Chi è costretto a difendersi in casa non può essere processato. Voteremo contro questa legge". L’equilibrio della nuova norma, "che tutela chi è vittima di un reato senza creare il Far West", è stato difeso dal relatore Ermini che accusa Berlusconi di "non conoscere il testo in esame e forse neanche quello approvato nel 2006 dalla suo governo". Legittima difesa o licenza d’uccidere? di Sergio Lorusso Gazzetta del Mezzogiorno, 4 maggio 2017 Arrivata ieri in Aula alla Camera dei deputati il disegno di legge di riforma della legittima difesa (art. 52 c.p.), che rischia di mettere in crisi i rapporti all’interno della maggioranza. Se infatti Pd e alfaniani concordano sull’opportunità di modificare l’attuale norma, non vi è uniformità di vedute su come farlo. Oggetto del contendere i limiti entro cui è possibile reagire con un’arma - sempre che sia legittimamente detenuta - all’aggressione portata alla persona o ai beni all’interno del proprio domicilio (o del luogo in cui viene esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale). Il tema è di persistente attualità, reso stringente da reiterati episodi di cronaca che hanno visto protagonisti malfattori colti nell’atto di compiere furti in abitazioni e negozi da cittadini armati che hanno fatto fuoco sui primi, ferendoli o uccidendoli, finendo poi sotto processo per eccesso colposo di legittima difesa. Ed è, come si comprende agevolmente, di interesse comune, toccando il problema della sicurezza pubblica: non è un caso che, da tempo venga agitato da alcune forze politiche - in primis la Lega Nord - che ne hanno fatto, spesso demagogicamente, un loro cavallo di battaglia. Dimenticando che fu proprio il ministro della Giustizia del Governo Berlusconi, nel 2006, a volere l’attuale disciplina della legittima difesa, tutt’altro che cedevole nei confronti di chi decide di aggredire il patrimonio altrui. Come si diceva, la questione divide l’attuale maggioranza. Da un lato, il Pd propone una mediazione, con un testo (inserito nell’art. 59 c.p.) che esclude sempre la colpa dell’agente "quando l’errore è conseguenza del grave turbamento psichico causato dalla persona contro la quale è diretta la reazione". In sostanza è sufficiente che vi sia la convinzione soggettiva di essere minacciati, desumibile - come si legge nella Relazione che accompagna la proposta - da "facili indicatori soggettivi dati dal tempo (ad esempio di notte o in orario tale da creare comunque sorpresa e spavento), dalle modalità dell’aggressione, dalla rappresentazione che di sé dà l’aggressore (apparentemente armato o travisato), dalla qualità della persona o delle persone aggredite (anziani, donne, adolescenti o bambini). Si prevede inoltre che, nel caso in cui il soggetto venga sottoposto a procedimento penale, abbia diritto al rimborso delle spese legali da parte dello Stato in caso di archiviazione o di assoluzione. Dall’altro, Area popolare che spinge sull’acceleratore chiedendo l’introduzione di una sorta di presunzione di non colpevolezza, o meglio di un’inversione dell’onere della prova: dovrà essere l’aggressore (id est il ladro o rapinatore) a dimostrare che vi sia stato un eccesso di legittima difesa e lo stesso non potrà comunque chiedere il risarcimento del danno subito. Posizione, quest’ultima, molto vicina a quella della Lega, che parla di presunzione assoluta di non colpevolezza. Il tema è sensibile, come dimostra la raccolta, lo scorso anno da parte dell’Italia dei Valori, di oltre due milioni di firme per una proposta di legge d’iniziativa popolare sulla legittima difesa, anch’essa estremamente radicale in quanto prevede sic et simpliciter una modifica dell’art. 55 c.p. in base alla quale "non sussiste eccesso colposo in legittima difesa quando la condotta è diretta alla salvaguardia della propria o altrui incolumità o dei beni propri o altrui", oltre a un aggravamento del trattamento sanzionatorio della violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Logica securitaria vs. tutela dei criminali? Non è esattamente così. In realtà il dibattito così acceso sulla questione nasconde l’impotenza dello Stato a garantire standard apprezzabili di sicurezza mediante il controllo del territorio da parte delle forze dell’or - dine, specie in alcune aree del nostro Paese. Più facile, evidentemente, spostare l’attenzione sul terreno della difesa "fai da te", con il rischio - tutt’altro che teorico - di far passare l’idea che sia lecito e consentito farsi giustizia da sé. Il che potrebbe portare a un incremento della diffusione delle armi, che - come gli Stati Uniti ci insegnano - non costituiscono purtroppo un deterrente contro i crimini violenti, agevolandone anzi la commissione. Già all’indomani della novella del 2006 - accesamente contrastata dal centrosinistra e "bollata" come normativa da Far West (ne è passata di acqua sotto i ponti…) - vi fu, anche tra i giuristi, chi sottolineava il rischio che la disciplina riformata potesse veicolare un messaggio fuorviante consegnando ai cittadini un’autentica "licenza di uccidere" ed avere un effetto "criminogeno", aumentando l’aggressività dei criminali. Così non è stato. L’attuale disciplina, in verità, già contiene in sé gli strumenti di una tutela rafforzata del domicilio, escludendo la legittima difesa soltanto nel caso di desistenza dell’aggressore o quando non vi sia pericolo d’aggressione: un’attenta ed equilibrata applicazione della normativa da parte dei giudici, pertanto, costituisce la via maestra, la risposta più adeguata dell’ordinamento: una risposta forse impopolare, in tempi come questi, ma che ha l’effetto di non delegittimare lo Stato e le istituzioni. Licenza di sparare se aggrediti di notte e in casa propria di Francesca Schianchi La Stampa, 4 maggio 2017 Pd e centristi trovano il compromesso, ma la reazione dovrà essere proporzionata. Oggi l’accordo alla Camera. Per le opposizioni, però, la legge è ancora troppo timida. Negli ultimi anni una maggiore tutela di chi spara per difendersi è diventato un cavallo di battaglia della Lega Nord. Parlamentari ed esponenti del Carroccio sono sempre stati al fianco di chi è stato incriminato per aver ucciso un ladro che gli stava entrando in casa. Raggiunto l’accordo di maggioranza martedì sera, oggi le modifiche sulla legittima difesa saranno approvate alla Camera. Dopo due anni di discussione, periodicamente riaccesa da fatti di cronaca, oggi arriverà il voto finale di un provvedimento che, comunque la si pensi, è destinato a far discutere. Un primo ok che però non spedisce la legge in Gazzetta Ufficiale: manca ancora l’approvazione del Senato. Nodo chiave della legge, su cui Pd e centristi di Alfano si sono confrontati e scontrati a lungo, salvo poi trovare la quadra grazie alla mediazione del ministro Anna Finocchiaro, è l’articolo 52 del codice penale. A sigillare il compromesso è un emendamento messo a punto dalla Commissione per stabilire che si considera legittima difesa la reazione a un’aggressione "in tempo di notte" o avvenuta dopo che una persona si è introdotta a casa propria "con violenza alle persone o alle cose" o "con minaccia o con inganno". Il tutto, però, è specificato, "fermo restando quanto previsto dal primo comma": cioè che sussistano i criteri di necessità, attualità e proporzione tra offesa e difesa. Una formula che permette così ad Ap di cantare vittoria, giurando, come fa Maurizio Lupi, che "ora la reazione a chi entra in casa mia di notte, con violenza, per attentare alla mia sicurezza e alla mia proprietà è tutelata come legittima difesa", e al responsabile giustizia del Pd, David Ermini, relatore della legge, di sottolineare che viene lasciato "al giudice un margine per decidere e valutare quella condotta", senza fughe in avanti da Far West o, come le chiama, "follie leghiste". Soddisfatta la maggioranza, per qualche ora sembra che persino una parte dell’opposizione possa convergere sulla legge. Mentre il M5S resta defilato rispetto al dibattito di giornata e oggi voterà contro ("una norma tecnicamente aberrante che dice tutto e niente, forse con profili di incostituzionalità", la boccia Vittorio Ferraresi), in mattinata ci sono contatti tra i capigruppo di Pd e Forza Italia, Rosato e Brunetta, con i berlusconiani tentati di votare a favore. Proprio per dare un segnale di apertura, nella sua introduzione in aula il relatore Ermini parla del lavoro della commissione e di criteri presi in considerazione da emendamenti di vari colleghi, citando volutamente anche la forzista Maria Stella Gelmini. A quel punto però si tiene una riunione tra Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. Con il Carroccio che riesce a imporre la sua linea: all’uscita, la proposta che arriva ai democratici è irricevibile, ovvero adottare l’emendamento firmato dal leghista Nicola Molteni. E così, Pd e centristi vanno avanti, mentre Forza Italia si sfila per amor di alleati e oggi voterà contro. "Il Pd e le altre forze di maggioranza non hanno saputo o voluto scrivere una legge che rispondesse davvero alle esigenze dei cittadini onesti, una legge in grado di tutelare le persone perbene quando sono aggredite", interviene Silvio Berlusconi con una nota, "noi non siamo certo per la difesa "fai da te", ma di fronte al pericolo dev’essere garantito il diritto alla difesa", mentre "il testo non dà risposta, lascia alla discrezionalità del giudice margini eccessivi". Critiche che in maggioranza leggono come tattica: "Questo testo è equilibrato, e ricalca le stesse proposte delle opposizioni - valuta il ministro degli Affari regionali Enrico Costa, Ncd, che molto ha lavorato alla legge - Mi dispiace che per calcolo politico ne prendano le distanze". Legittima difesa. Il Ministro Costa: "chi si protegge non va processato" di Francesco Pacifico Il Mattino, 4 maggio 2017 La ratio che muove Enrico Costa è semplice. "Evitiamo che una persona che si protegge debba essere mandata a processo". Da mesi il ministro della Famiglia chiedeva modifiche più nette alla legge sulla legittima difesa. E nelle ultime ore è riuscito a far accettare al Pd un emendamento che la fa scattare quando c’è "reazione a un’aggressione commessa in tempo di notte ovvero la reazione a seguito dell’introduzione nei luoghi con violenza alle persone o alle cose ovvero con minaccia o con inganno". Intanto il Pd voleva modificare solo l’articolo 59 del codice penale, sul diritto all’autotutela… "E noi siamo intervenuti sull’articolo 52 e non sul 59, perché è quello il cuore della legge. Infatti soltanto così possiamo raggiungere il nostro obiettivo. Che è molto semplice e chiaro: evitare fin da subito che vada a processo chi si difende la propria casa e la propria famiglia. E parliamo di processi lunghissimi, che si concludono sempre con un assoluzione". La giustizia spesso sentenzia in maniera schizofrenica. "Io non parlerei di sentenze schizofreniche. Lo sono in alcuni casi le valutazioni dei pubblici ministeri se andare o meno a processo. I pm devono cercano elementi nella fase istruttoria per capire se sussista la legittima difesa. Invece preferiscono andare in aula e lì chiarire se c’è oppure meno. Però gli accusati finiscono per essere sempre assolti. Ma dopo un lungo periodo". Quando scattano le eccezioni previste da lei? "Si presume che ci sia la legittima difesa quando ricorrono aggressioni notturne in casa o nella propria attività commerciale. Quando si verificano violenze sulle persone o sulle cose". Qual è la differenza rispetto all’attuale norma? "Noi invertiamo il meccanismo, arrivando a dire che c’è presunzione di legittima difesa in presenza di alcune circostanze come le aggressioni avvenute di notte. Oggi invece la situazione è diversa, parlerei di presunzione di colpevolezza. Con la nostra modifica sarà onere del pm dimostrare che ci siano elementi per andare a processo". Che cosa cambia sulla proporzionalità tra offesa e difesa? "Non tocchiamo questo aspetto. Che è già stato riformato con la modifica del 2006 voluta dalla Lega. Una modifica che, però, si è rivelata inadeguata e che rafforziamo noi oggi con gli emendamenti del governo". Perché si deve cambiare l’attuale legge? "Un tempo c’era il ladruncolo che rubava in casa, quando i proprietari uscivano. Oggi operano bande criminali che si muovono sapendo che i proprietari sono nella loro abitazione. E pur di raggiungere il loro obiettivo sono pronti a tutto: legano, picchiano, narcotizzano, a volte uccidono". Le statistiche dicono che le rapine sono calate. "Al di là dei numeri, che non discuto, sono aumentate la percezione di insicurezza e la violenza di certi atti. E poi l’emendamento ricalca quello la legge francese". Non rischiamo di diventare come l’America? "Assolutamente no. Qui si tratta soltanto, e semplicemente, di non punire chi è stato vittima di violenza. Mi chiedo fino a che punto uno Stato, che deve tutelare e non lo fa, ha il diritto di sanzionare chi ha voluto soltanto difendere sé e i suoi cari? Entro quali limiti ci si può proteggere?". Da liberale non credere che è un deterrente? "No, io non penso affatto che sia un deterrente. Ma proprio perché sono garantista e liberale non vorrei mai che un semplice cittadino finisca in quel tritacarne che sono i nostri processi. Se poi c’è una persona che spara alle spalle a un altro uomo che