Psicofarmaci dietro le sbarre: così si annullano gli esseri umani di Arianna Giunti L’Espresso, 30 maggio 2017 Mancano gli psicologi, così nelle carceri italiane il 50 per cento dei detenuti ne abusa. Con conseguenze spesso tragiche: dall’alterazione mentale al suicidio. In carcere lo chiamano "il carrello della felicità". Passa fra le celle tutte le sere distribuendo compresse colorate, gocce, flaconi e pillole. Farmaci che calmano l’ansia e procurano benessere chimico. Nelle prigioni italiane esiste un problema sotterraneo: l’abuso di psicofarmaci. Dati ufficiali però non esistono, perché la mancanza di cartelle cliniche informatizzate non permette, nel nostro Paese, di avere un quadro completo di quello che avviene nelle infermerie dei 206 istituti penitenziari. Ma si tratta di un’emergenza concreta. Come fanno emergere i sopralluoghi appena portati a termine dai Radicali nelle carceri della penisola, soprattutto del Sud Italia. E come confermano, puntuali, le associazioni a tutela dei carcerati (Osservatorio Antigone, Ristretti Orizzonti e Detenuto Ignoto) dalle quali arrivano dati poco rassicuranti: secondo le loro stime quasi il 50% delle persone dietro le sbarre - su un totale di 52.164 detenuti in base agli ultimi dati disponibili del Ministero della Giustizia - sarebbe sotto terapia da psicofarmaco. Mentre il 75% ricorrerebbe a quella che viene definita "terapia serale": sedativi per dormire. L’abuso di psicofarmaci sarebbe l’effetto diretto di un’altra falla ormai cronicizza all’interno delle nostre prigioni: la carenza di psicologi. In poche parole, in assenza di specialisti che dovrebbero curare lo stato mentale dei detenuti con la psicoterapia, si fa uso di potenti medicinali. Con un risvolto non indifferente anche in termini di costi per il Sistema Sanitario Nazionale. E con conseguenze spesso tragiche: solo nelle ultime settimane si sono registrate due sospette overdose da farmaci. Spesso - va detto - si tratta di cure indispensabili per far fronte a disagi psichici altrimenti ingestibili. Altre volte, invece, è un abuso di terapia che annienta i prigionieri. Un "contenimento di Stato", come lo definiscono i sindacati di polizia penitenziaria e gli operatori volontari. Che avrebbe come scopo quello di evitare situazioni esplosive: solo con l’aiuto di massicce dosi di farmaci a effetto calmante i detenuti riescono a sopportare i trattamenti degradanti negli istituti di pena in stato di fatiscenza e i lunghi periodi di carcerazione preventiva in attesa del processo. A volte le pillole vengono assunte in maniera passiva, soprattutto dagli stranieri, che non sanno neanche cosa stanno ingoiando. Più spesso invece sono loro stessi a chiederle, per anestetizzare angoscia e dolore. Però gli effetti di questa sedazione di massa, come ha accertato l’Espresso attraverso le testimonianze di medici, volontari, guardie carcerarie, detenuti ed ex detenuti, possono essere disastrosi. Gli strascichi si manifestano per anni, a volte per sempre, anche dopo essere usciti dal carcere. Rendendo il ritorno in società ancora più difficile. E poi creano più dipendenza dell’eroina. Così una volta tornati liberi spesso l’astinenza viene colmata con l’uso di droghe pesanti. Fra gli ex detenuti c’è chi racconta di aver avuto perdite di memoria - al punto di non ricordarsi più il nome del proprio figlio - e chi una volta tornato in libertà ha accusato crisi di panico e impotenza. Annullandosi come essere umano. Felicità chimica - Nelle infermerie dei penitenziari è facile trovare sedativi perfettamente legali distribuiti su ricetta anche in farmacia. Ai prigionieri vengono somministrati soprattutto nei primi giorni di carcere per far fronte a quegli stati d’animo che, nel linguaggio medico della sanità penitenziaria, vengono definiti "disturbi nevrotici e reazioni di adattamento". ?La disperazione è ancora più forte nei "nuovi giunti", detenuti in attesa di giudizio che sanno o che credono di essere innocenti. E che non riescono a sopportare l’idea di subire un’ingiustizia. "I nervi spesso cedono dopo la prima notte in cella", spiegano dall’associazione Ristretti Orizzonti, una delle più attive nel denunciare l’abisso delle carceri. Poi ci sono gli antidepressivi, come il Prozac: provocano un rapido effetto di torpore e benessere. Un’altra categoria sono gli antipsicotici e gli stabilizzatori dell’umore, come il litio. Quelli più diffusi, però, sono le benzodiazepine: farmaci utilizzati per combattere l’insonnia, l’ansia e le convulsioni. Ma che creano assuefazione dopo pochissimo tempo. Conferma a l’Espresso Matteo Papoff, psichiatra per lungo tempo in servizio al carcere Buoncammino di Cagliari e oggi al penitenziario di Uta: "La dipendenza comincia a manifestarsi già dopo 12 settimane di assunzione. Non solo nei tossicodipendenti, ma anche nelle persone perfettamente sane. Ecco perché l’uso prolungato va assolutamente evitato". "Da un punto di vista fisico queste terapie sconvolgono i detenuti - spiega Francesco Ceraudo, per 40 anni direttore del centro clinico del carcere Don Bosco di Pisa - Quando li vedi sono inconfondibili: non riescono a mantenere la posizione eretta, trascinano i piedi, gli occhi sono persi nel vuoto, il viso diventa simile a un teschio. Risulta perso ogni sussulto di vita". "Le carceri sono diventate fabbriche di zombie. Ed è una situazione drammatica che si vuole tacere, perché fa comodo a tutti", è l’amara conclusione di Ceraudo. Le sedute con lo psicologo? Un miraggio - Ma come avviene, esattamente, la somministrazione dei farmaci? Formalmente solo sotto consenso di un medico, attraverso un’autorizzazione firmata. Però uno psichiatra fisso nelle carceri non sempre è disponibile. Soprattutto di notte. La copertura medica dello specialista dovrebbe essere garantita per 38 ore a settimana in ogni struttura. Ma dopo una prima visita obbligatoria spesso gli incontri si riducono a colloqui lampo di una manciata di minuti per ogni carcerato. "Troppo poco perché possa essere diagnosticato un problema e prescritta una terapia adatta - sostiene Alessandra Naldi, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Milano - mentre allo stesso tempo in infermeria vengono distribuiti sedativi con grande disinvoltura. Basti sapere che a San Vittore, mentre il 30% dei detenuti assume regolarmente psicofarmaci, il 90% di loro è sottoposto a quello che viene chiamato "terapia serale". Ansiolitici per dormire. E così si arriva al paradosso che nelle carceri è più facile trovare un sedativo che un’aspirina. Come racconta a l’Espresso Giancarlo F., ex detenuto, che negli ultimi cinque anni ha girato altrettanti penitenziari del Nord Italia: "Soffro di "cefalea a grappolo", attacchi di mal di testa che provocano dolori lancinanti. Per curarla ho bisogno di un farmaco specifico. In carcere dovevo compilare dozzine di moduli per poterlo ordinare: una burocrazia lentissima e complicata. Quasi mai riuscivo ad averlo. Mentre gli psicofarmaci erano sempre lì, pronti e disponibili". A focalizzare uno dei nodi cruciali è Fabio Gui, del Direttivo Forum Nazionale per il diritto alla salute dei detenuti della Regione Lazio: "Nella maggior parte degli istituti manca un monitoraggio centrale e cartelle cliniche informatizzate, quindi è impossibile calcolare quanti siano gli assuntori di farmaci e, più in generale, i malati. Soprattutto, manca una cabina di regia a livello nazionale che permetta di avere un quadro completo della situazione". La sanità nelle carceri, infatti, dal 2008 non è più competenza dell’amministrazione penitenziaria ma a carico del Servizio Sanitario Nazionale e quindi gestita a livello regionale. Fra i pochissimi censimenti a disposizione - contenuti in uno studio multicentrico sulla salute dei detenuti in Italia dell’Agenzia Regionale della Sanità della Toscana - ci sono quelli del Lazio (3.576 detenuti su un totale di 4.992 assuntori di ansiolitici, antipsicotici, ipnotici-sedativi e antidepressivi), Veneto (1.284 su 1.460), Liguria (1.366 su 1.776), Umbria (659 su 800) e la città di Salerno (52 su 90). Mentre fino a oggi le regioni virtuose che hanno introdotto la cartella clinica digitale sono solo l’Emilia Romagna (in ciascun carcere già dall’estate 2014) e la Lombardia (San Vittore, Opera, Varese, Bergamo, Sondrio, Vigevano, Busto Arsizio). Niente invece in Calabria, Basilicata, Lazio, Liguria e Marche. E pochissimi istituti a norma in Sicilia (solo Messina) e in Campania (Carinola). "I fascicoli cartacei usati attualmente dalla medicina penitenziaria sembrano risalire a un’altra era: faldoni enormi pieni di foglietti stratificati scritti con grafie spesso incomprensibili - si legge nell’ultima relazione dell’Osservatorio Antigone - che non garantiscono continuità terapeutica e che rischiano di essere fatali in situazioni critiche dove è essenziale ricostruire la storia clinica del paziente". Significativi, poi, i report prodotti in queste settimane dai Radicali, che sottolineano una carenza cronica soprattutto di specialisti psicologi. "A livello nazionale - fanno sapere dalla Società Italiana Psicologia Penitenziaria - il monte ore per gli psicologi esterni autorizzati a prestare servizio in carcere è di 105.751 ore. Tenuto conto che i detenuti oggi sfiorano quota 51mila, il tempo annuo per ogni detenuto è di 127 minuti". A conti fatti, 2 minuti e mezzo a settimana per ogni paziente. Tempo che ovviamente si riduce se gli ingressi di prigionieri aumentano. E così si ricorre direttamente alla terapia d’urto: medicinali. Spaccio in cella - I numeri di chi assume abitualmente psicofarmaci, comunque, sono calcolati per difetto. Perché quando i sedativi non vengono somministrati legalmente molti detenuti riescono a procurarseli di contrabbando e li assumono in dosi raddoppiate per ottenere un effetto più potente, simile a quello dell’eroina. "In carcere esiste persino un borsino del baratto - conferma Leo Beneduci del sindacato autonomo di polizia penitenziaria Osapp - e può accadere che nei cortili durante l’ora d’aria mezza capsula di Subtex sia ceduta per due pacchetti di sigarette, mentre il Rivotril o il Tranquirit per cinque. O che si spacci il metadone". Per evitare il traffico di farmaci gli infermieri preferiscono somministrare le sostanze in gocce o aspettano che il detenuto deglutisca la pastiglia. Ma a volte queste precauzioni non bastano: alcuni fingono di ingoiare le pillole, poi le sputano e le rivendono. Anche gli operatori fanno quello che possono per arginare il problema. Racconta un volontario di San Vittore: "Le benzodiazepine vengono consumate a ettolitri. Il sesto raggio, in particolare, è un girone infernale". "L’orario della terapia è un incubo - si sfoga un paramedico in servizio a Poggioreale - ogni sera è una lotta per cercare di dare meno psicofarmaci possibili e spesso finiamo per essere presi a calci perché ci rifiutiamo di somministrare quello che ci chiedono per stordirsi". Da Sud a Nord la situazione è sempre la stessa. Nel carcere di Bolzano lo scorso 6 gennaio è scattato l’allarme per furti di psicofarmaci trafugati dall’infermeria, che verrebbero poi ceduti a pagamento ad altri detenuti. Poche settimane prima la Procura aveva aperto un’indagine su un detenuto colto in flagrante mentre rubava compresse di Rivotril, che serve a curare gli attacchi di panico ma viene utilizzato dai tossicodipendenti come surrogato dell’eroina. Alcuni mesi fa, sempre a Bolzano, un detenuto aveva rischiato la vita dopo un’overdose di benzodiazepine. Suicidi e blackout - Oltre ai malesseri fisici e allo stato di narcolessia, assumere i farmaci in maniera incontrollata ha un’altra conseguenza pericolosissima: l’alterazione mentale. I detenuti passano da uno stato di euforia alla più buia depressione, con tendenze auto lesioniste. Negli ultimi cinque anni nelle carceri italiane si sono contati 747 decessi, molti dei questi per cause non chiare. I suicidi, solo dal 2011 a oggi, sono arrivati a 261. Mentre solo nel 2014 sono stati 6.919 gli atti di autolesionismo. A raccontare l’abuso di sedativi sono anche gli stessi carcerati. Gli effetti collaterali - spiegano - si manifestano lentamente. Fra questi ci sono le amnesie. "Un bel giorno cominci a dimenticarti cosa hai mangiato la sera prima", racconta Gabriele F., "poi è come se il cervello avesse dei blackout sempre più frequenti. E finisce che non ti ricordi neanche più il nome di tuo figlio". Le conseguenze degli abusi di psicofarmaci e sedativi, poi, si pagano per molto tempo. Come conferma chi ormai ha finito di scontare la propria pena e che fuori dalla galera si è trovato ad affrontare nuovi incubi: malesseri, depressione, fobie. Paura degli spazi aperti o, semplicemente, di attraversare la strada. "Prima sono iniziati i tremori alle mani, tanto che non riuscivo neppure a guidare", racconta a l’Espresso Salvatore B., 45 anni, ex detenuto, "poi ho cominciato ad avere le allucinazioni, la tachicardia. Mentre a volte di punto in bianco mi addormentavo. Ovunque. Riprendere la vita quotidiana, affrontare colloqui di lavoro o anche solo ritornare ad avere un’intimità con mia moglie è stato impossibile". Soluzioni: psicoterapia e lavoro - Non tutti i penitenziari, però, vivono questa realtà nera. Alcune regioni come Umbria e Sardegna si sono sforzate di migliorare la situazione carceraria attraverso dipartimenti di salute mentale con medici attivi 24 ore al giorno e gruppi sperimentali di psicoterapia. Mentre nelle carceri di Bollate e Rebibbia già da anni si pratica la "Mindfulness", una pratica di meditazione molto diffusa anche all’estero. E i risultati sono stati ottimi. "Costa molto meno dei farmaci e non ha effetti collaterali", conferma Gherardo Amadei, psichiatra e docente all’Università Bicocca di Milano. Un’altra soluzione pratica arriva dalle cooperative: il lavoro in carcere. Se, infatti, l’uso di psicofarmaci è altissimo nelle case circondariali, che ospitano chi è in attesa di giudizio o chi ha una condanna breve da scontare, si abbassa notevolmente nelle case di reclusione dove sono accolti i carcerati condannati in via definitiva. E che - come prevede l’ordinamento giudiziario - lavorano. "Tenere occupate le mani e la testa, sentirsi utili, è fondamentale per non impazzire - spiegano ancora da Ristretti Orizzonti - il lavoro dovrebbe essere concesso da subito". A confermarne l’effetto benefico sono le storie dei detenuti. Come quella di Giacomo, milanese, 35 anni, una vita trascorsa a entrare e a uscire dalla cella dall’età di 14 anni. Ex tossicodipendente, era arrivato ad assumere benzodiazepine tre volte al giorno e pesava 40 chili. Oggi è uno dei giardinieri della cooperativa sociale carceraria di Bollate. È tornato ad avere un peso normale, sta studiando per il diploma di ragioneria e gioca a calcio. I sedativi sono soltanto un ricordo. "In carcere psicofarmaci a pioggia: per riprendermi ci ho messo 3 anni" di Arianna Giunti L’Espresso, 30 maggio 2017 "E sono stato fortunato. Molti altri miei amici non ce l’hanno fatta". La denuncia di un ex detenuto. "Gli psicofarmaci, in cella, venivano somministrati a pioggia. Tre volte al giorno: mattina presto, pomeriggio e la sera prima di andare a letto. E così vedevi gente che stava anche per 24 ore sdraiata per terra. Narcotizzata. Io ci ho impiegato tre anni, una volta uscito dal carcere, per riprendermi da quella roba. E mi è andata bene. Perché ho visto gente morire". Fabio M., 53 anni, ex detenuto romagnolo, di penitenziari ne ha visitati tre. Tutti nel centro Italia, dopo aver scontato una condanna di cinque anni. Oggi è un uomo pienamente recuperato, anche grazie all’associazione Papillon di Rimini, che da anni si dedica al difficile compito di reinserimento sociale degli ex carcerati. I ricordi di Fabio su quello che accadeva in carcere, però, sono ancora molto nitidi. In particolare quella "sedazione di Stato" di cui parlano anche medici, volontari e agenti della polizia penitenziaria. Psicofarmaci che sarebbero somministrati in dosi massicce per contenere i detenuti. Come racconta lui stesso a l’Espresso in questa intervista. Com’è la vita in carcere? Dobbiamo fare prima di tutto una premessa. Chi finisce dietro le sbarre reagisce in tre modi diversi: c’è chi la prende con filosofia e inganna il tempo giocando a carte, c’è chi per sfogare la rabbia fa attività fisica fino all’esasperazione. Poi ci sono quelli che si chiudono in se stessi. Di solito si tratta di persone che entrano in carcere per la prima volta, magari in attesa di giudizio. Non mangiano, non parlano. Si imbottiscono di farmaci e passano le giornate stesi sulle barelle in infermerie sotterranee, sporche e senza luce. Simili a tombe. Noi detenuti le chiamano ‘le buché". Come funziona la somministrazione di psicofarmaci in carcere? Per quello che ho potuto vedere con i miei occhi c’è una somministrazione a pioggia. Per molto tempo li ho assunti pure io, poi ho deciso di smettere. L’idea che mi sono fatto è che vengano dati con così tanta facilità per contenere, per tenere calmi i detenuti. Vista anche la situazione di perenne sovraffollamento: in una sola cella si potevano trovare anche undici persone. Che tipo di farmaci vi venivano somministrati? Soprattutto psicofarmaci, ansiolitici e benzodiazepine. Vi era stato detto che questi farmaci - in particolare le benzodiazepine - provocano astinenza già dopo poche settimane? Io ho deciso di smettere proprio per questo. Mi facevano vivere in uno stato di perenne angoscia. Mi sentivo malissimo. Appena riacquisti un momento di lucidità ti senti inadeguato, ti senti una nullità. Ha mai assistito a spaccio di droga o di farmaci, in carcere? Questo è un altro problema serio. Molti detenuti si fanno consegnare le pastiglie, poi però non le assumono e le scambiano con le sigarette o con altri favori. Per evitare che avvenga questo spaccio gli operatori più scrupolosi somministrano solo farmaci liquidi in gocce e aspettano che il detenuto li deglutisca. Perché la realtà è proprio questa: i farmaci in carcere vanno a sostituire le droghe. E così diventa una sorta di "spaccio di Stato". In carcere si crea uno stato di promiscuità tale che poi porta a far saltare tutti i valori. In quale carcere, fra quelli che ha girato, ha assistito in particolare a questi episodi? Nel carcere di Rimini. Lì il problema dello spaccio