Ogni cella ha la sua pena e a decidere è il direttore di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 31 maggio 2017 Le loro carceri. Regole che cambiano di istituto in istituto a seconda dell’amministrazione penitenziaria. A Novara, a lungo, i pacchi portati dai parenti potevano contenere cibo solo se con vestiti, in ugual peso. Nessuna norma vieta ai reclusi di suonare. Spetta a chi dirige riempire di senso il dettato costituzionale. Non è la stessa cosa finire in un carcere piuttosto che in un altro. Chiunque abbia a che fare con il diritto sa che la sua capacità d’impatto, positiva o negativa sull’esistenza delle persone, dipende da chi nelle aule di giustizia, o ancor prima nell’amministrazione quotidiana, dovrà interpretarlo. Le norme in carcere vengono tradotte in ordini di servizio che disciplinano, in senso letterale, la vita dentro. Dagli ordini di servizio trasuda la cultura giuridica e umanistica degli operatori penitenziari. È questa che a sua volta trasforma un istituto di pena in un luogo "normale" oppure "anomalo", in un posto dove la vita segue decisioni ragionevoli o il cui unico senso è quello meramente punitivo. Molto di quello che accade in un carcere, a volte troppo, è affidato alle decisioni discrezionali di chi lo gestisce, tendenzialmente il direttore in sinergia con il commissario di polizia penitenziaria che ha la funzione di comandante di reparto. Ogni detenuto, per legge, può fare fino a sei ore di colloquio al mese con un proprio congiunto. In un carcere può accadere che il direttore autorizzi ragionevolmente più ore consecutive di colloquio visivo nella stessa mattinata; in un altro invece il colloquio con una moglie, un figlio, un fratello dura inderogabilmente soltanto un’ora anche se il familiare arriva da terre lontane e per quell’unica ora è costretto a spendere fino a trecento euro di viaggio e prendersi un giorno di ferie. In un carcere è possibile incontrare un amico fraterno, in un altro no. In un carcere è possibile fare colloqui di domenica, in un altro no. Può succedere che in un carcere i parenti della persona reclusa siano autorizzati a consegnargli un pacco con dentro una banale mozzarella, nell’altro invece può portargli solo prodotti alimentari confezionati e a lunga conservazione. In buona parte degli istituti penitenziari un detenuto può ricevere vestiti o cibo dai propri cari nelle quantità di peso massime previste dalla legge ma senza rigidità nella composizione dei pacchi. A Novara invece per un lungo periodo pare che la direttrice consentisse la ricezione di pacchi portati dai parenti solo se contenevano cibo in peso uguale o inferiore a quello dei vestiti. Una disposizione il cui senso è difficile da cogliere, se non quello di complicare la vita dei parenti in visita. Costoro mai avrebbero potuto portare solo cibo o più cibo che vestiti, pur sempre rispettando il peso massimo del pacco così come previsto dalle norme. Interpretazione bizzarra. I poveri parenti che arrivavano a Novara, facendo anche mille chilometri con vari cambi di treno in un giorno solo per poter vedere i loro cari, se volevano portare dieci chili di cibo dovevano portare anche almeno dieci chili di vestiti, anche se questi al detenuto non servivano per nulla. "Ho tre cambi treno e sono obbligata a trascinarmi 20 chili di peso quando potrei portare solo 10 chili di alimenti in quanto porto il vestiario solo nei cambi stagione. Finito il colloquio mi viene restituito dal mio familiare lo stesso vestiario utilizzato solo per far passare il cibo". In un carcere la gran massa dei vestiti viene portata in occasione dei cambi di stagione. Non a tutti servono abiti o vestiario tutte le settimane. La direttrice del carcere di Novara ha a lungo, fino a quando il caso non è divenuto pubblico, interpretato in modo discutibile la norma sui pacchi presente nell’ordinamento penitenziario. Un’interpretazione che fa male alle persone e che produce sofferenze a chi ha già il peso sulle spalle della carcerazione di una persona cara. Poche settimane dopo, sempre a Novara, sono state introdotte altre disposizioni a dir poco "discrezionali" nei confronti dei detenuti. Pare che non si possa andare in cortile a passeggiare nelle ore d’aria portandosi il quotidiano da leggere (che male fa?) e che non si possa andare sotto la doccia portando con sé sia l’asciugamano che l’accappatoio ma è necessario scegliere tra i due (perché?). L’Italia carceraria è un Paese frammentato, a macchia di leopardo. A un’ora da Novara, a Milano nel carcere di Bollate, grazie all’intuizione di dirigenti dalla visione profonda (cito chi l’ha pensato, Luigi Pagano, chi l’ha diretto per tanti anni, Lucia Castellano, e chi lo dirige ora, Massimo Parisi), la vita in carcere è modellata secondo parametri di normalità. Da anni una band composta da detenuti e straordinariamente seguita da un agente di polizia penitenziaria, Francesco Mondello, registra e ci invia una cover dell’autore musicale la cui storia raccontiamo nella trasmissione radiofonica Jailhouse Rock, insieme a Susanna Marietti. Nessuna norma consente ai detenuti di suonare. Nessuna norma lo vieta. Spetta a chi dirige un carcere riempire di senso quanto la Costituzione prescrive all’articolo 27 ("Le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato"). Prassi giurisprudenziali più o meno estensive possono essere decisive nel percorso di reintegrazione sociale di un detenuto. La legge prevede che "ai condannati che hanno tenuto regolare condotta e che non risultano socialmente pericolose il magistrato di sorveglianza, sentito il direttore dell’istituto, può concedere permessi premio di durata non superiore ogni volta a quindici giorni per consentire di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro. La durata dei permessi non può superare complessivamente quarantacinque giorni in ciascun anno di espiazione". Niente la legge dice su quanto tempo deve trascorrere tra un permesso e un altro. I detenuti potrebbero preferire 45 permessi di un giorno, piuttosto che tre permessi annui di 15 giorni. Alcuni magistrati di sorveglianza del Tribunale di Roma pare prevedano che debbano trascorrere almeno 45 giorni tra un permesso e l’altro. Interpretazione che a prima vista appare solo funzionale a bisogni organizzativi degli uffici e non di certo alle regole dell’individualizzazione del trattamento. Potrebbe ben accadere che nell’arco di quei 45 giorni il detenuto avesse voglia di incontrare più volte il proprio figlio piccolo appena nato. Come ogni anno Antigone pubblica il suo rapporto annuale sulle carceri (consultabile sul sito www.associazioneantigone.it). Di questi cattivi usi interpretativi abbiamo voluto dare conto. Da loro molte volte dipende la vita e la salute delle persone detenute. Restare in carcere causa sciopero degli avvocati penalisti? di Sandro De Nardi* lacostituzione.info, 31 maggio 2017 Urge una pronuncia della Corte Costituzionale. Nei giorni scorsi sono state pronunciate, da parte di organi giudicanti, due ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale perché valuti, sotto distinti profili, se la vigente disciplina normativa che regolamenta l’astensione dalle udienze degli avvocati è conforme oppure no alla Carta fondamentale della Repubblica. In entrambi i casi, i "portieri" dei giudizi di costituzionalità erano chiamati a decidere in ordine alla richiesta di ottenere l’ennesimo rinvio d’udienza che era stata formulata dai difensori degli imputati stante la loro adesione ad un’iniziativa collettiva di astensione dalle udienze regolarmente proclamata: e proprio al fine di liberarsi dal vincolo della soggezione ad una legge reputata contra Constitutionem (la cui acritica applicazione avrebbe loro imposto di limitarsi a disporre sic et simpliciter un ulteriore rinvio dell’udienza), hanno instaurato - d’ufficio - due interessanti giudizi di legittimità costituzionale in via incidentale che investono problematiche di primario rilievo pubblicistico. In particolare, con il primo provvedimento - che è stato deliberato il 23 maggio 2017 dalla sezione penale del Tribunale di Reggio Emilia - il giudice procedente, davanti al quale si sta celebrando un maxi-processo che vede imputate più di 150 persone per una molteplicità di reati (ivi compresa l’associazione a delinquere), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 bis della legge n. 146/1990 nella parte in cui consente che il prescritto Codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati stabilisca che - nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare o di detenzione - si possa procedere nel giudizio, malgrado l’astensione del difensore, solo se l’imputato lo consenta. Ebbene, in considerazione della complessità argomentativa che caratterizza l’ordinanza in parola (tramite la quale si ipotizza che il quadro normativo vivente leda gli artt. 1, 3, 13, 24, 27, 70, 97 e 111 della Costituzione), in questa sede non è certo possibile esaminarla neppure per meri cenni: ciò che comunque colpisce il lettore - a prescindere dalla condivisibilità o meno di ogni singola doglianza - è lo sforzo argomentativo meritoriamente compiuto dal Tribunale per far comprendere ai giudici della Corte che, se si attribuisce "alla manifestazione di protesta e alla rivendicazione di categoria un peso abnorme e sproporzionato", rischiano di essere gravemente compromessi (se non addirittura vanificati) alcuni diritti fondamentali dell’imputato detenuto (a cominciare dal bene supremo che è rappresentato dalla libertà personale); inoltre merita poi di essere segnalato che, sempre al predetto fine, il giudice a quo si premura di richiamare l’attenzione su un elemento fattuale che non può essere trascurato allorquando si sia chiamati a valutare la compatibilità costituzionale dei combinati disposti normativi attualmente in vigore nella materia de qua: vale a dire, l’asimmetricità della relazione che, in concreto, si instaura tra avvocato difensore ed imputato detenuto, allorquando a quest’ultimo viene chiesto di accettare l’adesione del proprio difensore allo "sciopero" indetto dalla categoria forense (imponendogli "un’opzione e un atto di volontà che non sono e non possono essere libere"). Con il secondo provvedimento - che è stato deliberato il 24 maggio 2017 dalla seconda sezione penale della Corte d’appello di Venezia - il collegio giudicante ha invece sollevato una questione di legittimità costituzionale di portata ben più generale (posto che nel caso di specie l’imputato si trovava sì in vinculis ma per altra causa): puntando questa volta l’indice contro l’art. 2, commi 1, 2 e 5 della vigente legge n. 146/1990 "nella parte in cui non prevede che l’obbligo di congruo preavviso e di ragionevole durata delle astensioni degli avvocati difensori si applichino anche alle iniziative di astensioni dalle udienze, successive e coordinate per essere determinate dalle medesime ragioni e pertanto da doversi considerare unitariamente". Anche in tale evenienza il giudice a quo sviluppa una serie di articolate considerazioni che sono volte a prospettare dubbi di legittimità (non certo sull’an, quanto piuttosto) sul quomodo e sul quando delle numerose astensioni già deliberate (nonché, verosimilmente, deliberande) dall’Unione delle Camere Penali Italiane (Ucpi) nel corso del 2017, che sono formalmente e temporalmente distinte ma originate dal medesimo obiettivo (id est contrastare la definitiva approvazione parlamentare della c.d. riforma del processo penale). Tra gli altri, degno di peculiare riflessione appare il passaggio motivazionale con il quale la Corte veneta pone in evidenza che il Codice di autoregolamentazione - atto normativo secondario che in base all’autorevole interpretazione delle sezioni unite penali della Corte di cassazione vincola il giudice procedente (cfr. sent. n. 40187 del 29 settembre 2014, Lattanzio) - finisce per considerare legittima l’astensione degli avvocati per ben 88 giorni lavorativi all’anno su un totale di 235 giorni teoricamente disponibili (perlomeno nel 2017): impedendo dunque (ragionevolmente?) che il 35% del tempo annuo ipoteticamente a disposizione per amministrare giustizia possa essere utilizzato per definire - in modo giusto ed in tempi ragionevoli, così come impone la Costituzione - l’abnorme numero di processi pendenti (pure) di fronte alla Corte lagunare. Anche per tale ragione il giudice a quo si domanda se l’attuale regolamentazione delle modalità di esercizio del diritto di "sciopero" da parte degli avvocati (diritto costituzionalmente loro garantito, secondo la pronuncia n. 171/1996 a suo tempo resa dal Giudice delle leggi), sia rispettoso - in principalità - dei principi dell’efficacia e dell’efficienza della giurisdizione, del buon andamento dell’amministrazione della giustizia, della ragionevole durata del processo di cui agli articoli 3, 24, 97 e 111 della Costituzione. Ora, dato che la Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane ha già deliberato un’ulteriore astensione dalle udienze (dal 12 al 16 giugno 2017) è molto probabile che la Corte costituzionale venga sollecitata a pronunciarsi in materia pure da altri magistrati ordinari (per i medesimi motivi o anche, sulla scorta delle peculiarità dei casi concreti di volta in volta sub iudice, per altre ed ulteriori ragioni): tuttavia, nel frattempo, qualche significativa novità potrebbe forse sopraggiungere grazie all’intervento della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali. Quest’ultima, infatti, é stata espressamente sollecitata - ancora una volta dal Tribunale di Reggio Emilia - a rivedere il giudizio di idoneità che a suo tempo (il 13.12.2007) aveva espresso proprio sul Codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze: ed il relativo procedimento sembra essere in corso (si vedano, in proposito, le note appositamente depositate dall’Ucpi, reperibili al seguente indirizzo: camerepenali.it). Allo stato, ovviamente, non è dato sapere se siffatto tentativo volto a stimolare la Commissione di garanzia affinché giunga a rimettere in discussione, in parte qua, il contenuto del Codice di autoregolamentazione sortirà gli esiti auspicati, anzitutto, dal Collegio giudicante che l’ha appositamente incalzata: ad ogni buon conto sarebbe senz’altro opportuno che, perlomeno in prima battuta, le complesse problematiche che sono state poste sul tappeto - ivi