fugge, è chiaro che deve essere punito. Questo è un’altra cosa". Lei dice che non bisogna inseguire la Lega. Eppure che differenza c’è tra la vostra proposta e la loro? "Non c’è molta differenza. Infatti non capisco perché non la vogliano approvare. Ma mi ha colpito ancora di più l’atteggiamento di Forza Italia e di Fratelli d’Italia. Prima hanno plaudito alla nostra proposta, poi, compreso Berlusconi, hanno dovuto fare marcia indietro per le proteste della Lega. Rispetto al merito si è preferito ricompattare la minoranza, non riconoscere che noi centristi eravamo riusciti dove loro avevano fallito". Orlando ha posizioni diverse sul tema… "Non ne ho recentemente parlato con lui. Faccio notare però che i pareri all’emendamento li ha resi il ministero della Giustizia". Ce l’ha con il Guardasigilli? "Assolutamente no. Devo dire che è un’ottima persona ed è un ottimo ministro. Ma ci sono aspetti sui quali la pensiamo diversamente. Come sul processo penale, sul quale io mi sono trovato isolato in Alternativa popolare, che ha aderito alle tesi di Orlando. Ma ripeto, ci sono temi che non possono essere soggetti al quieto vivere, alla mediazione o al compromesso. L’ho anche chiarito all’interno del mio partito: se passa il testo del processo penale in questa forma, ne trarrò le conseguenze". D’accordo a risarcire le spese di chi è stato assolto? "In termini generali la cosa mi convince. Forse si dovrebbe anche andare a vedere perché si è andati a processo. Ma questo è un tema più generale. Nel caso della legittima difesa avrei delle riserve, perché rischiamo di mandare un cattivo messaggio: io ti rinvio a giudizio, tu subisci un lungo processo e poi è sufficiente la sola riparazione monetaria per cancellare tutte le sofferenze patite. Un po’ come avviene per l’ingiusta detenzione". Per concludere, è davvero convinto che ci sarà un’applicazione più garantista della legittima difesa da parte delle procure? "Con questa nostra modifica la norma diventa più tassativa. Il che dovrebbe garantire minori margini di interpretazioni". Incontro tra Orlando e Albamonte, arriva la distensione anche sul ddl penale di Errico Novi Il Dubbio, 4 maggio 2017 Primo incontro tra Guardasigilli e nuovo presidente Anm. Se solo si pensa al clima che si era creato a inizio d’anno, il primo confronto tra il guardasigilli Orlando e il nuovo presidente Anm Albamonte può passare agli archivi come un trattato di pace. "Resta il dissenso sull’avocazione obbligatoria ma attiverò un monitoraggio per verificare gli effetti della norma", dice a fine summit il ministro della Giustizia in conferenza stampa. La soluzione, ed è questa la notizia, non induce il "sindacato" dei giudici ad alzare muri: "Sarebbe meglio evitare una cosa che inevitabilmente andrà male, ma apprezziamo la disponibilità a verificare l’andamento delle nuove norme", replica il leader dell’Associazione magistrati. Che dunque esce da via Arenula con una consapevolezza: la riforma del processo non cambierà. Orlando glielo dice subito: "Se rimandassimo questo benedetto testo al Senato non ne usciremmo più". Albamonte, accompagnato dalla sua giunta, non trova sbagliato il metodo. Prende sul serio l’impegno del guardasigilli. E in fondo sa che su quel passaggio del ddl rimasto due anni in sospeso a Palazzo Madama, e ora in attesa del sì finale di Montecitorio, rischia di ripetersi la storia della responsabilità civile: grandi proteste dell’Anm di allora (al vertice c’era il moderato di Unicost Rodolfo Sabelli) ma poi la disciplina che abolisce il "filtro" sulle cause per gli errori dei giudici è passata senza fare danni. Qualche decina di azioni in più l’anno, questo è tutto: non c’è stata alcuna corsa dei magistrati ad astenersi dai processi "a rischio", né si è visto quell’effetto da "giustizia difensiva" che pure era stato paventato. Rischia di succedere esattamente la stessa cosa con la previsione contenuta nel disegno di legge sul processo, e che obbliga la Procura generale ad avocare il fascicolo nei casi in cui il pm non si decida entro novanta giorni dalla fine delle indagini se optare per la richiesta di rinvio a giudizio o l’archiviazione. Clima disteso: "Il confronto è stato franco e pieno", commenta Eugenio Albamonte davanti ai cronisti. Esce confortato così come era avvenuto martedì al termine del primo incontro con il presidente della Repubblica. Anche ad Andrea Orlando la giunta dell’Anm consegna la documentazione messa nelle mani di Sergio Mattarella: i "pareri" redatti dalle commissioni tecniche dell’Anm su riforma penale, appunto, e magistratura onoraria. Il ministro prende atto che anche su quest’ultimo punto c’è "condivisione". Vuol dire che il guardasigilli non trova affatto pretestuosi certi paletti messi dai magistrati, e non graditi a più di una figura di spicco, a cominciare da Armando Spataro. Altro punto a favore della distensione. D’altronde l’incontro si era aperto con toni effettivamente molto diretti e non bellicosi: "Ministro, ti diciamo subito cosa non ci piace del ddl sul processo, perché sul resto siamo in buona parte d’accordo", aveva esordito il successore di Davigo. E giù con il "dissenso" sull’avocazione. Ma nella conversazione c’è modo di riconoscere "i passi avanti compiuti sulle assunzioni, sia di personale amministrativo che di magistrati" e in generale "il fatto che ci si sia tenuti lontani dal vecchio metodo delle leggi scritte come atti di guerra", e qui il riferimento di Albamonte, esponente dei "progressisti" di Area, è agli esecutivi di centrodestra. Alla fine guardasigilli e Anm si trovano d’accordo persino su Zuccaro: "Non ci sono elementi per un’azione disciplinare da parte mia", chiarisce Orlando, "e le diverse vedute dei procuratori sono fisiologiche, anzi un arricchimento". Albamonte concorda e aggiunge: "Basta usare la parola scontro ogni volta che due magistrati dicono di pensarla diversamente. Era successo anche con i pm di Roma e Napoli, cerchiamo di essere più laici". Lui, a via Arenula, obiettivamente si è sforzato di esserlo. Gli operatori degli Opg: i veri pionieri della lunga lotta contro gli Opg di Antonella Lettieri* Ristretti Orizzonti, 4 maggio 2017 Egregio Direttore del settimanale l’Espresso, dott. Tommaso Cerno, le scrivo in merito al lungo reportage, a cura di Ignazio Marino e pubblicato sulla Sua rivista in data 23 aprile sul tema degli Opg e della loro chiusura. Vorrei fare alcune precisazioni in merito alle responsabilità degli organi istituzionali preposti a vigilare su tali luoghi il cui doppio mandato di cura e custodia, in palese conflitto, non poteva che creare le aberrazioni di cui tutti siamo stati testimoni. L’orrore dei manicomi criminali è sempre stato noto alle istituzioni (Ministero della Giustizia, Magistratura, Sanità...) in quanto gli operatori che vi lavoravano per anni hanno denunciato e segnalato alla stampa e ai media le condizioni in cui versavano i pazienti a causa di continui tagli ai fondi e al personale. Chi Le scrive conosce molto bene queste realtà in quanto ha lavorato, in qualità di psicologa, per oltre 20 anni sia negli Istituti Penitenziari della Toscana che nell’OPG di Montelupo Fiorentino. Ha cosi avuto modo, in tutti questi anni, di assistere al periodico e patetico pellegrinaggio dei politici di turno che visitavano l’Ospedale sistematicamente in occasione del Ferragosto e delle festività natalizie. È stato interessante accompagnarli nel giro dei reparti ed osservare il loro sdegno ed apparente coinvolgimento emotivo di fronte alle molteplici storie di abbandono e di sofferenza. Il tutto però svaniva subito dopo le foto, le interviste di rito e le promesse di un impegno futuro. L’oblio cadeva nuovamente sull’OPG fino alla prossima visita di un altro parlamentare illuminato o di un altro giornalista sensibile al rispetto dei diritti umani. Per precisione vorrei sottolineare che la scrivente nel 2010 ha sollecitato il giornalista Riccardo Iacona a rendere noto lo stato in cui versavano gli OPG e coloro che vi lavoravano. La richiesta non è stata accolta in quanto al momento non suscitava alcun interesse. È sorprendente come improvvisamente nel 2012 la coscienza civile di Iacona si sia risvegliata insieme a quella del Prof Marino e di illustri uomini politici, nonché scienziati come il Prof.Umberto Veronesi il quale non ha esitato a demonizzare i sanitari che prestavano il loro lavoro in "luoghi di tortura" come se essi fossero complici di tale vergogna nazionale. Anche l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si mostrò allibito definendo gli OPG" luoghi di estremo orrore, inconcepibile in qualsiasi paese appena civile". Inconcepibile è invece che un presidente ignori l’esistenza di tale realtà!! La visione del documentario di Iacona, con l’intervista al Prof Marino, trasmessa in prima serata ha disvelato "quell’orrore" che tutti gli organi istituzionali già conoscevano ma che, per anni volutamente, avevano ignorato nell’indifferenza e complicità generale. La chiusura degli Opg è stata senz’altro un atto di civiltà doveroso per questo paese ed auspicato dagli operatori, ma Le vorrei far notare che dal reportage non emerge la fatica, l’impegno e la passione, nonché la competenza professionale di chi per anni ha lavorato nell’ombra, in condizioni estreme, scontrandosi quotidianamente con l’assenza e la miopia delle istituzioni. Avrei apprezzato se nel lungo articolo ci fosse stato l’interesse ad ascoltare anche la voce di coloro che dall’interno, pur tra mille contraddizioni si sono presi cura degli "ultimi fra gli ultimi "cosi come sono stati definiti i pazienti psichiatrici autori di reato. L’approccio metodologico utilizzato oggi nella Rems di Barete a L’Aquila che ospita 13 pazienti e definito impropriamente da Giovanni Tizian "rivoluzionario" non è affatto nuovo in quanto nello OPG di Montelupo, con una presenza di 180 pazienti, l’attenzione degli operatori è stata sempre rivolta alla malattia psichica e non al reato, ai progetti terapeutici e al reinserimento dei pazienti nel territorio di appartenenza. Pur tra carenze di risorse, affollamento dei reparti e rigide ed incomprensibili regole penitenziarie si è sempre lavorato per affermare il mandato di cura. Dubito che la mia lettera possa trovare spazio e consenso nella Sua rubrica, ma prima di cestinarla La vorrei invitare a tenere in considerazione il vertice osservativo di coloro che per anni si sono battuti "sporcandosi le mani" e che oggi vengono additati dai media come complici di una logica manicomiale repressiva da cui hanno sempre preso le distanze. La ringrazio e La saluto cordialmente. *Psicologa- Psicoterapeuta Sardegna: Associazione Sdr "direttrici in missione anche in Istituti di Tempio e Mamone" cagliaripad.it, 4 maggio 2017 Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme". "altre due donne si aggiungono nella gestione e cura degli Istituti Penitenziari portando a cinque il numero delle Direttrici delle carceri. "Qualcosa si muove per la gestione delle carceri sarde e per garantire migliori condizioni di lavoro e di vita agli Agenti Penitenziari, agli operatori e ai detenuti. Sono state infatti assegnate le direzioni delle Case di Reclusione di Tempio-Nuchis e Mamone-Lodè. Si tratta però ancora di incarichi temporanei e con trattamento di missione. Un’importante risposta alla gravissima carenza di direttori e vice direttori nelle 10 strutture detentive della Sardegna ma che non basta. Occorre un intervento per stabilizzare gli incarichi". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", avendo appreso che "altre due donne si aggiungono nella gestione e cura degli Istituti Penitenziari portando a cinque il numero delle Direttrici delle carceri isolane". "Ha infatti preso servizio nel "Paolo Bacchiddu" di Nuchis Caterina Sergio, vice direttrice a Salerno, che oltre 20 anni orsono ha vissuto l’esperienza nel carcere di massima sicurezza dell’Asinara. Nella Colonia Penale di Mamone, proveniente da Regina Coeli, è già al comando Simona Mellozzi. Nell’augurare ad entrambe buon lavoro, non è possibile però dimenticare - sottolinea la presidente di Sdr - che la Sardegna soffre particolarmente per la carenza di figure dirigenziali stabili. Basti pensare che anche il carcere di Nuoro è affidato a Silvia Pesante che sta completando i sei mesi in missione avendo però anche la responsabilità sulla Colonia di "Is Arenas". Una condizione di lavoro insomma tutt’altro che facile". "In totale assenza di Vice Direttori, attualmente la condizione di maggior disagio è quella di Marco Porcu che, oltre alla direzione di Isili e Lanusei nonché a un incarico nel Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (Prap), regge le sorti del più grande Istituto dell’isola. Sta infatti gestendo il villaggio penitenziario di Cagliari-Uta con oltre 600 detenuti (28 donne). Dirigono gli altri Istituti Pierluigi Farci a Oristano, Patrizia Incollu a Sassari, Elisa Milanesi ad Alghero". "L’auspicio è che venga al più presto completato l’organigramma dei singoli Istituti ma anche che si provveda a dotare ciascuna realtà penitenziaria di Agenti e di operatori. Le strutture detentive, secondo il nostro ordinamento, hanno una funzione riabilitativa e di reintegro sociale non garantire un adeguato personale di salvaguardia e custodia e trascurando l’apporto dell’area trattamentale significa - conclude Caligaris - non avere rispetto delle norme costituzionali. Lo Stato insomma non può contraddire se stesso". Cuneo: 33enne originario di Racconigi si toglie la vita nel carcere di Saluzzo di Andrea Garassino La Stampa, 4 maggio 2017 Un detenuto originario di Racconigi si è tolto la vita ieri mattina in carcere a Saluzzo. Era stato condannato per furto ed era entrato in cella il 25 gennaio. La sua pena sarebbe dovuta terminare il 24 novembre. Dell’uomo non sono state rese note le generalità. Stando a quanto è trapelato da ambienti carcerari, il detenuto si sarebbe impiccato con le lenzuola legate alle sbarre della finestra. Era in isolamento da alcuni giorni, con ogni probabilità per intemperanze e motivi disciplinari. Gli agenti della penitenziaria hanno allertato il personale medico interno e il "118", intervenuto con un’ambulanza, ma per il racconigese non c’era più nulla da fare. La salma è stata composta nelle camere mortuarie dell’ospedale di Saluzzo, a disposizione della magistratura. La Procura della Repubblica di Cuneo è stata informata; il pm di turno deciderà se aprire un fascicolo e disporre l’autopsia. "Non c’erano stati segnali che potessero far pensare a un gesto di questo tipo - dice il direttore del carcere "Morandi" Giorgio Leggieri -: è il primo episodio del genere che si verifica in questo istituto da quando sono in carica, negli ultimi 10 anni. Come da prassi, abbiamo subito informato la famiglia dell’uomo, il suo avvocato e l’autorità giudiziaria". I sindacati commentano la vicenda. Enzo Ricchiuti della Cisl: "Un detenuto che si toglie la vita è un fatto drammatico, ma per fortuna si tratta di episodi sporadici e non prevedibili. L’uomo era in isolamento ed era sorvegliato. Purtroppo i colleghi si trovano a dover sopperire alle carenze di organico a cui il Dipartimento non fa fronte e così il poliziotto, oltre a dover controllare la cella della vittima, si doveva occupare di altre mansioni. Il suo intervento è stato il più veloce possibile, ma non si è riusciti ad evitare il peggio. Finché non ci sono tragedie, sembra che le rivendicazioni della penitenziaria siano pretestuose, ma quando avvengono incidenti ci si scontra con la realtà". Si dice "sorpreso" don Massimo Rigoni che frequenta la struttura penitenziaria come cappellano: "Sono dispiaciuto perché in anni di presenza al "Morandi" non mi risultano altri suicidi o tentativi. A Saluzzo c’è un’atmosfera abbastanza rilassata e tranquilla, a differenza di istituti più grandi". Trieste: morte in carcere, pressing sul ministro di Benedetta Moro e Corrado Barbacin Il Piccolo, 4 maggio 2017 L’esponente radicale Bernardini chiama in causa Orlando: "Faccia chiarezza". Il pm dispone l’esame tossicologico. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando deve attivarsi al più presto per fare chiarezza sulla morte di Andrea Cesar, il triestino di 36 anni trovato senza vita nella sua cella al Coroneo una settimana fa. È l’appello lanciato da Rita Bernardini, ex segretaria dei Radicali e presidente onoraria dell’associazione "Nessuno tocchi Caino", colpita dalla denuncia fatta subito dopo il decesso dalla madre dell’uomo: "Mio figlio è morto di indifferenza, negligenza e incompetenza". Bernardini - che di recente ha visitato il Coroneo sollevando il tema del doppio incarico della direttrice, Silvia della Branca, costretta a dividersi tra due sedi diverse, chiarisce così le ragioni del pressing lanciato sul web: C’è una carenza di psicologi nelle carceri, quel ragazzo doveva stare in una struttura adeguata per essere curato, il disagio psichiatrico è un problema che si ripropone troppo spesso nelle carceri, quando le Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria (Rems) sono stracolme, con tanto di liste d’attesa. La chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari non ha risolto il problema. Inoltre stanno facendo dei reparti nelle carceri per l’osservazione psichiatrica - conclude l’esponente radicale, ma le carceri sono luoghi di detenzione, non di cura". Al pressing lanciato dalla storica esponente radicale potrebbe aggiungersi a breve l’intervento di Antigone, l’associazione nazionale "per i diritti e le garanzie nel sistema penale", che su sollecitazione dei familiari, attraverso il proprio Osservatorio e i difensori, si è già attivata in passata per molti altri casi di morti sospette dietro alle sbarre. Come quella di Stefano Borriello, trovato senza vita in carcere a 29 anni a Pordenone. "Ho saputo del caso di Cesar - specifica l’avvocato Simona Filippi di Antigone, perché mi è giunta nei giorni scorsi una mail da parte di una persona di Trieste. Non sono però ancora in contatto con la famiglia e non conosco ancora bene la vicenda. Mi pare però che il tema sia la gestione dei malati psichiatrici, uno dei grandi problemi delle carceri. Bisognerà verificare, per esempio, a che titolo Cesar stava all’interno di un penitenziario". Ogni caso è a sé, sottolinea Filippi, però in generale "quello che cerchiamo di fare è innanzitutto di scrivere un esposto per ricostruire la vicenda, in modo da dare un aiuto maggiore alla Procura. Sul caso Borriello la madre aveva denunciato che il malessere del giovane non era stato tempestivamente capito - sostiene l’avvocato. Dinnanzi alla perizia della Procura facemmo un’integrazione medica grazie alla quale il giudice decise di non disporre l’archiviazione del caso". Proprio a livello di indagini avviate dalla Procura triestina, ieri si è appreso che, oltre all’autopsia, sono stati richiesti anche l’esame tossicologico e una serie di altri accertamenti tecnici e investigativi sul corpo dell’uomo stroncato, secondo le prime ipotesi del pm Federico Frezza, da un’overdose di psicofarmaci. Il magistrato vuole fare chiarezza non solo sulle cause della morte di Cesar, ma anche e soprattutto su eventuali responsabilità, prima di tutto a livello di somministrazione dei farmaci. Anche se - bisogna precisarlo - l’inchiesta avviata è contro ignoti. E in questa direzione puntano anche gli accertamenti relativi all’indagine interna avviata dalla direttrice del Coroneo, Silvia della Branca. Che, ieri mattina, ha acquisito copia della documentazione clinica dell’uomo e la invierà direttamente al ministero nelle prossime ore. Intanto si è appreso gli esami eseguiti finora dal medico legale Carlo Scorretti non hanno evidenziato sul corpo di Cesar alcun segno riconducibile a traumi conseguenti a un’aggressione. Dunque la morte sarebbe stata solo la conseguenza dell’ingestione di vari farmaci o, ipotesi non esclusa, l’effetto di una patologia evidentemente non evidenziata dai medici del carcere. Ma gli accertamenti sarebbero stati estesi anche ai compagni di cella di Cesar. Sotto la lente sono infatti finiti i verbali degli interrogatori resi dai tre detenuti che vivevano con lui. Verbali che potrebbero aiutare a capire cos’è successo al secondo piano del Coroneo nelle ore precedenti alla morte di Cesar. Non è escluso infatti, come hanno rilevato i sindacati della polizia penitenziaria, che tra i detenuto ci sia stato uno scambio di farmaci. Anche se, va precisato, la perquisizione avvenuta nella cella subito dopo il rinvenimento del cadavere non aveva portato alla luce la presenza di pillole e flaconi di medicinali. Vigevano (Pv): "mio padre ucciso da un tumore, lo hanno lasciato morire in cella" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 maggio 2017 La Corte d’Assise di Milano nel 2015 aveva negato il trasferimento dell’ergastolano ad altro regime e spiegato il motivo del dimagrimento con la mancanza di una dentiera. "Io chiedo a voi aiuto e giustizia, perché non capisco questo accanimento contro mio padre", così si rivolge - con una lettera indirizzata all’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini - il figlio di un detenuto che morì consumato da un tumore in cella nonostante fosse incompatibile con il carcere. Si chiamava Giuseppe D’Oca e, malato di tumore ai polmoni, era detenuto nel carcere di Vigevano per scontare l’ergastolo. Il 2 agosto 2016 è venuto a mancare all’età di 59 anni presso l’azienda ospedaliera di Pavia. Giuseppe era giunto in ospedale in condizioni oramai compromesse, nonostante la continua richiesta di incompatibilità il regime penitenziario. Secondo la Corte d’Assise che rigettò la richiesta, l’ergastolano non solo era compatibile, ma addirittura la sua perdita di peso sarebbe stata imputabile unicamente a un problema di portesi dentaria. Il tumore di Giuseppe D’Oca, durante la sua permanenza in carcere, avanzava sempre di più. Già a fine 2014 si vedeva che non stava bene e i famigliari hanno fatto una richiesta al tribunale per chiedere l’incompatibilità con il carcere, ma gli è stata negata. Da quel momento in poi è andato sempre peggiorando, dimagrendo visibilmente, non mangiando più. I medici del carcere - secondo la testimonianza dei famigliari - dicevano che Giuseppe faceva finta. La Corte d’Assise d’Appello di Milano nel 2015 aveva negato il trasferimento dell’ergastolano ad altro regime di detenzione, suggerendo l’acquisto di una dentiera, perché, nel frattempo, a causa di una piorrea il detenuto aveva perso l’intera dentatura. Era quello, secondo i magistrati, il motivo del dimagrimento. A quel punto la moglie aveva scritto al Partito Radicale. Una militante radicale ha raccolto l’urlo di dolore e si era presentata davanti al carcere di Vigevano. Alla richiesta di poter parlare con Giuseppe D’Oca, è stata invece indirizzata alla sezione femminile, vietando di fatto al detenuto di poter dimostrare il suo malessere che piano piano se lo stava divorando dall’interno. A quel punto i familiari pagarono un neurologo per effettuare una visita specialistica. Il medico aveva riscontrato che era incompatibile con il carcere. Ma niente da fare: secondo le autorità, D’Oca poteva essere curato in cella. In pochi mesi dimagrì di 40 Kg e fu ricoverato urgentemente il 28 maggio del 2016 perché il suo deperimento era talmente clamoroso da destare le preoccupazioni del medico di turno. Ma era troppo tardi: dopo due mesi è morto. La condizione fisica nel quale arrivò in ospedale era già compromessa. Così, infatti, si evince dalla cartella clinica redatta dall’ospedale: "Inviato dal medico del carcere per astenia ed inappetenza da 20 giorni. Paziente in terapia con Augmentin, Clotrimazolo, Meritene, Mirtazapina, Zoloft, Contramal Gtt, Theodur, Asa 100, Antra, Valdrom, Rivotril, Floster Spray, Tavot". In data 6 giugno del 2016 l’esame concludeva indicando una "possibile lesione neoplastica polmonare". Nel referto si legge come "il quadro funzionale respiratorio in condizioni basali evidenzia una sindrome disventilatoria di tipo ostruttivo di marcata entità". Sempre dalla cartella clinica, si legge che in data 9 giugno subisce un intervento e viene riscontrato che il tumore maligno si era oramai diffuso in maniera incurabile. Lo stesso magistrato di sorveglianza per disporre un provvedimento di "differenziazione dell’esecuzione della pena" ha riscontrato che al momento del ricovero "le condizioni del soggetto sono gravemente compromesse". I familiari del detenuto hanno presentato recentemente un esposto alla Procura per chiedere giustizia. Il dubbio è quello che un ricovero ospedaliero più tempestivo, avrebbe probabilmente consentito ai sanitari di intervenire su un fisico meno compromesso aumentando la possibilità di salvarlo. Non vogliono cancellare le colpe del loro caro quando era in vita, ma vogliono sapere se qualcuno ha sbagliato nel non riscontrare in tempo l’insorgere della malattia. Milano: "porte aperte" nelle carceri di San Vittore, Opera e Bollate Corriere della Sera, 4 maggio 2017 San Vittore, Opera e Bollate: le tre carceri di Milano aprono le porte a gruppi di loro detenuti in nome dell’arte, del teatro, della musica. Quelli di Bollate presenteranno le loro opere sabato a Brera, quelli di Opera andranno in scena domani alla Camera del Lavoro, quelli di San Vittore canteranno oggi con il loro coro nella Casa della Memoria all’Isola. Tutti eventi aperti al pubblico. E sono solo alcuni tra gli oltre venti appuntamenti che il dipartimento di Sociologia dell’Università Bicocca promuove da oggi al 7 maggio con la rassegna "Urbana. Qualità della vita e innovazione sociale a Milano". Quattro giorni, quattro temi (welfare, innovazione, territorio, società) e tante le aree della città coinvolte tra concerti come quello dell’Orchestra dei Popoli Vittorio Baldoni, incontri con artisti importanti come Michelangelo Pistoletto domani al Parco Trotter, magistrati come Armando Spataro sabato, e ambientazioni che vanno dalla Galleria alla Fondazione Feltrinelli (per info www.urbana. sociologia.unimib.it). Così il professor Alberto Giasanti: "Il carcere è tragedia e le storie che i detenuti narreranno ne sono testimonianza viva". Bolzano: Messa alla prova, fascicoli raddoppiati. Busato: dato positivo, c’è rieducazione di Valentina Leone Corriere dell’Alto Adige, 4 maggio 2017 Solo nel il 2015 presentate 233 istanze. Giudice soddisfatto: esperienze a buon fine I casi più frequenti: violazione del codice stradale e reati contro l’amministrazione. C’è il professionista fermato per guida in stato di ebrezza che mette a disposizione