Trieste: indagine del carcere sulla morte di Andrea Cesar di Corrado Barbacini Il Piccolo, 2 maggio 2017 La direttrice della Branca annuncia l’avvio di accertamenti interni sul caso. L’Asuits "blinda" il Centro di salute mentale: "Piena fiducia negli operatori". A distanza di cinque giorni dalla morte di Andrea Cesar - l’uomo di 36 anni trovato senza vita nella sua cella al Coroneo, i vertici del carcere triestino rompono il silenzio. E lo fanno annunciando un’indagine interna sul decesso. Indagine parallela quindi all’inchiesta aperta dal pm Federico Frezza, che ipotizza la morte per overdose da psicofarmaci. Con la scelta di aprire un’indagine interna, spiega la direttrice della casa circondariale Silvia della Branca, entra in campo direttamente il ministero di Grazia e giustizia attraverso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria da cui dipende il carcere di Trieste. Oggi, dunque, della Branca si metterà in contatto con il pubblico ministero titolare delle indagini. Uno sviluppo che verrà seguito con la massima attenzione anche dalla direzione sanitaria dell’Asuits che, ieri, è intervenuta sul caso esprimendo "fiducia e considerazione per tutti gli operatori del Dipartimento di salute mentale", e precisando che "Andrea Cesar è stato seguito fuori e dentro il carcere per il problema di disagio psichico e anche per altre problematiche di diversa natura clinica". Obiettivo comune dunque, in questa fase, è fare chiarezza. "Dovremo accertare - dichiara della Branca - quello che è successo nella notte tra martedì e mercoledì. Lo faremo quando sarà possibile conoscere i risultati dell’autopsia". Risultati evidentemente ritenuti fondamentali per risalire alle cause della morte ma anche per far luce - teoricamente - su eventuali responsabilità da parte di chi doveva controllare o comunque aveva un ruolo indiretto nella gestione delle cure del paziente detenuto. Fin d’ora però, su questo punto, la posizione di della Branca è netta. "Posso già affermare - dichiara - che quanto accaduto esclude la responsabilità di terzi (ndr, agenti o personale sanitario). Lo dico chiaro e tondo. Anche perché, se pure fosse confermata l’ipotesi del cocktail di farmaci, è chiaro che nessuno ha costretto il detenuto a prendere quel cocktail di farmaci. Quell’uomo era in cura ed erano state adottate tutte le misure e le precauzioni previste per un recluso con il suo stato di salute". Il direttore sottolinea peraltro una situazione già evidenziata dai sindacati di polizia penitenziaria, secondo la quale da quando vige il regime delle cosiddette porte aperte nelle celle, è molto facile lo scambio dei farmaci tra i detenuti. Scambio appunto, secondo gli addetti alla vigilanza, di fatto è impossibile da controllare. "Può capitare che qualche recluso riesca ad occultare dei farmaci eludendo la sorveglianza - prosegue della Branca -. Ho conosciuto detenuti tossicodipendenti che bagnavano con il metadone i batuffoli di cotone, per poter assumere quel farmaco quando e come volevano. Per questo motivo dovremo capire cosa è successo. Lo sapremo solo dopo aver conosciuto i risultati dell’autopsia". Il direttore del Coroneo, infine, punta il dito contro la detenzione dei malati psichiatrici nei penitenziari. "Quanto successo - afferma - è il risultato della scelta secondo la quale i malati psichiatrici, come è accaduto in questo caso, devono andare in carcere". Come dire che il carcere non è la struttura più indicata per curare chi ha problemi psichici come quelli di Andrea Cesar, che seguiva da anni di attacchi di panico conseguenti ad un grave stato di agorafobia. Un fatto, questo, riportato chiaramente nell’ordinanza di custodia cautelare del gip Giorgio Nicoli emessa nello scorso dicembre su richiesta del pm Massimo De Bortoli dopo l’arresto di Cesar. "Si ritiene - aveva scritto il gip nell’ordinanza - di investire i competenti servizi psichiatrici affinché prendano contatto con Cesar ed avviino un adeguato percorso terapeutico". L’ordinanza era stata subito trasmessa al Csm della Maddalena al quale