comprese quelle sollevate dalla Corte veneta - venissero seriamente affrontate, in tutto o almeno in parte, proprio in quella sede istituzionale al fine di garantire il doveroso bilanciamento tra diversi diritti e principi tutelati dalla Costituzione, cercando di perseguire "il pieno e ordinato esercizio di funzioni, come quella giurisdizionale, che assumono un rilievo fondamentale nell’ordinamento" (così Corte cost. sent. n. 171/1996). Del resto, e a ben vedere, da una prima lettura dei due provvedimenti di rimessione si matura l’impressione che gli stessi giudici remittenti abbiano voluto parlare a nuora (la Corte costituzionale), affinché suocera (la Commissione di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali) intenda: possibilmente alla svelta. *Associato di Istituzioni di diritto pubblico nella Scuola di Giurisprudenza dell’Università di Padova Dal processo penale allo ius soli, le leggi che è obbligatorio approvare di Claudia Fusani L’Unità, 31 maggio 2017 La conclusione anticipata della legislatura mette a rischio testi di legge che darebbero un senso politico al quinquennio. Favoriti i testi che danno consenso. La cittadinanza per quel milione e passa di giovani che sono nati in Italia ma italiani non sono. Il via libera al pacchetto di norme che rendono il processo penale più veloce quindi più certo, intercettazioni comprese. Il diritto di decidere se e come curarsi quando la fine è segnata e la dignità delle persona malata pretende rispetto. Una legge sulla tortura che tutta Europa ci chiede e da anni. Il senso di questa legislatura aveva una parola chiave: riforme. La più importante, la riforma costituzionale, è finita come sappiamo, tre anni di lavori parlamentari buttati nel nulla. Altre sono diventate leggi, dalle unioni civili ad alcuni pezzi importanti del processo civile. Altre ancora sono nel limbo dell’approvazione a metà, sono zoppe, hanno l’ok di un ramo del Parlamento e in attesa del via libera dell’altro. Se è vero, come molti indicatori dicono, che la legislatura finirà in estate e si andrà a votare in autunno, il rischio che molti di questi provvedimenti evaporino nonostante snervanti battaglie parlamentari, è molto alto. Aggiungendo un senso di frustrazione ancora maggiore a una classe politica in crisi di identità. A molte di queste leggi che hanno a che fare con la civiltà e l’efficienza di una moderna democrazia, basterebbe poco, quasi nulla per essere approvate definitivamente. Il loro destino da oggi in poi è affidato non tanto al merito e a Ila sostanza ma alla rispettiva convenienza in termini di dividendo elettorale, merce preziosa in tempi di campagna elettorale. Ius soli - La cittadinanza a chi è nato in Italia, non automatica come negli Stati Uniti, ma condizionata a fattori culturali e di integrazione anche lavorativa dei genitori, è uno dei provvedimenti più attesi, su cui c’è maggiore attenzione sociale e anche più utile in tempi in cui il sistema Italia non è attrezzato a sostenere i flussi migratori. Per tutti questi motivi, potrebbe essere quello che rende di più in termini elettorali e tentare quindi l’approvazione finale. "Probabilmente ce la facciamo" dice una fonte di governo. Il testo fu approvato alla Camera nell’ottobre 2015 e da allora è fermo al Senato. Dopo 18 mesi e l’ostruzionismo delle destre in Commissione (8mila gli emendamenti), il 15 giugno la legge andrà in aula al Senato. Senza il mandato al relatore perché sarebbe stato impossibile discutere migliaia di emendamenti. La relatrice Doris Lo Moro (Articolo 1) fa continuamente i conti e, "se il Pd non fa scherzi ce la possiamo fare". In realtà lo scherzo potrebbero farlo i 5 Stelle che si dicono favorevoli alla legge ma ci hanno abituato a giravolte dell’ultimo secondo. Lo ius soli potrebbe passare con i voti di tutto il centrosinistra unito, i 5 Stelle e i cattolici che sono trasversali nei vari gruppi. Contrari Lega, Fi e centristi. Il testo deve essere approvato senza modifiche. Altrimenti finisce sul binario morto. Fine vita - Sarebbe soprattutto questa la legge che gode di maggior consenso tra i cittadini (l’80% la vuole). È dal 2008, quando Eluana Englaro riuscì finalmente a morire, che il Parlamento si è impegnato per approvare una legge che regolasse il fine vita. Nessuna imposizione, ovviamente. Un sacrosanto diritto in più per decidere quando farla finita quando non ci sono più speranze e senza essere obbligati ad andare in Svizzera. La Camera ha approvato il testo il 20 aprile sulla spinta emotiva del suicidio assistito di dj Fabo in Svizzera. Ora è in Commissione Affari sociali al Senato. "Ma ci sono più di 70 audizioni da fare" lancia l’allarme la relatrice Emilia De Biasi (Pd). Alla Camera il testo è passato a larga maggioranza. Ma al Senato il fronte dei cattolici contrari e trasversali negli schieramenti, rischia di affossare la legge. Il nuovo vento della Cei, guidato dal cardinale Gualtiero Bassetti, potrebbe cambiare un destino segnato. Riforma del processo penale - È il provvedimento più vicino al traguardo e anche quello destinato ad incidere di più nel nostro quotidiano: riduce i tempi d ei processi modificando, tra le altre, la procedura penale e il sistema delle impugnazioni, la prescrizione e le intercettazioni. Non piace a nessuno, non ai magistrati e meno che mai agli avvocati. Un motivo in più, forse, per essere approvato. Ma anche la ragioni per le quali rischia moltissimo di finire nel nulla. È alla Camera per la terza e definitiva lettura (cioè senza cambiare il testo). Ma occorre fare presto: se il testo non sarà approvato entro giugno, il governo non potrà esercitare le numerose deleghe previste. Una su tutte, quella sulle intercettazioni. Legittima difesa - Sarebbe un provvedimento gradito e popolare soprattutto in una campagna elettorale che cavalcherà i temi della sicurezza e dell’immigrazione. Tutto sommato piace anche la versione approvata il 5 maggio alla Camera che, nelle ore notturne, garantisce di più la difesa di chi si trova un ladro nel perimetro dell’abitazione. Il testo deve ancora essere approvato al Senato. Basta una settimana. Reato di tortura - Approvato per la prima volta al Senato nel 2014, è alla Camera per la quarta lettura. Ma pochi nel governo credono che potrà diventare legge. Il nostro codice penale è destinato quindi a restare senza la previsione del reato di tortura nonostante gli accordi internazionali ci chiedano di farlo da 28 anni. Codice antimafia - Si tratta di un testo che riorganizza in un corpo unico le leggi antimafia, offre nuovi e migliori strumenti per rendere più veloci confische e sequestri, che li prevede anche per gli indagati di corruzione e rivede i compensi per gli amministratori giudiziari dopo gli scandali dei mesi scorsi. Approvato alla Camera è fermo al Senato. E lì è destinato a restare. Codice antimafia. Confische allargate anche ai corrotti, ma la legge è sotto attacco da 18 mesi di Liana Milella La Repubblica, 31 maggio 2017 La proposta di iniziativa popolare, sottoscritta da Arci, Libera, Cgil, Adi e altri, è ferma al Senato dal novembre del 2015. Ad ostacolarla Forza Italia e centristi. Sarà in aula a metà giugno dopo la manovra. Dal "buco nero" della commissione Giustizia del Senato potrebbe uscire a giorni, dopo esserci misteriosamente rimasto dalla fine di novembre del 2015 al 27 aprile di quest’anno. E approdare in aula, dopo la manovrina, nella seconda metà di giugno. Repubblica - come annuncia il direttore Mario Calabresi nel suo editoriale di oggi - ha inserito il nuovo Codice antimafia tra i sei provvedimenti da approvare prima delle elezioni: biotestamento, ius soli, processo penale, tortura, cannabis. Trenta articoli assai tecnici quelli del Codice antimafia che ridisegnano il meccanismo delle misure di prevenzione, ma soprattutto introducono una novità rivoluzionaria, la vera "novità" del provvedimento, che lo rende visceralmente ostile alle pance di Forza Italia e degli alfaniani. Sequestri e misure contro i beni della mafia potranno essere applicate anche ai corrotti. Gli imputati di corruzione, anche in atti giudiziari, di induzione, di concussione, potranno vedersi sequestrato il patrimonio che finirà gestito dall’Agenzia per i beni confiscati. Alla Camera, dove il testo è stato votato l’11 novembre 2015, tra i reati figurava anche il peculato, ma al Senato hanno pensato bene di sfilarlo. Reato "troppo" lieve, non merita un trattamento severo... Proprio la presenza delle norme contro i corrotti ha scatenato l’abituale guerriglia sulla giustizia di Forza Italia e di Ap. E non è un caso se i presidenti della commissione Giustizia del Senato siano stati, nell’ordine, prima il forzista Francesco Nitto Palma e attualmente l’avvocato di Reggio Calabria ed esponente di Ap Nico D’Ascola. Entrambi non si sono dati particolarmente da fare per accelerare la strada del nuovo Codice antimafia. Tutt’altro. Proprio da Ap, nelle scorse settimane, è venuto l’ultimo assalto che ha fatto slittare il voto in commissione e la possibilità di passare subito all’aula. Gli uomini dell’ex ministro dell’Interno Alfano, da sempre contro il doppio binario che consente un trattamento più aspro per chi commette reati di mafia e terrorismo, avevano proposto di inserire norme per rendere più facili i ricorsi in Cassazione anche per i mafiosi, sia per vizi di legittimità che di motivazione. Inoltre insistevano per un sistema più rigido per applicare le misure di prevenzione. Sono state necessarie più riunioni della maggioranza, in cui anche Anna Finocchiaro, il ministro Pd per i Rapporti con il Parlamento, ha giudicato "inaccettabili " le richieste dei centristi. Dice l’ex giudice istruttore Felice Casson, ex Pd ora Mdp: "L’attuale impianto delle misure di prevenzione già funziona, ma il nuovo Codice inserisce positivamente la nuova confisca allargata ". Casson definisce "inaccettabili " le richieste dei centristi "perché ormai il principio del doppio binario per i reati di mafia e terrorismo è sottoscritto dalla Cassazione e dalla Consulta, ma anche dalle Corti europee". Legge di iniziativa popolare, lanciata da "Io riattivo il lavoro", con un enorme bagaglio di firme è approdata alla Camera e ha soppiantato la legge del Guardasigilli Orlando. Ancora adesso l’ex relatore Davide Mattiello di Libera insiste perché la legge passi nella versione di Montecitorio, ipotesi ormai impossibile perché la commissione del Senato l’ha già modificata. La sponsorizzano Cgil, Libera, Arci, Acli, Legambiente, Avviso pubblico, Sos Impresa, il Centro studi Pio La Torre, ma sarebbe un miracolo se la legge riuscisse a farcela. Anche se il Senato dovesse licenziarla in aula la metà di giugno, nel cuneo tra manovrina e dopo le amministrative, resterebbe lo scoglio dell’ulteriore passaggio alla Camera, incompatibile con l’eventuale scioglimento delle Camere a fine luglio. Tra le novità da segnalare nel nuovo Codice antimafia sicuramente la stretta, dopo il caso Saguto, sui giudici e gli amministratori giudiziari, che dovranno ruotare molto spesso. Singolare invece la previsione di ben sette sedi per la rifondata Agenzia per i beni confiscati, una a Roma al Viminale e altre sette in periferia (Reggio Calabria, Palermo, Catania, Napoli, Bologna, Milano). Penalisti, per separazione carriere 30mila firme in meno di un mese Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2017 "Trentamila firme per la separazione delle carriere in meno di un mese di raccolta rappresentano non solo un dato straordinario di per sé ma un autentico segnale politico inviato da migliaia di cittadini alle Istituzioni e ciò rende l’idea di quanto tale tematica sia fondamentale agli occhi dell’opinione pubblica" così, in una nota, dichiara la Giunta dell’Unione delle Camere Penali a proposito dei numeri record del primo mese di raccolta firme a favore del disegno di legge di iniziativa popolare promossa dalla stessa Ucpi. "Il consenso arriva con entusiasmo anche dai non addetti ai lavori. Non solo avvocati, ma anche sindaci, parlamentari, giornalisti, studenti, docenti, pensionati e soprattutto tantissime donne. Grazie alla mobilitazione di centinaia di avvocati e ad una vasta campagna di comunicazione, anche durante le festività, decine di migliaia di cittadini, firmando nelle piazze, hanno potuto testimoniare l’importanza della tematica posta dall’Ucpi con grande coraggio e la risposta di consensi ottenuta in questi primi ventisei giorni dimostra quanto sia stato corretto porre l’attenzione su un tema così fondamentale e fino ad oggi considerato di nicchia e per addetti ai lavori. Il diritto ad avere un giudice terzo la cui carriera sia nettamente distinta da chi accusa è infatti un diritto di tutti, non solo degli avvocati e l’opinione pubblica dimostra di saperlo. La raccolta - concludono i penalisti - proseguirà nei prossimi mesi nelle città con vari appuntamenti nazionali ad-hoc in calendario. Il primo sarà l’Open Day di Rimini del 9 e 10 giugno, dove si terrà, tra gli altri appuntamenti, il primo confronto pubblico tra il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte e quello dei penalisti Beniamino Migliucci". Tema principale della due giorni di Rimini, sarà, ovviamente, la separazione delle carriere. Corsa a 8 per l’antimafia, chi vince è super-ministro di Errico Novi Il Dubbio, 31 maggio 2017 Inizia la lotta per la successione a Roberti. Con un occhio alla sfida per Napoli. Non è la scadenza più immediata che il Csm dovrà evadere. Ma la nomina del successore di Franco Roberti a procuratore nazionale Antimafia si annuncia così delicata da tenere già sulla corda Palazzo dei Marescialli, che conta di decidere nel giro di pochi mesi. L’attuale capo della Dna andrà in pensione a novembre, e la necessità di evitare che la Superprocura resti senza vertice è legata a un incrocio rischiosissimo: le nuove competenze sull’Antiterrorismo, che già da due anni la legge attribuisce alla Direzione Antimafia, e la possibilità che il prossimo esecutivo abbia una guida inedita, magari affidata ai Cinque Stelle, in un quadro in cui non sarebbero molti i ministri di grande esperienza. Proprio il fatto di coordinare le informazioni sulle inchieste e di doverlo fare anche sul terrorismo, attribuisce di fatto al procuratore Antimafia poteri e responsabilità persino superiori a quelli di un ministro. Sarà dunque difficile la scelta per il Consiglio