le sue conoscenze tecniche, mentre qualcun altro opta per i turni nelle lavanderie dell’azienda sanitaria. La maggior parte, però, sceglie di prestare assistenza nelle case di riposo per anziani. Lavori di pubblica utilità per scontare la pena: questa l’essenza dell’istituto della messa alla prova, introdotto con la legge 68 del 28 aprile 2014 ed entrato in vigore nel nostro ordinamento il 17 maggio 2014. Anche a Bolzano le richieste sono in crescita: nel 2015 le istanze presentate sono state 233: il doppio dell’anno precedente, dove ne risultavano 117. "Un’esperienza positiva", la definisce il giudice Carlo Busato, presidente della sezione penale del tribunale del capoluogo. "È un istituto flessibile, semplice nella sua applicazione e nel controllo dell’attuazione. In più, ha una finalità rieducativa e questo non è poco". In sostanza, l’istituto sospende il processo e, in caso di condotta positiva, cancella di fatto il reato. Naturalmente, i paletti che fissano la sua applicazione sono molto stringenti: si parla infatti solo di reati che prevedono condanne non superiori a quattro anni, con un risarcimento, ove possibile, del danno cagionato. In più, è un’opportunità che viene concessa una sola volta. Errori ulteriori, dunque, non sono ammessi. Una misura che può definirsi "deflattiva" sia rispetto al numero complessivo di procedimenti penali aperti che, indirettamente, rispetto al lavoro dei tribunali e al sistema carcerario. Chi, invece, ha visto moltiplicarsi il carico è l’Uepe, (Ufficio penale esecuzione esterna) che, a organico invariato, svolge un ruolo centrale affinché l’istituto possa funzionare. Un lavoro "ad alto livello e con passione qualificata", lo definisce il giudice Busato. L’ufficio, in effetti, una volta acquisita la richiesta di programma di trattamento si occupa anche dei programmi presso gli enti convenzionati, che attualmente in Alto Adige sono circa 120, con l’Assb tra quanti mettono a disposizione più posti. La persona che si sottopone alla misura, dunque, è seguita in tutto e per tutto dall’Uepe, che deve costantemente verificare il buon andamento del percorso. Le pratiche, oltretutto, aumentano di anno in anno, con un raddoppio netto tra il 2014 e il 2015 e un trend dello stesso tenore anche per il 2016. Guardando ai dati specifici, i principali reati per i quali è stata richiesta la sospensione del processo con messa alla prova sono, in primis, la violazione del codice della strada, che rappresenta il 32% dei casi, i reati contro la pubblica amministrazione e la fede pubblica (15%), abuso di sostanze stupefacenti (8%). La conclusione del percorso è quasi sempre positiva, come dimostrano i giudizi espressi nelle relazioni finali stilate dagli enti ospitanti. Solo in rarissimi casi è avvenuta un’interruzione del percorso, e quasi sempre per impedimenti fisici della persona. Riguardo poi la "flessibilità" dell’istituto, un esempio su tutti è dato dalla possibilità di applicare particolari misure restrittive da affiancare al percorso riabilitativo: fasce orarie in cui occorre farsi trovare a casa, divieto di avvicinamento alle persone offese, ad esempio per casi di lesioni e minacce, che continuano a rappresentare un’ampia fetta tra chi chiede la messa alla prova. Donne e cittadini stranieri: le prime rappresentanti una minima parte dell’utenza (appena il 4%), i secondi sempre più propensi a chiedere l’ammissione al beneficio, con un aumento dal 10% al 18%. Ma il dato che, probabilmente, può indirettamente suggerire cosa si può fare e dove intervenire sotto il profilo della prevenzione riguarda la tipologia di reato per giovani dai 22 ai 25 anni: violazioni del codice della strada e abuso di stupefacenti sono infatti i casi più frequenti. Civitavecchia (Rm): esigibilità dei diritti dei detenuti, firmato un Protocollo di intesa civonline.it, 4 maggio 2017 È stato siglato questa mattina un protocollo operativo tra il Patronato Acli di Roma e provincia, il Garante dei Detenuti del Lazio e la Direzione degli istituti penitenziari "G. Passerini" di Civitavecchia. L’iniziativa ha come obiettivo quello di favorire l’esigibilità dei diritti dei detenuti. L’accordo prevede che una volta al mese un operatore qualificato del patronato Acli di Roma e provincia sarà presente all’interno degli istituti di Civitavecchia per offrire gratuitamente ai detenuti tutti quei servizi utili per l’esigibilità dei loro diritti. Il protocollo scaturisce da un accordo quadro a livello nazionale tra il Patronato Acli e il Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria. Erano presenti Lidia Borzì, presidente delle Acli di Roma e provincia, Matteo Mariottini, direttore del Patronato Acli di Roma e provincia, Stefano Anastasia, Garante dei Detenuti del Lazio e Patrizia Bravetti, direttrice degli istituti penitenziari "G. Passerini" di Civitavecchia. "Questo protocollo - hanno spiegato Lidia Borzì e Matteo Mariottini - è l’esempio di come la collaborazione tra la società civile e le istituzioni possa funzionare soprattutto per offrire, nel pieno principio di sussidiarietà, servizi e sostegno gratuito a quelle fasce sociali più deboli e problematiche. Questa iniziativa vuole rafforzare l’impegno del sistema Acli di Roma verso il mondo carcerario e siamo convinti che sarà un ulteriore passo per lo sviluppo di progetti che coinvolgano altri istituti penitenziari". "Si tratta di un’iniziativa fondamentale - ha dichiarato Stefano Anastasia, Garante dei Detenuti del Lazio - che garantirà ai detenuti di Civitavecchia l’accesso a prestazioni essenziali quali disoccupazione, invalidità e pensione". "Con il presente accordo - ha specificato Patrizia Bravetti, direttrice degli istituti penitenziari "G. Passerini" di Civitavecchia - l’amministrazione permetterà l’accesso al Patronato Acli, nell’ambito della convenzione nazionale, affinché i detenuti possano accedere ai Servizi del territorio utili al soddisfacimento dei propri diritti". Airola (Bn): carcere minorile, una "pizza" di speranza di Enzo Napolitano Il Mattino, 4 maggio 2017 Chiude con successo il corso per pizzaioli organizzato per i ragazzi dell’Istituto Penale Minorile di Airola dalla Fondazione Angelo Affinita insieme al pluripremiato campione del mondo di pizza acrobatica, Marco Amoriello il Guappo di Moiano. Una scommessa riuscita che premia l’impegno e l’entusiasmo dimostrato dai giovani detenuti dell’Ipm: l’obiettivo di mettere gli ospiti della struttura nelle condizioni, una volta terminata la detenzione, di saper fare un mestiere e di poter facilmente entrare nel mercato del lavoro, è stato raggiunto. Un corso di 150 ore che ha interessato 12 allievi interni: "È stata un’esperienza unica, bellissima - spiega il campione Amoriello - non solo da parte mia, ma anche per loro che hanno conseguito un diploma, grazie alla Fondazione Affinita che ha patrocinato il tutto. Sono riuscito a dimostrare due cose: la prima è che la socializzazione e il recupero è sempre possibile; la seconda è che chiunque, anche chi ha sbagliato, può imparare qualcosa di utile per la vita. Nel nostro caso fare la pizza può dare ai giovani detenuti l’occasione di stare insieme. Ho saputo che uno di questi pizzaioli che si sono diplomati oggi, di Salerno, è libero e sta lavorando a Dubai. Mi ha scritto sul profilo ringraziandomi perché questo corso in effetti gli ha cambiato la vita. Devo dire che è stato un percorso formativo finito come è iniziato: non abbiamo avuto nessuna rinuncia da parte dei ragazzi, tutto questo perché il loro entusiasmo era alle stelle. In genere non è facile gestire persone che hanno vissuto un disagio: invece tutto è andato alla perfezione, fino all’esame, riconosciuto con attestazione con certificazione di qualità internazionale". Marco Amoriello della pizzeria Il Guappo di Moiano è stato tre volte campione mondiale della Pizza senza glutine, ma nel suo curriculum ha anche un lungo percorso di solidarietà verso quanti nella vita non sono stati fortunati: "Dopo la collaborazione con il sindaco Mastella e l’iniziativa che si svolta a palazzo Paolo V, il mio obiettivo futuro è quello di impegnarmi con una serie di associazioni di volontariato". Il Guappo è riuscito ad avvicinare anche il papa nel 2015. Nel corso di una udienza del mercoledì, riuscì infatti a consegnare al Santo Padre una pizza particolare, a forma di cuore, proprio mentre il Pontefice stava compiendo a piedi, come suo solito, il giro di saluti tra la folla di piazza San Pietro. Incuriosito, il pontefice lo volle avvicinare. Sulla pizza margherita, la scritta "W Papa Francesco". In questo suo personale percorso sociale Marco Amoriello non è solo: si avvale di un team di pizzaioli beneventani e avellinesi molto affiatato di cui fanno parte Giulio Bartologallo, Pasquale Diodato, Carmine Ragno, Rodolfo Meccariello, Stefania Minicozzi, Alessandro Vittorio, Franco Luso, Marianna Iaquinto, Giovanni Massaro, Cristian Diodato, Alfonso Tangredi e Luigi Bartologallo. Anche se ancora non c’è l’ufficialità del voto, da Roma infatti giungono voci di una proroga che rimanderebbe a dicembre la tornata elettorale, in vista delle prossime elezioni per il rinnovo del Consiglio dell’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Benevento, un gruppo di ingegneri si è fatto promotore di "BENingénio", laboratorio programmatico aperto e condiviso per una nuova politica dell’ordine. Il gruppo - inizialmente costituito da Luca Arianna, Fabio Antonio Bibbò, Carmine Coduti, Vito Di Mella, Gianpiero Marrone, Paolo Parrella, Pierfrancesco Resce ed Elena Vetrone - riassume le testimonianze dell’intero territorio provinciale, integrando le competenze e le esperienze acquisite, stimolando il confronto continuo con i giovani ingegneri. È aperto al contributo e alla partecipazione dei colleghi interessati al progetto. Obiettivo ambizioso di BENingénio è rinnovare l’Ordine degli Ingegneri, consentendo più partecipazione, più trasparenza, più valorizzazione del territorio, più sostenibilità e più innovazione. La mission del progetto è caratterizzata da un’ampia visione strategica, rivolta alla riqualificazione della professione in termini di meritocrazia e sostenibilità reddituale, in una congiuntura che vede i professionisti pagare un prezzo molto alto alla crisi economica. È necessario, dunque, progettare un ordine capace di incoraggiare il dialogo tra professionisti, imprese ed Enti, trasformando la sede in una casa di vetro aperta a tutti gli iscritti, con spazi coworking, attività formative di alto profilo e promozione di eventi culturali. È fondamentale dare un volto più moderno e innovativo all’ordine, rafforzando il rapporto diretto con le aziende del territorio e con le istituzioni scolastiche, di ogni ordine e grado, per favorire il trasferimento di cultura e tecnologie e le iniziative di scambio tecnologico e professionale, anche con la sottoscrizione di convenzioni per stage aziendali e programmi scuola-lavoro. BENingénio è un progetto di rinnovamento che si fonda sul concetto di partecipazione, valorizzando le risorse umane che si rendono disponibili senza trascurarne l’identità partecipativa, rivalutando la qualità della vita di relazione ed il senso di appartenenza ad una iniziativa condivisa. Caserta: legalità e ambiente, magistrati e detenuti-artisti al Real Sito di Carditello Il Mattino, 4 maggio 2017 Domattina alle ore 9.30, presso Real sito di Carditello, si terrà la manifestazione dal titolo "Legalità, Cultura e Ambiente: il nostro futuro, la nostra ricchezza", organizzata dall’Associazione Nazionale Magistrati, giunta esecutiva Sezione di Napoli presieduta dal procuratore aggiunto a Torre Annunziata, Pierpaolo Filippelli e composta dal segretario Carla Sarno, dal tesoriere Angelo Napolitano e dai suoi componenti Francesco Chiaromonte, Antonio D’Amato, Gabriella Marchese e Silvana Sica. I lavori avranno inizio alle 9.30 con i saluti della presidente del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Maria Gabriella Casella, il procuratore della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, Maria Antonietta Troncone, e la coordinatrice dell’Ufficio di Sorveglianza. Interverranno con il loro contributo di testimonianze: Cosimo Rega: attore, regista, scrittore ed ergastolano. Una vita segnata da circostanze che l’hanno visto coinvolto, sin da giovanissimo, nel contesto della camorra salernitana. A 38 anni, la sentenza all’ergastolo. Cosimo Rega scopre la realtà carceraria e sente la necessità di sfuggire all’abbrutimento che causa una vita priva di libertà. Inizia così a studiare e avvicinandosi al teatro, alla scrittura, formando il primo gruppo teatrale a Rebibbia nel 2002 che diede poi vita alla compagnia teatrale dei "Liberi Artisti Associati". Poi l’incontro con i fratelli Taviani e la proposta di girare un film "Cesare deve morire", premiato con l’Orso d’Oro. Rega decide di raccontarsi, parla della sua vita e del suo riscatto morale. Saranno proiettati dei video che ricorderanno il sacrificio dei Magistrati e delle Forze dell’Ordine nella lotta contro la mafia ed il terrorismo, nonché l’impegno della Magistratura nella lotta alle organizzazioni responsabili della devastazione del territorio casertano. Saranno presenti anche i volontari di Radio Siani emittente web della legalità che trasmette