l’uomo faceva riferimento per le cure. E lì, ha chiarito ieri in una nota l’Azienda diretta da Nicola Delli Quadri, sono state adottate tutte le misure del caso. "In primo luogo - si legge nel testo dell’Asuits - siamo tutti vicini alla famiglia, alla quale esprimiamo il senso più profondo della nostra partecipazione. Allo stesso tempo esprimiamo fiducia e considerazione per tutti gli operatori, del Dipartimento di Salute Mentale e delle altre articolazioni della nostra organizzazione sanitaria. Il signor Cesar era noto e preso in carico dai nostri servizi; è stato seguito fuori e dentro il carcere, per il problema di disagio psichico e anche per altre problematiche di diversa natura clinica. Precisiamo poi che la persona, conosciuta e seguita da prima della detenzione, è stata valutata con tempestività subito dopo l’arresto, e, in relazione al suo stato di salute e alle complesse problematiche emerse, ha ricevuto diverse prestazioni sanitarie multidisciplinari e non solo di tipo farmacologico, integrate da proposte di percorsi terapeutici e dalla considerazione di eventuali alternative alla detenzione. I trattamenti farmacologici, prescritti e aggiornati secondo l’evolversi delle situazioni, non erano in grado di produrre effetti dannosi e, quanto meno, letali. Al verificarsi del tragico evento i soccorsi sono stati immediati e con il massimo livello di assistenza possibile. Ora - conclude l’Azienda - attendiamo fiduciosi l’esito delle indagini". Trento: "detenuti e detenenti" intervista all’avvocato e Radicale Fabio Valcanover linsicuro.com, 2 maggio 2017 Avvocato penalista e radicale, sempre in prima linea negli eventi sul territorio che trattano di carcere. Carcere e politiche sulla droga sono infatti i due temi principali di cui si occupa l’avvocato Valcanover per passione oltre che per lavoro. Promotore nazionale della recente iniziativa popolare per la legalizzazione, Valcanover fa politica come Radicale dal 1974 e in quest’ambito ha lavorato e lavora anche sulle tematiche relative alla pena restrittiva della libertà personale. Più volte sono emerse le problematiche relative al carcere di Trento, uno fra tutti la tensione tra personale di polizia penitenziaria e detenuti. Quale crede siano le ragioni di questo forte conflitto? "Quando si parla di carcere bisogna tener conto che si parla di un mondo di detenuti e detenenti e la vita a contatto è difficilissima. È un microcosmo di rapporti ravvicinati dove gli uni vedono gli altri come avversi, ed è normale che vi siano ostilità. Non bisogna nascondere l’esistenza di questi problemi ma affrontarli, governarli. Occorre poi capire che ogni carcere è a sé, ha le sue specialità. Ci sono problemi di rapporti, problemi strutturali (quindi di riscaldamento, dei bagni, etc.) e il problema del conflitto, che è evidente: c’è gente che, detto in termini etici, ha tutto da farsi perdonare, sta scontando una pena e può avere rancori. Dall’altra parte, c’è gente che deve controllare". Quindi il fulcro è questo problema di conflitto, per così dire, naturale tra quelli che prima chiamava detenuti e detenenti. Dal rapporto del Garante emerge però che a Trento il rapporto sia ulteriormente problematico. Quale crede esserne la ragione? "Il rapporto è problematico. Era già problematico quando c’erano 190 detenuti e lo è diventato sempre più quando è stato chiuso il carcere di Rovereto e quando il numero dei detenuti è aumentato a dismisura. La problematicità si è inoltre intensificata quando sono state introdotte delle sezioni speciali. Le sezioni speciali sono quelle dedicate ai sex offenders o altri detenuti che non sono in regime vero e proprio di protezione ma sono qui per essere allontanati da altre realtà. Quindi la situazione del carcere così come si è modificata dall’ipotesi originaria è una situazione che vede un rimpinguamento di detenuti, in sovrannumero rispetto all’ipotesi originaria e quindi anche un aumento della problematicità e dunque della pericolosità". Quindi secondo lei i rapporti problematici sono dovuti da un lato ad un problema