superiore, al quale lo scorso 10 maggio sono pervenute le candidature di 8 magistrati. Tra questi, anche i tre pm rimasti in lizza per la Procura di Napoli: Giovanni Melillo, Federico Cafiero de Raho e Leonida Primicerio. Coordinare le Direzioni Antimafia di tutta Italia. Dare impulso e sostegno alle indagini più complesse. Ma non solo. Perché il capo della Dna, da due anni, è anche procuratore Antiterrorismo. E poi perché, soprattutto in virtù di quest’ultima novità, non può limitarsi a dirigere il pur articolato sistema inquirente predisposto per i due più gravi fenomeni criminali. Di fatto il capo della Superprocura non può considerarsi solo un magistrato. È una specie di super-ministro. Forse qualcosa di più. Ha un grande potere ma non solo di armonizzazione del lavoro altrui e di raccolta informazioni. A maggior ragione in materia di terrorismo, può e deve condividere quella informazioni anche con altri apparati dello Stato. E magari contribuire orientarne le scelte. E partecipare a dibattiti, suggerire soluzioni, nuove forme di contrasto. Di fatto è così, e in tempi di offensiva jihadista il compito non è solo gravoso: è quasi sovrumano. Se al Capo della Dna capita un premier M5S - Tanto più se si considerano le incognite anche politiche che incombono sul prossimo futuro. Chi subentrerà a Franco Roberti, destinato ad andare in pensione a novembre, potrebbe trovarsi con un governo dalla guida inedita, cioè sostenuto dai Cinque Stelle. Non è una variabile da poco. Certo, le cose cambierebbero se fossero confermate quelle che per ora sono leggende: la candidatura, a capo di un esecutivo pentastellato, di un altro super- pm come Piercamillo Davigo. Ma se non fosse così, chi sarebbe davvero in grado di misurare l’enorme peso di responsabilità destinato a scaricarsi sul vertice della Procura Antimafia? Se a Palazzo Chigi e al Viminale non vi fossero figure sperimentate che ne sarà del superpotere che promana dagli uffici di via Giulia? Come si farà a gestirlo? Partita doppia al Csm: Napoli e Dna - Al Csm sanno che la partita è delicatissima. E a breve dovranno pure metterci mano. Il termine di presentazione delle domande per gli aspiranti successori di Roberti è scaduto lo scor- so 10 maggio. Si sono candidati in 8. I nomi? Eccoli: l’attuale pg di Palermo Roberto Scarpinato, il procuratore di Siracusa Francesco Giordano, il pg di Milano Roberto Alfonso, il pg di Firenze Marcello Viola, l’aggiunto di Roma Michele Prestipino, e siamo a 5. Gli altri 3 hanno in comune almeno un’altra sfida, quella per guidare la Procura di Napoli: si tratta del pg di Salerno Leonida Primicerio, del capo della Procura di Reggio Calabria Federico Cafiero de Raho e di Giovanni Melillo, ex Capo di Gabinetto del guardasigilli Andrea Orlando e ora sostituto pg a Roma. E quella per l’ufficio partenopeo è la nomina più delicata attualmente al vaglio della quinta commissione, che al Consiglio superiore si occupa di incarichi direttivi e che è presieduta dal togato di "Area" Valerio Fracassi. La partita su Napoli è dunque il crocevia da cui potranno ricavarsi molte importanti indicazioni per la Superprocura Antimafia. Tra i consiglieri del Csm circola infatti con insistenza una voce, anzi un’ipotesi sussurrata ma che, per tanti motivi, ha i connotati dell’attendibilità: chi tra Giovanni Melillo e Federico Cafiero de Raho perdesse la contesa per l’ufficio partenopeo, vincerà quasi certamente quella per la Dna. Situazione singolare. Ma non così insensata: in lizza per via Giulia, Melillo e de Raho sono i due nomi più in vista. Hanno entrambi un passato nella Procura di Napoli. Il che li rende favoriti rispetto al terzo incomodo per quest’ultimo incarico, ossia Primicerio. Ma visto che all’ombra del Vesuvio sia Melillo che de Raho hanno entrambi coordinato importanti indagini anticamorra, i loro requisiti per Napoli sono potenzialmente vincenti anche per via Giulia. Primicerio, due volte outsider (di lusso) - Certo sarebbe imprudente pensare che davvero tutto si riduca a una questione a due tra l’ex capo di Gabinetto di via Arenula e l’attuale procuratore di Reggio. Anche gli altri sono nomi importanti. Innanzitutto quello dell’attuale pg di Palermo Scarpinato. Non solo una toga in prima linea in una città decisiva come il capoluogo siciliano, ma anche una figura che non si sottrae di fronte a battaglie extra giudiziarie, alle ipotesi di un "gioco grande" regolato da eminenze grigie sfuggenti e spietate, da lui avanzate un anno fa in un’intervista a Repubblica. E poi gli altri. Tutti magistrati di spessore. Ma certo quanto detto all’inizio sulle responsabilità extra- giurisdizionali che incombono sul successore di Roberti potrebbero suggerire un pronostico favorevole per Melillo. Che da Capo di Gabinetto della Giustizia, oltretutto, si è trovato spesso a coordinare i lavori di diverse importanti Procure, ad ascoltare i capi degli uffici, come avvenuto in vista delle nuove norme sui costi delle intercettazioni. Vorrebbe dire che allora de Raho è il nome perfetto per Napoli. In parte è vero. Potrebbe frenarlo, forse, il fatto di avere, proprio nel capoluogo campano, una moglie che fa il gip. E allora potrebbero invertirsi i destini con Melillo. Ma entrambi devono fare i conti con Primicerio. Che alla Direzione nazionale Antimafia ha trascorso gli ultimi 6 anni prima di tornare nella "sua" Salerno. E che da pm semplice, negli anni Novanta, si era occupato di indagini anticamorra delicatissime. È semplicemente un rebus. A doverne esporre la pate relativa alla Dna sarà una consigliera donna, la laica Paola Balducci relatrice in quinta commissione della pratica sulla Superprocura. Lì, a Palazzo dei Marescialli, contano di presentare una proposta al plenum, magari unanime, entro settembre. Così da evitare che arrivi prima il congedo di Roberti e che a via Giulia debba restarci un facente funzioni. Visto il peso delle responsabilità, in tempi difficili come questo, non è la prospettiva ideale. Riforma dei giudici di pace sotto la lente del Csm di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 31 maggio 2017 Prosegue lo sciopero dei magistrati onorari. Sulla magistratura onoraria prende posizione il presidente dell’Ottava commissione del Csm, il togato Nicola Clivio. I magistrati onorari, come è noto, stanno scioperando da settimane contro la riforma della loro categoria, prevista dalla legge n. 57/ 2016, che amplia l’organico dagli attuali 5mila a circa 10mila ed impone, però, il limite di due udienze alla settimana per un emolumento mensile di 700 euro al massimo. Lo scorso 5 maggio il Consiglio dei ministri ha approvato lo schema del principale decreto delegato che darà attuazione alla riforma. Su questo testo verranno acquisiti i pareri delle commissioni parlamentari e del Csm. Sul punto, l’Ottava commissione competente sulla magistratura onoraria ha già provveduto all’audizione dei rappresentanti delle varie associazioni di categoria e di una delegazione dell’Anm. In calendario è prevista anche l’acquisizione dei pareri dei dirigenti degli uffici. La protratta astensione sta causando grandi disagi nei tribunali, in considerazione del numero elevato di cause che i magistrati onorari giornalmente trattano. Per Clivio, in vista dell’emanazione del decreto legislativo, è fondamentale vedere "se la riforma sia funzionale alle esigenze degli uffici, in modo da garantire razionalità ed efficienza". In tale ottica vanno, quindi, affrontate le posizioni di chi, per le numerose proroghe, "ha svolto in questi anni la funzione di magistrato onorario con un grado di stabilità tale da costituire a tutti gli effetti una professione a titolo esclusivo". Con la riforma ciò non sarà più possibile e la funzione onoraria, caratterizzata da temporaneità, dovrà essere compatibile con lo svolgimento di altre attività lavorative. Argomento "difficile" da metabolizzare per i numerosi avvocati, che hanno chiuso il proprio studio per dedicarsi esclusivamente a tale funzione. La "stabilizzazione" è ormai sfumata. Una norma transitoria, comunque, dovrebbe consentire a chi svolge funzioni onorarie alla data della sua entrata in vigore di ottenere la conferma per sedici anni. Lo stesso Consiglio di Stato con un parere sollecitato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva escluso ogni possibilità al riguardo, ipotizzando la semplice "conservazione dell’incarico in corso" sino al conseguimento della età pensionabile. Punto nodale, per Clivio, è dunque capire "se il nuovo regime consentirà agli interessati di mantenere un livello di reddito adeguato alle aspettative maturate negli scorsi decenni e se la riduzione dell’impiego di ciascun magistrato onorario, nei termini di due giorni alla settimana, possa essere adeguatamente compensato da un incremento delle risorse a disposizione e con quali aggravi di tipo organizzativo". Il legislatore, per eliminare ogni equivoco sulla permanenza di indici sintomatici di un rapporto di pubblico impiego, ha escluso che lo status giuridico dei magistrati onorari, in tema di trasferimento e di illeciti disciplinari, sia equiparabile a quello dei magistrati di professione. Le condotte disciplinarmente rilevanti, dunque, costituiscono solo manifestazioni di inidoneità e dovranno essere valutate ai fini della revoca e non per l’applicazione di sanzioni graduate a seconda della gravità. Altro tema dibattuto, infine, è stato l’introduzione di un severo regime di incompatibilità, insieme all’obbligo di residenza nel distretto in cui il magistrato onorario andrebbe a svolgere le sue funzioni. Il parere definitivo del Csm è previsto prima della pausa estiva. La giustizia senza interpreti, pagati male e al rallentatore di Franco Vanni La Repubblica, 31 maggio 2017 Difficile trovare chi accetta gli incarichi in tutte le lingue, dallo spagnolo all’inglese I tariffari sono fermi per legge dal 1988. Pagati poco, male e in ritardo di anni. Sempre più richiesti - visto il moltiplicarsi delle cause che coinvolgono stranieri - ma sempre meno disponibili. Gli interpreti di Palazzo di giustizia, indispensabili per la traduzione di udienze e atti, sono sul piede di guerra. Da mesi scrivono lettere di protesta ai magistrati. Molti rifiutano gli incarichi. "Veniamo pagati una miseria - dice uno degli interpreti in protesta - i tariffari sono fermi dal 1988, anno in cui furono definiti per legge. E con la conversione in euro nel 2002 non ci abbiamo certo guadagnato". L’unità di misura dell’impegno per gli interpreti è la "vacazione", corrispondente grosso modo a un quarto di una giornata. La prima vacazione lavorata, secondo il decreto del maggio 2002 che regola la professione, corrisponde a 14,68 euro lordi. Le successive si fermano a 8,15 euro. L’importo totale liquidato per una giornata di lavoro, a discrezione del magistrato, può essere o meno raddoppiato. Alla fine, ogni interprete non può guadagnare più di 78,26 euro al giorno, che decurtati delle tasse scendono a 42 euro o poco più. "Ma spesso si lavora per la metà di quella cifra", ripetono gli interpreti. Quanto ai tempi dei pagamenti, non è infrequente che il bonifico arrivi 18 mesi dopo la fine della prestazione. E ci sono casi documentati di attese di 36 mesi. In generale, in ambito penale, il tribunale è più lento a pagare rispetto alla procura. Il problema si è fatto pressante da quando gli uffici giudiziari sono stati chiamati a contenere i costi. Essendo il singolo magistrato a decidere quante "vacazioni" valga ogni traduzione, fatalmente i più severi (o meno puntuali nell’attivare i pagamenti) si trovano ad avere difficoltà a trovare qualcuno disposto a tradurre. Il problema vale per lo spagnolo come per il tedesco, per l’arabo e per l’inglese. E riguarda tutte le attività, dalla traduzione delle intercettazioni in procura alla conversione in italiano degli atti nei processi. Marina Anna Tavassi, presidente della Corte d’appello, rileva come "non è infrequente che per carenza di interpreti si debba rinviare udienze, con grandi difficoltà di calendario, in un sistema che già lavora con il 40 pe cento del personale in meno rispetto all’organico necessario. Succede per le rogatorie internazionali, così come per le richieste di protezione da parte di cittadini di altri Paesi". Tavassi dice di "comprendere le istanze degli interpreti, che se non vengono pagati rifiutano le nomine", e indica "nel Parlamento l’unico organo in grado di risolvere il problema. Bisognerebbe adeguare i compensi e i meccanismi di pagamento". Quanti siano gli interpreti attivi a Palazzo di giustizia è difficile dirlo. Alle liste sono iscritti in centinaia, ma quelli operativi sono poche decine. Si conoscono fra loro e insieme stanno tentando la protesta. Il primo sasso nello stagno è stata una mail, inviata lo scorso febbraio a un magistrato da una interprete di spagnolo. Otto mesi dopo avere preso un incarico, senza avere visto un euro, ha lamentato un atteggiamento "svilente e offensivo per la dignità di chi svolge con scrupolo e coscienza l’incarico ricevuto". Dall’invio della mail di febbraio, tante altre ne sono arrivate alle cancellerie di giudici (più spesso) e pubblici ministeri (più di rado). E gli interpreti hanno cominciato a rifiutare gli incarichi. Così, per lo spagnolo, da una settimana si cerca un interprete per un sequestro di droga. Per il tedesco, capita che l’attesa per la traduzione di atti urgenti superi le tre settimane. "I magistrati devono capire che, se non ci pagano, a noi conviene insegnare nelle scuole di lingua e farla finita così", taglia corto una interprete di inglese. Mafia solo quando la forza di intimidazione è nel vincolo associativo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 30 maggio 2017 n. 27094. Con una decisione molto interessante la Corte di cassazione (sentenza n. 27094/2017) chiarisce che un’associazione criminale - in questo caso il campano "terzo sistema" - non può essere qualificata come "associazione mafiosa" semplicemente perché ne riproduce le "modalità operative" - nel caso specifico, con attentati dalle finalità estorsive, occorrendo la dimostrazione del "radicamento del gruppo criminale sul territorio", l’"effettiva ed attuale capacità di intimidazione", con il corollario di "comportamenti omertosi", e una "solida" ed "efficiente organizzazione". I giudici di Piazza Cavour hanno così accolto il ricorso contro l’ordinanza del