era veramente forte. Per fortuna c’è un’equipe medica molto seria e attenta che cerca di arginare queste situazioni. Lei ha mai avuto problemi di salute dopo la somministrazione di questi psicofarmaci? Io ci ho messo tre anni per riprendermi dall’uso di questi farmaci. E sono stato fortunato. Molti altri miei amici non ce l’hanno fatta. Molti sono morti nel sonno, in cella. Perché quei sedativi provocano le overdose, proprio come le droghe. I problemi di salute, quindi, saltano fuori soprattutto dopo la scarcerazione. Quando i detenuti si ritrovano a interrompere la terapia… Esattamente. È uno stato di felicità chimica, sono farmaci che vanno a riempire dei vuoti che i detenuti in carcere non riescono a colmare in un’altra maniera. Però sono medicine pericolosissime. Danneggiano il corpo e la mente, e uno se ne rende conto solo una volta uscito dal carcere. La pena detentiva dovrebbe avere il fine della rieducazione. E invece è una condizione che ti porta al limite della sopportazione umana. Come una tortura. Ius soli, fine vita e legittima difesa: le "incompiute" se si vota nel 2017 di Liana Milella e Lavinia Rivara La Repubblica, 30 maggio 2017 La cittadinanza ai figli di migranti è al traguardo. Ma rischia, come cannabis legale. reato di tortura e altre riforme. Dallo "ius soli" al processo penale, dal bio-testamento ai vitalizi. Leggi attese da anni rischiano di non vedere la luce neanche in questa legislatura se si va al voto in autunno. Non solo per i tempi, ma per le fibrillazioni provocate dalla trattativa sulla legge elettorale. Ecco le misure a rischio. Fronte bio-testamento - La Camera ha detto sì il 20 aprile, sulla spinta emotiva del suicidio assistito di Dj Fabo, dopo 8 anni di scontri iniziati col caso Englaro. A favore l’inedita alleanza tra Pd, M5S, Mdp e Si, confermata appena 5 giorni fa, per approvare la legge senza modifiche. Linea condivisa dai radicali, perché toccare un solo comma significherebbe rispedire il ddl alla Camera e affossarlo. Ma c’è un fronte cattolico trasversale pronto a dare battaglia, a partire dai centristi. Senza contare che il testo è ancora nella fase preliminare in commissione. "Ci sono più di 70 richieste di audizione, il triplo della Camera" è l’allarme della relatrice Emilia De Biasi (Pd). La legge riconosce il diritto di rifiutare le terapie, comprese nutrizione e idratazione artificiali e vieta l’accanimento terapeutico. C’è l’obiezione di coscienza per i medici che non vogliono "staccare la spina". Ius soli, il 15 in Aula - Ferma da 18 mesi al Senato, dopo un primo ok della Camera, la legge riconosce la cittadinanza ai figli di immigrati nati o cresciuti in Italia. Il momento della verità è vicino perché il 15 giugno si va in aula, aggirando l’ostruzionismo in commissione (8mila emendamenti in gran parte della Lega). Il Pd, da Renzi in giù, ha sempre puntato al traguardo. E lo ha confermato giorni fa il capogruppo Luigi Zanda. Per questo la relatrice Doris Lo Moro (Mdp), si dice fiduciosa: "Se i dem non si tirano indietro possiamo farcela, ovviamente senza modificare il testo". Ma il rischio rinvio è in agguato. Oltre alla Lega, anche FI è per il no, mentre M5S a Montecitorio si è astenuto. Oltre un milione i figli di immigrati, il 75% nati in Italia, che aspettano la cittadinanza. Vitalizi, primo sì - Proprio oggi dalla commissione Affari Costituzionali della Camera dovrebbe arrivare il primo via libera alla riforma del dem Matteo Richetti: abolizione dei vitalizi non solo per i parlamentari in carica, ma pure per gli ex, introducendo il sistema contributivo. Al centro di una sfida tra Grillo e il pd renziano, è la legge che più rischia di essere influenzata dalla trattativa sul voto anticipato, non fosse altro perché il 15 settembre scatterà il diritto alla pensione per deputati e senatori. Motivo per cui Grillo chiede di approvare subito il ddl o di andare al voto il 10 settembre. Il testo debutta in aula il 31 maggio. Se la Camera lo approva, poi il Senato dovrà ricominciare da capo l’iter. Ma già ieri erano ripartite le polemiche su un emendamento del Pd che aumenta la reversibilità. Cannabis al palo - Dopo un passaggio lampo a Montecitorio, la legge sulla legalizzazione della cannabis, proposta dall’intergruppo parlamentare antiproibizionista, a ottobre 2016 è tornata in commissione, dov’è stata affossata. Ieri l’ultimo appello a Renzi dal sottosegretario agli Esteri Della Vedova. Tortura bloccata - Non ce la farà neppure questa volta il reato di tortura a entrare nel codice penale. Sono due articoli, l’Italia avrebbe dovuto recepire gli accordi internazionali da ben 28 anni, ma il terzo passaggio parlamentare è del 17 maggio. Manca l’ok della Camera. Legittima difesa futuribile - Inutile attesa e inutili promesse per la nuova legittima difesa. L’ultimo sì della Camera è del 4 maggio, con polemiche durissime per quel "di notte" contenuto nel testo da cui ha preso le distanze Renzi. Nonostante la legge cambi le parole ma non la sostanza del reato, l’attesa tra i cittadini è forte tant’è che oltre 2 milioni hanno firmato la proposta dell’Idv che legittima sempre l’auto difesa. La prescrizione resta corta - Dovevano essere il fiore all’occhiello del Guardasigilli Orlando, le riforme del processo penale, civile e fallimentare, ma non ce la farà nessuna delle tre perché sono ferme al Senato. La Camera ha licenziato il penale il 29 settembre 2015, il civile il 10 marzo 2016, il fallimentare il primo febbraio 2017. Col penale cade l’allungamento dei tempi di prescrizione, ma pure la stretta sulle intercettazioni. Codice antimafia - La Camera l’ha votato l’11 novembre del 2015. Potrebbe rivoluzionare sequestri e confische, ma al Senato fanno melina. Toghe in politica - Nonostante le polemiche resta al palo anche la legge sulle toghe in politica. Votata alla Camera il 30 marzo, è persa al Senato. L’infezione che minaccia l’Italia di Attilio Bolzoni La Repubblica, 30 maggio 2017 Senza sparare un colpo si stanno prendendo l’Italia più ricca. Comprano e corrompono, arrivano dappertutto. Si offrono alle imprese, alle banche, alle amministrazioni pubbliche, al mondo delle professioni. Non portano la coppola come tanto tempo fa ma non si presentano neanche come manager della finanza, non sono colletti bianchi e non sono colletti neri, sono sempre e soltanto loro: mafiosi. È la solita razza che divora tutto. La crisi economica ha spalancato loro le porte, ma non è solo quella che li ha resi attraenti: nel profondo Nord c’è anche tanta voglia di mafia. Trasferiscono fiumi di denaro e in cambio si impossessano di pezzi di mercato. Non è più solo droga e non è più solo movimento terra. Ci sono le slot machine, c’è il pizzo, ci sono i "servizi", i trasporti, gli appalti, ci sono i piani regolatori, c’è l’industria alberghiera, c’è la grande distribuzione. Fanno affari con tutti. In ogni regione, nelle grandi città e soprattutto nei piccoli comuni, con amministratori di destra e di sinistra, hanno i loro sindaci e hanno i loro "consigliori", tutti indigeni, tutta brava gente che - al contrario di siciliani e calabresi e campani - si è sempre vantata di avere quegli "anticorpi" per resistere all’infezione. C’è molto più ‘ndrangheta di Cosa Nostra, che ormai - disarticolata nella sua struttura militare - privilegia attività legali protette da amici in alte sfere. C’è anche un bel po’ di camorra. È un partito criminale che, anno dopo anno, si è rafforzato e si è esteso senza incontrare resistenza. Più che infiltrati dobbiamo considerarli ospiti,. E quasi mai indesiderati. Fra i loro soci ci sono le vittime ma anche tanti complici. Per molto tempo lassù hanno fatto finta di niente. Ministri dell’Interno e presidenti di regione, magistrati, prefetti, questori, comandanti in capo dei corpi di polizia. Tutti sempre pronti a negare che c’erano e che soprattutto contavano qualcosa. In questo blog dedichiamo una riflessione generale - con una cinquantina di articoli - al Nord contagiato, avvelenato. Abbiamo selezionato gli interventi - per il Piemonte, la Liguria, la Lombardia e la Toscana - con l’aiuto delle giornaliste e dei giornalisti di Repubblica Ottavia Giustetti, Marco Preve, Sandro De Riccardis e Franca Selvatici. Per il Veneto ha raccolto idee e interventi lo scrittore e blogger Francesco Trotta dell’associazione Cosa Vostra, per l’Emilia Romagna l’attivista antimafia Gaetano "Gato" Alessi del sito Mafiesottocasa. Apriamo il dibattito con uno scritto di Francesco Forgione, l’ex presidente della Commissione parlamentare antimafia che, quando era a Palazzo San Macuto, ha dedicato un capitolo robusto della sua relazione finale alla penetrazione delle organizzazioni criminali nelle regioni del Nord. Poi partiamo subito dalla mafia che viaggia sulla via Emilia. Quelli che si sentono sempre diffamati di Francesco Forgione* La Repubblica, 30 maggio 2017 Il 20 febbraio 2008, il giorno successivo alla pubblicazione della prima relazione sulla ‘ndrangheta approvata dalla Commissione parlamentare antimafia, nelle due capitali del Nord scoppiò una dura polemica. Per par condicio l’attacco partì da destra con Letizia Moratti, sindaco del capoluogo lombardo. E da sinistra con Sergio Chiamparino, che addirittura da quella relazione si sentì "diffamato come amministratore pubblico e come cittadino". Il presidente della regione Piemonte, riferendosi all’vallame lanciato dalla relazione sulle infiltrazioni mafiose nella Tav, parlò di "ricostruzioni fantasiose". La colpa della relazione era racchiusa in un lungo capitolo titolato "Colonizzazioni che, dal Lazio in su, descrivono il livello di penetrazione della ‘ndrangheta in tutto il Centro-Nord, con individuazione delle cosche, dei luoghi, degli affari mafiosi". Colonizzazione, appunto, come solo la ‘ndrangheta sa fare riproducendo non solo le proprie strutture, ma un vero e proprio modello criminale - dai riti al controllo del territorio - e persino un humus socio-culturale. La politica aveva reagito come nella Palermo degli Anni Settanta e dei primi Anni Ottanta quando a sporcare l’immagine della città non erano le strade insanguinate dal piombo mafioso ma chi denunciava il ruolo, il potere e le collusioni dei boss. Del resto, ancora nel 2010, il prefetto di Milano Gian Valerio Lombardi dichiarava che nella città la mafia non esiste. Eppure già nel 1993 la Commissione antimafia aveva approvato la relazione sulle mafie al Nord scritta da Carlo Smuraglia e, a cavallo fra gli Anni Ottanta e i primi Anni Novanta, centinaia di condanne erano state inflitte nei processi istruiti da Alberto Nobili e Armando Spataro. Nel 2011 arriva l’"operazione Crimine-Infinito" con centinaia di arresti fra Reggio e Milano e, subito dopo, l’inchiesta "Minotauro" a Torino e decine di arresti e confische di beni in Liguria ed Emilia. Non solo ‘ndrangheta, ovviamente. Il Nord è la lavatrice dei soldi delle mafie, ma ha saputo accogliere anche i mafiosi, le loro imprese, i loro voti. Uno dei pochi condannati per il vecchio articolo 416-ter (voti in cambio di soldi) è stato un assessore della giunta regionale guidata da Formigoni. Aveva pagato oltre 200 mila euro i voti avuti da un boss della ‘ndrangheta. Nel 2008 il "consigliori" della cosca dei Piromalli di Gioa Tauro, Aldo Micciché, così dice al nipote del boss che deve incontrare Marcello Dell’Utri: "Digli che a Milano ci sono vagonate di calabresi che votano e tu vai a nome loro". Non scherzava. Un vecchio capomafia trapiantato in Lombardia spiegava poco tempo fa a un giovane affiliato: "Dei sapere che il mondo si divide in due: ciò che è già Calabria e ciò che lo diventerà". Calabria a parte, al Nord sono bene insediati gli interessi e gli affari e le imprese della camorra, della Sacra Corona Unita, e i soldi di Cosa Nostra già dagli Anni Settanta hanno riempito le banche padane e si sono ripuliti nelle grandi operazioni immobiliari che hanno cambiato il tessuto urbano di Milano. Non erano solo i sindaci, di destra e sinistra, a non vedere. Non hanno visto i professionisti, gli industriali, le organizzazione di categoria. Così la "linea della palma" è andata oltre e oggi le cronache giudiziarie non fanno distinzione fra Nord e Sud. Oggi si sciolgono comuni lombardi, liguri e piemontesi come quelli calabresi e siciliani. Ma per la classe dirigente del Nord e i fazzoletti versi della Lega è meglio fabbricare la paura sui diversi, sui "negri" invasori portatori di violenza e stupri e inciviltà, che combattere le mafie. In fondo queste sono solo fonte di liquidità e ricchezza, offrono servizi (soprattutto il sostegno al più grande mercato della droga) che tengono alto il ritmo ella modernizzazione della parte trainante del Paese. Però il silenzio è ormai rotto. E anche al Nord non ci si potrà più voltare dall’altra parte. *Giornalista, scrittore, ex Presidente della Commissione parlamentare antimafia La conciliazione diventa definitiva di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 maggio 2017 La conciliazione va a regime. Nella speranza che produca risultati anche migliori di quelli attuali, la commissione Bilancio della Camera ha approvato ieri l’emendamento del relatore alla "manovrina", d’intesa con il ministero della Giustizia, che mette termine ai 4 anni di sperimentazione, sarebbero finiti il prossimo 20 settembre, e rende definitivo uno strumento comunque importante per iniziare a ridurre il flusso di cause in tribunale. Oggi in Aula, per il voto finale, sarà messa la fiducia sulla totalità del provvedimento. Ampio il perimetro delle materie interessate. Molte a elevato tasso di conflittualità. Nel dettaglio: condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari. Gli ultimi dati disponibili, relativi al 2016, segnalano, una battuta d’arresto: le mediazioni previste dalla legge (decreto legislativo 28/2010) come condizioni di procedibilità giudiziale, sono passate dalle 151.469 del 2015 alle 138.127 del 2016. In lieve miglioramento l’esito delle procedure: nel 2016 il tasso di successo è stato dell’11,2%, contro il 10,1 del 2015. Numeri ancora bassi che mettono, una volta di più, in evidenza uno dei "peccati originari" dell’istituto e cioè il fatto che nella metà circa dei casi (il 50,4%) una delle parti non partecipa neanche al primo incontro illustrativo in cui viene spiegato come funziona la procedura. Perché poi è questo primo passaggio a fare la differenza. Infatti, se si considera chi partecipa quanto meno a questo primo incontro la percentuale di successo sale al 23,9% nel 2016 (al 22,5% nel 2015). Numeri ancora più alti se si va oltre e si avvia davvero la procedura di mediazione: gli esiti positivi salgono al 43,6 per cento. Allo studio però ci sono anche possibili ampliamenti per rafforzare quello che ormai, insieme alla negoziazione assistita, rappresenta un circuito, se non alternativo, quanto meno preliminare a quello classico di amministrazione della giustizia. La commissione del ministero della Giustizia presieduta da Guido Alpa propone, infatti, l’estensione della mediazione obbligatoria ai rapporti "di durata" o che comunque comportano relazioni durature, alle controversie in materia di società di persone; ancora, i contratti d’opera, di opera professionale, di appalto privato, franchising, leasing, fornitura e somministrazione, concorrenza sleale "pura", trasferimento di partecipazioni sociali di società di persone. Opportuno, secondo i commissari, porre il limite dei 250mila euro per le controversie di competenza del tribunale delle imprese. Tutti gli atti del procedimento di mediazione sono esenti da imposta di bollo e da ogni altra spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura. Il verbale di accordo è esente dall’imposta di registro sino al valore di 50.000 euro. In caso di successo della mediazione, le parti avranno diritto a un credito d’imposta fino a un massimo di 500 euro per il pagamento delle indennità complessivamente dovute all’organismo di mediazione. In caso di insuccesso della mediazione, il credito d’imposta è ridotto della metà. Tunisino a processo per avere insultato l’Italia. Il caso davanti alla Corte costituzionale di Franco Vanni La Repubblica, 30 maggio 2017 L’accusa è di "vilipendio alla nazione italiana" (art. 291 c.p.), ma secondo l’avvocato dell’uomo il delitto contrasta con l’articolo 21 della Costituzione, che sancisce il diritto alla libera manifestazione del proprio pensiero. I radicali ne avevano chiesto l’abolizione nel lontano 1981. Quando i carabinieri gli hanno chiesto di mostrare i documenti, ha reagito dicendo che l’Italia "è un posto di merda", vantandosi di essere "entrato e uscito tre volte" dal Paese. Per queste frasi, un trentenne tunisino è a processo con l’accusa di vilipendio della nazione italiana. L’uomo fu fermato nel comune di Corsico, in provincia di Milano, durante un controllo anti-droga. Il reato di vilipendio - introdotto nel 1930 con il varo del codice Rocco - dal 2006 prevede come pena massima una multa di 5mila euro. Prima di allora, in caso di condanna, comportava la detenzione da uno tre anni. Ora il caso del tunisino potrebbe arrivare all’attenzione della Corte costituzionale. Il legale dell’uomo, l’avvocato Mauro Straini, ha infatti depositato in tribunale un’eccezione di legittimità costituzionale dell’articolo 291 del codice penale. Il vilipendio, appunto. La tesi di Straini è che il delitto contrasti con l’articolo 21 della Costituzione, che sancisce il diritto alla libera manifestazione del proprio pensiero. Il tunisino era stato identificato perché sospettato di spaccio di stupefacenti. Non ha permesso di soggiorno, e al momento dei controlli era senza documenti. A trasmettere la denuncia in procura sono stati gli stessi uomini che hanno raccolto lo sfogo dell’uomo. Nel decreto di citazione diretta a giudizio, firmato dal sostituto procuratore Gianluca Prisco, sono riportate le frasi che il tunisino avrebbe pronunciato: "Io entro ed esco dall’Italia quando voglio, sono entrato e uscito tre volte, tanto qui mi fanno fare quello che voglio, l’Italia è un posto di merda. Fate quello che volete, tanto l’Italia è un posto di merda, è meglio Allah che l’Italia di merda con voi italiani, dico all’avvocato che mi avete violentato, tanto qui si può fare quello che si vuole". Mauro Straini, difensore dell’imputato, dice: "Si tratta di un reato di