di organico della polizia penitenziaria e dall’altro al sovraffollamento? "Manca un terzo elemento fondamentale: la struttura. La struttura dovrebbe dare qualcosa. Quando parlo di struttura non parlo di edificio fisico, parlo della struttura amministrazione penitenziaria, la struttura Stato. Manca quel qualcosa che possa permettere di decongestionare i rapporti o di dare un elemento per poterli decongestionare. Manca la verifica che la pena segua le finalità costituzionali, in particolar modo quella della rieducazione ai fini di riammettere il soggetto in società. E questo vale in particolar modo per il carcere di Trento, dove si scontano pene non particolarmente lunghe. Quando si sta in carcere a girarsi i pollici e manca il lavoro, la situazione peggiora. Il lavoro però non può essere lo scopino o l’occupazione di 10 persone allo zafferano e di altre 10 alla birra". Nel rapporto del Garante Nazionale si diceva che circa il 66% dei detenuti ha lavorato meno di due mesi all’anno. È così? "Secondo me la percentuale è ancora minore. I lavori in carcere possono essere divisi in due tipologie: il primo è il lavoro obbligatorio, un lavoro al quale se ti sottrai vieni valutato negativamente ai fini di alcuni benefici, come la riduzione della pena per buona condotta. Si tratta essenzialmente di lavori necessari per la struttura: pulizia dei bagni e dei corridoi, eccetera e vengono formalmente chiamati lavori, anche se secondo me è sbagliato chiamarli così, perché questi di rieducativo hanno ben poco. Per fare questi lavori ci sono le liste di attesa. La seconda tipologia è il lavoro quello "vero", previsto dall’ordinamento penitenziario e che dovrebbe essere utile al trattamento rieducativo. Questo è un’altra cosa. Ma il lavoro non c’è, ci sono veramente poche cose". Quale crede che sia il problema per il quale non si riesce a garantire il lavoro in carcere? "Il problema è che lo Stato è fuori legge nel gestire la pena e quindi quello che si produce è un trattamento non consono a quelle che sono le finalità costituzionali. Quello previsto ora è un trattamento che fallisce nelle finalità. Chi esce, incapace di rientrare nella vita ordinaria, ha più probabilità di ricadere nel delitto perché non ha alternative. Il carcere per come è strutturato adesso, con lo Stato che è fuori legge, determina un altissimo tasso di recidiva. Recentemente lo ha detto anche il Ministro della Giustizia: solo il lavoro fa diminuire la recidiva. Ma il lavoro non c’è. Quello che mi preme dire è che la mancanza di lavoro in carcere ha un costo economico altissimo. E questo costo deve essere valutato, perché è un costo sociale ed economico, non morale. La pena non deve assolvere solo alla funzione retributiva, ma anche alla funzione dello stato di cautelarsi rispetto al grandissimo problema della recidiva". Qualcuno potrebbe commentare che la politica non si fa portatrice delle istanze di riforma del sistema penitenziario perché non è una questione molto sentita dalla società, che invece sembra muoversi in senso contrario. Da un lato c’è la Costituzione che prevede determinati fini per la pena, dall’altro ci sono i cittadini che esprimono la necessità di pene dure, lunghe e molto spesso non ritengono adeguate le condanne a pene diverse dal carcere. Qual è la ragione di questa distanza secondo lei? "Ovviamente manca l’informazione. Ma aggiungo un’altra cosa. Alla cerimonia per il 165 anniversario della Polizia di Stato è stata data l’informazione della recente diminuzione dei reati. A fronte di questo abbiamo la cd. percezione di sicurezza che va in senso diametralmente opposto. La percezione si basa su dei passaggi informativi che non sono commisurati con la realtà vera e propria. Il problema è informativo: c’è una forte differenza tra realtà dell’allarme sociale e percezione dell’allarme sociale. Il problema informativo è generale e tocca vari argomenti. Faccio un esempio: la repressione dell’uso delle droghe è una delle cose che ha risposto e risponde a percezioni di obblighi morali ed è un fallimento totale. A