tribunale del riesame di Napoli che invece aveva confermato la misura cautelare in carcere nei confronti di un uomo di 25 anni indiziato, assieme ad altri, di far parte dell’associazione per delinquere di stampo camorristica denominata "terzo sistema", resasi autonoma dai clan storici di Torre Annunziata (Gionta e Cavalieri), e facente capo a Domenico Perna. Il ricorrente, in particolare, ha lamentato che nonostante il Tribunale abbia sostenuto l’autonomia della associazione dai vecchi clan non abbia poi accertato se gli atti di sottomissione delle vittime fossero riconducibili alla "coartazione delle volontà derivanti dalle minacce oppure fossero da ascrivere alla forza d’intimidazione di vincolo associativo". Argomentazione condivisa dalla Suprema corte secondo cui "la motivazione sulla esistenza dell’associazione finisce per basarsi esclusivamente sulla commissione dei reati estorsivi e sul fatto che vi sia un conflitto con altre consorterie criminali". Mentre "ciò che caratterizza l’associazione di stampo mafioso è l’avvalersi della forza di intimidazione del vincolo associativo, cui consegue la condizione di assoggettamento ed omertà, in vista del programma finale dal contenuto eterogeneo, la cui realizzazione è possibile in forza di una presenza organizzativa di persone e di mezzi". Questi caratteri invece sono stati ritenuti "impliciti", senza considerare che proprio nel momento in cui si riconosceva l’autonomia del gruppo diventava più che mai necessario provare la natura mafiosa dell’associazione. L’ordinanza impugnata, prosegue la sentenza, "oltre a non aver individuato in termini oggettivi la capacità attuale del gruppo Perna di sfruttare la forza di intimidazione", ha del tutto trascurato "il profilo organizzativo dell’associazione, che in questo tipo di sodalizio assume un rilievo fondamentale, in quanto la prova del carattere mafioso di una consorteria può desumersi anche dall’esistenza di un’efficiente organizzazione". Del resto, i compiti affidati all’imputato non dimostrano né l’esistenza di una efficiente organizzazione né tantomeno l’"intraneità ad una associazione mafiosa", ben potendo riferirsi anche ad una "associazione semplice". In definitiva, le modalità con cui sono realizzate le estorsioni nonché la disponibilità delle armi, messe in evidenza dalle intercettazioni, "non appaiono sintomatiche della natura mafiosa dell’associazione, soprattutto considerando la particolare frammentarietà della criminalità presente nel territorio napoletano, in cui spesso operano gruppi organizzati criminali che riproducono le modalità operative delle associazioni camorristiche, ma che non posseggono le caratteristiche di stabilità e di organizzazione sul territorio, in grado di dimostrare una reale capacità di intimidazione". Per cui, conclude la Cassazione, dall’ordinanza emerge che il gruppo Perna si presenta come una "neoformazione delinquenziale che si propone di ricorrere agli stessi metodi delinquenziali dei clan camorristici tradizionali", senza però che, sempre a livello di gravi indizi, sia stato accertato che tale neoformazione "si sia proposta sul territorio ingenerando quel clima generale di soggezione che può giustificarne la qualificazione di associazione mafiosa". Diritto di cronaca, la verità e la continenza della notizia escludono il danno di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2017 Tribunale di Firenze - Sezione II civile - Sentenza 17 febbraio 2017 n. 517. Sussiste la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca giornalistica giudiziaria di cui all’articolo 21 della Costituzione nel caso in cui il giornalista rispetti i limiti della verità oggettiva della notizia, della pertinenza e della continenza. I fatti riportati nell’articolo, cioè, devono basarsi su atti dell’autorità giudiziaria, devono avere una certa rilevanza sociale, nonché essere riportati correttamente senza eccedere quanto strettamente necessario per il pubblico interesse. In questo caso, non è consentito alcun risarcimento del danno per chi si ritiene diffamato dall’articolo. Questo è quanto affermato dalla sentenza 517/2017 del Tribunale di Firenze. La vicenda - La controversia si iscrive nel più ampio contesto di una vicenda penale che vedeva indagati alcuni soggetti per associazione a delinquere. In particolare, dalle indagini della Procura era emerso un sodalizio criminale avente la finalità di ricattare alcuni imprenditori cinesi della zona di Prato. Accadeva, infatti, che, in caso di controlli di sicurezza sui luoghi di lavoro da parte di funzionari della Asl locale a seguito dei quali emergevano delle irregolarità, gli imprenditori cinesi venivano indotti ad ottenere dei falsi attestati, rilasciati a seguito di corsi inesistenti e con i quali le loro aziende apparivano regolarizzate. Dopo la conferenza stampa degli inquirenti e della contestuale emissione della ordinanza cautelare nei confronti degli indagati, un giornale online locale pubblicava la notizia sul suo periodico digitale dando atto della gravità dei fatti e delle misure disposte nei confronti degli indagati. Uno di costoro, tuttavia, riteneva che le affermazioni contenute nell’articolo fossero diffamatorie perché davano per certa la sua responsabilità penale, nonostante egli avesse avuto solo un ruolo minore nella vicenda, come dimostrato dalla modifica della custodia cautelare da quella detentiva in quella dell’obbligo di dimora. Costui riteneva che la diffusione di una notizia non veritiera avesse provocato la perdita del lavoro ed una malattia psichica e perciò citava in giudizio la società responsabile del giornale online e il suo direttore chiedendo il risarcimento dei danni sofferti a causa di quell’articolo. I convenuti, dal canto loro, ritenevano che la notizia avesse rispettato i criteri della verità, pertinenza e continenza previsti dalla giurisprudenza per il diritto di cronaca. Difatti, l’articolo era basato su quanto dichiarato dagli inquirenti ed altresì rettificato sulla diversa misura cautelare inflitta all’attore; di notevole interesse per la comunità, posto che si trattava di sicurezza sul lavoro; ed equilibrato e non offensivo nella forma e nella sostanza. I danni sofferti erano al massimo riconducibili alla vicenda penale in sé considerata e non all’articolo giornalistico. La decisione - Il Tribunale sposa la tesi del convenuto e dichiara non fondata la domanda dell’attore. Per il giudice, infatti, l’articolo incriminato dall’attore ha rispettato tutti i limiti "esterni" del diritto di cronaca previsti dalla giurisprudenza. Quanto alla verità oggettiva della notizia, l’articolo si è basato fedelmente sugli atti delle autorità giudiziarie, essendo altresì seguito dalla rettifica circa la diversa misura cautelare inflitta all’attore. Quanto alla pertinenza, la rilevanza sociale è data dal fatto che si tratta di reati particolarmente gravi perché riguardanti la sicurezza del lavoro e, in quanto tali, di sicuro interesse per la comunità. Quanto alla continenza, "la indispensabile osservanza del limite di contemperamento tra la necessità del diritto di cronaca e la tutela della riservatezza", ovvero "la correttezza formale dell’esposizione e non eccedenza da quanto strettamente necessario per il pubblico interesse" è data dal fatto che l’articolista ha riportato fatti di cronaca giudiziaria senza alludere a sentenze di colpevolezza già pronunziate e senza alcuna modalità espressiva trasmodante rispetto alla verità oggettiva. La parola alla Corte di giustizia sul ne bis in idem per il market abuse Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2017 Si è svolta ieri l’udienza davanti alla Corte di Giustizia Europea esaminare la questione del doppio binario sanzionatorio, penale ed amministrativo, per il reato di market abuse. La vicenda trae origine dall’ordinanza n. 20675/16, con cui la Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, aveva disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per la corretta interpretazione dell’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (cosiddetta Carta di Nizza) nell’ambito di un procedimento per manipolazione del mercato ai sensi degli articoli 187-ter, 187-quater, 187-quinquies e 187quindecies del TUF. In sede di rinvio sono state poste due questioni di diritto. Con la prima, è stato chiesto alla Cgue di chiarire se l’articolo 50 della Carta di Nizza costituisca un ostacolo alla celebrazione di un procedimento di natura amministrativa, avente ad oggetto il medesimo fatto già punito da una sentenza di condanna penale divenuta irrevocabile. La seconda questione interpretativa riguarda la possibilità di applicazione diretta da parte del Giudice nazionale, dell’articolo 50 della Carta di Nizza, nonostante nel nostro ordinamento non sussista una norma interna di recepimento. In occasione del rinvio pregiudiziale, la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione ha sostenuto che "sulla scorta della Giurisprudenza comunitaria, la mancata previsione nell’ordinamento nazionale dell’allargamento del principio del ne bis in idem anche ai rapporti tra la sanzione penale e amministrativa di natura penale, appare non conforme ai principi unionali, non ritenendosi più ammissibile, in base ai principi sovranazionali, la previsione del doppio binario, e quindi della cumulabilità tra sanzione penale e amministrativa, applicata in processi diversi, qualora quest’ultima abbia natura di sanzione penale. Si ritiene, quindi, che la celebrazione e la definizione del presente procedimento amministrativo possano rappresentare una violazione del divieto di bis in idem sancito dall’art. 50 CDFUE in forza della pronuncia della Corte Europea". Ora spetta alla Corte di Giustizia pronunciarsi su divieto di ne bis in idem. Cassa self service, l’occultamento della merce perfeziona il furto di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2017 Tribunale di Udine. Sentenza 9 marzo 2017 n. 485. In un grande magazzino con sistema di pagamento self service, il momento consumativo del reato di furto "è ravvisabile all’atto dell’apprensione della merce, che si realizza non solo quando l’agente abbia superato la barriera delle casse senza pagare il prezzo" ma anche prima "allorché la merce venga dall’agente nascosta, si da predisporre le condizioni per passare dalla cassa senza pagare". Lo ha stabilito il Tribunale di Udine, con la sentenza n. 485 del 9 marzo 2017. La vicenda riguardava due furti di calzature commessi, in continuazione tra loro, all’interno di un centro commerciale. L’addetto alla sicurezza constatò, tramite impianto di videosorveglianza, che l’imputato, dopo aver prelevato da uno scaffale un paio d’anfibi Doctor Martens del valore di 99 euro, era entrano nel camerino, uscendone senza aver nulla in mano. Fermato all’esterno dell’area di vendita, la vigilanza accertò che aveva strappato i sigilli di protezione dalle calzature e le aveva occultate sotto il giubbotto. Dalla registrazione emerse anche che l’imputato, poco prima, si era impossessato di un paio di scarpe da ginnastica Nike, del valore di 34,90 euro, indossandole subito "per eludere i controlli e dalle quali, anche in questo caso, aveva strappato i sigilli di protezione". Sul piano giuridico, afferma il Tribunale, entrambe le condotte delittuose risultano perfezionate, "giacché il momento consumativo del furto è costituito dalla sottrazione della cosa, passata, anche se per un breve tempo e nello stesso luogo in cui è stata sottratta, sotto il dominio esclusivo dell’agente". Sono dunque irrilevanti "sia il fatto che la res furtiva rimanga nella sfera di vigilanza della persona offesa, con la possibilità di un pronto recupero della stessa, sia il criterio temporale, relativo alla durata del possesso in capo al responsabile, sia le modalità di custodia e trasporto della refurtiva". La Cassazione, infatti, ha chiarito che "risponde di furto consumato colui che abbia nascosto sulla propria persona la cosa sottratta, anche se non si sia allontanato dal luogo della sottrazione e abbia esercitato un potere del tutto temporaneo sulla refurtiva" (n. 4743/1995). Salvo che, prosegue la decisione, "l’avente diritto o persona da lui incaricata abbia sorvegliato tutte le fasi dell’azione furtiva, si da poterla in ogni momento arrestare, ravvisandosi allora solo la fattispecie tentata". Nel caso di specie, però, continua il giudice, la sottrazione degli anfibi fu osservata soltanto parzialmente e a distanza, senza dunque possibilità d’un intervento immediato. Mentre, continua la decisione, la rimozione dei sigilli, strumentale all’impossessamento, "configura l’aggravante della violenza sulle cose". L’espediente d’indossare subito le scarpe ginniche invece "è espressivo di una condotta qualificata da insidiosità, astuzia, scaltrezza" che delinea l’aggravante del "mezzo fraudolento". Infine, l’assenza di una vigilanza continuativa sui beni "giustifica la contestazione dell’aggravante dell’esposizione alla pubblica fede". Tuttavia, il limitato valore della merce consente il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in prevalenza sulle aggravanti. Per cui, dichiarati unificati i fatti nel vincolo della continuazione, il giudice ha condannato l’imputato a cinque mesi di reclusione e 160 euro di multa, accordandogli i benefici della sospensione condizionale. L’Aquila: il boss malato resta in cella, la figlia fa lo sciopero della fame di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 maggio 2017 Vincenzo Stranieri ha un tumore alla laringe e gravi problemi psichiatrici. Dal 1984 è al 41bis. Anna, la figlia di Vincenzo Stranieri in carcere dal 1984 e in regime del 41 bis dal 1992, è in sciopero della fame dopo che il tribunale de L’Aquila ha respinto l’ennesima richiesta di scarcerazione per incompatibilità con il regime detentivo perché malato di tumore. Una vicenda paradossale che Il Dubbio ha seguito fin dall’inizio. Stranieri ha un tumore alla laringe e i 24 anni di 41 bis gli hanno causato gravi problemi di tipo psichiatrico. La sua pena teoricamente sarebbe dovuta finire il 16 maggio del 2016, ma gli restano ancora da espiare due anni di misura di sicurezza in una colonia penale agricola. Secondo la Direzione nazionale antimafia, però, risulta ancora pericoloso. Quindi il ministro della Giustizia, seguendo le indicazioni della Dna, gli ha prorogato di fatto il 41 bis