dall’abitazione confiscata al boss di Ercolano Giovanni Birra. A rendere omaggio al confronto su cultura e legalità Francesco Buzzurro, uno dei più apprezzati e poliedrici chitarristi italiani. Seguirà l’intervento canoro dei detenuti del penitenziario di Carinola e il concerto del Coro delle voci Bianche del Teatro San Carlo diretto da Stefania Rinaldi. "L’Anm, Distretto di Napoli - dichiara il presidente Pierpaolo Filippelli - ha inteso lanciare un forte messaggio di impegno per il riscatto di una terra ricca di storia e cultura, ma ormai tristemente nota come Terra dei fuochi". In questo senso è significativa la scelta come sede dell’evento del Real Sito di Carditello. Una splendida struttura, nata per la buona gestione ed il buon governo del territorio e per lungo tempo lasciata al più completo abbandono. La Magistratura napoletana è fortemente consapevole che le organizzazioni criminali, e la illegalità in generale, si sconfiggono combattendo sia sul fronte investigativo e processuale, con efficaci azioni di contrasto, sia sul piano educativo e culturale. La cultura in questo senso - continua il procuratore - deve rappresentare un formidabile investimento sul futuro dei giovani, ma anche assicurare una possibilità di riscatto a chi nel passato ha operato delle scelte tragiche e violente. Un messaggio di speranza e fiducia - conclude Filippelli - che la manifestazione intende veicolare attraverso l’arte nelle sue svariate forme, dalla musica al teatro alla radio quale via di trasmissione in real time". Civitavecchia. (Rm) "Memorie Dal Carcere", detenuti si raccontano di Niccolò Carradori vice.com, 4 maggio 2017 Per il suo ultimo progetto, il fotografo Guido Gazzilli ha trascorso due anni nelle due strutture penitenziarie di Civitavecchia. Guido Gazzilli è un fotografo romano che ha passato gli ultimi anni a documentare sottoculture e scene musicali. Di recente, però, il suo interesse si è spostato verso un ambito più intimo. Oggi attraverso i suoi scatti cerca di raccontare le storie delle persone che incontra, soffermandosi anche sulle dinamiche che si instaurano nel processo. Ed è seguendo questo filone che è arrivato a Memorie dal carcere, un progetto che lo ha impegnato per due anni nelle due strutture penitenziarie di Civitavecchia e che continua ancora oggi: ogni detenuto è stato messo di fronte a una selezione di foto donate da 40 artisti, tra cui scegliere quelle che lo colpivano di più e tramite le quali ricostruire le proprie vicende. E infatti il detenuto le commentava e si raccontava, durante una breve intervista ripresa in video. Un sorta di test di Rorschach al contrario. Da questo progetto sono nate una mostra all’interno del carcere e il documentario Memorie Dal Carcere che riesce, attraverso brevi lampi di storie e di immagini, a testimoniare non solo le storie dei detenuti, ma l’atmosfera che si vive in un carcere. Le paure, le speranze, e il senso di isolamento di persone abituate a passare 22 ore al giorno chiuse in una cella. Raccontami come sei arrivato a questo progetto... È successo tutto in modo molto naturale: tramite una mia amica, che lavora come psicologa e assistente sociale in un carcere, è venuta fuori questa idea di iniziare un lavoro basato sulla fotografia all’interno di una struttura. L’intento iniziale, molto semplicemente, era quello di allestire una mostra all’interno di un carcere. Mi avevano chiesto di "abbellirlo": perché questi luoghi sono sempre piuttosto freddi e spogli. Col passare del tempo, però, il progetto è evoluto in una sorta di vera e propria terapia, portata avanti mediante le foto. Abbiamo lavorato insieme per strutturare un percorso fatto di immagini, che i detenuti dovevano scegliere, e attraverso cui potessero ripercorrere le proprie storie. E come era impostato questo lavoro? Come hai creato questa sorta di "gioco" fatto di foto? Innanzitutto ho dovuto recuperare le foto: ho contattato circa 40 fotografi-amici e non amici, più o meno conosciuti-che molto gentilmente mi hanno donato alcuni dei loro lavori. Alla fine ho messo insieme fra le 400 e le 500 foto. Immagini selezionate in modo da stimolare una persona privata della libertà a pensare ad altro, oltre che alla propria condizione quotidiana. Il mio intento era quello di far uscire le loro storie, perché comunque in carcere si segue una certa etichetta comunicativa in cui alcune emozioni fanno fatica ad emergere. Attraverso le fotografie che mettevo a disposizione, quindi, i detenuti potevano esprimere quello che desideravano: prima scegliendo le varie foto per costruire il proprio racconto, e poi commentandole attraverso la scrittura, e successivamente in video. Da come alcuni dei protagonisti ne parlano nel video, mi è sembrato che fra queste due fasi ci sia stato un lavoro preliminare di gruppo. No? Sì, noi avevamo preparato questa distesa di fotografie da mostrare ai gruppi che si erano iscritti al laboratorio di fotografia. C’erano vari tipi di detenuti, molti con pene piuttosto lunghe, e nessuno era abituato a vedere certi tipi di foto. La maggior parte di loro non si era mai interessata alla fotografia. Dopo aver scelto le immagini, avevano la possibilità di portarsele in cella, di studiarle e osservarle, e poi di stendere in totale libertà una descrizione che riuscisse a spiegare le loro scelte. Il laboratorio di scrittura è stato complicato, perché alcuni avevano difficoltà a tradurre in parole quello che volevano comunicare, quindi c’è stato un lavoro di supporto e aiuto, anche di tipo psicologico. Poi c’è stato il momento, precedente alle riprese singole, in cui ognuno ha dovuto leggere il proprio elaborato di fronte agli altri: è stato un momento difficile. Doversi mettere in mostra, aprirsi in un certo modo, era qualcosa che molti di loro difficilmente avevano sperimentato. Ma è stato anche molto importante: gli psicologi si sono accorti che questo strumento poteva essere utile dal punto di vista terapeutico. Come hanno reagito i partecipanti al progetto, all’inizio? In realtà non si aspettavano niente del genere. Quelli che si erano iscritti al laboratorio credevano che il lavoro sarebbe consistito nella spiegazione di come approcciarsi a un mezzo fotografico. Non pensavano di dover parlare di sé. Ogni carcere poi ha un po’ le sue regole: in una delle due strutture in cui sono stato i carcerati erano abituati a non fare niente tutto il giorno, quindi questo aspetto di novità e sorpresa è stato complicato da gestire, all’inizio. Come hai fatto la cernita delle foto da proporre, e come hai scelto i fotografi da contattare? Tutto è cominciato proprio nello scegliere i fotografi a cui rivolgersi. Diciamo che il giro dei fotografi con cui ho più contatti è formato da persone che fotografano soprattutto le loro esperienze intime, e formano dei percorsi individuali. Io ho cercato di mettere insieme immagini quotidiane: dei "diari" di questi fotografi, che potessero essere riproposti per aiutare a raccontare anche le storie dei detenuti. Molti erano paesaggi, perché data la loro condizione e le limitazioni a cui sono sottoposti ero anche interessato a colpire l’aspetto emotivo: volevo cercare di emozionarli. Ho selezionato anche alcuni lavori specifici: che venivano magari da esperienze di documentario, e che mi sembravano evocativi. L’idea era quella di fornire dei frammenti che, messi insieme liberamente, potessero costruire i tasselli di una storia personale. E infatti, proprio perché la scelta era ricaduta su immagini che potevano essere universali nella loro interpretazione, i detenuti non hanno avuto eccessive difficoltà a farle proprie. E questo nonostante alcune foto non siano state capite fino in fondo-sai, quelle più sfocate, quelle con più grana: sono magari foto che si cominciano a recepire realmente una volta che si è sviluppato un certo occhio. Così noi giravamo fra i tavoli, cercando di dare le informazioni di cui avevano bisogno. Ma è un aspetto che è passato totalmente in secondo piano. Una volta finita questa fase, come hai scelto le storie da inserire nel video? Più o meno tutti hanno fatto queste interviste. Ma diciamo che ho deciso di inserire quelle che risultavano più intime e personali, perché molte alla fine risultavano ripetitive. I detenuti tendono a parlare di una serie di temi universali: l’amore, la famiglia, la libertà. Ho deciso di dare maggior spazio a quelli che nel corso di tutto il processo hanno avuto il coraggio di mettersi in gioco in modo più personale. Infatti si recepisce che fra te e i protagonisti si è creato un certo clima di intimità... Sì, si è creato in modo del tutto naturale. Si è creato un linguaggio comune che mi ha dato accesso alla loro fiducia. È stato un lavoro lungo, e ho instaurato diversi rapporti di amicizia: non ero più un esterno. Se non riesco a fare un certo tipo di esperienza umana, per me il mero lavoro fotografico non ha più senso. Prima parlavi di un filtro comunicativo riconoscibile nei carcerati, basato su una serie di temi universali su cui si soffermano. Ecco, vorrei approfondire un attimo questo aspetto, quali sono i denominatori comuni? Sono piuttosto netti. Dei soggetti ricorrenti: le madri, le donne, la famiglia. A me è sembrato che queste persone abbiano avuto una serie di esperienze che le hanno portate a vivere certi aspetti della vita in modo più intenso: l’attaccamento agli affetti, il senso del rispetto, della famiglia, dell’amore. È come se fossero tutte emozioni amplificate. Ed era questo che mi interessava approfondire: come ti contagia un certo tipo di atmosfera. Sono persone che hanno spesso un sacco di merda che li aspetta fuori, o che sono dentro da talmente tanto da aver introiettato meccanismi che hanno senso solo in carcere, e che noi non conosciamo. Una delle cose che mi ha colpito all’inizio, era che li vedevo sempre tutti con scarpe nuovissime, e pensavo "i familiari gli portano ricambi di vestiti in continuazione". Invece no: i loro abiti non si consumano come i nostri, perché vivono sempre in luoghi isolati e non escono mai per strada. È una di quelle piccole cose che ti fa capire quanto sia ovattato e distante questo mondo. Hai previsto ulteriori sviluppi per il progetto? Nel secondo carcere in cui ho lavorato ho avuto modo di portare avanti il progetto anche nella sezione femminile, e adesso mi sto occupando di chiudere quella parte. È un lavoro con un aspetto emozionale diverso, molto potente. Presto poi cominceremo a lavorare a Rebibbia, e anche lì sarà diverso, perché è un carcere in cui i detenuti sono più abituati ad avere a che fare con progetti di questo tipo. La mia idea è riuscire ad attrarre l’attenzione di un editore, per realizzare un libro, per inserire tutte quelle storie che non è stato possibile rendere in video. Anche semplicemente la calligrafia che hanno utilizzato per scrivere le loro storie. Voglio anche coinvolgere altri fotografi... È un lavoro destinato a durare ancora molto. Facebook: 3mila persone in più in tutto il mondo per rimuovere i contenuti violenti di Martina Pennisi Corriere della Sera, 4 maggio 2017 Dal prossimo anno saranno in 7.500 a raccogliere le segnalazioni degli utenti e a collaborare con le autorità per arginare la presenza di video, soprattutto live, e post sconvenienti. A Menlo Park è finita la stagione del "stiamo facendo del nostro meglio" ed è iniziata quelle delle soluzioni concrete. Per arginare la pubblicazione di video, in diretta e non, e di post di suicidi e violenze Facebook aggiungerà nel corso del prossimo anno 3 mila persone alla squadra Community Operation in tutto il mondo. Al lavoro ci sono già 4.500 persone. Saranno quindi 7.500, in totale, i revisori attivi nella raccolta delle segnalazioni degli utenti e nel dialogo con le forze dell’ordine per velocizzare l’individuazione del materiale sconveniente e la rimozione. Ad annunciarlo sul suo profilo Mark Zuckerberg: "Nelle ultime settimane, abbiamo visto su Facebook persone fare del male a se stessi e ad altri - sia live sia in video pubblicati successivamente. È straziante, e ho riflettuto a lungo su come possiamo fare meglio per la nostra comunità". Il riferimento è ai noti fatti di cronaca, gli ultimi dei quali particolarmente cruenti: il giorno di Pasqua i video dell’omicida di Cleveland, uno dei quali in diretta, sono rimasti online per due ore e mezza. Il 25 aprile è andata in onda l’impiccagione di una bambina di 11 mesi. Anche in questo caso due filmati, girati a Phuket e trasmessi per 24 ore a beneficio - si fa per dire - 112 mila e 258 mila persone. Due giorni dopo un 49enne dell’Alabama si è sparato in testa, in diretta. In mille hanno seguito la scena. A livello tecnologico Facebook può farci poco. Ogni minuto, nel mondo, vengono messi online 3,3 milioni di post. Gli algoritmi di Menlo Park si accorgono della presenza di alcuni parametri, come la pelle nuda o elementi che rimandano a contenuti legati al terrorismo. Con gli altri colossi come Google o Microsoft sta inoltre condividendo la composizione di file identificati come pericolosi, così da impedirne successivi caricamenti. Ma per le dirette o per le foto o i video di azioni od oggetti canonici non c’è formula che tenga. Le sequenze di Cleveland, Puhket e anche quella dell’Alabama potrebbero benissimo essere parte di una