chiamarlo fallimento non sono solo io ma anche apparati dello Stato che si occupano di repressione: si veda ad esempio il rapporto della Direzione Nazionale Antimafia del 2014 che, in materia di marijuana, ha bollato la politica di repressione come fallimentare sotto il profilo della utilità e dei risultati. I costi per i processi e per la detenzione per i reati connessi a questo tipo di droghe sono altissimi. Malgrado questo, aumenta il consumo, aumenta il traffico e il regime di proibizione garantisce introiti giganteschi a mafia e criminalità. Il carcere è un pochino più un argomento tabù, però se si spiegasse quanto costano la mancanza di attività politiche per prevedere misure alternative, la mancanza di informazione o la scelta di abbarbicarsi dietro politiche segregazioniste e di repressione forse le cose cambierebbero. Questa è la manifestazione del fatto che c’è una classe politica che segue linee che si discostano dal dato costituzionale sul carcere, mettendo lo Stato fuori legge. Quindi c’è un problema". E quindi come si può agire per trovare una soluzione? "Bisogna agire dando una scossa, facendo un’azione esemplare di cambio pagina. Dico esemplare perché è un’azione che potrebbe togliere lo stato dall’illegalità. La situazione di illegalità dipende da uno stato che trattiene il 40% dei detenuti per questioni legate alla droga. Sono scelte politiche, ovvio. Però di fatto la pena non è quella prevista dal costituente ma è una pena che dipende da esigenze di sicurezza sociale. Quindi c’è questa discrasia tra pena prevista e pena applicata. Io penso che la rottura di cui c’è bisogno sia quella che auspicava il Papa e anche Pannella: un’amnistia. L’amnistia farebbe venire meno gli arretrati di molti processi e diminuirebbe il costo dei processi stessi. Inoltre con l’amnistia si potrebbe interrompere il meccanismo classista della prescrizione, ossia di una prescrizione che discrimina tra chi ha soldi e quindi riesce a evitare il processo e quelli che finiscono dentro perché non hanno soldi. L’amnistia farebbe tabula rasa in primo luogo tenendo in considerazione che è lo stato che è illegale nel suo modo di gestire i processi e di concepire in concreto la pena". Ma secondo lei un’amnistia non rischierebbe di essere un ulteriore provvedimento tampone che risolve solo parzialmente la questione, come ad esempio le misure prese con i cosiddetti decreti svuota carcere? "Sarebbe un messaggio della volontà di cambiare pagina e permetterebbe in concreto di cambiare pagina e di cancellare le prescrizioni di classe. Provvedimenti di questo genere non ce ne sono mai stati. Gli svuota carceri sono qualcosa di diverso e sono stati fatti mal interpretando le richieste. Uno svuota carceri non accompagnato dalla previsione di percorsi per la reintroduzione in società non funziona, perché il carcere così com’è non aiuta la reintegrazione in società". Tornando a Trento ho un’ultima domanda. A maggio in Commissione Provinciale verrà discussa nuovamente la possibilità di prevedere finalmente un Garante dei Diritti dei Detenuti per la nostra Provincia, possibilità che viene ostacolata da otto anni e che è stata stralciata anche a novembre (ne avevamo parlato qui). Pensa che sarà la volta buona? "Secondo me, visti i problemi, una valida alternativa al Garante provinciale potrebbe essere il Garante regionale. Siamo una Regione, finta, ma siamo una Regione. Paradossalmente l’unica cosa di regionale sul piano della giustizia è la sezione distaccata della Corte di Appello a Bolzano, oltre alla giustizia di pace. Sul nostro territorio ci sono due carceri: Trento e Bolzano, che distano 50 chilometri e Trento è servente rispetto a Bolzano perché in quest’ultima non c’è la sezione femminile. Quindi eventuali contestazioni dal fronte altoatesino potrebbero essere superate sottolineando che Bolzano ha funzione ancillare rispetto a Trento. Se si prevedono due Garanti si raddoppiano i costi, per una popolazione carceraria che, anche a seguito della fine dei lavori per il nuovo carcere di Bolzano, sarà intorno