trasformando la colonia penale in "casa lavoro" nella sezione del regime duro del carcere de L’Aquila. Però nell’Istituto abruzzese il lavoro non c’è per gli internati. A denunciarlo era stata la radicale Rita Bernardini quando lo scorso luglio si rivolse al capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, proprio per porre rimedio alla situazione: durante la visita di Pasqua dell’anno scorso, l’esponente del Partito Radicale, aveva ritrovato internati cinque detenuti al 41 bis che dovevano scontare la cosiddetta "casa lavoro"; aveva chiesto a uno di loro quale fosse il suo lavoro attraverso il quale avrebbe dovuto "rieducarsi" e la risposta fu: "Lo scopino per 5 minuti al giorno". Un altro che faceva il porta- vitto, le chiese: "Come faccio a dimostrare che non sono più pericoloso?". E ancora un altro detenuto le fece presente che l’ora d’aria si svolgeva in un passeggio coperto senza mai poter ricevere la luce diretta del sole. "Qui non possiamo fare una revisione critica del nostro percorso; uno di noi che si vuole salvare che deve fare?". Rita Bernardini fece presente che a Vincenzo Stranieri, gravemente malato e quasi impazzito per i disumani e degradanti trattamenti subiti, era riservato questo trattamento assolutamente non compatibile con i diritti e la dignità di una persona. Nel frattempo però le condizioni fisiche di Stranieri si erano aggravate, trasferito nella struttura protetta di Milano "Santi Paolo e Carlo" per rice- vere le cure adeguate, ha subìto un secondo intervento chirurgico. Ora si trova nel carcere milanese di Opera in completo isolamento con un sondino direttamente collegato allo stomaco per farlo nutrire. Aveva 24 anni quando venne arrestato nel lontano giugno del 1984 per aver fatto parte del sequestro di Annamaria Fusco, la giovane maestra figlia dell’imprenditore del vino Antonio Fusco rimasta per sei mesi nelle mani della Sacra corona unita prima di essere liberata dopo un lauto riscatto. Stranieri infatti era stato il numero due della cosiddetta quarta mafia. "Me lo hanno tenuto lontano per 32 anni - dice Anna Stranieri che non ha mai smesso di lottare per suo padre - ed ora che ha pagato i suoi errori lo Stato si accanisce e non si ferma neanche davanti al tudel more; ormai è chiaro che gli vogliono far fare la fine di Provenzano". Nel frattempo l’ultima batosta: per il Tribunale di sorveglianza, Stranieri può restare in carcere. Una decisione che va in controtendenza con le disposizioni dello stesso perito del giudice che consigliava il ricovero del detenuto in una proprietà della fondazione Don Gnocchi di Milano a causa del suo tumore che andrebbe monitorato presso strutture adeguate. Non può deglutire, né parlare. Si alimenta tramite un sondino e respira grazie alla tracheotomia. È dimagrito e non può camminare da solo. Ricordiamo che per il rapimento di Anna Maria Fusco, Vincenzo Stranieri fu condannato a 27 anni di carcere ridotti in appello a 18 e 10 mesi. Ma nel frattempo gli anni sono diventati 32 per delle condanne inflitte quando era in carcere per reati di associazione mafiosa. Al momento della condanna era giovanissimo e non sta pagando nessuna condanna per omicidio: è giusto avergli prorogato gli anni di carcerazione presso la sezione dedicata al 41 bis, nonostante il sopraggiungere di questa grave malattia e abbia scontato tutti gli anni inflitti? Pesaro: il Sappe denuncia una rivolta. Orlando "fatto possibile per evitare radicalizzazione" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 maggio 2017 Quattro detenuti nordafricani avrebbero tentato di incendiare la cella del carcere di Pesaro. La protesta sarebbe scaturita dal fatto che gli sarebbe stato distribuito un quantitativo di olio crudo, a loro dire insufficiente alle proprie necessità proprie nel mese sacro del Ramadan. A riferire l’accaduto è il Sappe, il sindacato di polizia penitenziaria. Uno di loro avrebbe ripetutamente tentato di dar fuoco al letto e alle lenzuola, e minacciato gli agenti di polizia penitenziaria con le bombolette del gas da cucina, le lamette e olio bollente. Il Sappe parla dei 4 detenuti come di "fondamentalisti musulmani, simpatizzanti della Jihad", ma fonti interne del carcere smentiscono che si tratta di detenuti radicalizzati. Non è la prima volta che delle proteste vengono interpretate come rivolte jihadiste, soprattutto quando riguardano stranieri. Però il problema del radicalismo in carcere esiste, ed è molto legato alle condizioni carcerarie dove è più facile fare proselitismo. A ribadirlo è stato anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando durante un’audizione alla commissione "Jo Cox" sull’intolleranza, la xenofobia e il razzismo. "Per non alimentare pericolose sacche di risentimento e di esclusione, condizioni su cui radicalismo fa leva - ha spiegato il guardasigilli, l’obiettivo è stato quello di favorire integrazione socio culturale delle varie etnie presenti, al fine di prevenire qualsiasi forma di intolleranza e di xenofobia". Orlando ha sottolineato che 10mila detenuti stranieri hanno frequentato corsi scolastici, 71 l’università, e sul piano religioso sono state adottate misure tese a garantire l’esercizio del diritto di culto. Il guardasigilli ha anche sottolineato sottolineando il ritardo patologico sui nuovi braccialetti elettronici e che non è stata approvata la riforma penitenziaria che contiene "alcune misure utili". Ma c’è un vero allarmismo per quanto riguarda la radicalizzazione nelle nostre carceri? Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, in Italia ci sono meno persone radicalizzate e meno foreign fighters rispetto ad altri Paesi occidentali. I detenuti su cui si concentrano i timori connessi alla radicalizzazione sono 365 su un totale di 6.138 detenuti islamici. Sono suddivisi in tre categorie: i segnalati (124), gli attenzionati (76) e i monitorati (165). I detenuti ristretti per reati connessi al terrorismo internazionale (che rientrano tra i monitorati) sono 44. Le pratiche per le quali si decide di avviare un’osservazione sono diverse: atteggiamenti sfidanti nei confronti dell’autorità, rifiuto di condividere gli spazi con detenuti di altre confessioni, segni di giubilo a fronte di attentati in Occidente, esposizione di simboli e vessilli correlati al Jihad. Trento: la legge sul Garante dei detenuti è stata blindata e calendarizzata di Donatello Baldo ildolomiti.it, 31 maggio 2017 Civico: "Ci lavoro da otto anni, ma nessuno scambio con Borga sull’elezione dei sindaci". Sembrava che l’esponente della minoranza avesse chiesto in cambio del mancato ostruzionismo il via libera alla legge sui sindaci che permetterebbe a quello di Borgo Dalledonne di candidare per le provinciali senza doversi dimettere dalla carica. Ma non è così: "Sui diritti civili nessun accordo". Oggi la riunione dei Capigruppo del Consiglio provinciale ha deciso i punti che saranno all’ordine del giorno della prossima seduta di giugno. Tra le leggi in discussione ci sono quella sul Garante dei detenuti sostenuta strenuamente da Mattia Civico e quella sull’allargamento dei criteri di eleggibilità dei sindaci a consiglieri provinciali, la legge voluta da Rodolfo Borga per consentire al sindaco di Borgo Fabio Dalledonne di fare il salto in provincia senza doversi dimettere prima del voto. Due leggi che per tanto tempo sembravano oggetto di scambio, motivo di compromesso tra la maggioranza che vuole portare a casa almeno un provvedimento sui diritti civili in questa legislatura (dopo le brutte figure su doppia preferenza e omofobia) e la minoranza di Civica Trentina che vuole garantire al "suo" sindaco "acchiappa-voti" di potersi candidare alle elezioni provinciali. Un do ut des che sembrava un po’ oltraggioso per qualcuno. Quando era in gioco la legge sulla doppia preferenza sembrava che lo scambio con la legge sull’eleggibilità dei sindaci fosse sulla proposta della terza preferenza di Zanon, su cui poteva convergere anche Borga se gli assicuravano il voto favorevole alla sua proposta. Ipotesi che poi non si è verificata, rivelando errate le ricostruzioni che i giornali (e anche noi, pardon) avevano descritto. Succede di sbagliare, oppure succede di indirizzare gli eventi quando si toglie il velo dagli accordi sottotraccia che legittimamente la politica tesse e trama. Sta di fatto che la "Legge Borga" non ha attaccato sui diritti civili, su questo tema non c’è stato alcuno scambio. E nessuno scambio ci sarà sul garante dei detenuti, lo dice apertamente il primo firmatario, Mattia Civico. Anche se oggi i dubbi sullo scambio "Legge sul Garante" - "Legge Borga" si sono infittiti ancor di più quando si è scoperto che durante la riunione dei Capigruppo qualcuno dei duri e puri dell’opposizione aveva chiesto di trattarla con i tempi non contingentati. Significa che la discussione non finisce mai, che basta che qualcuno abbia voglia di fare ostruzionismo e porta anche questa legge nelle sabbie mobili. Servivano però capigruppo sufficienti a rappresentare perlomeno sei consiglieri provinciali, serviva insomma - oltre a Giacomo Bezzi, Maurizio Fugatti e Nerio Giovanazzi - anche l’appoggio di Rodolfo Borga. Appoggio che è mancato. E così la discussione dovrà per forza stare dentro alle otto ore e sulla carta la vittoria è già stata scritta. Ma come?, si sono chiesti tutti: Borga è un duro e puro, come mai diventa un agnellino? E chi lo sa. Qualche idea ce l’abbiamo ma sembra non c’entri con il tema della legge sul Garante delle persone detenute. "Su questa proposta ci lavoro da otto anni - afferma il primo firmatario Mattia Civico - e pazientemente ho cercato di costruire il consenso su questa legge, anche incontrandomi e discutendo con gli esponenti della minoranza. Ma l’ho sempre detto fino a sgolarmi: non c’è nessun accordo, sui diritti civili accordi non se ne fanno". Esclude l’accordo anche il capogruppo del Pd in Consiglio provinciale Alessio Manica: "Nessun accordo - chiarisce - anche perché io personalmente la proposta di Rodolfo Borga non la voto, e con me il mio gruppo. Forse qualcuno si asterrà, ma la maggioranza ha sempre detto che è contraria - afferma - siamo contrari noi ma anche i consiglieri del Patt che quelli dell’Upt". Nessun retroscena, o perlomeno nessuno che sia giunto all’orecchio di chi scrive. Si possono avanzare ipotesi: ad esempio quella che l’ennesimo ostruzionismo da parte dell’opposizione avrebbe portato a sbattere la minoranza. Un gruppo ormai troppo variegato, con all’interno alcuni già dati con un piede nella maggioranza, qualcuno in orbita attorno all’astro nascente del movimento dei civici del sindaco Valduga. La dimostrazione è il bastone che la consigliera Manuela Bottamendi è pronta a infilare tra le ruote della legge sui sindaci di Borga: ha presentato 2 mila emendamenti, un ostruzionismo interno all’opposizione, un fuoco amico che fa capire quanto sia di moda l’amicizia a destra dell’emiciclo del Consiglio provinciale. Ma torniamo alla legge su Garante dei detenuti. La calendarizzazione al prossimo Consiglio provinciale c’è, se slitterà sarà comunque blindata perché con i tempi contingentati (un termine orario per portarlo in votazione stabilito) nessuno potrà fare ostruzionismo. Una legge sui diritti civili sarà fatta anche in Trentino, e questo è già un successo. Speriamo che non ci siano intoppi successivi, che non sia la maggioranza a farla naufragare. I tempi per arrivare alla votazione entro l’autunno sono importantissimi, quindi non dovrà slittare troppo in là se non si riuscirà a discuterla nella prossima tornata di convocazioni. Perché poi si dovrà nominare un garante provinciale, se si aspetta troppo si va alla prossima legislatura con la costituzione dell’Ufficio. Dev’essere votata in tempi brevi, e questo calendario lo decidono i capigruppo della maggioranza. La colpa, questa volta, se va tutto a rotoli, non sarà di certo dell’opposizione. Monza: i detenuti-contadini che curano l’orto per sfamare le famiglie in difficoltà di Barbara Apicella quibrianza.it, 31 maggio 2017 Le storie che hanno portato alla detenzione nel carcere, loro le ricordano benissimo. Ognuno ha la sua e un conto con la giustizia che sta per essere chiuso. Ma pochi sanno che quei detenuti ogni giorno coltivano l’orto per regalare i prodotti alle famiglie bisognose. I detenuti diventano contadini lavorando il grande orto all’interno del carcere di Sanquirico e donando i frutti della loro fatica al Banco alimentare di Monza. Un progetto unico, una scommessa nata un anno fa e che oggi è diventata realtà con l’orgoglio e la fiducia verso il futuro stampato sui volti dei detenuti che nei giorni scorsi, nella casa circondariale di Monza, hanno presentato l’iniziativa "Metti un orto in carcere: dalla terra alla tavola". Un progetto nato da un’idea della direttrice del carcere Maria Pitaniello e di Anna Martinetti presidente dell’associazione "Una Monza per tutti" da anni impegnata come volontaria all’interno della casa circondariale di Monza. Lì dove oggi c’è una grande serra ampia circa mille metri quadrati fino all’estate scorsa c’era solo un immenso e triste magazzino. A quel punto l’idea di trasformarlo in orto e di impegnare alcuni detenuti nella sua cura. "Grazie ai fondi dell’Amministrazione penitenziaria siamo riusciti a recuperare quello spazio - ha spiegato la direttrice. Grazie ad Anna Martinetti che ha avuto l’intuizione, la volontà e la passione adesso è stato trasformarlo in un orto". Nel frattempo i detenuti sono stati seguiti da un volontario agronomo che li ha formati e spiegato i segreti della terra, le modalità di coltivazione, cura e raccolta. Oggi i sei detenuti protagonisti del progetto lavorano quotidianamente l’orto biologico del carcere. Un orto dove vengono coltivati ortaggi di vario tipo: pomodori, peperoni, melanzane e fagiolini tanto per citarne alcuni. E i detenuti erano felici e orgogliosi di mostrare i frutti della loro fatica. "Grazie per averci permesso di portare avanti un progetto davvero bello - ha commentato un detenuto durante la presentazione- Ci stiamo mettendo del nostro meglio, cerchiamo di tirare fuori il meglio di noi stessi". Un progetto di detenzione davvero riabilitativa quella attuata all’interno del carcere di Monza che fornisce ai detenuti le abilità per apprendere un nuovo mestiere e quindi anche la possibilità, una volta che si è finito di scontare la pena, di