opinione e nessuno dovrebbe essere sottoposto a processo penale per avere espresso una propria idea, per quanto non condivisibile". Quanto al fatto che il tunisino si vanti di essere entrato tre volte in Italia, da irregolare, Staini ironicamente osserva: "A parole, in un momento di concitazione, il mio assistito si è espresso in modo negativo sull’Italia. Ma i fatti dimostrano il contrario. Se davvero è tornato nel nostro Paese, significa che lo apprezza. E mi chiedo: quanti italiani, anche in ruoli pubblici, quotidianamente esprimono opinioni simili a quelle per cui il mio assistito è a processo?". Non è la prima volta che si chiede in Italia una verifica di costituzionalità sull’articolo 291 del codice penale. Nel 1981 i Radicali proposero un referendum per abrogare il reato di vilipendio alla nazione, ma la Corte costituzionale dichiarò inammissibile il quesito. Poi a battersi - sempre invano - per l’abrogazione fu la Lega Nord, dopo che Umberto Bossi fu condannato a 18 mesi di reclusione per il reato simile (e più grave) di vilipendio al capo dello Stato. Nell’atto con cui solleva l’eccezione di costituzionalità del vilipendio alla nazione italiana, l’avvocato Straini sottolinea come "non bisogna dimenticare... che fu proprio l’esaltazione fanatica dell’idea spirituale di nazione e razza a costituire il fulcro dell’ideologia nazi-fascista". E ancora: "... pur in presenza di resistenze culturali e politiche, pericolosamente lievitanti non solo in Italia, la strada da percorrere porta a un mondo senza confini e senza frontiere, così come le lingue e le culture" Il giudice della Seconda sezione penale del tribunale di Milano dovrà decidere se sospendere il processo a carico del tunisino, per trasmettere gli atti alla Corte costituzionale. Se invece riterrà la questione manifestamente ifondata, o non rilevante, procederà con le udienze. La decisione è attesa a luglio. Per Elisabetta Lamarque, professore di Giustizia costituzionale all’università Bicocca di Milano, "il dubbio di costituzionalità appare fondato, perché non sembrano esistere beni di rilievo costituzionale tutelati dalla norma penale sul vilipendio capaci di costituire un valido limite alla libertà di manifestazione del pensiero di ogni persona". Minaccia a pubblico ufficiale se allo stop il conducente lascia capire che intende darsi fuoco di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 30 maggio 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 29 maggio 2017 n. 26869. Per integrare la minaccia a un pubblico ufficiale non occorre una minaccia diretta e personale, essendo sufficiente l’uso di una qualsiasi coazione, anche morale, o anche una minaccia indiretta, purché sussista l’idoneità a condizionare la libertà di azione del pubblico ufficiale. Questo il principio espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 26869/2017. La vicenda - La Corte si è trovata a decidere su una vicenda in cui un automobilista, fermato da una pattuglia, era stato trovato senza assicurazione e libretto di circolazione. La polizia aveva intimato il sequestro del mezzo, al che il conducente si era barricato all’interno minacciando la pubblica sicurezza di darsi fuoco mostrando una bottiglia. I giudici di merito avevano legittimato la condanna. Ma il conducente ha proposto ricorso evidenziando come il comportamento integrasse al più una semplice resistenza passiva, nella quale la minaccia aveva a oggetto un danno riguardante la sola persona dell’imputato (nel caso neppure realizzabile, visto che il liquido posseduto non era infiammabile). I Supremi giudici hanno condannato l’imputato ricordando che la minaccia può essere integrata anche da una condotta autolesionistica dell’agente, quando la stessa sia finalizzata a impedire o contrastare il compimento di un atto d’ufficio a opera del pubblico ufficiale. La circostanza che nella bottiglia non ci fosse liquido infiammabile tale, quindi, da realizzare la minaccia è un elemento che il pubblico ufficiale è tenuto a valutare ex ante. Prima cioè che possa verificarsi l’evento lesivo. La sentenza lascia qualche margine di interpretazione laddove precisa "a meno che il male minacciato non sia palesemente realizzabile" per impossibilità soggettive o oggettive. Il precedente - La Cassazione, peraltro, proprio per rafforzare la correttezza delle proprie conclusioni ha richiamato un precedente (sentenza n. 32705/2014) in cui, a seguito dell’alt della polizia, intimato a un conducente in evidente stato di ubriachezza, l’automobilista aveva cercato di evitare il controllo e, creando una reale minaccia per la pubblica incolumità aveva percorso la strada contromano cercando di far perdere le proprie tracce. In quel caso era dovuta intervenire una seconda pattuglia. E anche in quella circostanza tra gli altri era stata riconosciuta la condotta di minaccia a pubblico ufficiale che si estrinsecava non solo nel non fermarsi al segnale della polizia ma anche per una serie di comportamenti successivi antigiuridici e pericolosi per la pubblica incolumità. La sanatoria della nullità a regime intermedio nel processo penale Il Sole 24 Ore, 30 maggio 2017 Nullità degli atti processuali - Inutilizzabilità delle intercettazioni - Nullità a regime intermedio - Non deducibilità per sanatoria a seguito di scelta di giudizio abbreviato. In tema di intercettazioni di comunicazioni, l’impossibilità per l’imputato di ascoltare ed esaminare le video-riprese effettuate dà luogo ad una nullità di ordine generale a regime intermedio non più deducibile, perché sanata, in caso di scelta di giudizio abbreviato, anche in considerazione della possibilità di optare per il giudizio ordinario o di subordinare la richiesta della definizione con il procedimento speciale alla previa integrazione probatoria. Infatti, per costante giurisprudenza delle Sezioni Unite, la richiesta dell’adozione di un rito speciale (nella fattispecie appunto il giudizio abbreviato) opera un effetto sanante della nullità ai sensi dell’articolo 183 c.p.p. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 4 maggio 2017 n. 21219. Giudizio abbreviato - Rito camerale - Omessa notifica dell’udienza al co-difensore - Nullità a regime intermedio - Sanatoria. Relativamente all’omessa citazione del difensore per il giudizio abbreviato, va fatta applicazione del principio secondo cui nel procedimento camerale l’omessa citazione del co-difensore comporta una nullità a regime intermedio, la quale va eccepita prima della deliberazione della sentenza che definisce il grado, senza che rilevi la presenza o meno in udienza dell’imputato o del co-difensore ritualmente citato. E tale principio vale anche per il giudizio di primo grado e non solo per quello d’appello camerale essendosi affermato che l’omessa notifica dell’avviso della data fissata per il giudizio di primo grado a uno soltanto dei due difensori dell’imputato comporta una nullità a regime intermedio che, attenendo non alla fase del giudizio bensì a quella degli atti preliminari, va eccepita prima della deliberazione della sentenza di primo grado. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 23 giugno 2016 n. 26296. Nullità di ordine generale - Nullità a regime intermedio - Deducibilità - Collegio difensivo - Astensione del co-difensore - Omesso rinvio dell’udienza camerale - Nullità a regime intermedio - Deducibilità - Limiti. In tema di procedimento camerale in grado d’appello, la nullità a regime intermedio derivante dall’omesso rinvio dell’udienza, in caso di dichiarata adesione, da parte uno dei due difensori dell’imputato, alla astensione dalle udienze proclamata dagli organismi di categoria, è sanata qualora l’altro difensore, non aderente all’astensione, non sia comparso e non abbia, quindi, eccepito il predetto vizio prima della deliberazione della sentenza d’appello. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 28 luglio 2015, n. 32990. Nullità di ordine generale - Nullità e regime intermedio - Deducibilità - Udienza camerale ex articolo 263, comma quinto, c.p.p. - Avviso di udienza - Co-difensore dell’imputato - Omessa notificazione - Nullità a regime intermedio - Sussistenza - Conseguenze in caso di mancata comparizione in udienza di entrambi i difensori - Sanatoria - Possibilità - Ragioni. In tema di comunicazioni al difensore, l’omessa notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale fissata a norma dell’articolo 263, comma 5, c.p.p. ad uno dei due difensori dell’imputato non dà luogo ad una nullità assoluta, ex articolo 179, c.p.p. bensì a regime intermedio, ai sensi dell’articolo 180 del codice di rito, con la conseguenza che tale vizio è da ritenersi sanato nel caso di mancata comparizione di entrambi i difensori all’udienza, implicando tale condotta la volontaria e consapevole rinuncia della difesa e della parte, globalmente considerata, a far rilevare l’omessa comunicazione ad uno dei difensori (In motivazione la Corte ha precisato che il difensore ritualmente avvisato, anche se non compare all’udienza, formalmente è come se fosse presente). • Corte cassazione, sezione II, sentenza 3 luglio 2015 n. 28563 Trento: "rieducazione, Costituzione tradita". Casonato, Apas e il progetto carcere di Erica Ferro Corriere del Trentino, 30 maggio 2017 È "una delle promesse tradite del nostro ordinamento" secondo Carlo Casonato, ordinario di diritto pubblico alla facoltà di Giurisprudenza. L’articolo 27 della Costituzione, con i suoi obiettivi di emancipazione, integrazione e rieducazione della pena, spesso rimane solo sulla carta ed è anche per restituirgli concretezza che il docente dell’ateneo trentino, insieme a sette colleghi e ai volontari di Apas (Associazione provinciale di aiuto sociale per i detenuti, gli ex detenuti e le loro famiglie), per oltre due mesi ogni lunedì mattina ha portato la Costituzione dentro al carcere: "Instaurare un dialogo tra persone libere e non libere è importante e necessario - afferma - le discussioni che animano chi attraversa un periodo di detenzione sono molto simili a quelle di chi è fuori". Dodici lezioni, da febbraio a maggio, per una decina di persone ristrette, al 60% di nazionalità italiana ma anche straniere. La maternità dell’idea che ha dato vita al progetto "Da cosa partire per integrare? Riflessione sulla Costituzione" e ha portato l’alta formazione dentro le mura di Spini è di Matilde Bellingeri, laureanda in giurisprudenza e volontaria Apas: "Dagli incontri è emersa la necessità che la società esterna cambi la percezione della persona detenuta - riporta - e non la identifichi più semplicemente solo con il reato commesso". I risultati principali dell’esperienza sono stati presentati ieri sera alla Fondazione Caritro, in un incontro al quale sono intervenuti anche il presidente dell’Ordine degli avvocati di Trento Andrea de Bertolini e il coordinatore dei garanti regionali per i diritti dei detenuti Franco Corleone, che ha ricordato come "portare la Costituzione e affermare i diritti all’interno di un luogo di privazione della libertà significhi mettere una polizza sul fatto che anche i diritti delle persone libere siano garantiti". Nelle lezioni si è parlato di diritto alla salute, del principio di eguaglianza, della libertà personale, del lavoro e della libertà religiosa, delle potenzialità e dei limiti dell’attuale assetto democratico, si è discusso di partiti, legge elettorale, Unione europea. "C’è stato chi ha paragonato la Costituzione alla Salerno-Reggio Calabria - ricorda Casonato - un cantiere aperto che rievoca le promesse della carta non ancora realizzate. Chi, invece, l’ha accostata alla rete del trapezista, che salva quando si compie un errore". Trento: Pavarin e i detenuti "senza misure alternative ritornano in prigione 4 su 5" di Linda Pisani Corriere del Trentino, 30 maggio 2017 "Attenzione all’illusione della pena, solo perché mandiamo qualcuno in carcere non è detto che si penta. A meno che non si consideri la detenzione un percorso rieducativo". A dirlo Giovanni Maria Pavarin, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia intervenuto, insieme ad Antonia Menghini, professoressa aggregata di diritto penitenziario presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento, all’incontro pubblico "Dignità della persona e tutela dei diritti dei detenuti". Dibattito che, organizzato al Museo Diocesano Tridentino in occasione dell’inaugurazione della mostra Dipingere il buio. In realtà siamo liberi ha trattato un tema spinoso e impopolare. "Soprattutto quando a tenere banco nei programmi politici, economici e sociali è il tema della sicurezza - ha rilevato Pavarin - Soprattutto quando l’enfasi dei media si concentra su quanto ci sentiamo più o meno protetti fuori e dentro le nostre case". Eppure la tutela dei diritti delle persone recluse è un principio stabilito dalla Costituzione (comma 3 dell’articolo 27). "Il cammino per rendere effettive le garanzie costituzionali è stato lungo e difficile - ha ricordato Menghini - Dopo l’approvazione della legge sull’Ordinamento penitenziario del 1975, la giurisprudenza ha lavorato molto per rendere il sistema carcerario italiano degno di un paese civile". Divieto di tortura, trattamenti disumani e degradanti sono pure i principi cardine della convenzione europea dei diritti cui aderisce anche l’Italia, "principi - ha ricordato Menghini - che sono stati e vengono disattesi dal nostro paese se guardiamo la realtà organizzativa e operativa del sistema carcerario. La situazione, dopo una sostanziale riforma, è un po’ cambiata - ha proseguito Menghini - Il numero di detenuti da 67 mila è sceso a 47.500, nel 2015 però è risalito a 52 mila e ora sta crescendo ancora". Per colpa di chi? Degli immigrati? "No - è stata la risposta del giudice di sorveglianza di Venezia - Il sovraffollamento è dovuto a una percentuale pressoché identica tra italiani, stranieri comunitari e stranieri regolari. Solo che in questo momento le leggi penali oltre che a reprimere condotte devianti stanno creando nuovi reati". Per Pavarin bisognerebbe maggiormente investire nella rieducazione: "Lo dicono le statistiche i casi di recidiva sono dell’80% se la pena si sconta totalmente in carcere, mentre scendono al 19% se si applicano pene alternative". Napoli: "prison valley" di Nola, in campo anche Fuksas di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 maggio 2017 Continuano le polemiche sul progetto del mega-carcere che dovrebbe ospitare 1200 detenuti. Continuano le polemiche, ma anche aperture, per la costruzione del nuovo carcere a custodia attenuata di Nola, un megastruttura sperimentale da 1.200 posti. La peculiarità di questo nuovo carcere consiste nell’essere "aperto" e molto simile agli istituti penitenziari danesi o norvegesi per via delle celle senza sbarre, senza il muro di cinta esterno e costruito secondo una logica che "mima" la vita familiare, raggruppando i carcerati in unità residenziali simili ad abitazioni civili e con spazi dedicati all’affettività dei detenuti. Il progetto - si legge nel bando - prevede la realizzazione di un bordo urbano destinato ai servizi di relazione con l’esterno del nuovo istituto con un quadrilatero perimetrale che ospita sul lato nord gli edifici delle lavorazioni, ad est i fabbricati della direzione e servizi nonché gli alloggi di servizio per il personale, a sud il settore colloqui visitatori e sviluppo dell’affettività, e a ovest il settore colloqui con i legali, aule di udienza e uffici giudiziari e penitenziari. All’interno del quadrilatero ci sarà il fabbricato dei servizi e reparti detentivi, con una collocazione al piano terra dei servizi e attività diurne: ovvero aule, biblioteche, laboratori, refettori, cucina, cappella, teatro, ambienti per culti diversi, palestra, piscina, cortili di passeggio con campi sportivi e locali per vitto e sopravvitto. Ai piani superiori, invece, ci saranno le camere di pernottamento singole distribuite in unità residenziali. L’architettura inoltre prevede innovative soluzioni delle finestre di facciata, a nastro, con parziale eliminazione delle sbarre nella parte fissa non apribile, dotata di vetro antisfondamento. La nuova struttura, inoltre, sarà dotata di un impianto con uso di energie alternative: verranno istallati i pannelli solari per il riscaldamento dell’acqua calda e apparati fotovoltaici per la produzione di energia elettrica. Il costo complessivo dell’opera è di circa 75 milioni. Sono già 14 i raggruppamenti di imprese che hanno manifestato interesse, coinvolgendo fior di progettisti. Tra le aziende figura solo una napoletana: la società di ingegneria "Tecnosistem", da quarant’anni specializzata in opere edilizie e infrastrutturali, che ha deciso di affidare la progettazione a un architetto del calibro di Massimiliano Fuksas. Il nuovo carcere di Nola - visto le condizioni inaccettabili di divere prigioni italiane - è un progetto rivoluzionario voluto e portato avanti con forza dal ministro della Giustizia Orlando. Non sono però tardate ad arrivare le polemiche. Come già riportato da ad opporsi con fermezza a questo bando è l’associazione Antigone, sempre in prima fila per i diritti e le garanzie nel sistema penale, e la Fondazione Michelucci, centro specializzato nelle ricerche sull’urbanistica, architettura moderna e habitat sociale. Le due organizzazioni sono fermamente contrarie al nuovo carcere per la dimensione, il totale isolamento dalla città, la scelta della zona che presenta problemi di carattere idrogeologico e di inquinamento, nonché la vaghezza relativamente alle attività lavorative che saranno svolte e ai rapporti con il territorio su questo fronte. Elementi che portano le due organizzazioni a sostenere come questo bando sia in aperto contrasto con le indicazioni provenienti dal rapporto conclusivo degli Stati Generali dell’esecuzione penale. "La dimensione esorbitante prescelta, per una capienza regolamentare di 1.200 detenuti che potranno realisticamente diventare 2.400 presenti essendo le celle progettate come singole spiega Alessio Scandurra, responsabile dell’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione, farebbe dell’Istituto nolano uno dei più capienti carceri in Italia e rischia di trasformare la Città Metropolitana di Napoli in un vero e proprio distretto del penitenziario, ad una prison valley all’italiana, in cui non sarà mai