alle 500 unità. Un unico Garante potrebbe permettere un risparmio e anche rivitalizzare la Regione. Inoltre, a mio parere Trento e Bolzano dovrebbero rivendicare un Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria esclusivo". Perché la proposta del Garante provinciale è così ostacolata? I capogruppo di Civica Trentina e di Lega Nord si sono già opposti, non escludendo la possibilità di ricorrere all’ostruzionismo, come era già successo in passato. "È vero, ma l’ostruzionismo quando si subisce lo si può superare, è necessario essere capaci di stare lì. La maggioranza deve essere in grado di essere presente, 24 ore su 24. È difficile, ma la politica è questo". Un compromesso ipotizzato è quello riferito alla proposta di modifica della legge elettorale dei Comuni promossa da Borga, capogruppo di Civica Trentina (e, si dice, necessaria per permettere la candidatura alle prossime elezioni provinciali a Dalledonne, sindaco di Borgo Valsugana). Se la maggioranza votasse a favore della modifica forse in cambio otterrebbe un’apertura riguardo all’istituzione del Garante? Mattia Civico, il proponente di questa figura, si è però già detto contrario alla cosa.. "Mi è stato confermato che quella potrebbe essere la merce di scambio, la politica è compromesso. Io però ritengo che dato che questo obiettivo si sta rivelando e si è rivelato così difficile sarebbe più sensato lavorare sulla possibilità di un Garante regionale". Molte sono quindi le questioni che rimangono aperte sul carcere di Trento. Al termine dall’intervista, dopo un veloce confronto tra Valcanover e Mattia Civico, è emerso che probabilmente nemmeno a maggio questa vicenda si concluderà con successo. Non c’è che da sperare che le cose vadano diversamente e che si riesca, dopo 8 lunghi anni, a dare un messaggio di cambiamento e di volontà di aprire un dibattito. Perché ostacolando la nomina di una figura istituzionale non solo non si evitano i problemi, ma si fa sì che -nascosti dall’attenzione che meriterebbero - questi finiscano per crescere ed affossarsi. L’istituzione del Garante non dev’essere vista solo come un’occasione per tutelare alcune delle istanze presenti nel mondo carcerario, ma come un’opportunità per tutti di stabilire un dialogo costruttivo e cercare insieme nuove soluzioni. Sassari: nel carcere di Bancali manca personale per l’assistenza sanitaria buongiornoalghero.it, 2 maggio 2017 "Personale infermieristico insufficiente e sovraccarico di lavoro. Ai detenuti in questo modo non sono garantite condizioni umane di assistenza sanitaria, è urgente quindi intervenire per far rispettare la legge e per rendere dignitosa la loro condizione oltre che per rendere agevole il lavoro di persone che si impegnano per spirito di servizio e per vocazione nell’aiutare il prossimo, rinunciando a riposi e ferie pur di portare a termine con tanto sacrificio il compito che è stato loro assegnato". Lo sostiene il referente territoriale FSI-FC Salvatore Sanna. "Ci muoveremo presto -aggiunge -nelle sedi opportune se chi ha il dovere di intervenire nel carcere di Bancali,per sanare la grave situazione che si è creata, non lo farà in tempi immediati". Sanna ha inviato una lettera urgente al Direttore Generale dell’ATS Sardegna, Dott. Moirano, al Direttore dell’Area Socio Sanitaria di Sassari, Dott. Pintor, alla Direttrice delle Professioni Sanitarie dell’ASSL di Sassari e per conoscenza anche alla direzione della Casa Circondariale di Bancali. "È necessario rammentare - spiega - che la materia che ci occupa è disciplinata dal decreto legislativo n 22.6.99 n 230 il cui art 1 al comma 1 così recita: "i detenuti ed internati, al pari dei cittadini in stato di libertà, hanno diritto alle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione efficaci ed appropriate sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani regionali e in quelli locali. "A tale normativa ha fatto seguito il D.P.C.M. dell’1.4.2008 che ha completato il riordino della medicina penitenziaria prevedendo, tra l’altro,"… il trasferimento al Servizio Sanitario