reinserirsi nella società. Mentre per adesso da dietro i muri di Sanquirico la gioia di sentirsi utili e di tirare fuori, come loro stessi hanno affermato, il meglio. Donandolo al prossimo. Perché forse vi è sfuggito il particolare che oggi i frutti dell’orto del carcere di Monza vengono ritirati dal Banco alimentare andando quindi a finire sulle tavole di coloro che hanno difficoltà a mettere insieme il pranzo con la cena. Anna Martinetti crede fortemente in questo progetto e vola alto, sperando di farlo decollare soprattutto di mantenersi nel tempo. Sono necessari non solo fondi, ma anche la possibilità di promuoverlo rivolgendosi per esempio ai Gas (Gruppo acquisto solidale) del territorio. "Aiutateci affinché questo progetto vada avanti - ha spiegato - I ragazzi si sono impegnati moltissimo e con questa opportunità viene loro offerta la possibilità di continuare a fare qualche cosa di buono una volta che torneranno in libertà". Per informazioni sul progetto e per garantire continuità ai frutti della terra coltivata dai detenuti del carcere di Sanquirico è possibile inviare un’email a martinettianna@gmail.com. Cremona: "Caregiver in carcere, avere cura di sé … dentro", progetto formativo rivolto ai detenuti inviatoquotidiano.it, 31 maggio 2017 Carcere di Cremona e ospedale: concluso il percorso formativo sperimentale dedicato ai detenuti. Il dg Rossi: "Questa esperienza mostra come la medicina penitenziaria possa assumere una valenza educazionale". Mercoledì 31 maggio alle ore 10, presso la Sala Teatro della Casa Circondariale di Cremona si svolgerà l’incontro "Caregiver in carcere, avere cura di sé … dentro". L’iniziativa celebra la conclusione di un percorso formativo sperimentale e innovativo, dedicato alle persone in regime di detenzione, che ha dato esiti inaspettati in termini di adesione, interesse e utilità. Lo fa sapere l’ospedale di Cremona. Il progetto è stato curato da Asst di Cremona e Casa Circondariale di Cremona, in collaborazione con: Comune di Cremona, Fondazione Sospiro, Cremona Solidale e Cooperativa Nazareth. L’obiettivo? Valorizzare il principio della relazione civile fra individui in qualsiasi condizione o contesto: aver cura di sé, per aver cura dell’altro. Attraverso lo scambio di nozioni teoriche e pratiche, in materia di igiene e alimentazione, consumo di alcol e fumo, mobilizzazione e primo soccorso, si è inteso trasmettere ai partecipanti competenze base per il supporto "assistenziale" alla persona, da impiegare all’interno del carcere e - in prospettiva futura - nella vita quotidiana. Il percorso formativo è stato caratterizzato da due fasi selettive: una informativa a cui hanno partecipato più di cinquanta detenuti e una formativa a cui hanno preso parte ventitré detenuti. Di questi, quattro hanno potuto accedere al tirocinio pratico presso Cremona Solidale. Questo progetto - spiega Camillo Rossi - Direttore Generale Asst di Cremona - si è rilevato importante per superare i confini, i limiti visibili e invisibili, determinati dalla condizione detentiva. Imparare a prendersi cura di sé, per aver cura degli altri, ha significato alimentare un possibile desiderio di normalità per il ritorno da dentro le mura alla città fuori. Non a caso i commenti dei partecipanti sono stati più che positivi, hanno rivelato attenzione e volontà di apprendere. Questa esperienza mostra come la medicina penitenziaria possa assumere connotazioni propositive, a valenza educazionale; come una maggior consapevolezza di sé possa condurre a un nuovo senso di responsabilità. L’auspicio è che il progetto dell’ASST di Cremona possa essere replicato e possa diventare modello culturale contro il pregiudizio a favore del prendersi cura, quale possibile forma di sicurezza sociale". "Il desiderio di sviluppare programmi di prevenzione e promozione della salute all’interno del carcere - aggiunge Paola Mosa, Direttore Socio-sanitario ASST di Cremona, nonché ideatrice del progetto - nasce con l’intento di valorizzare il potenziale dei detenuti in quanto persone e trasformare il tempo della detenzione in qualcosa di significante e utile per sé e per l’altro. Soprattutto in prospettiva di una vita futura. Nella pratica questo è stato possibile grazie alla collaborazione fra Istituzioni e Enti privati accreditati erogatori dell’assistenza domiciliare. A tale proposito, mi preme ringraziare tutti coloro che hanno creduto da subito nel progetto, che hanno contribuito a sviluppare e realizzare l’idea del Caregiver in carcere, attraverso la loro condivisione, la loro competenza e passione". "Rieducare le persone detenute ai sensi dell’art 27 Costituzione - spiega Maria Gabriella Lusi, Direttore della Casa Circondariale di Cremona - significa realizzare le condizioni perché il tempo trascorso in carcere non sia tempo "sospeso", ma tempo vissuto attraverso esperienze trattamentali. Esperienze che nel loro insieme possano consentire il recupero di abilità sociali e di una cittadinanza attiva, che il fatto reato ha di certo compromesso se non interrotto. Il progetto care giver matura in un contesto di forte condivisione istituzionale e territoriale, con la volontà di importare in carcere un modello assistenziale già attivo sul territorio, arricchendo l’esperienza formativa con i contributi professionali ed educativi del personale di ASST Cremona, Fondazione Sospiro, Cremona Solidale, Cooperativa Nazareth e Comune di Cremona. Si è inteso dare ai detenuti uno strumento di efficace reinserimento sociale volgendo contestualmente uno sguardo concreto alle esigenze organizzative dell’istituto, come dimostra il fatto che i detenuti care giver, conclusa la formazione, hanno cominciato a lavorare in favore di persone detenute non autosufficienti". Nuoro: cartoline dal carcere di Badu e Carros, le realizzano i detenuti di Federica Melis castedduonline.it, 31 maggio 2017 "La seconda possibilità, spezzando le catene del pregiudizio". Una cartolina e un annullo speciale prodotti con gli elaborati grafici realizzati dai detenuti che raccontano la contrapposizione tra restrizione e libertà, la richiesta di comprensione e aiuto per poter avere, appunto, un’altra chance. "La seconda possibilità. Spezzando le catene del pregiudizio" si legge nella cartolina filatelica con annullo speciale realizzata dai detenuti della casa circondariale di Badu e Carros, a Nuoro. Si tratta di un progetto formativo-culturale promosso da Poste Italiane in collaborazione con i Ministeri di Giustizia e dello Sviluppo Economico, la Federazione fra le Società Filateliche Italiane e l’Unione Stampa Filatelica Italiana, che ha visto impegnati i detenuti. Immagini e scritti profondi e suggestivi che rappresentano la contrapposizione tra restrizione e libertà, la richiesta di comprensione e aiuto per poter accedere appunto a "La seconda possibilità". Si è svolta oggi la cerimonia di chiusura La filatelia nelle carceri. Durante l’evento gli autori dei lavori hanno illustrato brevemente le loro realizzazioni, proponendo inoltre ai presenti la lettura di alcuni elaborati testuali e qualche riflessione sul significato dell’iniziativa. Un progetto ideato per dare un segnale concreto di come anche la filatelia possa ricoprire un ruolo determinante nei delicati percorsi di rieducazione e reinserimento nel tessuto sociale da parte dei detenuti. Avvalendosi delle sostanziali caratteristiche di multidisciplinarità e interdipendenza, infatti, la filatelia consente di sondare una varietà di aree di interesse collegate al francobollo come la storia, la geografia, l’arte, le Istituzioni, le diversità culturali, le tradizioni, i popoli, gli eventi celebrativi legati a personalità o avvenimenti storici che hanno segnato in modo rilevante la storia nazionale e internazionale, stimolando al contempo la curiosità e il desiderio di sottrarsi alla monotonia della vita. La Direttrice della Casa di Reclusione Luisa Pesante, attraverso i propri rappresentanti, ha ringraziato della partecipazione gli ospiti presenti tra i quali, per Poste Italiane, il Direttore della Filiale di Nuoro, Paolo Caboni. Hanno assistito alla manifestazione anche i detenuti "ospiti" della Casa Circondariale che hanno aderito al progetto partecipando ad una serie di lezioni finalizzate ad avvicinarli al mondo della filatelia e del collezionismo. Torino: musica in carcere, negli scorsi mesi si sono tenuti 3 concerti di Monica Cristina Gallo* Ristretti Orizzonti, 31 maggio 2017 Musica in carcere a Torino: negli scorsi mesi si sono tenuti 3 concerti di quartetti d’archi dagli allievi del Conservatorio di Torino con musiche classiche di Mozart, Haydn, ma anche leggere con i Police. Eventi realizzati grazie all’intervento della Garante di Torino, Monica Cristina Gallo, che ha creato sinergia tra il Direttore del Conservatorio Marco Zuccarini e il direttore della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno, Domenico Minervini. Tra il pubblico anche la presenza di un gruppo di scout della città di Torino che ha voluto condividere questo momento con i detenuti. Le esibizioni sono state molto accolte con grande entusiasmo dal pubblico. I giovani musicisti, dal canto loro, hanno apprezzato questa esperienza certamente insolita e hanno già espresso la loro disponibilità a rinnovare nuove occasioni di musica l’anno prossimo. *Garante comunale dei diritti dei detenuti Milano: teatro-carcere, una libertà ritrovata sul palcoscenico di Chiara Di Paola arcipelagomilano.org, 31 maggio 2017 Qualche numero fa di Sipario - dietro le quinte scrivevo dell’attività della Cooperativa Sociale E.s.t.i.a. all’interno delle carceri milanesi e del teatro come strumento di libertà e riabilitazione sociale dei detenuti. All’indomani dello straordinario successo della nuova produzione "Ormai", presentata al pubblico in forma di studio all’interno del Teatro In-Stabile del carcere di Bollate, ho avuto il piacere di incontrare Carlo Bussetti, ex detenuto e oggi teatrante professionista, uno dei più impegnati interpreti dell’attività di Opera Liquida e cofondatore della Compagnia Corpi Bollati, che partendo dalla sua diretta esperienza del carcere e del teatro (in particolare con l’interpretazione di una Fata Turchina decisamente sui generis nella reinterpretazione di Pinocchio), mi ha raccontato come la recitazione possa davvero cambiare la vita di chi lo pratica e di chi lo osserva. Iniziamo dal principio: quali sono le caratteristiche peculiari di Teatro In-Stabile? Innanzitutto, paradossalmente, pur trattandosi di uno spazio all’interno del carcere, è un luogo molto più "libero" rispetto ai teatri tradizionali: è un ambiente "aperto", pensato come occasione d’incontro, contatto e partecipazione. Ai laboratori può prendere parte chiunque (detenuti e pubblico esterno), e al termine degli spettacoli messi in scena dalla compagnia è sempre previsto che gli attori si intrattengano a chiacchierare con gli spettatori in platea. Durante le "Cene Galeotte" questo aspetto diventa anzi essenziale, e l’intrattenimento si basa proprio sull’interazione tra gli ospiti seduti ai tavoli e i camerieri-attori che tra essi si muovono. In questo modo il teatro nel carcere diviene un punto di contatto tra mondo di "dentro" e mondo di "fuori" (in senso fisico e psicologico); un’occasione per conoscere e scambiare idee, pensieri, sentimenti "diversi" da quelli che trovano espressione nel contesto della detenzione, e allo stesso tempo per scardinare i pregiudizi sulla realtà carceraria. Cosa spinge i detenuti ad avvicinarsi al teatro e a sperimentare la recitazione durante la loro permanenza in carcere? Di solito l’esperienza della recitazione inizia come un gioco, un modo per divertirsi, "evadere" con la mente, un pretesto per restare più a lungo fuori dalla cella e un’occasione per incontrare il pubblico (anche femminile) che viene dal mondo "di fuori". Poi gradualmente alcuni si appassionano, scoprono che la recitazione offre loro un nuovo modo di esprimersi, di approfondire aspetti di se stessi fino ad allora ignorati o costretti dietro la maschera della delinquenza e del suo "codice" di comportamento. L’esperienza del teatro consente ai detenuti entrare in contatto con aspetti della propria personalità su cui non avevano mai avuto modo di soffermarsi durante la loro vita "sregolata", e di scoprire che "regole" e "disciplina" (necessarie per far funzionare uno spettacolo, dal rispettare degli orari, all’impegnarsi nelle prove, all’imparare le battute, etc.) non sono necessariamente delle "costrizioni", ma dei modi diversi di vivere, capaci di dare un appagamento inimmaginabile. Ovviamente, non per tutti funziona in questo modo: alcuni dopo un po’ abbandonano, altri scoprono di avere un vero e proprio talento; molti continuano a recitare anche finita la detenzione, e questo li tiene lontani dall’intraprendere nuovamente strade sbagliate. È come se la recitazione riuscisse a dare quel "brivido adrenalinico" di cui tutti hanno bisogno nella vita, consentendo però di non doverlo cercare commettendo reati. Qual è l’atteggiamento del pubblico nei confronti delle vostre performance? Quali sono le sue reazioni? Il pubblico spesso si approccia al nostro teatro per curiosità, perché attratto dall’idea di per vivere un’esperienza originale e alternativa, per entrare in una dimensione estranea rispetto alla loro quotidianità e per verificare se davvero c’è posto per l’arte, la passione e la libertà espressiva anche in un luogo che ha proprio nella sospensione della libertà la sua connotazione principale. Si tratta insomma di un pubblico scettico, ma che immancabilmente a un certo punto dello spettacolo dimentica di essere in un carcere, abbandonandosi alla situazione rappresentata e alle capacità performative dei suoi interpreti. Questo perché il livello di bravura da essi raggiunto rende il contesto del tutto secondario: nel momento in cui si alza il sipario, gli attori smettono di essere dei detenuti e lo spettacolo non è più "teatro in carcere" ma solo "arte". Qual è il ruolo del corpo e della fisicità? Il teatro e la detenzione hanno in comune il fatto di stimolare un nuovo approccio alla fisicità e alla percezione dello spazio. In modi diversi, entrambi consentono di prendere coscienza delle possibilità espressive implicate nella corporeità: un aspetto che generalmente viene dato per scontato, ma che diventa determinante quando si è costretti