scena di un videogioco, se a vigilare c’è un occhio tecnologico. Facebook non può intervenire a priori senza limitare la libertà d’espressione dei suoi utenti. A posteriori, per procedere più rapidamente possibile, si affida alle segnalazioni della comunità, che come mostrano le altissime visualizzazioni e le ore di permanenza dei sopracitati casi non sono così rapide. Le segnalazioni vengono raccolte dalla squadra di revisori in procinto di essere allargata. Nel caso dell’Italia, c’è un gruppo di madrelingua attivo a Dublino. Oltre a monitorare le reazioni degli utenti, queste persone dialogano con le autorità. Nel caso di Phuket, ad esempio, era stata proprio la polizia locale ad avvisare Facebook dell’accaduto. Bene ricordare come in qualsiasi caso il social network si riservi di applicare le sue linee guida: non stiamo parlando di obbligo di rimozione in alcun caso. Migranti. Navi private e rotte segrete. Accuse nel dossier segreto di Frontex di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 4 maggio 2017 I dubbi nel rapporto riservato di Frontex: le rotte vicino alla Libia di 8 navi private, chiamate e transponder spenti. Le associazioni replicano: "Solo obiettivi umanitari". "Nel 90 per cento dei salvataggi eseguiti dalle navi delle Organizzazioni non governative nel 2017, le imbarcazioni coinvolte sono state individuate direttamente dalle Ong e soltanto in seguito è stata data comunicazione al centro operativo della Guardia costiera a Roma". È questa una delle accuse contenute nel rapporto riservato di Frontex su cui sta indagando il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro. Sono venti pagine, allegate al dossier principale, che si concentrano sull’attività svolta nel Mediterraneo da otto navi "private": "Sono i trafficanti che operano in Libia e la Guardia costiera operativa nell’area di Sabrata e di Az Zawiya a contattare direttamente le navi delle Ong che operano vicino alle acque territoriali della Libia". Le associazioni hanno già respinto come "infamie" le contestazioni dell’organismo dell’Unione Europea specificando di aver "come unico obiettivo il salvataggio delle vite umane", ma proprio su questo si concentrano le verifiche disposte dal magistrato. Nella relazione sono indicati i mezzi e le relative Ong: Sea Watch di SeaWatch.org che batte bandiera olandese e porta fino a 350 persone; Aquarius di Sos Mediterraneo/Medici senza frontiere di Gibilterra con una capienza di 500 persone; Sea Eye di Sea Watch.org dall’Olanda, fino a 200 persone; Iuventa di Jugendrettet.org bandiera olandese con 100 persone; Minden di Lifeboat Project tedesca per 150; Golfo Azzurro di Open Arms da Panama che porta fino a 500 persone; Phoenix di Moas con bandiera del Belize che ne imbarca 400; Prudence di Medici senza frontiere con bandiera italiana che è la più grande visto che ha 1.000 posti. Gli analisti di Frontex hanno esaminato le rotte seguite nel 2017 e si sono soffermati sulle modalità di avvicinamento alle acque libiche monitorando in particolare il periodo che va dal 13 al 27 marzo 2017. Ma hanno utilizzato anche "le informazioni provenienti dagli interrogatori dei migranti appena sbarcati, i report provenienti dagli apparati di intelligence di alcuni Stati". E sostengono che proprio in quell’arco di tempo "prima e durante le operazioni di salvataggio, alcune Ong hanno spento i transponder per parecchio tempo". Accusa Frontex: "Il 18 febbraio scorso due mezzi veloci della Golfo Azzurro hanno interferito con la navigazione di un’imbarcazione della Guardia costiera libica che stava rientrando in Libia e hanno convinto l’ufficiale a bordo a trasferire i migranti sul proprio mezzo". In realtà nel report della vicenda contenuto nella stessa relazione viene chiarito che i migranti erano "otto uomini, cinque donne e 9 bambini" che erano stati appena salvati. Il report specifica che l’episodio è avvenuto "in acque internazionali, appena fuori Sabrata". E così lo ricostruisce: "Alle 7,05 la sala operativa della Guardia costiera a Roma riceve una telefonata per una barca in difficoltà. Allo stesso tempo una piccola imbarcazione in legno viene intercettata dalla Guardia costiera libica. Le viene ordinato di tornare indietro e inverte la marcia. Alle 8,00 due mezzi Rhib (gommoni con la chiglia rigida) appartenenti alla Golfo Azzurro appaiono ad alta velocità e intercettano il convoglio. C’è una breve discussione e poi i due Rhib assistono le persone dell’imbarcazione in legno. L’equipaggio della Golfo Azzuro pubblica online le immagini del salvataggio. La Ong dichiara che i migranti sono stati salvati a 60 chilometri dalla costa. In realtà l’incidente è avvenuto a 36 chilometri dal litorale libico che si trova a 16 chilometri dalle acque territoriali. Alle 8,10 la Golfo Azzurro dichiara alla sala operativa di Roma di aver preso a bordo 22 migranti. Nessun cenno viene fatto alla presenza della Guardia costiera libica". Nel dossier gli analisti di Frontex contestano le modalità di salvataggio svolte dalle Ong sostenendo che ciò interferisce in alcuni casi con le indagini sui trafficanti. E scrivono: "Si deve tenere conto che quando le navi delle Ong intervengono in varie operazioni di salvataggio simultaneamente o in periodi di tempo ravvicinati, i migranti di naufragi diversi vengono caricati insieme sulle varie imbarcazioni delle Organizzazioni. E questo provoca difficoltà alle autorità italiane per identificare i possibili scafisti tra gli stranieri". Poi accusano: "I telefoni satellitari consegnati agli scafisti contengono la lista dei contatti con i numeri diretti delle navi delle Ong e i migranti vengono istruiti dai trafficanti a segnalare la propria posizione". Un’affermazione che i responsabili delle associazioni liquidano sdegnati: "I nostri obiettivi sono esclusivamente umanitari". Migranti. La campagna di Zuccaro: "Arrivano troppi migranti" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 4 maggio 2017 Carmelo Zuccaro conferma tutto e rilancia. Davanti alla commissione Difesa del Senato, ieri pomeriggio, il procuratore di Catania non ha "ritrattato", come in molti si aspettavano dopo le polemiche di questi giorni, le sue dichiarazioni a proposito dei rapporti fra alcune Ong e gli scafisti. Una scelta sorprendente, considerato che il magistrato sapeva di essere stato messo "sotto osservazione" da parte del Csm, e anche considerato il tono estremo di alcune delle sue affermazioni. "Soccorritori? non tutti filantropi" - Secondo Zuccaro "gommoni e barconi carichi di migranti non sempre sono soli quando lasciano le acque territoriali libiche. È capitato che fossero accompagnati da navi sospette". Affermazioni che tornano dunque a allungare ombre inquietanti in particolare sul ruolo di alcune Ong. Il magistrato si è detto convinto che "tra il personale delle Ong vi sono figure non proprio collimabili con quelle dei filantropi, e sarebbe molto utile individuare le fonti del loro finanziamento". Al fine di contrastare efficacemente i trafficanti di uomini, "sarebbero utili le intercettazioni delle comunicazioni satellitari usate per la richiesta di soccorsi dei migranti. Si tratta, però, di intercettazioni che devono essere fatte con strumenti molto costosi, ed effettuate in acque internazionali, molto vicine alle coste libiche, perché se no non si riesce a captare nulla", ha aggiunto il procuratore. Il quale, circa l’attività dei Servizi, ha voluto ribadire di non aver chiesto alcunché, in quanto si tratterebbe di informazioni non utilizzabili. Le uniche relazioni nelle disponibilità della procura di Catania vengono da "Frontex e dalla Marina militare". Nella sua "battaglia" contro gli scafisti, Zuccaro ha chiesto di non essere lasciato solo: "Auspico che il Csm ci possa mettere in condizione di operare nel modo migliore". Zuccaro, poi, ha voluto dare alcuni suggerimenti, come "prevedere che le navi utilizzate dalle Ong battano bandiera del Paese dove hanno sede le organizzazioni e non di quello dove è noleggiata l’imbarcazione. Perché spesso si tratta di Stati dove è molto difficile la collaborazione giudiziaria". Infine, l’affondo: "Confermo quanto detto al comitato Schengen e cioè che siamo in una fase in cui non riusciamo più a svolgere l’attività investigativa: non riusciamo a intercettare i facilitatori e ad intercettare i satellitari e ad avere quegli elementi probatori necessari. Le organizzazioni mafiose italiane appetiscono all’ingente quantità di denaro erogata per l’accoglienza dei migranti, parliamo di cifre notevoli, in parte intercettate dalle mafie". Con una considerazione finale: "Il numero di persone che cercano di arrivare in Italia è esploso letteralmente nel 2017 e la maggior parte di essi non ha diritto alla protezione internazionale. Non è quindi il caso che le Ong svolgano questa attività di supplenza, ma che l’assuma il Parlamento". "Il volontariato - secondo il procuratore deve supplire dove ci sono carenze negli Stati: ma in una situazione non emergenziale bensì strutturale, questa materia deve essere gestita dagli Stati". Musica, dunque, per le orecchie di Matteo Salvini soprattutto dopo la presa di distanza del giorno prima da parte dei colleghi di Siracusa e Palermo, i procuratori Paolo Giordano e Francesco Lo Voi, intervenuti per smentire i rapporti fra Ong e scafisti. Dopo aver ricevuto la solidarietà di Nicola Gratteri - "è una delle persone più serie che conosco", ha detto di lui il procuratore di Catanzaro - Zuccaro ha incassato in tarda serata anche la "vicinanza" del Consiglio superiore della magistratura. Via libera alla pratica a tutela richiesta dal consigliere Pierantonio Zanettin (Fi) e stand by sulla procedura di trasferimento per incompatibilità ambientale e funzionale richiesta la settimana scorsa dal vicepresidente Giovanni Legnini. Il Comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli ha deciso, al momento, di non procedere nei confronti del procuratore di Catania, disponendo la sua audizione a breve a Palazzo dei Marescialli in modo che possa fornire ulteriori elementi di valutazioni. Anche se in serata si è deciso di convocare comunque una seduta del plenum per valutare le dichiarazioni rilasciate al Senato. E, a proposito di audizioni, la presidente della commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi proporrà oggi di convocare in audizione, il 9 maggio, Zuccaro, anche per un approfondimento sul ruolo della criminalità mafiosa nel traffico di migranti. Migranti. Carmelo "forse" Zuccaro, giudice dadaista di Luigi Manconi Il Manifesto, 4 maggio 2017 Con l’audizione di ieri del procuratore Carmelo "forse" Zuccaro, si è conclusa la fake news del momento: è emerso limpidamente che non c’è la più modesta conferma delle relazioni tra Ong e trafficanti di esseri umani. Altro che fake news! Con la giornata di ieri sprofonda nel ridicolo, ma anche un po’ nella vergogna, il tentativo più velenoso mai allestito contro le Ong impegnate nel soccorso in mare e, più in generale, contro le politiche dell’immigrazione. Dopo oltre un mese di indecenti bugie e di fantasiose bufale, di calunnie grossolane e di insinuazioni maligne, di sospetti maleodoranti e di illazioni grevi, gli imprenditori politici della menzogna si ritrovano con un pugno di mosche in mano. Non è emerso un solo indizio e nemmeno la più labile delle prove, il più fragile riscontro e la più approssimativa conferma dell’intero castello di accuse montato ad arte dai volenterosi agenti della xenofobia. Nulla, assolutamente nulla. Dall’ammiraglio Enrico Credendino, comandante della missione Eunav For Med e dell’operazione Sophia, al generale Stefano Screpanti del comando generale della Guardia di finanza, dal procuratore di Siracusa Paolo Giordano all’ammiraglio Donato Marzano, comandante della squadra navale della Marina militare, fino al presidente del Copasir Giacomo Stucchi, esponente della Lega, tutti coloro che rivestono ruoli di responsabilità istituzionale, ma proprio tutti, hanno smentito incondizionatamente la spazzatura raccolta nelle scorse settimane attraverso strategie di manipolazione e tecniche di diffamazione. Con l’audizione di ieri del procuratore Carmelo "forse" Zuccaro, si è conclusa questa fantasmagorica rappresentazione: ed è emerso limpidamente che non c’è la più modesta conferma delle asserite relazioni tra Ong e trafficanti di esseri umani; e non è stato documentato alcuno dei sospetti adombrati in merito a finanziamenti illegali a favore delle stesse Ong. Ripeto: non risulta la più gracile prova, a detta dello stesso dottore Carmelo "forse" Zuccaro, il quale ieri ha ribadito di non avere elementi per aprire un fascicolo. Dunque, si sarebbe ancora nel "pre-livello delle indagini penali". Ma a suo avviso nell’organico delle Ong ci sarebbero "profili di dubbia rilevanza, non collimanti con quelli dei filantropi" (?!?!?!). Un magnifico nonsense dadaista e uno strepitoso esemplare di letteratura dell’assurdo. Di conseguenza, a questo punto, aspettiamo le scuse del vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, autore dell’immagine dei "taxi del Mediterraneo" - pari solo a sconcezze politico-letterarie come la definizione di "hotel di lusso" per le carceri italiane - e quelle di Matteo Pinocchio Salvini che ha attribuito alle Ong anche il traffico di armi e