Nazionale e alle ASSL,nei cui territori sono ubicati Istituti penitenziari, le funzioni sanitarie, rapporti di lavoro, risorse finanziarie e delle attrezzature, beni strumentali". A ciò si aggiungano i protocolli di intesa fra le parti interessate, ovvero Assessorato regionale, Provveditorato Amministrazione Penitenziaria, Direzione dell’Istituto Penitenziario e Direzione A.S.L. di Sassari. Una premessa necessaria per comprendere appieno la situazione critica in cui vive il personale infermieristico in servizio presso l’istituto penitenziario di SS, smarrito e indifeso poiché, a fronte di un crescente aumento della popolazione detenuta, è costretto ad una presenza 24 ore su 24 benché a tutt’oggi non si sia provveduto ad adeguati interventi per sanare le gravi carenze organizzative ed, in particolare, a reintegrare la presenza infermieristica notturna. È illogico ed estremamente pericoloso consentire la presenza di una sola unità infermieristica durante le ore notturne, così come è impraticabile la possibilità di spezzare l’orario del turno per fronteggiare carenze di organico. Ma vi è di più, da sempre nell’area sanitaria sono assenti gli operatori socio assistenziali, i C.P.S.I., nonostante la professionalità riconosciuta, sono chiamati a svolgere di tutto e di più; situazione per la quale ci riserviamo idonee iniziative nelle sedi opportune per il prolungato demansionamento dei lavoratori coinvolti. Pertanto si chiede un immediato intervento che valga ad eliminare o quanto meno ad attenuare le criticità segnalate attraverso: la rivisitazione delle turnazioni; il reintegro delle risorse umane (personale infermieristico); la giusta valutazione della professione e riconoscimento di questa. Tutto ciò anche per prevenire conseguenze negative che potrebbero coinvolgere la popolazione detenuta e/o il personale tutto dell’Istituto Penitenziario". Conclude il referente territoriale FSI-FC Salvatore Sanna. Vibo Valentia: delegazione Anci Giovani in visita al carcere zoom24.it, 2 maggio 2017 Prosegue il cammino di Anci Giovani in visita presso gli istituti penitenziari di tutta Italia per verificare le condizioni dei detenuti e promuovere con le associazioni di categoria attività di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti e di promozione di una nuova cultura alla legalità. Accolti dal direttore dell’istituto Mario Antonio Galati, la delegazione, composta dal consigliere metropolitano di Reggio Calabria delegato al Bilancio ed ai Fondi Comunitari Antonino Castorina, dal consigliere provinciale di Vibo Valentia Giuseppe Cutrullà, da Serena Minniti rappresentante degli studenti alla Uni Mediterranea e componente della commissione pari opportunità al Comune di Reggio Calabria e da Eliana Nocera in rappresentanza dell’associazione "Leonardo", ha visitato l’intero istituto penitenziario che "si presenta - si legge in una nota - in buone condizioni ed integro con una bellissima sala polivalente per le attività teatrali e culturali ma che necessita comunque di interventi di naturale strutturale come la costruzione di una palestra e l’implementazione delle attività ricreative e di socialità necessarie per portare avanti percorsi di recupero e reinserimento della popolazione carceraria". La struttura è adibita ad ospitare detenuti di sesso esclusivamente maschile, ed è composto da sei sezioni: una di Alta Sicurezza e due di Media Sicurezza; una sezione per i sex offenders; una per i Nuovi Giunti ed una d’Isolamento. Sono presenti celle sia singole che pluriposto, che arrivano ad ospitare fino ad otto detenuti. Nel braccio dei sex offenders vi sono anche celle singole e si sta procedendo a percorsi di recupero sociale per particolari casi di detenuti all’interno di questa delicata sezione del carcere. "Il tema delle carceri - affermano Castorina e Cutrullà - è un tema che deve interessare l’intera regione Calabria, dai dati in nostro possesso da marzo 2017 ad oggi su dodici istituti ben otto sono in sovraffollamento e le attività rieducative sono sempre limitate e residuali, in alcuni