a vivere in una cella di tre metri per cinque, lontano dagli occhi del mondo e dunque "invisibili". La recitazione offre una nuova "libertà di movimento", permette di affermare una libertà alternativa a quella puramente spaziale e di sperimentare una nuova forma di espressione, che prescinde dalle differenze linguistiche o dalla capacità di tradurre in parole pensieri e concetti. Quello del corpo è il linguaggio più democratico, immediato e ricco di possibilità che esista. Cosa colpisce maggiormente i partecipanti ai laboratori attivati nel carcere? Poco fa accennavo ai pregiudizi e agli stereotipi che inevitabilmente permeano la concezione della realtà carceraria da parte di chi non la conosce. Mettendo direttamente in contatto i partecipanti esterni con i detenuti, i laboratori abbattono queste barriere e permettono a chi viene da fuori di constatare quanta "umanità" ci sia all’interno di un ambiente generalmente considerato arido e sterile. Tutti si stupiscono rendendosi conto che il nostro teatro non è "finzione", ma rappresentazione di una realtà talvolta molto più "vera" di quella messa in scena dal teatro istituzionale, perché non è frutto di invenzione ma nasce da esperienze drammatiche, e si alimenta del bisogno di elaborare il passato, trovare una forma di riscatto nel presente e pensare a un futuro possibile. "Ero Malerba", al Parlamento Ue il docu-film sull’ergastolano Giuseppe Grassonelli ilsicilia.it, 31 maggio 2017 Giuffrida: "Importante momento di riflessione sulle carceri". Ieri al Parlamento europeo la proiezione di "Ero Malerba", il docu-film di Toni Trupia, scritto con il giornalista Carmelo Sardo, che racconta la vera storia criminale dell’ex boss della stidda di Porto Empedocle Giuseppe Grassonelli e del suo recupero in carcere, dove sta ancora scontando l’ergastolo ostativo. "È stato un importante momento di riflessione e confronto su temi quanto mai attuali", ha detto Michela Giuffrida, promotrice dell’evento insieme alla delegazione italiana del Pd. "Parlare di mafia e antimafia, delle condizioni delle carceri, dei processi di recupero e riabilitazione partendo dalla storia e dall’esperienza di un uomo che sta ancora pagando per i suoi errori, assume un significato diverso, pone lo spettatore di fronte a degli interrogativi. La storia di di Giuseppe Grassonelli, che appena ventenne vede morire la sua famiglia in un agguato di mafia e che decide di rispondere con la violenza, per scoprire lo Stato e il senso della legalità solo molti anni dopo grazie al percorso culturale avviato in carcere, é la testimonianza forte e drammatica di un uomo che in cella trova la forza di riabilitarsi. Pochi giudizi e molti dubbi sorgono dalla visione del docu-film, continua Giuffrida. Ci sono ancora contesti in cui i giovani assimilano Stato e mafia? Quanti ventenni oggi, in contesti difficili, si rivolgono alle autorità anziché scegliere la via della criminalità? La storia carceraria di Grassonelli dimostra che l’Unione Europea deve continuare il percorso già avviato per il miglioramento della situazione dei istituti di detenzione e i progetti per il recupero personale e sociale dei detenuti". Alla proiezione del docu-film erano presenti il vicepresidente del Parlamento europeo David Sassoli, il Presidente del Gruppo dei Socialisti e Democratici Gianni Pittella, il capo delegazione Pd Patrizia Toia, Caterina Chinnici, relatrice della Relazione sui sistemi carcerari e le condizioni di detenzione in Europa, Antonino Moscatt, componente della Commissione Difesa della Comera dei Deputati, il regista Toni Trupia e la produttrice Angelisa Castronovo. "A mano libera, donne tra prigioni e libertà". Messaggi dal carcere femminile di Rebibbia noidonne.org, 31 maggio 2017 Presentato in anteprima nazionale il libro in cui sono raccolti testi scritti dalle detenute di Rebibbia. E non solo. Con la prefazione di Agnese Malatesta. Presentato martedì 30 maggio presso il carcere femminile di Rebibbia il libro che raccoglie testi delle detenute e di altre donne. È stata un’anteprima nazionale cui faranno seguito altre presentazioni. "A mano libera, donne tra prigioni e libertà" è il libro realizzato a cura di Tiziana Bartolini e Paola Ortensi, edito dalla Cooperativa Libera Stampa e distribuito in proprio (info: redazione@noidonne.org). Il ricavato delle vendite è destinato a sostenere il sito noidonne.org e il settimanale on line Noidonne Week (informazioni). Un dialogo a distanza tra donne (detenute e no) sulle prigioni che limitano o condizionano corpi e desideri. Maturato negli incontri settimanali tenuti, da novembre 2016 a maggio 2017, con il laboratorio "A mano libera, dentro e fuori" nella Casa circondariale femminile di Rebibbia (Roma), il libro raccoglie i testi scritti dalle detenute e vi unisce alcune riflessioni di non detenute sempre sul tema della libertà e delle prigioni che, come donne, viviamo indipendentemente dalla condizione della detenzione. "Siamo consapevoli delle differenze che ci sono tra chi ha avuto destini tanto diversi - spiegano le curatrici, ma pensiamo che l’essere donne ci accomuni molto più di quanto non sia visibile a occhio nudo. E, forse, l’intreccio artificiale che abbiamo creato nel libro con questa mescolanza non programmata lo dimostra. Intreccio artificiale perché le varie autrici non si conoscono e mescolanza non programmata perché l’esito dell’amalgama non era prevedibile a tavolino. Il trait d’union tra sconosciute siamo state noi, ideatrici di quello che abbiamo pensato come scambio possibile, superando le distanze fisiche e geografiche". Il laboratorio nel carcere femminile di Rebibbia si tiene da tre anni ed è un’iniziativa di volontariato che il periodico Noidonne e l’associazione Noidonne TrePuntoZero ha proposto (alla Direzione e alle detenute) come spazio libero di incontro tra donne dedicato alla ricerca condivisa dei possibili sguardi di genere sui fatti del giorno e sui temi di attualità. Altro obiettivo è quello di sollecitare uno scambio tra il dentro e il fuori per far conoscere la detenzione delle donne e la complessità delle specifiche circostanze che le portano in carcere. Come osserva la direttrice del carcere Ida Del Grosso, nell’intervista pubblicata nel libro, a causare i reati tra le donne c’è spesso la dipendenza da una relazione affettiva violenta o comunque non paritaria. Ecco, quindi, che la consonanza tra sconosciute e l’incontro con la storia delle conquiste delle donne può offrire qualche spunto di riflessione, qualche strumento utile a decodificare percorsi di vita difficili e dolorosi. Perché anche il carcere è un’istituzione costruita su un unico modello, quello maschile, che poco considera le diversità di genere. Nelle pagine, articolate in brevi capitoli con titoli evocativi (Del tempo, Della solitudine, Delle prigioni interiori e del buono in carcere, citandone alcuni) si susseguono e si mescolano i testi. Il risultato è un coro femminile di "voci potenti che raccontano di drammi ignoti" scrive Agnese Malatesta nella prefazione, testi che "esprimono vitalità e riscatto personale". Un racconto, corale, intessuto di sofferenze e speranze, intonato sulle note di una positiva presa di coscienza di sé e del valore come persone. Il libro è edito dalla Cooperativa Libera Stampa, storica editrice di "Noidonne", ed è distribuito in modo autonomo, quindi copie e informazioni vanno richieste a redazione@noidonne.org o al cell 339 5364627. Il ricavato delle vendite è destinato a sostenere la versione web del giornale che, nonostante lo scorso dicembre abbia dovuto sospendere le edizioni cartacee a causa della pesante crisi dell’editoria, continua a fare informazione per e delle donne attraverso il sito www.noidonne.org e con il settimanale on line diffuso gratuitamente. La copertina è realizzata con un disegno di una detenuta. Terrorismo. Nello spot anti-Jihad le parole mai dette dagli islamici di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 31 maggio 2017 Il video offre il suo messaggio migliore nella gioia di vivere contrapposta alla cupa imbecillità del fondamentalismo. Le parole che avremmo sempre voluto sentire dagli islamici ci arrivano... dallo spot di una compagnia telefonica. Dura tre minuti il video musicale contro il terrorismo prodotto dalla Zain, gigante delle telecomunicazioni con sede in Kuwait e diffusione in tutto il Medio Oriente: ed è molto bello. Lanciato venerdì, all’inizio del Ramadan, è diventato virale nel weekend con 2 milioni e mezzo di visualizzazioni e ha acceso il dibattito nel mondo musulmano. Inizia con un boia jihadista che sta confezionando il proprio giubbotto esplosivo e uno scolaro che gli rivolge questa frase sul suo quaderno: "Dirò ad Allah che avete riempito i cimiteri coi nostri bambini e svuotato i banchi di scuola". L’aspirante stragista continua a salmodiare "Allah u akbar" col suo vestito di morte ma viene contrastato a ogni passo da un popolo di donne e uomini, vecchi e bambini musulmani, vittime vere di attentati e bombe, che lo pregano di adorare Allah "con amore, non con terrore", accompagnati dalla voce della popstar Hussain al Jassmi. Accusato dai soliti sapientoni di banalizzare il problema e di non cogliere "le vere cause" del jihadismo, il video offre il suo messaggio migliore nella gioia di vivere contrapposta alla cupa imbecillità del fondamentalismo. E ci regala tre verità semplici: che gli assassini non sono matti o agenti della Cia camuffati, ma fedeli dell’Islam; che le loro prime vittime sono proprio i musulmani; che sono vigliacchi (il boia dello spot scappa confuso davanti al popolo, inerme ma compatto). Forse ce ne suggerisce una quarta, più scomoda: che questo spot intriso d’amore religioso sia molto...laico. O, almeno, frutto d’una religiosità secolare e "relativizzata" che ha smesso da un pezzo di risolvere in se stessa la complessità del mondo. A oggi non parrebbe facile trovare un imam, pur aperto e "moderato", che accetti un uso così disinvolto anche solo del nome di Allah... E dunque teniamoci lo spot: aspettando quel Dio sorridente che somiglia tanto al nostro. Nelle città nuove pratiche sulle droghe di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 31 maggio 2017 In questa situazione di stallo politico ed istituzionale bisogna riprendere quel protagonismo municipale che anche in Italia ha guidato il movimento di riforma delle politiche sulle sostanze negli anni 90. Dopo l’assemblea delle Nazioni Unite sulle droghe Ungass 2016, che ha sancito il venir meno della compattezza internazionale delle politiche proibizioniste sulle sostanze illegali, numerosi sono i segnali di svolta a livello mondiale. In Uruguay fra poche settimane saranno in vendita nelle farmacie i primi quantitativi di cannabis "statale", negli Usa otto Stati hanno sancito, per referendum, la legalizzazione dell’uso ricreativo della cannabis, mentre il nono, il Vermont, ha scelto la via parlamentare. In Olanda il Senato deve decidere sulla legge approvata dai deputati a favore della coltivazione della canapa da parte dei coffee-shop, mentre in Canada il governo ha presentato il suo disegno di legge per la regolamentazione della marijuana. La Giamaica infine ha legalizzato l’uso tradizionale della ganja. Le politiche di riduzione del danno più avanzate (stanze del consumo sicuro, trattamenti con eroina, pill testing) sono ormai consolidate in molti paesi europei, mentre approdano nel dibattito pubblico anche in paesi prima refrattari a questo tipo di approccio, come gli Stati Uniti. Purtroppo in Italia, la proposta di legge sulla cannabis dell’intergruppo si è arenata in commissione giustizia mentre quella popolare dopo sei mesi dal deposito è ancora sub iudice, in attesa del conteggio dei certificati elettorali che accompagnano le firme. Stessa sorte stanno subendo le proposte di legge di modifica complessiva del Testo Unico sugli stupefacenti, il Dpr 309 del 1990, presentate alla Camera dal deputato Filippo Fossati e al Senato dal sen. Sergio Lo Giudice. La legislatura è avviata verso la fine più o meno traumatica e sta dando il peggio possibile, basti pensare ai decreti Minniti e alla vicenda della legge sulla tortura. Occorre prendere atto che gli spazi parlamentari per le droghe non sono agibili e che dal governo in questi anni è giunto chiaramente un segnale di assoluto disinteresse. Gli ultimi due governi, più volte interpellati dalle associazioni del Cartello di Genova, non si sono degnati nemmeno di rispondere. Anche l’ultimo appello "il Governo batta un colpo" lanciato a febbraio e che chiedeva al governo di rispettare i propri obblighi di legge, è caduto nel vuoto. È venuto il momento di cambiare il tavolo sul quale confrontarsi. Dall’assemblea di Forum Droghe è arrivato un invito importante. Riprendere quel protagonismo municipale che anche in Italia ha guidato il movimento di riforma delle politiche sulle sostanze negli anni 90. In questa situazione di stallo politico ed istituzionale, bisogna ripartire dalle città, dove gli effetti del proibizionismo esplodono nelle strade, nelle piazze e nei giardini. Per affermare, partendo dal basso, che non solo una politica diversa sulle droghe è possibile, ma soprattutto che, dati alla mano, è migliore della criminogena repressione. In questi anni alcune città si sono apertamente schierate: Genova, Torino e Firenze hanno votato documenti a favore della legalizzazione della cannabis mentre sindaci come De Magistris e Pizzarotti hanno sposato la causa antiproibizionista. Il Friuli Venezia Giulia ha approvato una legge voto che invita il Parlamento ad approvare la proposta di riforma della legge Iervolino-Vassalli che risale a ventisette anni fa. Dobbiamo ripartire da qui, coinvolgendo gli amministratori locali, per praticare una politica sulle droghe realistica ed efficace nelle città e nelle regioni disponibili. Un primo confronto potrà avvenire in occasione della presentazione del Libro Bianco sulle droghe prevista il 26 giugno a Roma (ore 15/18 Sala del Senato di S. Maria in Aquiro - P.zza Capranica 72 - obbligatorio accredito a accrediti@fuoriluogo.it). Iraq. Dentro il carcere dei bambini soldato di Isis di Marta Serafini Corriere della Sera, 31 maggio 2017 Ahmed, Mohamed e Youssef sono vestiti pesante, con le tute e le felpe, anche se fuori ci sono quasi 30 gradi. Per entrare nel centro di detenzione minorile di Erbil, capitale