possibile attuare il delicato compito di reinserimento sociale che la Costituzione repubblicana attribuisce alla pena". Però non tutti sono completamente delusi. C’è ad esempio l’architetto Luca Zevi - è stato il coordinatore del tavolo dedicato all’edilizia penitenziaria degli Stati generali - che non boccia completamente il progetto. Non avrebbe voluto un maxi carcere visto che dagli Stati Generali era emerso il bisogno di piccoli istituti che possano contenere non più di 400 reclusi, ma sicuramente vede un passo in avanti. Anche il territorio sta reagendo bene. Geremia Biancardi, il sindaco di Nola, ha spiegato che non ci saranno problemi per la vita quotidiana dei cittadini e ha sottolineato che si tratta di un carcere sperimentale dove sconteranno la pena quei detenuti che dovranno essere prontamente reinseriti in società. Poi c’è Raffaele Soprano, presidente della Fondazione Gigli di Nola, che ha assicurato la disponibilità nel collaborare al recupero dei detenuti insegnando loro l’arte della cartapesta. Napoli: il nuovo carcere di Nola, tra burocrazia e declamazioni illusorie di Alessandro De Rossi* pensalibero.it, 30 maggio 2017 Non abbiamo ancora avuto esiti o resoconti di stampa riguardanti il dibattito che si è appena tenuto il 24 maggio al Convento di Santo Spirito a Nola sul tema "Spazio della pena, quale carcere per Nola". Certo è che si è riunita buona parte di coloro che in vario modo hanno avallato l’attuazione di questo mostro architettonico, portandone sulle spalle una qualche responsabilità. Il nuovo carcere di Nola rimarrà scolpito nella storia negativa dell’edilizia carceraria alla faccia di quanto declamato nei tanti buoni propositi, gli annunci, le passerelle dei sedicenti archistar, ove molto è stato detto e scritto negli Stati Generali dell’esecuzione penale, ma poco e male (dopo) è stato fatto. È più che evidente che le passerelle che sul territorio nolano sono fatte servono a gettare acqua sul fuoco a fronte delle tante critiche che da più parti vengono rivolte al progetto, ai progettisti e in ultimo all’apparato politico-burocratico che contraddice se stesso circa le decisioni assunte in merito ai buoni propositi destinati ad una nuova concezione della detenzione. In tal senso non valgono le giustificazioni burocratiche, né tantomeno alcune fantasiose descrizioni del progetto che non servono ad attenuare le responsabilità oggettive di un apparato che nel suo complesso ha sostenuto un progetto costoso, ingestibile e di troppo vecchia concezione. L’assenza del coordinamento sistemico tra le decisioni tecnico progettuali e la chiarezza di obiettivi sul significato dell’esecuzione penale in linea con gli Stati generali, insieme alla distanza di un pur vago indirizzo politico, hanno consentito l’attuazione della gara relativa al mega-mostro nolano. Un obbrobrio in primo luogo sociologico e poi economico/gestionale, destinato a una comunità di oltre 1.200 detenuti. Numero sicuramente destinato ad aumentare viste le "necessità" del sovraffollamento in continua crescita data la carenza di strutture adeguate, unita ai ritardi programmatici. Un intervento edilizio, che nonostante le migliori descrizioni che da parte degli autori responsabili del progetto sono state rese, non riesce ad ingannare alcuno circa le preoccupanti disattenzioni concernenti l’impostazione funzionale e formale prescelte nell’organizzazione progettuale. Viene il dubbio che l’elefantiaco apparato burocratico della funzione pubblica, per sua natura limiti la capacità di capire e risolvere i problemi, a causa della cronica mancanza di una cultura sistemica necessaria alla condivisione delle conoscenze tra i diversi settori, uffici e funzioni. Questo è il caso di un perverso modo di concepire e promuovere anche gli interventi più sbagliati facendosi scudo della cosiddetta competenza di settore, che dietro lo schermo della prassi politico/amministrativa assolve se stesso e qualsiasi operazione quando ben incastrati nel rigido mosaico burocratico. Da qui la conseguente "deresponsabilizzazione di individui e interi uffici, come sostengono Lippi e Morrisi nel loro "Scienza dell’Amministrazione" Il Mulino - Bologna 2005, dinnanzi alla soluzione di problemi che esulano dalla stretta definizione del compito, a causa della tendenza di ciascuna mansione o ufficio a svolgere i propri compiti ignorando la logica dell’azione collettiva e lo scopo dell’amministrazione". In tal senso spontaneo e sempre più forte viene il dubbio che l’apparato non intenda "risolvere" il problema in quanto a risoluzione avvenuta verrebbe meno la sua stessa finalità e ragione di esistere. Il progetto del carcere di Nola risolve purtroppo tale dubbio anteponendo la prassi burocratica e gli interessi connessi alla sua inamovibilità, con la copertura ideologica dei vari esperti di settore all’uopo chiamati a garanzia concettuale. *Lidu Onlus. Presidente Commissione Diritti della persona privata della Libertà Rovigo: il nuovo carcere-modello cade a pezzi di Angela Pederiva Il Gazzettino, 30 maggio 2017 La Casa circondariale ospita 125 detenuti, a fronte di soli 72 agenti. I sindacati di polizia: "Opera costata 50milioni e già fatiscente". Clemente Mastella sì che la sapeva lunga: "Speriamo di adoperarci in maniera che l’opera non resti un’incompiuta", disse il 23 luglio 2007 l’allora Guardasigilli, posando la prima pietra del nuovo carcere di Rovigo. Dieci anni dopo, quel sibillino augurio sembra essere diventato un’amara profezia, visto che il penitenziario inaugurato quindici mesi fa come modello per il Nordest continua a suscitare polemiche, fra guai costruttivi, carenze di personale, progetti inattuati. Sicché rischiano di finire archiviate alla voce "ottimismo" le parole di Andrea Orlando, tuttora ministro della Giustizia, al taglio del nastro del 29 febbraio 2016: "La struttura sarà in pieno funzionamento entro l’estate e per allora saranno risolti i problemi di organico". E invece... E invece ieri una rappresentanza della Uil-Pa ha incontrato il prefetto Enrico Caterino, per fare il punto della situazione dopo il sopralluogo di due settimane prima, quando la delegazione sindacale della polizia penitenziaria si era fra l’altro imbattuta in un intervento in diretta dei vigili del fuoco, impegnati a transennare l’area in cui si era verificato un crollo di otto metri di mattonelle dalla facciata esterna. "Da parte della prefettura abbiamo trovato grande sensibilità - riferisce il segretario provinciale Marco Gallo, in servizio nella stessa casa circondariale - ottenendo rassicurazioni sull’attivazione di un tavolo tecnico. Purtroppo però la lista degli inconvenienti è molto lunga: infiltrazioni di acqua, cedimento dei cancelli, automazione funzionante solo per metà, sala regìa del sistema di videosorveglianza calda come una fornace, mancanza di un camminamento esterno per consentire le ronde, erbacce selvagge. Per un’opera costata quasi 50 milioni di euro e aperta con cinque anni di ritardo, parliamo di una situazione decisamente inaccettabile". Ma le difficoltà riguardano anche i numeri di reclusi e agenti. "Attualmente sono presenti 125 detenuti - spiega Giampietro Pegoraro della Fp Cgil Penitenziari - a fronte di 72 operatori, quando invece ne servirebbero 80-90. Questa sotto dotazione si riflette sulle difficoltà nel gestire i soggetti affetti da disturbi psichiatrici e nel realizzare iniziative come inserimento lavorativo e laboratori vari. Ci preoccupano dunque gli annunci sulla volontà dell’amministrazione di colmare la capienza regolamentare di 213 carcerati: a quel punto sarebbero necessari 120-130 poliziotti, un numero impensabile". Il penitenziario di Rovigo era però stato costruito proprio per sopperire al sovraffollamento di quelli più vecchi. "Il principio è giusto - concede Gallo - e siamo i primi a pensare che non sia giusto lasciare semivuoto un penitenziario nuovo. Il fatto è che, seppur appena aperta, questa struttura evidenzia già diversi segnali di fatiscenza". Anche per questo l’8 giugno la Cgil promuoverà un sit-in davanti alla sede del Provveditorato triveneto del ministero della Giustizia. "Rovigo è un caso clamoroso perché è nuovo - conclude Pegoraro -ma intendiamo denunciare le situazioni drammatiche registrate anche nelle carceri più vecchie, come Padova, Verona, Belluno, Treviso, Venezia e Vicenza". Milano: Pagano "il carcere modello non esiste, a Bollate il progetto prosegue" di Roberta Rampini Il Giorno, 30 maggio 2017 Il provveditore Luigi Pagano dopo le aggressioni agli agenti di Polizia penitenziaria: "Rischio zero? Impossibile". Cinque aggressioni in pochi mesi: detenuti che picchiano agenti della polizia penitenziaria. A marzo una lite tra detenuti albanesi e maghrebini a suon di pezzi di legno e spranghe di ferro. Pochi giorni fa il ritrovamento di un coltello da cucina e tre chiavette usb nella cella di un detenuto marocchino. Per il Sappe, Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria, la seconda casa di reclusione di Milano-Bollate non è più il "modello" di carcere da tutti difeso. Luigi Pagano, provveditore regionale alle carceri, cosa ne pensa? "Io credo che ci sia un equivoco di fondo che va chiarito: il carcere di Bollate è sicuramente un buon istituto. A Bollate ci vanno i detenuti che hanno già iniziato un percorso rieducativo o che lì possono avvalersi di un trattamento avanzato. Ma il carcere modello, nel vero senso della parola, non esiste". Le aggressioni di questi mesi sono imputabili alle celle aperte e alla vigilanza dinamica? "Quando si parla di vigilanza dinamica non significa che i detenuti vengono lasciati soli e che possono fare quello che vogliono. Il concetto dinamico è in relazione al detenuto, inoltre in questo tipo di vigilanza non è impegnato solo il personale di polizia penitenziaria, ma sono coinvolti anche educatori, operatori e volontari. In base al comportamento del detenuto si decide se aumentare o abbassare la vigilanza nell’ottica di un concetto di responsabilizzazione". Cosa fare di fronte a questa escalation di aggressioni nei confronti degli agenti? "Nel caso del detenuto marocchino protagonista degli ultimi episodi di violenza, bisogna ricordare che è arrivato a Bollate un anno fa e che finora non aveva dato nessun tipo di problema. Ora dovrà rispondere all’autorità giudiziaria e nei suoi confronti sono già stati presi provvedimenti disciplinari. Se verrà valutato non idoneo per stare a Bollate sarà spostato". E negli altri casi? "Il rischio zero non esiste da nessuna parte. A Bollate abbiamo 1.200 detenuti, il numero di eventi critici, mi riferisco alle aggressioni, ai suicidi o alle evasioni, è molto più basso rispetto ad altre case di reclusione. Se confrontiamo questi con i progetti di reinserimento sociale e occupazione e tutte le altre attività che si svolgono a Bollate, credo che sia un rischio che si possa correre". Ma si può sempre migliorare? "Certamente e noi non sottovalutiamo nessuno di questi eventi. La soluzione è la prevenzione. Non si può pensare di tornare indietro, sarebbe sbagliato. Scontare la pena in una cella chiusa a chiave, senza dare un senso alla detenzione, non produce maggiore sicurezza sociale, né dentro né fuori dal carcere. Gli studi dimostrano il contrario: cioè che coloro i quali partecipano ad attività trattamentali o usufruiscono di misure alternative, terminata la pena delinquono 70 volte di meno rispetto a chi ha scontato la pena in stato detentivo. L’impegno di tutti è costante, ma non si potrà mai azzerare il rischio". Rossano Calabro (Rc): il carcere è un inferno, 212 detenuti per 206 posti di Anna Russo Gazzetta del Sud, 30 maggio 2017 Guantánamo d’Italia. Così viene definito il carcere di Rossano dal 2009, quando il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria lo scelse per la detenzione dei terroristi impegnati nella "guerra santa" islamica arrestati su tutto il territorio nazionale. Al Qaeda, Isis, e, poi, anche l’Eta. Sigle tristemente note che vengono citate quotidianamente nelle cronache giornalistiche per indicare quelle organizzazioni che seminano terrore e morte in giro per il mondo, ma che stanno alimentando anche il tarlo della paura, che divora lo spirito di accoglienza e condivisione tra le popolazioni, se non anche il semplice desiderio di visitare il mondo perché la "paura" di un attentato si fa sempre più strada tra le menti dei cittadini comuni. Da Rossano sono passati negli anni e sono attualmente detenuti esponenti di tutte queste sigle, compresi i componenti la cellula jihadista sgominata a Venezia lo scorso 30 marzo. Dopo che si era sparsa la voce tra i corridoi delle sezioni detentive dell’attentato di Parigi al Bataclan, gli agenti della polizia penitenziaria hanno raccontato di aver sentito quattro detenuti per terrorismo internazionale, ospitati nel settore riservato alla massima sicurezza, esultare al grido "Viva la Francia libera". Il carcere di Rossano è stato quindi indicato come "obiettivo sensibile", ma ad oggi non si sono registrate quelle integrazioni di organico invocate da più parti, in quanto per mantenere la sicurezza al giusto livello gli agenti sono sottoposti a turni estenuanti all’interno di una polveriera. Si moltiplicano, infatti, le aggressioni ai poliziotti. Sabato si è verificato il secondo episodio in appena dieci giorni. Un detenuto per terrorismo internazionali ne ha stesi cinque, prima di essere bloccato. I sindacati sono sul piede di guerra, temono che la situazione interna diventi sempre più ingestibile. Nello stabilimento di Rossano, al momento, sono presenti 212 detenuti a fronte di una capienza prevista di 206 posti. La maggior parte di loro, 121, rientra nella sezione dell’Alta Sicurezza, suddivisa nel settore As3 con 118 ospiti appartenenti alla criminalità organizzata e nel settore As2 che accoglie i 13 terroristi internazionali di matrice islamica. Gli altri 80, invece, rientrano nel settore della Media Sicurezza. Gli stranieri presenti sono 53 dei quali 19 nell’Alta Sicurezza (6 As3 e 13 As2) e 34 in Media Sicurezza. Per quanto concerne le posizioni giuridiche della popolazione detenuta 199 sono i detenuti che stanno scontando una pena definitiva, 118 per l’alta sicurezza della criminalità organizzata e 3 per quanto riguarda i detenuti per reati di terrorismo internazionale; 78, invece, per la media sicurezza. Tra i definitivi vi sono 27 ergastolani, 24 dei quali ostativi. Vi è anche un detenuto ammesso alla semilibertà e altri 4 sono quelli che lavorano all’esterno secondo quanto previsto dalla Legge Penitenziaria. 84 sono i detenuti che lavorano nell’Istituto alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria. Sul tema della carenza del personale della polizia penitenziaria il nodo riguarda la classificazione data al istituto di pena. In pratica per il Ministero della Giustizia, il carcere di Rossano è sistemato in " terza fascia" e di conseguenza la dotazione di 121 agenti appare congrua. Ma solo sulla carta. Due aggressioni ad agenti della polizia penitenziaria nel giro di dieci giorni. L’ultimo in ordine di tempo è quello che ha interessato cinque agenti nel pomeriggio di sabato scorso. Un detenuto del settore dell’alta sicurezza, in carcere per terrorismo islamico, ha scatenato la sua rabbia nel giorno in cui ha inizio il Ramadan, che consente ai detenuti di fede islamica di poter usufruire di un maggiore tempo a disposizione per pregare. Sassari: per i detenuti dell’Alta Sicurezza cure difficili nel carcere di Massama linkoristano.it, 30 maggio 2017 Visita del consigliere regionale Anedda e dell’ex consigliere Pisu. Colloquio con Doddore Meloni. Le condizioni di vita dei detenuti di alta sicurezza nel carcere di Massama, soprattutto di quelli che hanno necessità di cure e trattamenti sanitari, sono molto precarie sia per le carenze di organico dell’istituto, sia per la mancanza, negli ospedali di destinazione, di reparti "riservati". Lo ha dichiarato il consigliere regionale del gruppo Misto Fabrizio Anedda che, questa mattina, ha visitato il carcere oristanese insieme a Paolo Pisu, ex consigliere regionale e già presidente della Commissione diritti civili del Consiglio. Nel corso della visita i due esponenti politici, accompagnati dal direttore del carcere di Massama, Pierluigi Farci, hanno incontrato anche l’indipendentista Doddore Meloni nei locali dell’infermeria. "Abbiamo trovato il detenuto in condizioni psico-fisiche abbastanza preoccupanti", ha raccontato Anedda, "e per questo lo abbiamo invitato a farsi idratare per non mettere a repentaglio la propria vita e ad interrompere lo sciopero della fame". Meloni, ha continuato il consigliere Anedda, "ci è sembrato fermo nei suoi propositi di protesta ma anche aperto ad una riflessione; da parte nostra gli abbiamo manifestato solidarietà umana e politica, senza per questo voler entrare nel merito della vicenda giudiziaria che lo riguarda ma solo per prestare la dovuta attenzione ai diritti civili della persona". Roma: detenuto di 230 kg nel carcere a Regina Coeli "così morirò, fatemi uscire" di Morgan K. Barraco ilsussidiario.net, 30 maggio 2017 Un detenuto di Regina Coeli di 230 kg ha richiesto l’intervento del Garante per poter uscire dall’inattività forzata che lo costringe a rimanere rinchiuso nella sua cella. Condannato a morte, detenuto di 230 kg lancia un appello. Il Garante: "coercizione strutturale e psicologica" - Si sente un condannato a morte il detenuto in grave obesità, con un peso pari a 230 kg, che per via dell’invalidità del 100% che lo ha colpito è costretto a vivere in una sedia a rotelle all’interno della propria cella di Regina Coeli. La grande mole del carcerato impedisce infatti qualsiasi tipo di movimento, relegandolo in una detenzione forzata all’interno della stessa incarcerazione comminata dal Tribunale. La segnalazione, sottolinea l’Ansa, è giunta direttamente da Mauro Palma, il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale, che ha potuto incontrare il detenuto durante la sua ultima visita a Rebibbia. Nel colloquio con il Garante, il 45enne avrebbe lamentato l’impossibilità di svolgere qualsiasi tipo di inattività che, teme, possa aggravare le sue condizioni di salute o impedirgli di poter accedere alle cure salvavita in caso di necessità. Il detenuto soffre inoltre di attacchi di panico proprio per