droga; e le scuse, infine, dei tanti giornalisti che per mostrare di essere anticonformisti (contro "il sistema" e contro "il buonismo") chiamano negri i negri e froci i froci. E amano sporcare tutto ciò che non conoscono e non capiscono. Per queste ragioni domani, nella sala Caduti di Nassirya del Senato, promuoviamo un incontro dal titolo "La grande bugia delle navi-taxi", con il direttore della Caritas monsignor Soddu, i rappresentanti di Medici senza frontiere, Proactiva-Open Arms, Save the Children e con Emma Bonino. Migranti. Nian, senegalese morto in un blitz: vittima del decoro di Mario Di Vito e Rachele Gonnelli Il Manifesto, 4 maggio 2017 I suoi compagni: "Scappava dalle moto dei vigili, l’hanno investito". La Municipale nega. Si può morire di decoro, crollando a terra a pochi passi dal Lungotevere e dalle vetrine di design. Si può morire in uno sbocco di sangue dopo aver passato ore e ore trascinandosi dietro un borsone nero pieno di finte pochette di marca a nascondersi dai vigili urbani della squadra dei Falchi, mobilitati per la prima grande retata anti ambulanti dell’era Minniti lanciata ieri mattina nel cuore di Roma con l’ausilio anche di un elicottero: in pratica una caccia all’uomo da far invidia alle battute padane alla ricerca del terribile Igor il Serbo. Può succedere soprattutto se questa vita la fai da trent’anni. Si chiamava Nian Maguette, aveva 54 anni, originario della regione di Louga in Senegal, si guadagnava da vivere, per sé e per i suoi tre figli, facendo il venditore ambulante, due li aveva portati in Italia e l’altro era rimasto in Senegal con la madre. È morto intorno all’ora di pranzo sul marciapiede di via Beatrice Cenci, all’ingresso del Ghetto, dopo aver passato la mattinata a scappare dal blitz contro l’abusivismo nella zona intorno all’antico Ponte Fabricio, di qua e di là del fiume. Le testimonianze sugli ultimi attimi in vita di Nian divergono: alcuni testimoni sostengono che l’uomo sia stato inseguito da una moto della municipale, forse investito e abbia sbattuto la testa. Altri invece riferiscono che l’ambulante stesse barcollando per la strada fino a quando si è accasciato ed è morto così, lasciando per terra una macchia di sangue densa e estesa ancora ben visibile diverse ore dopo i fatti. Il negoziante che lo ha visto attraverso la vetrata accasciarsi riverso a terra con le braccia in avanti dice di aver pensato inizialmente a uno svenimento. Una passante ha chiamato il 118 e gli infermieri hanno provato in tutti i modi a rianimarlo, inutilmente. Quando Nian è stato alla fine coperto da un telo dorato, del tutto simile a quelli dati ai migranti salvati in mare, gli altri venditori senegalesi fuggiti nelle stradine attorno, si sono radunati e hanno inscenato un mini corteo di protesta. Sono stati dispersi dalla celere a colpi di manganello nel giro di pochi minuti. È probabile che nei prossimi giorni la comunità senegalese di Roma organizzi una manifestazione per chiedere verità e giustizia. Gli uomini della polizia cittadina, poi, hanno anche portato in centrale un ragazzo senegalese che, pur non essendo un testimone oculare, stava riportando ai cronisti le voci sull’inseguimento tra i vigili in moto e Nian. Gli uomini della polizia locale l’hanno interrotto a metà racconto, intimandogli in maniera perentoria di seguirlo in commissariato per mettere agli atti la sua versione. A trattare sul punto sono arrivati anche due giovani avvocati, che, dovesse essercene il bisogno, proveranno a prendere in carico il caso. Il sostituto procuratore Francesco Paolo Marinaro ha aperto un fascicolo d’inchiesta, per ora senza ipotesi di reato né indagati, in attesa delle informative della municipale e, soprattutto, dei risultati dell’autopsia che è stata disposta sul corpo di Maguette. I ragazzi della comunità senegalese raccontano che Nian era in Italia da trent’anni, viveva sulla Prenestina e cercava di sfamare la sua famiglia vendendo borse per le strade della Capitale, riuscendoci peraltro a stento. "Era un uomo buono che lavorava davvero per un pezzo di pane - racconta Diop, 35 anni, prima di essere portato in commissariato, non riusciva nemmeno a mandare i soldi in Senegal, dove ha un altro figlio. Cercava di tornarci spesso, l’ultima volta sarà stato due o tre mesi fa". I vigili, per bocca del vice comandante Antonio Di Maggio, negano ogni addebito: "Non esiste alcun coinvolgimento diretto tra l’operazione antiabusivismo e il decesso del cittadino senegalese". Intanto, sulla pagina Fb del corpo di polizia locale di Roma Capitale si esulta per il successo del blitz: sequestri e multe per trentamila euro, somme che verosimilmente non verranno mai pagate. Con l’aggiunta della foto della catasta di borsoni di merce requisita, si rileva come la presenza dei venditori abusivi risultasse "dannosa anche dal punto di vista del decoro urbano in un sito sottoposto a vincolo paesaggistico". Nemmeno un accenno a Nian Maguette, morto di decoro. Stati Uniti. Un algoritmo può decidere chi deve andare in carcere di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 4 maggio 2017 Gli algoritmi penetrano sempre più in ogni aspetto della nostra vita spesso semplificandola, come quando il navigatore dell’auto ci porta su un percorso alternativo perché quello più breve al momento è anche più trafficato. Ma sono meccanismi misteriosi, dei quali non conosciamo il funzionamento. Fin qui ne abbiamo discusso soprattutto perché, con lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, si sta alzando la soglia dei mestieri soppressi: da quelli ripetitivi degli operai ai lavori intellettuali di medio livello come quelli di fiscalisti, contabili e radiologi. Nel campo del diritto fin qui si è discusso dell’automazione di una parte del lavoro degli avvocati: la preparazione di un caso confrontandolo con la giurisprudenza esistente. Ma in tribunale l’intelligenza artificiale comincia a essere utilizzata, oltre che dagli avvocati, anche dai giudici. E qui tutto diventa più delicato e controverso. Sentenze decise da un algoritmo? Non siamo ancora a questo, ma da tempo la magistratura americana si serve anche degli strumenti dell’intelligenza artificiale per stabilire l’entità della condanna, l’eventuale ricorso alla libertà vigilata e i casi in cui si può scarcerare su cauzione. Ad ammettere che il problema è serio e già urgente è lo stesso presidente della Corte Suprema, John Roberts. È comprensibile, visto che il primo caso significativo - una sentenza per una sparatoria in Wisconsin nella quale il condannato ha ricevuto una lunga pena detentiva perché un software chiamato Compas ha giudicato alta la possibilità che lui torni a delinquere - ha alimentato un’aspra battaglia giudiziaria. L’imputato, Eric Loomis, ha fatto ricorso sostenendo che non può essere tenuto in carcere sulla base di un meccanismo del quale non solo lui e la sua difesa, ma nemmeno i giudici conoscono il funzionamento. La Corte Suprema del Wisconsin gli ha dato torto, ma la questione ora finirà a Washington. E i più ritengono che con l’algoritmo giudiziario sia stata imboccata una strada molto pericolosa. È il giudizio non solo dei giuristi ma anche dei tecnologi: perfino Wired, la bibbia del mondo digitale, chiede di fermare tutto, almeno per una verifica. C’è da tutelare il diritto della difesa di sapere come vengono costruite le accuse a carico dell’imputato. I tribunali, poi, non sviluppano i loro algoritmi: comprano quelli di società private che, proteggendo i loro brevetti, non ne rivelano il funzionamento. Un’inammissibile mancanza di trasparenza. Tanto più che l’algoritmo, anche se funziona bene, non è neutrale. Ad esempio basa certi giudizi su valutazioni socioeconomiche: numeri oggettivi ma con implicazioni politiche. C’è di che riflettere anche nella prospettiva di un loro uso da parte dei governi. Francia. Appello dei Cappellani per una diminuzione del numero di carcerati riforma.it, 4 maggio 2017 Alla viglia del secondo turno elettorale cattolici, protestanti, ebrei e musulmani uniti per chiedere una soluzione al sovraffollamento delle strutture detentive. Un tasso di popolazione carceraria e di sovraffollamento mai raggiunti in Francia, le dimissioni del nuovo direttore dell’Amministrazione penitenziaria, il rifiuto della direttrice della casa di detenzione di Villepinte di accogliere un ulteriore detenuto a fronte di un numero già presente maggiore del 200% rispetto alle possibilità della struttura. Tutti segnali di un fallimento generale delle politiche carcerarie francesi degli ultimi 15 anni. Un tema che è entrato con forza nella campagna elettorale in corso, dato anche il numero di arresti legati allo stato di emergenza proclamato dopo gli attentati del novembre 2015 a Parigi. Per la prima volta nella storia lo scorso primo Aprile la popolazione carceraria in Francia ha superato quota 70 mila (+ 2,7% in un anno), a fronte di una capacità massima di 58.500 posti. In Italia è in calo costante da anni, dopo vari richiami europei per un surplus inaccettabile, e conta oggi circa 54 mila detenuti (erano ben 68 mila nel 2010) a fronte di 49.600 posti disponibili. I cappellani carcerari di tutte le religioni si sono quindi uniti in un appello unanime e di forte impatto, ripreso dai principali quotidiani d’oltralpe, per chiedere una riduzione del numero di detenuti di almeno 15 mila unità. Per Véronique Fayet, Presidente del "Secours Catholique", Jean-François Penhouet, cappellano generale cattolico, Brice Deymie, cappellano generale protestante, ospite al Sinodo valdese nel 2015, Alain Senior, cappellano generale ebraico, Hassan El Aloui Talibi, cappellano generale musulmano, la soluzione sta nell’interrompere le tendenze che si sono cristallizzate negli anni, quali l’abuso della carcerazione preventiva e la riduzione delle pene alternative. "Eppure - si legge nel testo congiunto - in questo tempo di campagna presidenziale, anche se è chiaro che questi dispositivi hanno fallito, senza aver abbassato il tasso di criminalità, i candidati propongono non solo di rinnovarli e estenderli, ma anche di aumentare la capacità delle carceri di numeri varianti fra i 15 mila e i 40 mila nuovi posti. Di fronte a questa demagogia irresponsabile e pericolosa, è urgente affrontare con pragmatismo il problema della sovrappopolazione carceraria con l’obiettivo di ridurre di almeno 15 mila unità le presenza in strutture detentive". Come? Le ricette proposte dai cappellani religiosi mirano soprattutto a "ridurre l’incarcerazione per le pene inferiori ad 1 anno a meno del 25% (oggi sono il 36%), a limitare l’uso della carcerazione preventiva a meno del 20% (oggi è oltre il 33%). In secondo luogo è necessario ridefinire la scala penale dei reati minori, prevendendo misure alternative quali multe e altri obblighi amministrativi o nei confronti della collettività. In terzo luogo è necessario un ripensamento generale del luogo carcere, che non va più inteso come terreno di esclusione, punizione e umiliazioni, quanto piuttosto come luogo privilegiato per il reinserimento sociale, ampliando e rafforzando tutti quei soggetti esterni (scuole, associazioni culturali, di assistenza sociale e economica) che possono intervenire in aiuto della popolazione, prima di giungere all’estremo del carcere (il 60% dei detenuti sono soggetti sotto al soglia di povertà, senza mezzi economici, scolastici o sociali). Politiche di prevenzione e integrazione sociale sarebbero il miglior rimedio contro buona parte della delinquenza comune". Non manca certo una riflessione sull’attuale offerta carceraria: "è essenziale rinnovare gli edifici esistenti, promuovere l’apertura delle celle durante il giorno, intervenire per un’assistenza educativa, sportiva, culturale e lavorativa dei detenuti. Tutte misure che si riveleranno assai meno costose della costruzione di nuove carceri e che dovrebbero re immettere in società un individuo non più pronto a delinquere". Da qui la decisione dell’appello comune che si chiude con toni critici nei confronti della campagna elettorale in corso: "La politica è una cosa troppo seria per essere lasciata nelle mani dei politici. Ecco perché noi, attori impegnati nella società civile, ci appelliamo ad un’etica della responsabilità affinché siano bloccati i progetti di costruzione di nuovi centri di detenzione. È necessario fare delle prigioni non più un luogo di esclusione, ma di ricostruzione, di donne e uomini che al di là degli errori commessi rimangono esseri umani". Turchia. Oltre 250.000 adesioni alla campagna per i giornalisti in carcere di Riccardo Noury Corriere della Sera, 4 maggio 2017 Noti giornalisti, vignettisti e artisti hanno aderito alla campagna lanciata da Amnesty International per chiedere il rilascio degli oltre 120 giornalisti finiti in carcere in Turchia dopo il tentato colpo di stato della scorsa estate e per sollecitare la fine della brutale repressione in atto nei confronti della libertà d’espressione nel paese. La campagna promossa a febbraio e che ha finora raccolto 250.000 adesioni viene rilanciata oggi, in occasione della Giornata mondiale della libertà di stampa, insieme a un rapporto intitolato "Il giornalismo non è un reato. La repressione della libertà di stampa in Turchia". Dal fallito colpo di stato del luglio 2016 sono stati