della Regione Autonoma del Kurdistan iracheno bisogna passare i controlli. Un metal detector e poi un altro. Una farfalla blu che vola sopra due mani chiuse dalle manette se ne sta lì dipinta sul muro del corridoio vicino alle celle. Ahmed, Mohamed e Youssef - i nomi sono fantasia per proteggere la loro identità - erano dei minorenni iracheni che giocavano, andavano a scuola. I meno fortunati lavoravano. Dopo il 2014 Ahmed, Mohamed e Youssef sono diventati bambini soldato di Isis. Hanno sparato, hanno visto i compagni mandati al martirio. In alcuni casi hanno anche ucciso. E ora sono detenuti delle autorità curde. Sono oltre duecento i prigionieri minorenni sotto custodia del Krg a Erbil. Quindici sono stati giudicati colpevoli e gli altri 190 sono ancora sotto indagine. Tra loro c’è chi si è consegnato spontaneamente ai peshmerga, una parte invece è stata catturata in combattimento. Tutti, prima di arrivare nel centro di detenzione e andare a processo, sono stati interrogati dagli uomini di Asayish, i servizi segreti curdi. Le giornate non passano mai per i detenuti del carcere minorile di Erbil. Strascicano i piedi tra la biblioteca e il campo da calcio, dove giocano quando non fa troppo caldo. Fanno lezione di inglese, ogni tanto vedono qualche film e parlano con lo psicologo. Se vogliono possono andare a scuola. "Quelli di Daesh (Isis, ndr) mi hanno detto "Fai il muezzin, sei affidabile", così mi hanno messo in mano un kalashnikov e mi hanno ordinato di fare la guardia a un tribunale", racconta Ahmed, 16 anni. Ahmed viene da Hammam Al Alil, una cittadina vicina a Mosul dove di jihad si è sempre parlato, dall’occupazione statunitense in poi. Sembra più grande della sua età. Ha le mani forti, come quelle di un uomo. Ma quando parla, non guarda mai negli occhi. "Ogni sera mi toglievano l’arma. Mi sono consegnato nel mio giorno di riposo", spiega strizzando le palpebre. Mohamed ha 14 anni. Ogni domenica e lunedì, per due ore, riceve le visite dei genitori che sono sfollati da Mosul a Erbil. La sera quando il guardiano grida di spegnere le luci, sente le serrature scattare e ripensa a quello che gli è successo. "Lavoravo in un campo di petrolio. Poi Isis mi ha addestrato per 38 giorni, all’uso del kalashnikov, dell’Rpg (il lanciarazzi) e del fucile da cecchino", racconta. Tra i suoi istruttori c’erano ceceni, russi, curdi e "forse un iraniano". Molti erano foreign fighters, francesi, inglesi, americani. "Ci obbligavano a leggere il Corano tutti i giorni, da un lato ci facevano sentire importanti, dall’altro ci trattavano come bestie, chi osava protestare veniva portato via". A pranzo i ragazzi ricevono un piatto di riso e di pollo. Durante l’occupazione la prima cosa che gli uomini di Isis hanno fatto è stato prendere il controllo delle derrate alimentari e alcuni di loro sono malnutriti. Youssef, 17 anni, ha delle cicatrici sul braccio. Sembrano incise con il coltello. Sono recenti, il rosso della carne viva ancora risalta, vicino al gomito. Se le copre con la mano. "Non ho mai maneggiato un’arma. Siccome tutti i dottori erano scappati, mi hanno preso per fare il medico. Un uomo più grande, un curdo, mi ha fatto vedere come cucire le ferite", dice. Youssef non è l’unico che nega di aver combattuto. Ma poi cade in contraddizione. "Non sono cattivo. Ma mi hanno addestrato per otto mesi, mi hanno insegnato a sparare e a fare la lotta". Ogni venerdì Youssef vede un imam che cerca di spiegargli cosa significa essere un buon musulmano. "Estirpare certe idee non è possibile, si tratta piuttosto di modificarle", spiega il capo delle guardie. Per ora questi tre ragazzi rimangono in cella. Dopo il processo verrà deciso quanto sarà lunga la loro riabilitazione. Potrà durare anche cinque anni. "Secondo il diritto internazionale sono stati vittime di un crimine di guerra: usare i minori in combattimento è vietato dallo Statuto della Corte penale internazionale", sottolinea John Horgan, docente della Georgia State University. Ma perché allora il carcere? "In guerra un 17enne viene considerato un soldato esattamente come un adulto, è un’aberrazione. Ma succede in Iraq, Siria, Afghanistan, Israele. A Guantánamo gli Stati Uniti hanno imprigionato almeno 15 ragazzi", recita un rapporto di Human Rights Watch. La motivazione dei governi è sempre la stessa: "Se sono un pericolo per la sicurezza, devono stare dietro le sbarre, anche se sono minorenni". Poi, quando le guerre finiscono, tutti si dimenticano di loro. Ahmed, Mohamed e Youssef si stringono nelle loro felpe, il tempo per parlare è finito. Devono pulire i piatti del pranzo. Youssef prova a fare un sorriso. "Da grande voglio giocare a calcio come Messi, voglio uscire di qui, voglio diventare famoso", dice. Poi si gira e torna a strascicare i piedi e si incammina verso il corridoio dove c’è dipinta la farfalla blu. Filippine di sangue: i killer di Duterte contro i miliziani Isis di Andrea Milluzzi Il Dubbio, 31 maggio 2017 Raid aerei e blitz dell’esercito nell’isola di Mindanao. Dopo Marawi è Iligan City, una delle città più grandi delle Filippine, a essere finita nel mirino dei jihadisti del Maute, il gruppo terrorista che si è autodichiarato branca asiatica dell’Isis. La polizia e le autorità locali hanno imposto un coprifuoco cittadino di 6 ore, dalle 10 di sera alle 4 di mattina, e hanno organizzato checkpoint fissi e mobili sia dentro le mura che sulla strada che porta a Marawi, distante solo 38 chilometri. Queste misure eccezionali sono state prese nel timore che i jihadisti in fuga da Marawi possano dirigersi a Iligan, città a maggioranza cristiana ma con una storia di ribellione non secondaria: "Non vogliamo che quanto successo a Marawi succeda ancora a Iligan" ha detto alla radio nazionale il colonnello Alex Aduca. A Marawi è successo che da una settimana gli squadroni speciali di Manila stanno affrontando i gruppi jihadisti di Mindanao, l’arcipelago a Nord delle Filippine dove da decenni la guerriglia di stampo estremista islamico sta conducendo il suo jihad contro il governo di Manila e la maggiornaza cattolica della popolazione. Solo che adesso si trovano dall’altra parte un presidente come Rodrigo Duterte, che si è fatto le ossa proprio come sindaco di Davao, dove ha sviluppato i suoi metodi da giustiziere della notte. È proprio nella penisola di Mindanao che Duterte si era guadagnato il soprannome de "l’ispettore Callahan", accusato di avvalersi degli squadroni della morte per eliminare, come da lui ammesso, 1.700 criminali. Non stupisce quindi che la prima reazione di Duterte ai fatti di Marawi sia stata la proclamazione della legge marziale, che permette all’esercito di fare arresti e blitz indiscriminati per 60 giorni (ma Duterte la vuole prorogare a un anno). Un provvedimento che Duterte ha accompagnato con la sua tristemente famosa retorica: "Risolveremo il problema di Mindanao una volta per tutte: se penso che devi morire, morirai. Se ci combatti, morirai. Se ci sfidi, morirai. E se questo significa che molte persone moriranno, così sia" ha scritto Duterte su Facebook. Rivolgendosi ai suoi soldati, il presidente ha aggiunto: "Se vi capita di stuprare tre donne, voi fate il vostro lavoro. Dirò che l’ho fatto io e andrò in prigione per voi". Per ora negli scontri sono morti 60 miliziani, 20 soldati e 19 civili. L’attacco sferrato a Marawi sembra essere anche il tentativo dei Maute di accreditarsi come leader del jihad nel Paese, cercando un’unione con il più rinomato gruppo Abu Sayyaf, famoso per i rapimenti di occidentali nelle Filippine. Nel corso delle battaglie di questi giorni, l’esercito avrebbe tentato di arrestare o uccidere Isnilon Hapilon, il leader di Maute su cui pende una taglia di 5 milioni di euro da parte dell’FBI che lo ha inserito nella lista dei most wanted. Hapilon sarebbe l’uomo incaricato di legare Maute e Abu Sayyaf, nonché l’autore dell’adesione all’Isis. Isis che solo recentemente ha riconosciuto l’affiliazione di Maute. Ma c’è di più. Secondo gli oppositori di Duterte, la minaccia non giustifica la proclamazione dello stato d’emergenza: "Maute è un gruppo piccolo, gestibile, non ci sono prove che abbia alcun tipo di supporto da parte dell’Isis" ha commentato a Philstar. com Zachary Abuza, docente del National War College di Washington ed esperto del Sud-Est asiatico. L’agenzia di notizie dell’Isis, Amaq, ha salutato l’azione dei circa 200mila militanti Maute a Marawi ma non si sta mettendo bene per loro. Ieri l’esercito ha utilizzato anche bombardamenti aerei per avere la meglio sulla parte di città, circa il 10%, ancora in mano dei ribelli. Più di 70mila residenti hanno già abbandonate la zona. Egitto. Al-Sisi firma la legge, lo Stato "occupa" le Ong di Chiara Cruciati Il Manifesto, 31 maggio 2017 Le associazioni della società civile poste sotto il controllo del governo, 46mila quelle a rischio. Intanto sei partiti di opposizione scelgono un candidato unico per le presidenziali del 2018. La strategia è nota, la stessa applicata da governi e regimi in crisi di legittimità: usare la paura per piegare opposizioni e voci indipendenti. L’Egitto non è da meno: così si può spiegare la debolezza delle reazioni agli attacchi perpetrati dal Cairo a società civile, media, organizzazioni locali. La minaccia di oggi è lo Stato Islamico: il pugno di ferro è l’alternativa - questo il messaggio del regime - al terrorismo di matrice islamista. Il popolo egiziano, da parte sua, schiacciato da una brutale crisi economica e dalla durezza della repressione non riesce a reagire. Le bombe egiziane su Derna (che, dice il portavoce dell’esercito egiziano, proseguiranno, mentre fonti anonime riferiscono all’agenzia New Arab che truppe speciali egiziane sono state dispiegate in Libia a sostegno di Haftar) servono a radicare l’impressione di una minaccia concreta, quella islamista, che uccide i copti e punta ad allargarsi al resto del paese. Ma la vera minaccia è statale. Ieri è passata per la firma posta dal presidente al-Sisi alla legge approvata sulle ong approvata sei mesi fa dal parlamento: la normativa pone le organizzazioni non governative (straniere e locali che ricevono finanziamenti dall’estero, normale pratica di sussistenza in ogni angolo del mondo) sotto il controllo dell’esecutivo. Non si potranno pubblicare sondaggi e rapporti senza il permesso dello Stato. Le donazioni superiori a 550 dollari dovranno essere approvate dal governo entro 60 giorni. Sarà lo Stato a decidere sulla costituzione di una nuova associazione: verrà redatto un piano di sviluppo che indicherà i settori di intervento e autorizzerà (tramite il Ministero della Solidarietà sociale) la fondazione di un’organizzazione. Le Ong straniere dovranno pagare 16.500 dollari e su tutti vigilerà un nuovo dipartimento dipendente da servizi segreti e esercito. Chi violerà la legge rischia da uno a 5 anni di carcere e 55mila dollari di multa. L’obiettivo è palese: zittire, tenendole sotto stretta sorveglianza, le organizzazioni che in questi anni hanno lavorato per monitorare abusi e violazioni, creare consapevolezza, tutelare le vittime. Critiche sono subito arrivate da Amnesty International: "È un colpo catastrofico ai gruppi per i diritti umani in Egitto - ha commentato Najia Bounaim, responsabile di Ai in Nord Africa - La severità delle restrizioni imposte minaccia di annientare le ong nel paese". Il Cairo si difende: la legge serve a proteggere lo Stato dalle interferenze esterne, dal "caos". In realtà si tratta dello stesso filo rosso che collega ong, stampa e partiti di opposizione. Nei giorni scorsi 21 agenzie di informazione sono state oscurate dal governo. Tra questi al Jazeera e Huffington Posty Arabic, l’agenzia indipendente Masa Masr, il noto quotidiano Daily News Egypt e al Borsa, una delle più rinomate agenzie di informazione finanziaria, gestita da giovani giornalisti. L’accusa, per tutti, è aver ricevuto fondi dal Qatar, dai Fratelli Musulmani, dai nemici della stabilità del paese. Contro l’uomo solo al comando c’è, però, chi si organizza trovando negli attacchi del regime nuova forza: dopo l’arresto di Khaled Ali, avvocato per i diritti umani e fondatore del partito di sinistra Pane e Libertà, sei partiti di opposizioni si sono coalizzati scegliendolo come candidato alle presidenziali del 2018. Con un comunicato congiunto il suo partito, Alleanza Popolare (sinistra), il Partito della Costituzione di El Baradei (liberale), Strong Egypt Party (islamico riformista), il Movimento 6 Aprile (sinistra) e i Socialisti Rivoluzionari hanno annunciato il sostegno ad Ali. Contro di lui, rilasciato su cauzione, è stato aperto un fascicolo per "insulto alla pubblica decenza": la prima udienza è prevista per luglio. Marocco: 106mila arresti nel 2016, nelle carceri oltre 80.000 detenuti Nova, 31 maggio 2017 Il numero dei detenuti nelle prigioni del Marocco è in costante aumento. Si sono contati quest’anno infatti 106 mila detenuti, per lo più in detenzione provvisoria. Il numero di marocchini che perdono la loro libertà è in costante aumento di anno in anno. Nel 2016, il Marocco ha raggiunto un picco record nel mese di dicembre, con una popolazione carceraria di 80 mila detenuti in diverse prigioni. A riferirlo è il quotidiano marocchino "Al Akhbar Yaoum" sulla base della relazione annuale della delegazione generale per l’amministrazione penitenziaria e la riabilitazione. Quest’anno sono 2.133 i detenuti condannati a pene detentive finali. Tuttavia, 104 mila sono in carcere in attesa di giudizio. Il rapporto affronta anche la spinosa questione del sovraffollamento delle carceri. "Una densità carceraria tale che sta ostacolando gli sforzi per garantire la dignità dei prigionieri, per garantire la loro sicurezza e per stabilire programmi di qualificazione in grado di combattere il fenomeno della recidiva", spiega Mohamed Salem Tamek, delegato generale per la riabilitazione dei carcerati. Il rapporto, le cui linee principali sono citate da "Akhbar Al Yaoum", ricorda che una prigione nuova è stata aperta nel 2016, mentre il 2015 ha visto l’apertura di 10 carceri. La Delegazione generale per l’amministrazione penitenziaria e la riabilitazione prevede di aumentare il ritmo di lavoro per il completamento di nuove carceri a Tangeri, Berkane, Nador e Smara e mira inoltre a lanciare la costruzione di cinque nuove strutture carcerarie a Tan-Tan, Assilah e Oujda.