il timore di non poter essere salvato dai soccorsi della casa circondariale e per questo è stato già spostato da Rebibbia a Regina Coeli, dove tuttavia la situazione non sembra essere migliorata nemmeno in minima parte. "Sta scontando la pena in una situazione detentiva di coercizione strutturale e psicologica", ha sottolineato inoltre il Garante. In seguito alla segnalazione di quest’ultimo, il Dap ha valutato "incompatibile con la detenzione", le condizioni che sta vivendo il carcerato 45enne. Eboli (Sa): detenuti-contadini nei terreni agricoli confiscati ai clan di Giuseppe Pecorelli Il Mattino, 30 maggio 2017 Patto tra Diocesi, scuola e Confagricoltura Moretti: "Così mondi diversi si incontrano". "Trapetum" è il termine latino che, in italiano, si può tradurre con la parola torchio o frantoio per le olive. Ed è anche il nome di un progetto proposto da Arcidiocesi, Confagricoltura Salerno e l’Istituto a custodia attenuata per il trattamento delle tossicodipendenze e alcol dipendenze (Icatt) di Eboli finalizzato all’inserimento socio-professionale dei detenuti. Ieri mattina, al Liceo Sabatini-Menna di Salerno, le tre istituzioni hanno firmato un accordo per inserire, nel settore agricolo, un gruppo di carcerati che, per quanto sottoposti alla privazione della libertà personale, pur attenuata, hanno un basso indice di pericolosità sociale. Il protocollo d’intesa è stato sottoscritto da Rita Romano, direttrice dell’Icatt; Carmine Libretto, direttore di Confagricoltura Salerno; Antonio Memoli, direttore dell’Ufficio per i problemi sociali e del lavoro dell’arcidiocesi di Salerno-Campagna-Acerno. In sostanza, i detenuti selezionati cureranno un oliveto di circa duemila piante, che sorge a Battipaglia, su un terreno confiscato alla criminalità organizzata e assegnato dal Comune a Confagricoltura. Non sarà un progetto a breve termine. "Durerà almeno tre o quattro anni - spiega il direttore Libretto, che ribadisce il ruolo sociale di Confagricoltura - dobbiamo mettere a frutto gli alberi impiantati nel terreno e ci vorranno almeno due anni per cominciare a vedere i primi risultati". "Il nostro desiderio - afferma invece l’ideatore del progetto, Antonio Memoli - è quello di coinvolgere non solo una parte dei cinquanta detenuti dell’Icatt, ma tutti, magari a rotazione. Ognuno avrà un ruolo: alcuni lavoreranno nei campi, altri si occuperanno del confezionamento dei prodotti, altri ancora della realizzazione delle ceramiche, grazie alla collaborazione del maestro Benvenuto Apicella. Siamo aperti anche ad accogliere altri sostegni attraverso una raccolta fondi. Chi vuole può contattarci all’email trapetum.salerno@gmail.com". L’arcivescovo Luigi Moretti, presente alla firma dell’accordo, elogia due aspetti dell’iniziativa, che da una parte è il risultato di una collaborazione e, dall’altro, ha anche un’importante funzione educativa. "Io ritengo ‘ afferma a una platea fatta soprattutto di studenti del liceo ‘ che questo progetto, per cui ringrazio chi lo ha voluto, serva a far sì che mondi diversi s’incontrino, si conoscano e si cerchi insieme di andare incontro ad esigenze e bisogni. Il fatto di aver coinvolto anche la scuola è molto importante: significa educare i giovani, i quali talvolta sembra che per alcuni non esistano, alla sensibilità, all’interesse per gli altri, e serve a far conoscere meglio questo mondo". Il riferimento del presule è al coinvolgimento attivo dei ragazzi del Sabatini-Menna: sotto la guida della professoressa Lucia Raiola, tutta la classe 5L e in particolare Carmen De Luca, Claudio Crescenzo, Claudia Patrone e Alessandra Rossi, hanno curato il lancio pubblicitario dell’iniziativa scrivendo testi, realizzando il progetto grafico e cercando canali di diffusione. Una vera e propria operazione di marketing da esperti del settore. "È un progetto di alternanza scuola-lavoro, un percorso di tipo sociale - chiarisce Ester Andreola, dirigente scolastico del Liceo artistico Sabatini-Menna - perché integriamo le competenze grafiche con la conoscenza della realtà che ci circonda. Gli studenti sono riusciti a realizzare un progetto grafico nella consapevolezza della realtà dura delle carceri. I lavori sono stati fantastici". Napoli: "togliete i figli ai boss, solo così si può battere la camorra" di Fabio Postiglione Corriere del Mezzogiorno, 30 maggio 2017 "Nessuno salverà Forcella e i vicoli di Napoli. Allo Stato non interessa ripulire quella parte di città. Ai miei nipoti, ai miei cugini e a tutti i ragazzi della cosiddetta paranza dei bambini dico che devono salvarsi da soli e che se vogliono veramente un futuro diverso da quello che hanno deciso di vivere, tutto è possibile". Ha un tribale tatuato sulla tempia e l’immagine della faccia di suo padre sul braccio destro. E poi gli occhi neri, scavati e i tratti inconfondibili dei Giuliano di Forcella, tutti uguali, tutti con la stessa fisionomia e i nomi che si ripetono da tre generazioni di padre in figlio. Quasi come in "Cent’anni di solitudine" con i Buendia. Per anni quando pronunciava il suo cognome tremavano tutti, "poi ho capito che per essere nel giusto e cambiare strada non avrei dovuto fare il Giuliano, così come mi diceva sempre mio padre". Lui è Luigi Giuliano, 45 anni, figlio di Nunzio, assassinato nel 2005 in via Tasso da due killer in moto, solo per vendetta. Si era dissociato dai fratelli camorristi ben prima della loro clamorosa decisione di pentirsi, e aveva iniziato una personale "crociata" contro la droga, in particolare l’eroina che aveva distrutto la vita di un altro suo figlio che morì di overdose in una casa di Forcella. "Mio padre - racconta Luigi - aveva incontri con i ragazzi, parlava di libertà e di speranza. Nel suo ultimo incontro con gli studenti del liceo Mercalli disse che bisognava fermare i boss altrimenti i loro figli da grandi avrebbero fatto delle stragi. Aveva ragione: se fosse stato tutelato dallo Stato, se fosse stato ascoltato non solo sarebbe ancora in vita, ma soprattutto si sarebbero evitati tanti omicidi. Annalisa Durante (la ragazzina uccisa in una sparatoria a Forcella nel 2004, ndr) non sarebbe morta e con lei almeno altre cento persone". Luigi per anni è stato un capo, uno dei rampolli del gruppo camorristico che dopo trent’anni, immune a pentimenti eccellenti, arresti e controlli asfissianti del territorio, ancora detta legge a Forcella e organizza "stese" e agguati contro i Mazzarella, poi contro i Sibillo poi di nuovo contro i Mazzarella in una spirale di odio che tende all’infinito. "Li ho visti negli occhi uno ad uno quei ragazzi, quando entri nel mondo della violenza sin da piccolo anche la faccia ti cambia. Non riesci a sorridere, stai sempre arrabbiato". Poi Luigi, da un giorno all’altro, ha deciso di ripartire da zero, provando gradino dopo gradino a risalire dall’inferno di morte e distruzione nel quale era piombato: "Ma la strada è lunga, la crescita interiore è tortuosa". Parla per citazioni, pensa molto prima di rispondere alle domande e poi si scusa se non sa esprimersi perfettamente in italiano "questo vuol dire non studiare, spero di essermi fatto capire e che il mio sia un messaggio positivo per tutti". Però anche se lui ce l’ha fatta "facendo il facchino tutti i giorni dalle 5 del mattino nel gelo del nord Italia" crede che i giovani della città "abbandonata", quelli del suo quartiere, non hanno molte speranze fino a quando "lo Stato non deciderà di cancellare per sempre il fenomeno dello spaccio di sostanze stupefacenti". "Fino a quando si continuerà a spacciare droga tra i vicoli - dice - nessuno mai si salverà". Ricorda come se fosse ieri e sa per certo che il sistema non è affatto cambiato negli anni che: "A Forcella spacciano padri e madri. Trasmettono questi valori ai loro figli che non possono far altro che crescere delinquenti, nell’odio e nella paura. Quando ci sono questi presupposti bisogna togliere i figli alle famiglie. Solo così possono salvarsi. I bambini - dice Luigi Giuliano - nascono puri, anche i ragazzini lo sono, poi vengono infettati dalle abitudini sbagliate dei loro genitori. I figli dei camorristi quasi sempre diventano camorristi". Racconta della fortuna di aver avuto un padre come il suo che lo ha salvato "dalla galera a vita o dalla morte", che sono le due uniche alternative per chi decide di stare dalla parte della camorra. Quando Nunzio Giuliano fu arrestato nel 2000, suo figlio Luigi perse ogni riferimento e nonostante il padre gli dicesse mattina e sera di non andare a Forcella lui non diede ascolto. "Seguii le orme di violenza dei miei zii Luigi, Guglielmo e Raffaele che in quegli anni comandavano Napoli, facevo uso di droga e quando avevo voglia di accoltellare qualcuno, magari perché mi era antipatico, o di sparargli perché non mi salutava, io lo facevo", ricorda. Esattamente come oggi quando gruppi di ragazzini fanno fuoco tra la folla di piazza Sanità o al centro storico. "L’arroganza, la prepotenza, la voglia di fare soldi a tutti i costi fanno imbracciare fucili e pistole. Ma a tutti loro vorrei dire che così facendo non riusciranno mai a vedere la luce". Poi lo Stato, le sue assenze, le colpe, gli alibi. "Non è vero che non si può riuscire a dare un futuro diverso al quartiere. Quello che serve è intervenire con progetti". Luigi Giuliano jr ritiene impossibile parlare di rinascita se non si ha la forza "di colmare i vuoti di potere che gli arresti generano all’interno dei quartieri. Se catturano tutti i Giuliano quello spazio oggi viene riempito dai Mazzarella e viceversa. Invece le istituzioni devono creare opportunità: scuole, biblioteche, circoli ricreativi, cinema, bar". La mancanza di valori ha come unico effetto "la nascita di un uomo feroce. Chi vuole uscirne e salvarsi deve cercare la sua strada da solo. Basta alibi". Per lo Stato. Per i camorristi. Strada già intrapresa dai magistrati Quella di togliere i figli ai genitori camorristi o spacciatori è una strada che la Procura di Napoli, di concerto con la Procura e il Tribunale minorili, ha cominciato a percorrere poco più di un anno fa. Era l’aprile del 2016 quando due bambini, all’epoca di due anni e dieci mesi, furono prelevati dai carabinieri di Secondigliano a casa di un giovane boss della Vanella Grassi e condotti in istituto: la madre, con la quale vivevano (il padre era all’epoca latitante), era stata giudicata "inidonea" ad occuparsi di loro. I magistrati (in particolare i pm Vincenza Marra e Maurizio De Marco della Dda) ritenevano che i bambini fossero in pericolo. Il padre, infatti, era latitante, ma lo zio paterno era un collaboratore di giustizia: di conseguenza i piccoli erano esposti ai rischi di vendette trasversali. Per tutta risposta, il giorno dopo, il padre (che di lì a qualche mese sarebbe stato arrestato) ordinò l’attacco alla caserma dei carabinieri di Secondigliano a colpi di mitragliatore: una vendetta che avrebbe potuto avere conseguenze terribili. I bambini furono "restituiti" alla madre quando la donna accettò di lasciare Napoli e trasferirsi nella località protetta nella quale già viveva il cognato pentito. Più di recente altri sei bambini di età compresa tra i tre e i 15 anni sono stati allontanati dalle famiglie e accompagnati in case famiglia del Nord perché non frequentavano la scuola, trascorrevano la notte a giocare a pallone in strada e in taluni casi spacciavano droga. La circostanza era emersa nei giorni precedenti, quando i carabinieri avevano arrestato numerosi esponenti del clan Elia nella zona del pallonetto di Santa Lucia: dalle intercettazioni era venuto fuori, tra l’altro, che una bimba di sette anni confezionava palline di cocaina in cucina, mentre un ragazzino di 13 consegnava le dosi ai clienti della madre. Sollecitati dall’allora procuratore Giovanni Colangelo e dal pm Michele Del Prete (ora alla Dna), i magistrati del Tribunale minorile sospesero la potestà dei genitori, allontanando i ragazzini. Monza: "Seminiamo il futuro", inaugurato l’Orto Biologico coltivato dai detenuti monzatoday.it, 30 maggio 2017 Un orto biologico dove far fiorire piante e frutti e nutrire le speranze per il futuro. Grazie a uno splendido progetto sabato è stato inaugurato all’interno della Casa Circondariale di Monza un Orto Biologico. Il progetto, ideato e sostenuto dall’Associazione Una Monza Per Tutti, presieduta da Anna Martinetti, è stato possibile grazie alla collaborazione delle istituzioni (Ministero della Giustizia) e della Direzione del carcere che ha dato la possibilità ai detenuti di impegnarsi nell’attività. L’iniziativa ha l’obiettivo di aiutare persone che hanno commesso reati e che stanno scontando una pena di reinserirsi nella società acquisendo nuove competenze. "Quello di cui tutti noi dello Staff siamo convinti è l’importanza di questo lavoro" ha spiegato Anna Martinetti all’avvio del progetto. "Lavorare la terra e raccogliere i frutti della propria fatica recupera l’autostima e allontana la mente dai soliti pensieri negativi, migliora la socializzazione perché si condividono le competenze e rafforza il desiderio di imparare nozioni e magari un mestiere e dà la speranza di poterlo utilizzare all’esterno. La finalità caritatevole offre una motivazione ancora più forte" sintetizza la promotrice, preside, ex appassionata professoressa di Scienze, che aveva già avviato un progetto di "orto-cultura" in carcere quando a Monza c’era ancora una sezione femminile. Dopo l’allontanamento delle detenute, c’è chi ha continuato a seminare le idee e a far rifiorire il progetto, coinvolgendo i detenuti. Oltre a essere un prezioso strumento di riscatto e reinserimento per i detenuti, l’Orto Biologico ha anche una finalità benefica perché, spiega Anna Martinetti, "i prodotti saranno consegnati al Banco Alimentare che li donerà alle famiglie monzesi bisognose". Firenze: al via il progetto ludico motorio della Uisp per i detenuti di Sollicciano gonews.it, 30 maggio 2017 Il progetto ludico-motorio del Comitato territoriale di Firenze della Uisp - area nuovi stili di vita sarà promosso direttamente dalla Regione quale progetto di interesse regionale. L’accordo è stato firmato per via telematica dall’assessore a sport, sociale e diritto alla salute Stefania Saccardi e dal presidente Uisp Firenze Marco Ceccantini. Il contributo regionale assomma a 10.000 euro. Il progetto, che integra le attività in corso della Sezione Giudiziaria, punta tra l’altro a rafforzare abilità di base, autonomia e autostima dei detenuti e a realizzare iniziative per mettere in contatto con l’ambiente esterno la realtà carceraria e creare un rapporto solidale tra società e detenuti, oltre a sviluppare un modello di intervento replicabile. Dove possibile si cercherà di far partecipare cittadini, scuole, gruppi sportivi e associazioni del territorio. "Un progetto importante della Uisp che abbiamo deciso di fare nostro - afferma l’assessore Saccardi. Praticare attività sportiva costituisce un valido strumento per guidare i detenuti verso valori positivi e alleviare anche i problemi di salute legati a lunghi periodi in carcere, oltre ad essere un modo per consolidare una rete solidale tra tutti i soggetti interni al mondo carcerario, dai detenuti alla polizia penitenziaria a operatori e volontari. Del resto la Uisp ha una consolidata esperienza a livello nazionale per questo tipo di interventi socio-sportivi nelle strutture carcerarie che ci sembra utile e opportuno replicare, anche per costruire gruppi coesi di detenuti impegnati in percorsi sportivi e culturali compatibili con la loro condizione". Tra le attività previste - due ore al giorno da lunedì a venerdì fino a dicembre 2017 - ci sono palestra (bodybuilding e ginnastica a corpo libero), sport di squadra (basket, calcio e pallavolo), tornei di ping-pong e calciobalilla, tornei di scacchi, dama e altri giochi da tavolo, formazioni per arbitri di calcio e per allenatrici di pallavolo, prove di capoeira, thai chi e altre discipline orientali, gare podistiche e miniolimpiadi. "I risultati saranno tanto più significativi - questo il commento di Ceccantini - quanto più il progetto riuscirà a estendere l’interesse tra i detenuti e quanto più loro riusciranno a vivere l’esperienza come reale contatto con la società esterna, e come stimolo a elaborare un processo di reintegrazione". Padova: "Pallalpiede" calcio, il progetto andrà avanti? Il Mattino di Padova, 30 maggio 2017 Alla squadra del Due Palazzi servono finanziamenti per continuare a giocare in Terza Categoria. È tempo di bilanci anche in casa Pallalpiede, la squadra composta esclusivamente da detenuti del carcere Due Palazzi, che la settimana scorsa ha concluso la propria stagione. Una chiusura in bellezza, con la disputa del secondo "Trofeo Pallalpiede", durante il quale i ragazzi allenati da Fernando Badon si sono potuti misurare contro gli Juniores della Sacra Famiglia e la Berretti del Padova. Giusto per dovere di cronaca, il torneo se l’è aggiudicato la formazione biancoscudata grazie ai gol di Cisco, passato in poche settimane dal debutto in Lega Pro all’abbraccio con i detenuti. Il regalo più bello, inoltre, è stato fatto dalla società di viale Rocco, che ha consegnato alla Polisportiva Pallalpiede due reti di palloni, da utilizzare nel prossimo campionato di Terza Categoria. Sì, perché il progetto non si ferma, nonostante tante difficoltà, soprattutto a livello economico. "La preparazione della prossima stagione si sta rivelando un po’ più complicata delle altre", la preoccupazione del direttore sportivo e co-fondatore della società, Lara Mottarlini. "Noi facciamo molto affidamento sui fondi regionali, quest’anno però il bando è in ritardo e non sappiamo ancora su quante risorse potremmo contare. Disputare un campionato federale è oneroso per noi, come per tutte le altre squadre. Per questo siamo sempre alla ricerca di sponsor e finanziatori che possano contribuire a portare avanti un progetto che ci ha regalato grandissime soddisfazioni". L’obiettivo principale è stato centrato in tutt’e tre le stagioni, visto che la Pallapiede ha sempre vinto la Coppa Disciplina come squadra più corretta della Terza Categoria. Ma gli aspetti positivi non si fermano qui: "Il progetto è servito ai detenuti per aver maggior cura di se stessi e del proprio corpo. Inoltre ha favorito tantissimo l’integrazione etnica. Quando abbiamo iniziato, il