chiusi almeno 156 organi d’informazione e circa 2500 tra giornalisti e altri operatori dell’informazione hanno perso il lavoro. Giornalisti sono stati arrestati e accusati di reati di terrorismo solo per aver scritto post su Twitter, aver disegnato vignette o aver espresso le loro opinioni: il tutto in un più ampio contesto repressivo contro persone sospettate di avere idee critiche nei confronti del governo, che ha portato oltre 47.000 persone in prigione e ha causato il licenziamento sommario di oltre 100.000 dipendenti pubblici. La lunga durata della detenzione preventiva è diventata routine. Le accuse mosse contro i giornalisti sono spesso inventate, in alcuni casi palesemente assurde o del tutto prive di qualsiasi prova di un effettivo reato penale. Ahmet Altan, ex direttore del quotidiano "Taraf" e autore dello straordinario libro "Scrittore e assassino", è stato arrestato nel settembre 2016 insieme a suo fratello Mehmet, docente universitario. Entrambi sono stati accusati di "aver inviato messaggi subliminali" ai promotori del colpo di stato durante un dibattito televisivo andato in onda alla vigilia del tentato golpe. Il conduttore del programma, Nazli Ilicak, si trova a sua volta in detenzione preventiva. Il giornalista d’inchiesta Ahmet Sik è in carcere da dicembre. È accusato di aver aiutato tre gruppi fuorilegge, totalmente diversi tra loro e con programmi completamente opposti. A sostegno dell’accusa, sono elencati otto tweet, due interviste e un articolo. Sua moglie Yonca ha detto ad Amnesty International: "L’imprigionamento di Ahmet è un messaggio per gli altri: parlate se avete coraggio". La petizione online di Amnesty International per chiedere il rilascio dei giornalisti turchi ha raggiunto le 250.000 firme mentre solo lo scorso mese in migliaia hanno aderito alla campagna #FreeTurkeyMedia, sostenuta da numerose altre organizzazioni e che incoraggia a postare su Twitter un "selfie solidale". Tra le adesioni, si contano già quelle dell’artista cinese Ai Weiwei e dei tre giornalisti di "Al Jazeera" - Peter Greste, Mohamed Fahmy e Baher Mohamed - arrestati in Egitto nel 2013 e che hanno trascorso oltre 400 giorni in carcere. Decine di vignettisti stanno poi realizzando opere che verranno sottoposte a una giuria composta da colleghi famosi quali Zunar, Steve Bell e Martin Rowson. Turchia. "Liberi di tacere", nella Giornata mondiale della libertà di stampa la Regione, 4 maggio 2017 L’attenzione delle Ong nella Giornata mondiale della libertà di stampa si è indirizzata soprattutto sulla Turchia, dove il regime del presidente Erdogan ha reso l’informazione una delle principali vittime di una politica censoria e di repressione. Anche il giorno dopo la Giornata mondiale della libertà di stampa valgono le considerazioni della vigilia: mai la libertà di stampa "è stata così minacciata", come ha denunciato il recente rapporto 2017 di Reporters Sans Frontières. Così come riporta quello di Amnesty International, "Journalism is not a crime: Crackdown on media freedom" (Il Giornalismo non è un crimine. Giro di vite contro la libertà di stampa). La situazione documentata da Rsf è "difficile" o "molto grave" in 72 paesi, fra cui Cina, Russia, India, quasi tutto il Medio Oriente, l’Asia centrale e l’America centrale, oltre che in due terzi dell’Africa. Ventuno i paesi in cui la situazione della libertà di stampa è "molto grave": fra questi Burundi, Egitto e Bahrein. In coda alla lista, ma non stupisce trovandovisi ormai da anni, la Corea del Nord, preceduta da Turkmenistan ed Eritrea. Male anche Messico e Turchia. Ed è su quest’ultima che si sono concentrate le attenzioni delle due ong. In particolare, Amnesty ha promosso una petizione online (#FreeTurkeyMedia) che ha raccolto oltre 250mila firme per chiedere alle autorità turche di liberare i circa 120 giornalisti arrestati dopo il fallito golpe della scorsa estate, "semplicemente per aver fatto il proprio lavoro", come ha spiegato il suo segretario generale, Salil Shetty. Analogamente, Reporters sans frontières ha classificato la Turchia come "la più grande prigione al mondo" per i reporter. Mentre secondo l’ultimo bilancio dell’osservatorio locale P24, i giornalisti in galera sono al momento 165. "La maggioranza dei giornalisti indipendenti turchi sono dietro le sbarre, detenuti da mesi senza un’accusa o un processo, oppure oggetto di procedimenti penali sulla base di vaghe leggi anti-terrorismo" ha affermato Shetty. "Ci concentriamo sulla Turchia, dove la libertà d’espressione è spudoratamente imbavagliata". Dal fallito tentativo di colpo di Stato del luglio 2016, informa un comunicato della stessa Amnesty, almeno 156 organi di stampa sono stati chiusi e si stima che 2’500 giornalisti e altri impiegati del settore mediatico abbiano perso il proprio lavoro. I giornalisti, prosegue il testo, sono stati arrestati e accusati di reati inerenti al terrorismo a causa di post condivisi su Twitter, vignette che hanno disegnato oppure opinioni che hanno espresso. Una politica espressamente censoria e repressiva che, oltre ai giornalisti, ha peraltro coinvolto la magistratura, le forze di polizia, il corpo accademico, per un totale di 47mila persone finite in carcere preventivo, e l’allontanamento dal lavoro di oltre centomila impiegati del settore pubblico. Lunghi periodi di detenzione cautelare, permessa dallo stato di emergenza dichiarato dopo il colpo di Stato e regolarmente prorogato di scadenza in scadenza (lo stesso referendum costituzionale si è celebrato in queste condizioni) sono ormai routine. Le accuse contro giornalisti e editori sono spesso gonfiate, o accompagnate da prove totalmente lacunose, scrive Amnesty, che cita, tra i molti, il caso di Ahment Altan, direttore del quotidiano ‘Taraf’, detenuto nel settembre 2016 con il fratello, l’accademico Mehmet Altan. Entrambi sono stati accusati di "inviare messaggi subliminali" agli organizzatori del colpo di Stato durante una discussione televisiva alla vigilia del tentativo di golpe. Mentre il giornalista investigativo Ahmet Sik è in custodia cautelare da dicembre. Nell’atto d’accusa contro di lui sono elencati otto tweet, due interviste e un articolo quali prove della sua collaborazione con tre diversi gruppi vietati, i quali hanno scopi totalmente diversi, se non opposti. Sua moglie Yonca ha detto ad Amnesty International: "L’arresto di Ahmet è un messaggio per tutti gli altri: parlate, se ne avete il coraggio". Medio Oriente. "Israele ascolti il grido dei detenuti palestinesi" di Barbara Uglietti Avvenire, 4 maggio 2017 La Commissione "Giustizia e pace" chiede che le autorità dello Stato ebraico "aprano una nuova porta alla costruzione della pace". "Invocano il rispetto dei loro diritti e della loro dignità". "Invitiamo le autorità israeliane a sentire il grido dei prigionieri, a rispettare la loro dignità umana e ad aprire una nuova porta verso la costruzione della pace". È l’appello lanciato al governo dello Stato ebraico dalla Commissione "Giustizia e pace" - che opera in seno all’Assemblea degli Ordinari cattolici di Terra Santa - in merito allo sciopero della fame intrapreso dal 17 aprile scorso (nella "Giornata per il detenuto palestinese"), da oltre 1.500 prigionieri palestinesi. Nell’appello - pervenuto al "Sir" - la Commissione "Giustizia e pace" spiega che "l’obiettivo di questo atto disperato è quello di far luce, sia a livello locale che internazionale, sulle condizioni disumane in cui sono trattenuti dalle Autorità israeliane". I detenuti "invocano il rispetto dei loro diritti umani e della loro dignità, come riconosciuto dal diritto internazionale e dalla Convenzione di Ginevra, e la fine della detenzione amministrativa". La Commissione, nel comunicato, "afferma la necessità dell’applicazione del diritto internazionale nei confronti dei prigionieri politici. Condanna l’uso della detenzione senza processo, tutte le forme di punizione collettiva, nonché l’uso della forza e della tortura per qualsiasi motivo". Inoltre - si legge nel testo - "non dobbiamo mai dimenticare che ogni prigioniero è un essere umano e la sua dignità, data da Dio, deve essere rispettata". "La liberazione dei prigionieri - conclude la Commissione - sarà un segno di una nuova visione, e l’inizio di una nuova storia, per entrambi i popoli, israeliani e palestinesi. Come cristiani siamo inviati a lavorare per la liberazione di ogni essere umano e per la creazione di una società umana in cui ci sia uguaglianza per tutti, israeliani e palestinesi". Le richieste dei detenuti - I prigionieri chiedono migliori condizioni di detenzione. Soprattutto per quanto riguarda le comunicazioni e gli incontri con i famigliari. Il regolamento carcerario israeliano prevede le visite come diritto riconosciuto, provvedendo anche a una regolare calendarizzazione, ma spesso i parenti, che vivono in Cisgiordania o a Gaza, non riescono a ottenere i permessi speciali per entrare in territorio israeliano e recarsi nelle carceri. I prigionieri chiedono anche l’istallazione di telefoni pubblici nei blocchi detentivi, l’accesso a cure mediche negli ospedali (e non solo nelle cliniche di servizio presenti negli istituti) e la fine delle detenzioni senza processo. In tutto, sarebbero tra i 6.500 e i 7.000 i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. Fra di loro ci sarebbero una sessantina di donne e 300 minori. Molti stanno scontando condanne per reati di diverso tipo, ma tanti sono in regime di "detenzione amministrativa": vengono cioè considerati sospetti e trattenuti senza accusa e senza processo per sei mesi. Marwan Barghouti, il leader della protesta - La protesta dei detenuti è stata lanciata da Marwan Barghouti, dirigente di al-Fatah (il partito del presidente Abu Mazen) accusato dalle autorità israeliane essere un terrorista, responsabile di vari attacchi durante la Seconda Intifada. Venne arrestato a Ramallah nel 2002, e, dopo un processo, venne condannato a cinque ergastoli. Lo sciopero della fame è partito proprio dal carcere di Hadarim, dove è detenuto Barghouti (che dopo l’avvio dell’iniziativa è stato sottoposto al regime di isolamento). Le ferite palestinesi - Allo sciopero della fame hanno poi aderito le altre formazioni politiche palestinesi. Anche Hamas ha organizzato manifestazioni di supporto a Gaza. Il 28 aprile è stato indetto in tutta la Cisgiordania un "Giorno della rabbia" in solidarietà con lo sciopero della fame dei detenuti. Le più importanti città palestinesi hanno partecipato. Ci sono stati scontri (anche pesanti) con i militari israeliani. Ma, soprattutto, ancora una volta, sono emerse le divisioni tra le varie formazioni palestinesi. Ferite che indeboliscono anche una lotta di civiltà. E rendono più faticoso il cammino di pace. Sierra Leone. Moriranno nel carcere più disumano del mondo, nonostante la giovane età infoans.org, 4 maggio 2017 Alberto López è un giornalista spagnolo del Dipartimento di Comunicazione della Procura Missionaria Salesiana di Madrid. Pochi giorni fa ha visitato una delle prigioni più disumane nel mondo, al fine di preparare le riprese per un documentario sul lavoro dei Salesiani con i minori più svantaggiati della Sierra Leone. Chi avrebbe mai potuto immaginare che un carcere in Sierra Leone non avesse telecamere di sicurezza, che nell’area controllo all’interno del cortile, tra le baracche e i prigionieri, le guardie dopo pranzo si mettessero a dormire con la divisa slacciata, che decine di prigionieri, nudi, stessero sparsi per il cortile, lavandosi a secchiate d’acqua, e che i prigionieri condannati a morte vestissero di nero con un grande "C" cucita sulle uniformi. Io non l’ho sognato: sono stato di nuovo nel carcere denominato "l’inferno sulla terra" per più di due ore. La mia prima visita era avvenuta grazie ad un Salesiano che mi aveva presentato come un grande benefattore europeo che donava molto denaro alla prigione. Il pretesto era credibile perché Don Bosco Fambul è l’unica organizzazione che entra liberamente in carcere e ha un piccolo edificio per occuparsi di un gruppo di prigionieri, molti dei quali giovani e malati, ma comunque tutti deboli e malnutriti. Quella visita mi permise di vedere come delle semplici mura e un recinto nel centro della città potessero far tornare indietro di decenni la situazione e i diritti dei prigionieri. Ho visto situazioni spaventose, che rimangono invariate. L’unico fotografo che poté entrare, anni fa, fu Fernando Moleres che documentò con delle immagini che trasmettono dolore e disperazione. Da allora è vietato entrare con macchine fotografiche o telefoni. In quest’occasione, nella mia seconda visita, il mio ruolo è stato quello dell’assistente del medico-infermiere, il missionario salesiano che cerca di portare un po’ di Cielo nell’inferno della prigione: don Jorge Crisafulli. Con un voluminoso equipaggiamento, ricco di scomparti pieni di tutti i tipi di farmaci, test e attrezzature mediche, siamo entrati nel carcere, per fare un riconoscimento di tutto quanto e vivere un’altra esperienza indicibile nella quale la sofferenza è mescolata con la rassegnazione e l’apatia dei detenuti e anche con la gratitudine per ogni gesto di attenzione. Sono uscito convinto che molti sanno che moriranno nel carcere più disumano del mondo, nonostante la giovane età.