istituti proseguono i due rappresentanti istituzionali vi sono stati episodi di tentato suicidio e la politica e le istituzioni non possono rimanere silenti. Chiediamo con forza di velocizzare il percorso regionale finalizzato all’istituzione del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale e dell’Osservatorio regionale per le politiche penitenziarie ed allo stesso tempo un tavolo con il Ministero della Giustizia per programmare interventi specifici per le strutture penitenziarie presenti in Calabria che hanno maggiore necessità di supporto e risorse". Palermo: Piccione, Lombardo, Mannino… l’amaro amarcord degli ex detenuti assolti di Salvatore Parlagreco siciliainformazioni.com, 2 maggio 2017 Turi Lombardo, ex deputato ed assessore regionale, racconta che dopo una lunga detenzione preventiva, subita all’inizio degli anni novanta, una volta rimesso in libertà ed assolto in tutti i gradi di giudizio, sentì la necessità di sfogliare i giornali che si erano occupati del suo caso durante la carcerazione, legata alla morte di un funzionario regionale, vittima di un agguato mafioso. Lesse tutto quanto con scrupolo ed alla fine, rivolto alla moglie, comunicò il suo verdetto: "Questo Lombardo non può che essere colpevole". L’aneddoto, riferito dal protagonista di una terribile storia - trascorrere quasi due anni in carcere, innocente può cambiare i connotati a chiunque - e da un uomo di legge (Turi Lombardo è avvocato ed insegna all’Università di Palermo) ha suscitato qualche sorriso, ma ha fatto accapponare la pelle a quanti, erano in tanti, hanno rivissuto la stagione delle manette in Sicilia, in parallelo con "mani pulite" del pool milanese. A Palazzo dei Normanni, venerdi della scorsa settimana, ad ascoltare, tra gli altri, Turi Lombardo, c’erano anche coloro che hanno riempito le cronache per i loro guai giudiziari al tempo della stagione delle manette. Una platea di "reduci" e di ex uomini politici e delle istituzioni che si sono ritrovati nella sede del Parlamento regionale per partecipare alla presentazione di una biografia, scritta dall’ex Presidente dell’Assemblea regionale siciliana, Paolo Piccione, anche lui, al pari di Turi Lombardo, entrato nel cono d’ombra delle manette anni novanta. La storia di Paolo Piccione è ancor più difficile da raccontare che quella di Lombardo: è stato incarcerato da Presidente dell’Ars, carica che, naturalmente, ha dovuto lasciare, ed è stato perseguito in ben dieci inchieste giudiziarie. Quando ha ottenuto la libertà ha taciuto, ma quando tutte le sue vicende giudiziarie - proprio tutte - si sono concluse con l’assoluzione in ogni grado di giudizio - una storia che non ha eguali - ha preso carta e penna ed ha scritto al Presidente pro-tempore del Parlamento regionale, per fargli sapere com’era andata e renderlo edotto del fatto che la massima istituzione democratica della Sicilia non aveva più ragione di battersi il petto. La giustizia aveva riconosciuto il Presidente dell’Ars esente da colpe sui fatti che gli erano stati addebitati. La carriera politica di Paolo Piccione, messinese ottimista ed estroverso, si concluse nel momento in cui subì la detenzione. La riabilitazione ha seguito lo stesso percorso dei tanti fatti giudiziari raccontati dai media con dovizia di dettaglio, e tutti inevitabilmente colpevolisti: alla fine l’assoluzione, quando c’è, non guadagna titoli sui giornali, perché prevale nelle platee - fin dal tempo dei gladiatori nelle arene - il bisogno di punire, e non l’interesse che la giustizia, come si dice, trionfi. La giustizia si compie infatti solo quando punisce. Se assolve vuol dire che è andata in vacanza o i giudici si sono distratti. In platea, ad aspettare il turno per dire la sua nella Sala Gialla, gremita, c’era fra gli altri Calogero Mannino, diciassette anni di attesa prima dell’assoluzione, ma non ce l’ha fatta a parlare, altrimenti avremmo conosciuto un altro punto di vista di un altro ex detenuto pluri-assolto. I reduci della stagione delle manette, tuttavia, si sono impegnati pubblicamente ad approfondire