gruppo magrebino e quello balcanico si allenavano quasi in modo separato. Adesso si sentono entrambi parte di una stessa squadra. Per noi è una grande vittoria. In attesa di coronare il sogno, che resta quello di disputare, come tutte le altre formazioni, le partite in trasferta fuori dal carcere". Radio Carcere. "Liberante! Quando un detenuto esce dal carcere e si trova sbattuto in strada" Ristretti Orizzonti, 30 maggio 2017 La registrazione dell’ultima puntata della trasmissione condotta da Riccardo Arena su Radio Radicale. "Liberante! Ovvero quando un detenuto esce dal carcere e si trova sbattuto per strada senza un domani. La storia di Federico, una delle tante. A seguire le lettere scritte dalle persone detenute". Link: http://www.radioradicale.it/scheda/510052/radio-carcere-liberante-ovvero-quando-un-detenuto-esce-dal-carcere-e-si-trova-sbattuto Libri. "Guai ai poveri", di Elisabetta Grande. Homeless, la faccia triste dell’America di Sandro Mezzadra Il Manifesto, 30 maggio 2017 "Guai ai poveri", un saggio della giurista Elisabetta Grande per il gruppo Abele. La povertà ha assunto negli ultimi anni negli Stati Uniti dimensioni e caratteristiche per molti versi inedite. La figura del senza tetto, dell’homeless, le riassume nel modo più efficace, per quel che riguarda la sua crescita esponenziale, certo, ma anche per il tipo di visibilità che ha assunto in molte metropoli e per le relazioni che intrattiene con le istituzioni - a partire da quelle repressive sempre più presenti nella sua quotidianità. Quello degli homeless è ormai "un popolo nel popolo", scrive Elisabetta Grande nel suo Guai ai poveri. La faccia triste dell’America (edizioni Gruppo Abele, pp. 172, euro 14): non solo perché ha effettivamente assunto la consistenza quantitativa di un "popolo", ma anche nel senso che un insieme di dispositivi politici, giuridici e culturali - sapientemente orchestrati quantomeno a partire dalla prima presidenza di Ronald Reagan - ha finito per separare la figura inquietante e minacciosa del povero estremo dall’insieme della popolazione statunitense, scardinando le basi di quell’empatia che aveva pur caratterizzato altre fasi storiche, come il New Deal (nonostante la persistente discriminazione nei confronti degli afroamericani) e gli anni della "guerra alla povertà" di Lyndon Johnson. L’homeless è del resto figura sintomatica della vera e propria esplosione della povertà negli Stati Uniti contemporanei (legata a doppio filo, non è certo inutile ricordarlo, all’accumulazione di ricchezza). L’"identikit" degli homeless, del resto, è drasticamente mutato, come è facile capire se si tiene presente che quasi il 50% ha un diploma di istruzione e che "un consistente numero di homeless, contato intorno al 30 per cento (e in alcuni luoghi a più del 40%) lavora a tempo pieno o parziale". Grande ricostruisce in modo incisivo le diverse dimensioni su cui l’esplosione della povertà si articola, analizzando in pagine di grande chiarezza il progressivo smantellamento del Welfare statunitense (a cui ha dato un contributo fondamentale Bill Clinton negli anni Novanta) e soffermandosi ad esempio sulle politiche della casa e del lavoro. Raffinata giurista, l’autrice insiste sul ruolo del diritto nella produzione di una povertà che nulla ha di "naturale", ma è piuttosto "frutto delle scelte politiche e dell’intreccio fra mercato e diritto, laddove il primo non potrebbe mai funzionare senza il secondo". Questo vale in primo luogo per le nuove architetture giuridiche internazionali, che hanno favorito una globalizzazione dalle caratteristiche "estrattive" nei confronti dei "lavoratori più deboli" (cosa non inevitabile, visto che Grande considera la possibilità di una globalizzazione di carattere "generativo", ovvero capace di porre le basi per nuove politiche redistributive ed egualitarie). Ma vale anche, e soprattutto per quel che riguarda l’analisi svolta nel libro, per le politiche del diritto e per la giurisprudenza interne agli Stati Uniti, che nel momento stesso in cui hanno favorito lo "tsunami globalizzazione", gli interessi delle corporation e il dominio incontrastato del mercato non hanno predisposto alcun tipo di "argine" a protezione dei poveri. Hanno anzi sistematicamente disattivato, come già si è detto, gli argini sedimentati da una lunga storia di lotte e politiche sociali, trasformando progressivamente la "guerra alla povertà" in una sistematica "guerra ai poveri". La seconda parte del libro di Grande è dedicata interamente all’analisi di questa "guerra ai poveri" - nonché delle nuove frontiere delle politiche del diritto nei confronti della povertà che attraverso lo strumento della partnership tra privato e pubblico trasformano la povertà in occasione per i più ricchi "di arricchirsi ancora di più" predisponendo interventi (ad esempio strutture di "accoglienza") che prescindono completamente dal consenso dei poveri. Non mancano in questa parte del libro, così come in altre, risonanze con la situazione europea e italiana in particolare. Basti pensare all’"accoglienza" di profughi e migranti, ma anche ai sistematici provvedimenti delle istituzioni cittadine statunitensi per proibire di "dar da mangiare ai senzatetto" (ripresi come è noto in un’ordinanza del comune di Ventimiglia sui migranti, solo da poco ritirata). Più in generale, i tratti feroci e grotteschi della "guerra ai poveri" negli Stati Uniti sembrano rinviare - e Grande lo sottolinea esplicitamente - alla "legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio" che alle origini della modernità, secondo la celebre analisi della "cosiddetta accumulazione originaria", accompagnò la transizione al capitalismo in Europa. È un riferimento prezioso: se del resto è vero che il capitalismo, in questa sua fase "matura" e finanziarizzata, pare riproporre alcuni tratti che ne avevano caratterizzato le origini, decisamente mutate sono le funzioni della "guerra ai poveri". Lungi dal rinviare a un lineare - ancorché violento - processo di proletarizzazione e avviamento al lavoro salariato, la produzione di povertà in un paese come gli Stati Uniti riguarda una componente costitutiva del "lavoro vivo" contemporaneo. E la povertà estrema, marchiata a fuoco da un insieme di stigmi e di misure punitive, pare funzionare come una sorta di limite della composizione di questo lavoro - nonché come una concreta minaccia che si rivolge all’insieme delle sue figure. Allarme dei Garanti: "Sempre più bambini non vanno a scuola e vivono in povertà" di Nadia Ferrigo, Carola Frediani, Giacomo Galeazzi La Stampa, 30 maggio 2017 L’Italia ha livelli di povertà superiori alla media europea: un minore su tre è a rischio. Non è un paese per bambini. In Italia le principali minacce per l’infanzia sono la povertà nel Mezzogiorno e i conflitti tra genitori separati che si accusano a vicenda di abusi al centro-nord, dove però anche il disagio economico pesa in maniera crescente. Dai Garanti regionali per l’infanzia a quello nazionale Filomena Albano, dai tribunali per i minori alla Direzione per l’inclusione del ministero del Welfare, arriva l’allarme sulle condizioni di vita dei bambini italiani. Un elenco di emergenze, a cominciare dai minori senza fissa dimora che non sono censiti tra i 50mila homeless perché non frequentano dormitori e mense, ma sono segnalati in accampamenti, sotto i ponti e nelle macchine. Casi limite che non entrano in nessuna statistica. E ancora, abbandono scolastico record, mancanza di reparti di terapia intensiva pediatrica in Calabria e 170 bimbi costretti a vivere tra i rifiuti e senza fogne nel quartiere ghetto Ciambra di Gioia Tauro, 200 incesti all’anno in Campania, case famiglia non censite nel Lazio. A ciò si aggiunge la zona grigia del disagio che non finisce sulle carte bollate dei giudici e dei servizi sociali. Per ricostruire il quadro generale La Stampa ha incontrato i garanti costituiti in 16 regioni. Anche se l’Autorità è stata istituita nel 2011 per promuovere le misure previste dalla convenzione di New York sui diritti dell’infanzia, mancano ancora all’appello Abruzzo, Sardegna e Valle d’Aosta. In Toscana e Sicilia invece esiste già un ufficio, ma senza titolare. Il 13 giugno la relazione nazionale sui 10milioni di minori approderà in Parlamento. Tante emergenze locali si compongono in un preoccupante scenario generale, mentre il governo lavora a una banca dati unificata sull’infanzia. L’Italia ha livelli di povertà minorili superiori alla media europea: un minore su tre (32,1%) è a rischio di povertà ed esclusione sociale in Italia, 4 punti e mezzo sopra la media europea (27,7%), rileva Save the Children. In Olanda e Germania il rischio è sotto la soglia del 20%. Soprattutto al Sud è altissimo il sommerso. "Nel Mezzogiorno solo una piccola parte delle condizioni di difficoltà affiora, resta una cappa di silenzio che scoraggia qualsiasi denuncia, mentre c’è una carenza spaventosa di assistenti sociali negli enti locali nella giustizia minorile", spiega Antonio Marziale, garante dell’infanzia della Regione Calabria. E nonostante la gravità della situazione, l’Italia è il Paese in Europa dove si allontanano meno bambini dalle famiglie d’origine. "Siamo un Paese che individua in ritardo le situazioni problematiche e che sconta un grave ritardo nelle mappatura dei fenomeni sociali", evidenzia Sandra Zampa, vicepresidente della Commissione parlamentare per l’infanzia. Per legge, aggiunge, "gli allontanamenti devono essere temporanei", ma solo un bambino su tre poi torna a casa sua perché i tempi dell’affido a comunità o altri nuclei sono troppo lunghi e spesso i servizi sociali non riescono a ricostituire la relazione fiduciaria con le famiglie d’origine. La quota di spesa per il Welfare che l’Italia destina all’infanzia è la metà della media europea (4,1% rispetto all’8,5%). "Alle scarse risorse e all’impossibilità di avere dati certi sulle situazioni di fragilità sociali si aggiunge la scarsa sinergia tra i soggetti coinvolti", dice Mirella Gallinaro, garante per l’infanzia in Veneto. Nelle separazioni "i tempi della giustizia sono incompatibili con i bisogni dei minori". Tra gli aspetti più delicati del lavoro dei garanti c’è anche la formazione dei tutori. Scarseggiano nelle facoltà di giurisprudenza corsi dedicati al diritto minorile. "Le dinamiche familiari sono in continua evoluzione - commenta Clede Maria Garavini, psicologa e pedagogista, garante in Emilia Romagna -. Assistiamo a episodi di bullismo che hanno per protagonisti bambini di dieci anni, la violenza si è sposata anche sul web: serve maggiore consapevolezza degli adulti di riferimento". Al Sud centinaia di minori in auto e sotto i ponti, al Nord in aumento i conflitti tra i genitori Più che Ombudsman, i garanti per l’Infanzia sono un avamposto nelle situazioni di emergenza. Soprattutto nel centro-sud devono misurarsi ogni giorno con le situazioni più drammatiche. "Al Parco Verde di Caivano allestiamo un centro polifunzionale in una periferia priva di tutto", racconta Cesare Romano che con un budget di 30mila euro deve occuparsi dei primati negativi della Campania: baby gang, gioco d’azzardo minorile, obesità infantile, evasione scolastica. "Ci siamo accorti che gli insegnanti hanno paura di segnalare ai servizi sociali le situazioni a rischio e così abbiamo creato un sistema di segnalazioni riservate al garante", spiega Romano che dall’indagine sugli incesti ha scoperto 200 casi all’anno ("ma sono 4 volte di più"). Tra il rione Madonnelle di Acerra e le piazze di spaccio di Scampia e Chiaiano, a cercare di sottrarre i minori al disagio si rischia la vita. "Nel Mezzogiorno, mezzo milione di minorenni vive sotto la soglia di povertà: uno su quattro non ha soldi sufficienti per alimentarsi e vestirsi in maniera adeguata - osserva Romano. Il dilagare del cibo spazzatura a bassissimo costo è un’allerta sanitaria". Lo sa bene anche Antonio Marziale, garante della Calabria. I vigili urbani gli riferiscono i dati sui bambini che non vanno a scuola. "Siamo la regione più malconcia: zero infrastrutture e sanità al collasso, qui già nascere è un problema, gli ospedali sono pochi e difficili da raggiungere", precisa. "Soffriamo una carenza spaventosa di assistenti sociali nei comuni e nella giustizia minorile e la metà dei fondi a nostra disposizione li spendiamo per formare medici e infermieri", aggiunge. Battaglie quotidiane come il reparto di terapia intensiva pediatrica da aprire a Cosenza o l’assicurazione del pulmino scolastico per i bambini del "ghetto più indecente d’Italia". Nel quartiere Ciambra di Gioia Tauro "170 minorenni abitano tra tonnellate di rifiuti in case a rischio crollo, senza scarico fognario e illuminazione pubblica. In comuni commissariati per mafia, chi denuncia il disagio minorile subisce la lettera scarlatta del "ladro di bambini". Il sommerso è colossale. Allontanare un bimbo da una "famiglia disfunzionale" e darlo in affido espone all’accusa di "sequestro di Stato" e spesso a ritorsioni violente. In Basilica Vincenzo Giuliano monitora una popolazione di 92mila minori. In ballo ci sono questioni delicate come il rapporto tra capienza e iscritti negli asili nido, i costi delle rette per le famiglie. Da qui una rete di progetti per il contrasto della povertà educativa minorile: 3 milioni e mezzi di bandi per l’infanzia e l’adolescenza nel 2016. Nel suo ufficio alla Regione Lazio il garante Jacopo Marzetti incontra senza sosta famiglie in difficoltà. "Abbiamo una settantina di casi in cui i genitori separati usano i figli come un arma- evidenzia. Abbiamo avviato un’indagine per sapere quante sono le case famiglia". Nelle Marche sono in corso iniziative contro il cyber bullismo e in Umbria è stato istituito (con enti locali, psicologi, assistenti sociali) un Osservatorio sull’affido per scongiurare "dicotomie disastrose", dice la garante Maria Pia Serlupini. Siamo in prima linea ma senza poteri effettivi. Ci occupiamo un po’ di tutto pur non avendo risorse", sintetizza Massimo Pagani, dal 2015 garante per l’infanzia della Regione Lombardia. Ma nel centinaio di segnalazioni che arrivano ogni anno al suo ufficio, il tema dominante, come in buona parte del centro-nord, è la conflittualità genitoriale. Liti che si ripercuotono sui figli. E poi "problemi tra i genitori e i servizi territoriali". Col rischio di eccedere negli allontanamenti dei figli, invece di aiutare i genitori in difficoltà. È quanto sembra emergere in Liguria. "Abbiamo la percentuale più alta di affidi in tutta Italia, 316 solo su Genova. E la maggior parte ha come causa l’inadeguatezza genitoriale. Che però resta un dato discrezionale", commenta Dario Arkel, il funzionario a supporto del tutore ligure, al quale arrivano un centinaio di segnalazioni all’anno. La conflittualità fra genitori è l’emergenza più importante, assieme ai minori stranieri non accompagnati, anche per Rita Turino, garante del Piemonte. "Bisognerebbe avviare percorsi sperimentali per insegnare alle coppie a separarsi e per sostenere i genitori in crisi", commenta. In Emilia-Romagna, dove nel 2016 sono arrivate 137 segnalazioni, il 57 % è stata presentata dai genitori. I problemi? Al primo posto ci sono ancora i temi socio-assistenziali, seguiti da difficoltà scolastiche e sanitarie. "Situazioni di grande conflittualità aggravate dalla crisi economica", spiega Clede Maria Garavini, psicologa e pedagogista. Spesso i garanti si trovano a fare ora da ultima spiaggia. "Oltre alle poche risorse a disposizione, dobbiamo affrontare la mancanza di dati statistici su cui programmare le attività", spiega Mirella Gallinaro. garante in Veneto. Storia a sé sono le province autonome di Trento, dove il ruolo è affidato al difensore civico dal 2009, e di Bolzano. Negli ultimi otto anni la "Kija" ha pubblicato una relazione annuale che tiene conto di tutte le attività: lo scorso anno l’ufficio ha gestito 551 pratiche tra pareri, ricerche legali, rapporti, perizie e verbali. A queste consulenze si aggiungono 793 colloqui telefonici, 125 incontri di consulenza e poi richieste via mail, WhatsApp e anche Facebook. "Non sempre gli adulti coinvolti nella vicenda conoscono o riconoscono il bene del minore. - spiega Maria Ladstätter, garante per l’infanzia e l’adolescenza dell’Alto Adige -. Ecco perché vogliamo aiutare i minori in difficoltà a contattarci direttamente: il nostro obiettivo sarà raggiunto quando non ci sarà più bisogno di noi. Oggi il 10%delle richieste arrivano direttamente dai ragazzi, ma in Trentino, dove l’istituto opera da più tempo, superano il 50%". E, aggiunge Ladstätter, "gran parte della nostra attività si svolge tra consulenza e mediazione, ho la possibilità di accedere a tutti gli atti della pubblica amministrazione, posso intervenire come mediatrice anche nel corso di giudizio pendente. Situazioni così complicate da richiedere una soluzione condivisa. È mio potere convocare le parti: e davanti alle istituzioni noi rappresentiamo gli interessi degli adolescenti". Il Parlamento russo proibisce le "chat della morte": dove nasce il caso della "Blue Whale" di Anna Zafesova La Stampa, 30 maggio 2017 I fatti della vicenda rimangono poco chiari ma la Duma ha deciso di intervenire: ripercorriamo la strana storia che intreccia viralità e controllo della rete. In Russia da venerdì scorso creare le "chat della morte" è reato. Il fenomeno delle "balene blu", i "siniy kit", o Blue Whale come viene definito nel resto del mondo, ha attirato l’attenzione di legislatori, magistrati e docenti, e ora la creazione di gruppi in Rete che propagandano il suicidio tra i ragazzi può essere punito con 3-6 anni di reclusione, anche in assenza di un tentativo di togliersi la vita, e fino a 8 anni se esiste una vittima. I giornali russi intanto riportano notizie della diffusione del gioco in tutto il mondo, dall’Irlanda alla Spagna, dalla Grecia alla Polonia, e perfino alla Cina. Questa nuova geografia non fa che confermare le paure dei parlamentari: se si diffonde ovunque, non è un’invenzione, e stavolta è la Russia a fare da trendsetter globale, invece di copiare le mode occidentali. I fatti della vicenda, esplosa un anno fa dopo la pubblicazione dell’inchiesta di Galina Mursalieva sulla Novaya Gazeta, sull’epidemia di suicidi dei ragazzi entrati nelle chat delle "balene", restano poco chiari. La polizia non ha trovato traccia dei 130 teenager che si sarebbero tolti la vita seguendo le indicazioni delle chat. I casi di suicidio riportati a decine dai media come risultati del gioco in Rete di regola non trovano conferma ufficiale, anche se i magistrati di Pietroburgo sostengono di poter collegare 15 morti ai gruppi delle "balene". L’unico incriminato per le chat è Filipp Budeikin, uno dei primi fondatori dei gruppi suicidi, che dopo aver negato per mesi ogni responsabilità qualche giorno fa ha cambiato idea e si vanta di aver contribuito alla morte di 28 ragazzi, "spazzatura biologica, sono morti felici", sostiene il 21enne musicista della provincia di Mosca che nei social usava il nick Lis, volpone. L’altra eroina delle prime chat, con l’inquietante nickname di Eva Reich, nella vita reale si è scoperta essere una paffuta tredicenne di nome Yulia, che sosteneva anche lei di istigare i coetanei al suicidio per "ripulire l’umanità dai deboli". È stata rimandata a casa dalla mamma perché sotto i limiti di età della responsabilità legale. Gli altri indiziati, tutti ragazzi sui 20 anni, sono stati rilasciati per mancanza di prove. Nel frattempo l’ente di controllo della Rete russo chiude ogni giorno decine e centinaia di chat e pagine dei social network che hanno hashtag come #balene, #vogliogiocare, #casadelsilenzio, #f58, #svegliamialle420. Nel Kyrgizistan la polizia ha fatto raid nelle scuole costringendo i ragazzi a mostrare le braccia in cerca di tagli autoinferti, e perlustrando i messaggini sui telefonini. I giornalisti e i poliziotti hanno cercato di risalire agli organizzatori delle chat suicide spacciandosi per ragazzini, con le stesse tecniche utilizzate per stanare i pedofili. Si sono imbattuti in un fenomeno virale - che nel frattempo si è espanso a Instagram, dove basta pubblicare un’immagine dark per attirare altre "balene" - di pagine che aprono e chiudono, di "curatori" (come si chiamano in gergo i maestri del gioco, quelli che danno i compiti da svolgere nei 50 giorni che precedono il suicidio) che li contattavano con messaggi sgrammaticati pieni di riferimenti mistici per poi chiedere 200 rubli sulla tessera prepagata e sparire il giorno dopo, di pagine che aprono e chiudono alla velocità della luce, cambiano nome, server e amministratori. Molti "curatori" e link portavano a siti di video e musica, in uno stratagemma di clickbiting nemmeno troppo velato. Insomma, il tipico mondo di Internet, che ha fatto impazzire i magistrati, abituati a cercare indiziati, prove e luoghi del delitto reali e non virtuali. Ma soprattutto hanno scoperto che il web pullula di ragazzini che vogliono giocare alle Blue Whale, e si lamentano che ai loro post con la richiesta di entrare nel gioco non risponde nessuno, salvo i "delfini", altri ragazzi che vedono come loro missione quella di dissuadere le "balene" dal passo finale. Ci sono anche gruppi dove i teenager si scambiano le loro esperienze, per esempio, come simulare con Photoshop i tagli sulle braccia, uno dei primi step del "gioco", come simulare un suicidio virtuale e poi sparire dalla Rete per qualche giorno, o come bloccare un "curatore" (di solito un altro teenager che gioca a fare l’essere superiore) se diventa troppo insistente e molesto. Quasi tutti confessano di postare foto taroccate, e la notizia di un suicida "vero" (non si sa quanto verificata) suscita grandi emozioni: "Poveretto, ci ha creduto, ha giocato per davvero" è il commento più diffuso. Il clamore sollevato dalla caccia alle "balene" ha funzionato come la migliore campagna pubblicitaria: un anno dopo le prime rivelazioni, le chat dove si gioca al suicidio sono un tormentone, ci giocano classi intere. Il numero dei suicidi di minori in Russia resta uno dei più alti al mondo - 720 vittime nel 2016, secondo i dati presentati alla Duma, tre volte sopra la media europea - ma non risulta in aumento grazie alle chat suicide, anche perché il tasso dei ragazzini che si tolgono la vita è molto più alto nelle città di provincia poco digitalizzate. La macchina del panico morale però è partita in quinta. I giornali hanno terrorizzato i genitori, che ora controllano gli smartphone dei figli nativi digitali, così diversi da loro. I legislatori e la polizia hanno colto la palla al balzo, nella campagna per controllare Internet in corso già da anni, e qualche deputato ha proposto perfino di proibire l’accesso al web agli under-14, idea che è stata scartata dal ministero dell’Interno con evidente rammarico per manifesta impraticabilità. Docenti e psicologi nelle scuole di tutto il Paese tengono seminari e impartiscono istruzioni ai genitori su come prevenire il suicidio via Internet: se vostro figlio "manifesta atteggiamenti negativi verso il mondo, contesta il governo e la religione e rifiuta di partecipare alle feste famigliari e nazionali, rivolgetevi a uno specialista". In altre parole, se un adolescente si veste di nero, ascolta musica dark, non vuole andare a messa e diserta il compleanno della prozia, va consegnato ai poliziotti e ai psicologi. Sembra un revival della Moral Majority americana dei tempi di Reagan, che cercava messaggi criptati nelle canzoni dei Twisted Sister, e del panico delle sette degli anni Novanta. Ma la normale ribellione degli adolescenti, e l’altrettanto normale sgomento dei genitori, in Russia si inseriscono in un clima politico e sociale che ormai da anni è pervaso dal complottismo. E così politologi e deputati sostengono che le Blue Whale siano un’operazione dei servizi occidentali per distruggere a distanza i bambini russi e con loro il futuro della nazione. In Ucraina, al contrario, si pensa di bloccare i social russi per il sospetto che siano i servizi di Mosca a istigare al suicidio i ragazzini di Kiev. Un think tank specializzato sulla "geopolitica del Caucaso" sostiene che le chat siano state inventate dall’Isis. E il parlamentare comunista Nikolay Osadchy attribuisce la colpa dei suicidi adolescenziali alla fine dell’Unione Sovietica, quando un "sistema di educazione dal nido all’università formava valori e ottimismo". Che in Unione Sovietica i ragazzini nelle colonie estive dei pionieri si raccontavano di notte storielle su vampiri, morti che risorgono e fantasmi, come tutti i ragazzini del mondo prima ancora che arrivasse a raccontarle Internet, diventa irrilevante, e i dati dello stesso ministero dell’Interno sui suicidi dei teenager - con le "classiche" cause del disagio sociale, problemi familiari e cuori spezzati - vengono ignorati. Le Blue Whale diventano così un ennesimo spartiacque politico, e non prenderle sul serio fa parte dell’identikit dell’oppositore liberale, mentre i principali alfieri della repressione della Rete sono i rappresentanti del governo. La legge che bandisce le chat della morte è stata scritta da Irina Yarovaya, parlamentare conservatrice già famosa per altre leggi contro la libertà della Rete. Sui social girano finte "balene" che in realtà sono adescatori della Lega della sicurezza su Internet, un’associazione riconducibile a Konstantin Malofeev, un magnate vicino al Cremlino e agli ambienti più nazionalisti della chiesa ortodossa, che ha svolto un ruolo non irrilevante nello scoppio della crisi nel Donbass. E il messaggio generale che bisogna "salvare" i ragazzini alternativi non conformi allo spirito del "Dio, patria e famiglia" è in linea con i leit motiv della propaganda di Putin. Gli esperti di folclore urbano dell’Istituto delle scienze sociali qualificano la storia delle Blue Whale come "un nuovo episodio di leggenda metropolitana, generato dalla paura dei genitori di perdere il controllo sui figli". Secondo i ricercatori, si tratta di una riedizione del "non parlare con gli sconosciuti", come il terrore dei maniaci e dei pedofili (che c’era anche in Unione Sovietica), gli avvertimenti a non prendere gli agognati chewing gum simbolo dei capitalismo offerti dai turisti stranieri durante le Olimpiadi di Mosca del 1980, perché sarebbero stati avvelenati (diffusi del tutto seriamente nelle scuole della capitale alla vigilia dei Giochi) o le più contemporanee voci sui reclutatori dell’Isis che infestano i social degli scolaretti russi. Per i ragazzi, dice l’esperto dell’Istituto di etnologia e antropologia dell’Accademia delle scienze Dmitry Gromov, è un "gioco con l’idea della morte tipico dell’età, ma chi si suicida lo fa per altre ragioni". La psicologa Natalia Ledebeva, che gestisce le consulente online del sito "Il tuo territorio", dice però a Radio Liberty che sempre più ragazzini parlano delle chat della morte, e che il gioco delle "balene" può essere rischioso per i soggetti già vulnerabili: "Immerge in un’atmosfera cupa e depressiva e possono stimolare atti estremi in chi già pensa a togliersi la vita". Ma la proibizione, avverte il Comitato di indagine, la super magistratura russa, non farà che aumentare la popolarità del frutto proibito, e gli strumenti per aggirare i divieti in Internet non mancano. Il rimedio più efficace, e più difficile, lo propone la psicologa Caterina Murashova, che conduce una anti-crociata contro le "chat della morte", che secondo lei esistono solo nella testa dei genitori e dei parlamentari: "Parlate con i vostri figli, ogni giorno, e non solo del tempo". Libia. La vita di inferno dentro i "mezra", lager per i migranti di Giovanni Tizian L’Espresso, 30 maggio 2017 Torture, stupri, pestaggi ed elettroshock. La parola in arabo vuol dire magazzini: sono i luoghi in Libia cui i trafficanti ammassano le persone che cercano di arrivare in Europa. Ecco cosa racconta chi è sopravvissuto all’orrore. I trafficanti li chiamano "mezra". Magazzini, in arabo. Spesso sono vere e proprie prigioni fuori da ogni regola, carceri private, gestite dai boss del traffico di esseri umani. Che in queste strutture sparse per la Libia non custodiscono merce qualunque, ma donne, bambini, uomini. Seviziati con la corrente elettrica, picchiati con tubi di gomma, senza cibo per giorni, le ragazze stuprate. Tra questi c’è anche chi è stato caricato di forza su gommoni e barche. Persino minorenni, che non avevano alcuna intenzione di lasciare l’Africa. Sono loro stessi a raccontarlo, una volta arrivati in Italia, alle commissioni territoriali incaricate di valutare le richieste di asilo. La realtà, violenta. Nel frattempo la politica si avvita in sterili discussioni sull’indagine della procura di Catania e sul presunto rapporto tra Ong e trafficanti. Parole al vento che non offrono soluzioni per fermare l’orrore libico. Eppure i nodi da sciogliere sono molti. Per esempio, diversi mesi fa i pm di Catania hanno inviato in Egitto una richiesta per catturare due trafficanti di primissimo piano, ma Il Cairo tace. E mentre dalla sponda europea del Mediterraneo gli xenofobi d’Europa ingaggiano ingegneri per progettare muri, l’agenzia Frontex getta un’ombra sul lavoro delle Ong e i partiti agitano lo spauracchio dell’invasione, dalla sponda sud del canale di Sicilia le persone che scappano da guerre, dittature, povertà e miseria - chi ha diritto all’asilo e chi no - continuano a subire qualunque tipo di sevizia. Soprusi inumani compiuti quotidianamente dai boss e dai loro sgherri che gestiscono un business miliardario, stimato dall’Europol in 4-6 miliardi di euro. I magazzini del pentito - La procura di Palermo da diversi anni sta svolgendo un lavoro meticoloso sugli interessi economici e finanziari legati al traffico dei migranti. L’ufficio inquirente guidato da Francesco Lo Voi ha in mano una mappa precisa delle bande di trafficanti libici. Purtroppo però la collaborazione con una Libia spaccata da conflitti permanenti non è affatto semplice. Per ora le informazioni più preziose vengono da una gola profonda, la prima del milieu dei trafficanti. Si chiama Nuredin Atta Wehabrebi. Eritreo di origine, per oltre un decennio ha fatto il lavoro sporco in Libia. La dedizione criminale gli è valsa a soli 32 anni una carriera brillante nel clan dei trafficanti, diventando pedina di rilievo dell’organizzazione. Arrestato dai pm di Palermo, ha deciso di vuotare il sacco. Ora è un pentito convinto, tanto da finire nel sistema di protezione come fosse uno dei tanti padrini nostrani. Con le sue dichiarazioni ha permesso al pm palermitano Geri Ferrara, coordinato dall’aggiunto Maurizio Scalia, di portare a termine ben due indagini con oltre 50 persone arrestate. "Arrivati in Libia i trafficanti fanno stazionare le persone in delle case di campagna che spesso i proprietari affittano ai trafficanti". I dettagli forniti da Atta il pentito saranno molto utili agli inquirenti, anche perché il collaboratore fa i nomi dei capi dell’organizzazione di cui faceva parte. "I migranti vengono raccolti in magazzini per il futuro viaggio in mare", spiega. Grazie alle informazioni fornite, i magistrati hanno mappato le aree di raccolta: "Sono a conoscenza che i migranti che giungono in Libia per partire verso l’Europa vengono concentrati in quattro magazzini, chiamati in arabo "mezra", due si trovano nella località di Zuwara e li gestisce un certo Muktar, mentre tre si trovano in località Tajura e li gestisce un certo Hagi Naser Moham". Zuwara è la nota località di imbarco utilizzata dalle bande di trafficanti, si trova a ovest di Tripoli. Tajura è 30 chilometri a est della capitale libica. Atta sa dove si trovano, li ha visti con i propri occhi, li ha attraversati con le proprie gambe. Ha sentito le urla disperate dei reclusi. Per questo ai pm ha indicato sulle mappe i luoghi dove le persone sono condannate a subire una punizione umiliante, tenuti chiusi in gabbie di cemento e ferro, con temperature che in estate superano i 40 gradi. Li chiamano mezra ma altro non sono che gironi infernali, lager del terzo millennio. Ingranaggi fondamentali nella filiera del business. Sangue e quattrini - Atta non è mai stato un semplice scafista. Ma sa come funziona il sistema in ogni passaggio della filiera. "Uno scafista marocchino, tunisino o egiziano riceve tra i 20 ed i 30 mila euro per un viaggio e se riesce a riportare indietro la barca viene pagato il doppio. Se lo scafista è qualcuno dei paesi sub sahariani non riceve alcun pagamento ma può viaggiare gratis". Ultimamente i clan preferiscono proprio quest’ultima soluzione. Obbligano, cioè, ragazzini gambiani, nigeriani, maliani, a guidare il natante fatiscente. Per chi rifiuta c’è il bastone o il calcio del fucile. Una pena che non si esaurisce una volta raggiunta l’Italia. Dopo lo sbarco, infatti, vengono arrestati con l’accusa di essere scafisti di professione. E invece sono solo adolescenti vittime di un sistema senza scrupoli. Atta elenca i padrini che tengono in mano le redini del traffico. "Sono i quattro trafficanti che gestiscono la maggior parte dei flussi. Ci sono anche gruppi minori che operano dall’Egitto e dalla Tunisia ma non sono comparabili con gli altri per numeri di viaggi e guadagni. Ognuno di questi quattro ha un gruppo fidato di uomini che opera per conto loro, tra i sei e i dieci. Si avvalgono, inoltre, di numerosi collaboratori, pagati molto meno. I gruppi non sono in conflitto tra loro, anzi collaborano". Le quattro bande, dice il pentito, sono tutte operative a Tripoli e dintorni. Tranne una che copre una zona in più, Bengasi. Il suo capo si chiama Abdurazak. "Il trafficante più importante", lo definisce Atta. Poi c’è Ermias, un nome che ci conduce nel cuore dell’Europa democratica. In Germania, dove vive "la moglie, nella zona di Francoforte". Qui è probabile, sostiene il pentito, che si trovino "tutti i soldi che guadagna Ermias, ma non so dove li tiene la moglie". La donna, tra le altre cose, ha prima provato, senza riuscirci, a chiedere asilo politico in Svezia. I quattrini del traffico, ipotizzano gli investigatori, potrebbero essere finiti anche a Dubai. Tra grattacieli futuristici e banche affidabili, le bande libiche hanno propri emissari. Il racconto di Atta apre uno squarcio profondo nel muro di omertà che protegge i confini del malaffare. "Conosco Salha Maskout, di cui qualche giorno fa la stampa ha dato notizia della uccisione in Libia. Al tempo di Gheddafi faceva parte della polizia militare. Maskout trasportava i migranti da Koufra per portarli a Tripoli, li consegnava a me e agli altri trafficanti. Non aveva barconi di proprietà, ma soltanto dei furgoni minivan che utilizzava per i trasferimenti dalla frontiera libica. Ogni migrante gli pagava circa 600 dollari". Tra i fidati collaboratori del poliziotto anche un dipendente dell’ufficio immigrazione, "che contattavamo per il rilascio dei migranti che venivano arrestati dalla polizia libica in modo che, in seguito, potevamo organizzarne il loro viaggio per l’Italia". Atta ha fatto e visto cose terribili. C’è un passaggio raccapricciante nel resoconto che consegna agli inquirenti. "Talvolta i migranti che non possono pagare vengono consegnati a degli egiziani che li uccidono per prelevarne gli organi e rivenderli in Egitto per una somma di circa 15 mila dollari. In particolare, questi egiziani vengono attrezzati per espiantare l’organo e trasportarlo in borse termiche. Nel 2013, nella strada Sahara-Sinai che porta verso Tel Aviv, furono rinvenuti oltre 400 cadaveri di persone a cui furono espiantati gli organi e c’è anche un video su Youtube". Il pentito custodisce molti segreti. Dice di sapere persino il nome di chi forniva fino al 2007 i gommoni Zodiac, utilizzati per i trasferimenti sulle barche più grandi. "Venivano venduti ai trafficanti dal console francese a Susa, in Tunisia". Il Ghetto di Alì - I migranti sbarcati a Lampedusa lo ricordano come il Ghetto di Alì il torturatore. È un "mezra" perso nel deserto attorno a Sabah, importante città centro-meridionale della Libia. Questa volte, però, il pentito Atta non c’entra. Questa è un’altra storia, parallela. Tutto ha inizio quando all’interno del centro di accoglienza di Lampedusa un gruppo di migranti riconosce tale Fanti, un ganese sbarcato insieme a loro in Sicilia il 5 marzo scorso. Fanti è, sostengono i migranti, uno dei torturatori del ghetto di Alì, dove hanno trascorso un incubo durato mesi. Così lo accerchiano, tentano di aggredirlo. La vendetta non si realizzerà solo per l’intervento delle forze dell’ordine. Gli aggressori, però, verranno interrogati dalla polizia, che vuole capire il motivo del livore. A quel punto decidono di dire tutta la verità. I loro verbali assomigliano alla trama di un film horror ambientato all’interno di un campo di concentramento. La prigione-magazzino "era recintata con dei muri alti in pietra, si accedeva attraverso una grande porta. Eravamo vigilati a vista da guardie, in abiti civili e armati di fucili e pistole. Rimasi detenuto circa otto mesi, fui sottoposto numerosissime volte a torture e sevizie da parte del gruppo che fa capo ad Alì il Libico. Fanti era membro di questa organizzazione di trafficanti". Che tipo di sevizie?, chiedono i poliziotti della squadra Mobile di Agrigento. Uno dei testimoni risponde, alzandosi la maglietta: "Porto ancora addosso le cicatrici delle ustioni inflitte". Poi conduce chi lo ascolta in un tunnel macabro e criminale: "Fanti per due mesi mi ha continuamente frustato con un cavo elettrico, procurandomi delle profonde lacerazioni. Fu invece un altro a buttarmi su una gamba la pentola contenente acqua bollente. Ho, inoltre, visto Fanti picchiare violentemente con dei bastoni altri migranti reclusi in quel lager". Un secondo testimone aggiunge: "Spesso collegava degli elettrodi alla mia lingua per farmi scaricarmi addosso la corrente elettrica. Mi faceva stare anche 5 giorni senza mangiare e bere. E ho visto violentare delle donne". Gli è rimasto impresso nella memoria un aguzzino, che quelli della banda di Alì chiamavano Rambo: "Ha ucciso 2 migranti, a bastonate". Infine, riaffiora un altro ricordo di quei mesi, "altri cinque migranti sono morti di stenti, privazioni e violenze". Il viaggio obbligato - K. si è ritrovato su un barcone senza volerlo. Costretto ad attraversare di notte il Mediterraneo, rivela ai funzionari della commissione che esamina le richieste di asilo politico. Arrivato in Libia, dopo essere scappato dal Mali (qui l’avevano accusato di essere un sovversivo, catturato e abbandonato nel deserto a morire), viene incarcerato in una delle tante prigioni "private". Da lì è riuscito a scappare, "siamo andati a Tripoli, ma abbiamo capito subito che, come in Algeria, i neri non li vogliono, abbiamo lavorato come schiavi, senza essere pagati". Poi, una sera, qualcuno li preleva, li carica su un mini van e li porta su una spiaggia dove verranno imbarcati contro la loro volontà. Direzione Europa, Italia. K. Non è l’unico. L’Espresso ha letto numerosi verbali in cui ragazzi giovanissimi ammettono di essere partiti contro la loro volontà. Come questo dell’8 aprile scorso: "Quanto ha pagato il viaggio per l’Italia?", chiede uno dei componenti della commissione. "Non ho pagato, mi hanno fatto imbarcare per forza", è la risposta di D. Anche Oy è stato obbligato a salire su una "grande nave". Lui è fuggito da un villaggio della Nigeria perché omosessuale. "Ci hanno scoperti e rischiavo di diventare carne per un sacrificio umano". Una punizione esemplare. Giunto in Libia, rinchiuso in una "mezra", piangeva perché non sapeva come soddisfare le richieste di denaro dei libici come contropartita per la libertà. "Un giorno un arabo mi prese, mi portò in spiaggia e mi indicò una barca. Così sono arrivato in Italia". E come tanti ha fatto domanda di asilo. La maggior parte delle domande, però, vengono respinte. Così è necessario fare ricorso. I tempi sono biblici. Un esempio: il 20 marzo scorso un giudice di Catania - distretto giudiziario dove ricade il centro di accoglienza di Mineo - ha rinviato al giugno 2018 l’udienza di un ricorso presentato nel 2015. In media passano oltre 600 giorni per la decisione della commissione territoriale, a cui si aggiungono i mille giorni per la definizione del ricorso. Dopo l’inferno libico, in fondo, che sarà mai il purgatorio della burocrazia italiana. Bombe e colera: silenzio di morte sullo Yemen di Federica Iezzi Il Manifesto, 30 maggio 2017 A due anni dall’inizio dell’operazione militare saudita, il più povero dei paesi della penisola arabica vive un quotidiano calvario. "Qui bisogna vivere anche se sei morto dentro", dice un’anziana. A Sana’a, resa irriconoscibile dalla guerra, dai raid non ci si nasconde nemmeno più: la priorità è trovare cibo. "Qui bisogna vivere anche se sei morto dentro". Tramortiscono le parole di un’anziana donna sola con il capo coperto da un velo nero. Almeno 4mila civili hanno perso la vita come risultato diretto del conflitto in Yemen, di questi più di 1.300 sono bambini. Per due milioni di ragazzini l’anno scolastico si è fermato al 2015. Oltre 3 milioni di persone sono state costrette a fuggire dalle loro case, troppo spesso senza sicurezza. Statistica che è raddoppiata nell’ultimo anno. Nonostante il cessate il fuoco, scioccamente creduto da chi lo Yemen non ancora lo percepisce come una delle sconfitte dei nostri giorni, le prime ore del mattino di un qualsiasi giorno sono scandite dal ritmo incessante dei suoni delle bombe che d’improvviso trafiggono l’aria. È difficile descrivere il terrore che trascina quel suono freddo, non sapere dove arriverà la bomba. Eppure non si corre più nelle strade martoriate come mosche impazzite, non ci si nasconde più, non ci si protegge più. Si fa i conti con i tagli di corrente e la carenza cronica di acqua. Le erbacce avvolgono gli edifici crepati, fino a Dio sa dove. La terra scuote. Devastante e disperato è il grido muto della gente. Molte famiglie riescono a mangiare una sola volta al giorno e molto spesso il pasto è costituito da 40 grammi di pane. Molti altri non hanno pasti regolari. Nelle cucine delle case rimaste in piedi, tutto quello che si trova sono vuote borse di grano. Camminare per Sana’a, quando non trema la terra sotto le bombe, mostra una vita quasi normale. Si perde il conto del numero di checkpoint da attraversare. La gente esce, i bambini giocano a calcio tra le macerie. Per un momento si può quasi dimenticare. Alle due del mattino dell’ultimo giovedì di marzo del 2015, l’ambasciatore saudita a Washington, in una conferenza stampa, annuncia che una coalizione di dieci paesi a guida saudita aveva iniziato un’operazione militare in Yemen, contro il movimento Ansar Allah (Houthi) e il primo presidente yemenita Ali Abdullah Saleh. Come pretesto, il ripristino della legittimità del dimesso presidente sunnita, Abd Rabbih Mansur Hadi. Ha così inizio l’operazione "al-Hazm storm". Inizia con un attacco aereo saudita che distrugge l’area residenziale di Bani Hewat, nei pressi dell’aereoporto internazionale di Sana’a, uccidendo 29 civili e ferendone 42, comprese decine di bambini. Le vite delle famiglie al-Germozi, al-Hubishi e Hamied Soliman sono segnate da distruzione e morte. Solo dopo pochi giorni dall’inizio dei bombardamenti aerei, il portavoce militare delle forze di coalizione, il generale Ahmad Hassan Mohammad Asiri, annuncia la distruzione del 90% dell’arsenale e delle capacità militari dei ribelli Houthi. Nonostante l’annuncio, continua impassibile l’operazione militare. Da quel giorno, in silenzio, continua una battaglia spietata in un paese dimenticato dalle cartine geografiche, dalla politica, dal mondo arabo, dalla comunità internazionale. Ufficialmente non ancora dichiarata in Yemen, la carestia continua a mietere lentamente e aggressivamente decine di vittime ogni giorno. Sono 18 milioni i civili a rischio malnutrizione, di questi più di due milioni sono bambini a cui è già stata diagnosticata inesorabilmente la condizione di malnutrizione acuta. Secondo i dati diffusi dall’Unicef si è constatato un aumento del 200% a partire dal 2014. È come guardare alla moviola un incidente automobilistico. Anche prima dell’inizio dei combattimenti, lo Yemen era quel paese della penisola arabica dove la fame era una condizione cronica. Problema per la maggior parte gestibile, visto che gli aiuti umanitari riuscivano a raggiungere anche le aree rurali più impervie. La maggior parte delle famiglie, anche se con qualche oggettiva difficoltà, poteva acquistare dai mercanti ogni genere di bene. L’economia oggi è in piena caduta libera, con l’80% delle famiglie indebitate. Già prima della guerra lo Yemen dipendeva dalle importazioni per il 90%. Oggi tra voli commerciali cancellati e blocco delle navi mercantili nelle acque del golfo di Aden, né cibo né medicine né carburante entrano nel paese. Questo significa che negli ospedali, oberati di lavoro, di fronte alla malattia di un bambino si è costretti, con le lacrime agli occhi, a fare scelte al limite della moralità. Si trattano solo i bambini che hanno una possibilità di farcela, per gli altri non c’è spazio. Ogni parte coinvolta in questo conflitto rende estremamente difficile, non solo aiutare, ma anche raggiungere i più deboli. I bambini sembrano indossare un sottile velo di pelle che appena copre le loro ossa. A stento stanno seduti e fanno conoscere la loro sofferenza soltanto con i grossi occhi incavati. "Meno del 45% delle strutture sanitarie sono ad oggi pienamente funzionanti e almeno 274 di queste sono state danneggiate o distrutte dai bombardamenti - ci dice Reem, uno dei pochi medici rimasti a Sana’a - Quando gli scontri si intensificano e i combattimenti circondano gli ospedali, prima spostiamo tutti i pazienti in zone sicure e poi cerchiamo di trovare un rifugio anche per noi. Le finestre sono state rotte più di una volta e non ci si stupisce più se pallottole e schegge entrano". Il numero dei pazienti che accede all’ospedale è aumentato di cinque volte rispetto al 2016, sebbene le statistiche dettagliate siano ferme al 2011. Gli ospedali sono pieni di gente e vuoti di materiali. Alle condizioni sanitarie scadenti e alla mancanza di acqua potabile la natura risponde con le cosiddette "malattie parassite", che si auto-mantengono grazie all’elevato grado di promiscuità. E in cima al podio c’è il colera. A Sana’a si può usare l’acqua di rubinetto solo qualche volta alla settimana, nelle zone rurali il disagio è ancora peggiore. Dallo scorso settembre, in 18 diversi governatorati come una valanga, 49mila casi sospetti di colera e 242 morti dichiarati hanno ulteriormente inasprito la già precaria situazione sanitaria dello Yemen, dove i corpi vengono lasciati per le strade per giorni, nel mezzo di intensi combattimenti. A questa si aggiungono focolai sempre più violenti di malaria e scabbia. Il conflitto civile e la distruzione su larga scala, causata da entrambi i fronti di combattimento, hanno riportato indietro l’orologio del paese di due, tre decenni. Tutto quello che oggi si tocca è la devastazione: alberghi, fabbriche, strade, case e ponti distrutti. E anche il mese sacro del digiuno del Ramadan inizia in Yemen con ondate di bombardamenti e con poca speranza di un cessate il fuoco. Perfino l’iftar, la cena che segue alla giornata di digiuno, quest’anno sarà un lusso. I ripiani dei supermercati sono completamente vuoti e le famiglie non hanno denaro nemmeno per comprare da mangiare. Giorno del Biafra. L’anno scorso l’esercito nigeriano fece un massacro di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 maggio 2017 Il Giorno del Biafra, oggi, ha un’enorme importanza: segna 50 anni dalla fine della guerra del Biafra. Per questo, Amnesty International ha sollecitato le forze di sicurezza della Nigeria a evitare di ripetere il bagno di sangue del 2016, quando la repressione delle proteste provocò oltre 60 morti ad opera di militari privi di formazione sulla gestione dell’ordine pubblico e inclini a usare la forza letale in circostanze in cui non era minimamente necessaria. Il 29 e 30 maggio 2016 i soldati aprirono il fuoco più volte contro le persone che prendevano parte alle manifestazioni del Giorno del Biafra. Le ricerche svolte da Amnesty International su quanto accaduto a Onitsha, nello stato di Anambra, hanno portato alla conclusione che almeno 60 persone furono vittime di esecuzioni extragiudiziali e altre 70 rimasero ferite. Il numero effettivo potrebbe essere assai più alto. Nonostante le schiaccianti prove sull’uso di proiettili veri con scarso o nullo avviso alla folla di disperdersi, nessun appartenente alle forze di sicurezza nigeriane è stato portato di fronte alla giustizia. In vista della ricorrenza di oggi, il 22 maggio sono stati arrestati oltre 100 attivisti del Movimento per lo stato sovrano del Biafra e del Movimento indipendente del Biafra negli stati di Enugu, Ebonyi e Rivers. Cina: dalla legge sulla cyber-sicurezza bavaglio agli oppositori e colpo alle aziende straniere di Angelo Aquaro La Repubblica, 30 maggio 2017 Da giovedì la Cyber Security Law obbligherà i cittadini e le aziende a usare server cinesi e a consentirne l’accesso al governo. Una legge che ha scatenato le proteste. Non ci restano che gli hacker. Soltanto loro, tra un po’, potranno salvarci dall’ultima stretta web che la Cina di Xi Jinping sta regalando al mondo: e guarda caso proprio alla vigilia del congresso che a novembre dovrebbe incoronare per altri cinque anni il nuovo Mao. È vero, farsi aiutare dagli hacker sarebbe un po’ come chiedere a uno scassinatore di aprirci la porta di casa: però chi se non un ladro provetto potrebbe infilare la chiave nella toppa senza fare suonare l’allarme che da questa settimana potrebbe scattare in tutte le case di Internet? Perché per legge, da questo giovedì, le chiavi del web di chi vive e lavora in Cina, compresi i dati attualmente conservati sui cloud stranieri, andranno diligentemente consegnate al Dragone: il quale, ci mancherebbe, promette di prendersene cura, diremmo noi, con la diligenza del padre di famiglia. Peccato che il diritto privato, nella Cina supercapitalista che si ricorda di essere collettivista a giorni alterni, è pur sempre cosa pubblica. E così anche la nuova Cyber Security Law, già abbreviata in CSL, la legge che entra in vigore questo 1° giugno, ci ricorda appunto che è per il bene di tutti che Pechino ha deciso di accentrare ancora di più la gestione del web. Per carità, il China Daily fa di tutto per giustificare la nuova legge come l’ultimo baluardo voluto da Xi perché "l’uso di Internet possa beneficiare la gente e il paese": che con 730 milioni di utenti attivi e 700 milioni di utenti di telefonini ha ormai "una popolazione più grande di quella dell’Unione europea". Numeri fantasmagorici che sono alla base dell’eccezionale sviluppo dell’e-commerce: un business che entro tre anni supererà i 5.500 miliardi di dollari. Giusto dunque correre in riparo dei cittadini e vietare, come la nuova legge prevede, "la raccolta e la vendita di informazioni irrilevanti", oltre a stabilire il diritto di "chiedere la distruzione di informazioni personali in casi di abuso". Ma la domanda da farsi è sempre la stessa: chi stabilisce che cos’è un abuso? Chi raccoglie che cosa? Chi difende chi? Il provvedimento passato dal parlamento in autunno è infatti solo l’ultimo di una lunga serie: che comprende, anche, una stretta sul Vpn, cioè quelle app che permettono di saltare la Grande Muraglia della censura web, già centellinate - come primo esperimento - nella municipalità di Chongqing, una trentina di milioni persone appena, giusto per vedere se poi si può allargare al resto del paese. La nuova legge, ora, cita espressamente le minacce degli hacker e del cyber terrorismo per giustificare la svolta: proprio mentre in queste ore portano in Cina anche le tracce dell’ultimo audace colpo dei pirati di Internet, i ricattatori web di Wannacry, il virus che ha mandato in tilt i computer di mezzo mondo. Anche per questo l’altro giorno, in una mediatica raffigurazione di excusatio non petita, sempre il China Daily - che è il giornale più diffuso in lingua inglese - spiegava in prima pagina, a uso degli stranieri, come la nuova legge non dovrebbe preoccupare gli operatori non cinese, che invece dovrebbero sentirsi più protetti. Peccato che le camere di commercio di Europa, America, Giappone, Australia, Corea del Sud la pensino diversamente, e abbiano apertamente protestato: l’obbligo di conservare i loro nei server cinesi, dice un documento, "aggiungerà oneri costosi, restringerà la competizione, ridurrà la sicurezza dei prodotti e metterà a rischio la privacy dei cittadini cinesi". Niente: proteste inascoltate. E per carità: no che non abbia senso quello che dice un esperto vero come Li Yuxiao, il professore specializzato in giurisprudenza web della Beijing University, che a Bloomberg dice chiaro e tondo che "la cyber-sicurezza è fondamentale per la sicurezza nazionale". Ha ragione da vendere, e la stessa affermazione la sottoscriverebbero in ogni paese. Il problema semmai è capire dove finisce la tua sicurezza e comincia la mia, parafrasando il concetto di libertà riassunto da Martin Luther King. Molti attivisti, qui, utilizzano appunto i server stranieri per far circolare informazioni altrimenti censurate: è lì, per esempio, che vengono "specchiate" le pagine proibite del New York Times, che l’anno scorso s’è visto cancellare in Cina, oltre alla versione web, anche quella diffusa via app. E poi qui non si tratta soltanto (!) di libertà d’espressione: qui è anche questione di libertà d’impresa. Se io, compagnia straniera, devo far girare tutti i miei dati su un server cinese, sto avvantaggiando Alibaba o Tencent: e danneggiando, per dire, Amazon. Poi, certo, dice bene Sarah Cook, l’analista di The Diplomat, quando spiega che tra l’annunciare e l’eseguire, si sa, qui in Cina sempre ce ne vuole. "E l’esperienza del passato insegna che la messa in atto dei regolamenti non sarà uguale in tutto e per tutti". Della serie: fatta la legge, troveremo come sempre l’inganno, magari proprio grazie all’occhio che vorrà chiudere il Dragone. Però è lei stessa a spiegare poi che faremmo bene a prendere comunque in considerazione anche "lo scenario peggiore", che riassume in tre punti. E cioè, "primo, la chiusura su larga scala e su più piattaforme di tanti account di social media". Secondo, "l’aumento degli arresti di cittadini ordinari, basati sulle informazioni private ottenute dalle forze di sicurezza cinesi dalle compagnie di Internet" chiamate a consegnarle dalla nuova legge. Terzo, l’aumento del "controllo del governo sulle compagnie media private e portali di notizie". E allora altro che scenario peggiore: questo qui è un incubo. E davvero, per provare a sfuggirne, qui ci vorrebbero gli hacker. A proposito: com’è che si chiama l’ultimo virus conosciuto? Wannacry. Appunto: voglio piangere. O meglio: non ci resta che.