l’argomento. Quale? La fine dei partiti seguita alla stagione di mani pulite. Scomparvero, per ragioni diverse, la DC, il Psi, il Pci (che divenne un’altra cosa), il Pli, il Pri ed il Psdi. Cambiò la storia del paese. Il salotto buono dell’industria chiuse battenti insieme ai vecchi istituti di credito, e cominciò l’impero della finanza, che ancora oggi incombe. Maastricht subì un ritardo, giusto quanto serviva per preparare l’ingresso dell’Euro nel mondo, e la politica italiana cancellò, di fatto, i partiti. Non solo quelli storici, ma tutti, perché ad essi succedettero i partiti azienda o personali. Con l’unica eccezione del Pd, non a caso, generosamente conflittuale. Il bilancio non è stato ancora fatto. I reduci delle manette vorrebbero perciò "approfondire" e cercare la verità storica. Un progetto vasto. In concomitanza con il processo, forse l’ultimo, dedicato ai terribili anni novanta, e battezzato "Trattativa Stato Mafia". Dubitiamo che riescano ad assolvere all’impegno. Roma: il mondo come un carcere è in mostra al Maxxi romaitalialab.it, 2 maggio 2017 Antigone: "Oggi il teatro per i detenuti è una forma di liberazione". Fino al 21 maggio al Maxxi si può visitare "Please Come Back. Il mondo come prigione?" una mostra che riflette sulla detenzione e il labile confine tra dentro e fuori. Arte sul carcere e arte nel carcere come ci spiega Alessio Scandurra di Antigone: "Fare una esperienza artistica in carcere può rappresentare per il detenuto una grande scoperta". Cosa si prova quando ci si ritrova intrappolati in una stanza? Come ci si sente ad essere rinchiusi in una gabbia fisica o sociale? Lo racconta la mostra Please Come Back. Il mondo come prigione? che proseguirà fino al 21 maggio al Maxxi. E l’occasione ha permesso a Ril di rivolgere qualche domanda all’associazione Antigone sull’importanza dell’arte nelle carceri. L’allestimento raccoglie i lavori di 26 artisti di nazionalità diverse scelti da Luigia Lonardelli e Hou Hanru, i due curatori dell’esposizione. La mostra prende il titolo dall’omonima opera del collettivo Claire Fontaine, sulla scia della riflessione dei suoi artisti sulla società come spazio di reclusione a tutto tondo, nel quale la dimensione carceraria fisica o emotiva viene materializzata in un vortice di tratti, ferro, video e immagini. Le 50 opere esposte seguono un percorso ben preciso e visibile in tre sezioni. In "Dietro le mura" ci sono le opere di artisti che hanno fatto esperienza diretta della prigione, nella veste di detenuti o artisti. In questa sezione a fare da apripista alle opere ci sono i video di Berna Reale che raccontano il percorso della torcia olimpica all’interno delle carceri brasiliane ed i filmati di Harun Farocki che riproducono i video originali delle videocamere di sorveglianza del carcere californiano di Corcoran. In "Fuori dalle mura" invece si travalica la prigione come luogo fisico per entrare in un’altra dimensione di restrizione della libertà personale: quella dei regimi autoritari che basano il loro governo sul controllo dello spazio pubblico. Fanno parte di questa sezione l’opera di Lin Yilin che intende riprodurre il senso di privazione dei cittadini di una città cinese ed in una francese. L’artista immortala persone che camminano con le manette. E ancora quella di Rä Di Martino che trasforma Bolzano nel terreno di battaglia tra finti carri armati. Per finire poi con la terza sezione "Oltre i muri" dove il tema della sorveglianza è inteso proprio come modus operandi nazionale, adottato dopo gli attentati dell’11 settembre a difesa della sicurezza dei propri confini. Tra queste ricordiamo il lavoro di Jenny Holzer e la "pratica al terrore", quella di Simon Denny che si ispira alle rivelazioni di Snowden, quella di Jananne Al-Ani che riproduce le immagini di un drone che sorvola il Medio Oriente ed infine il lavoro visionario di Zhang Yue che parla di guerre future e scenari distruttivi. Please come back. Il mondo come prigione? svela lo sguardo degli artisti sul mondo vissuto come carcere, ma allo stesso tempo offre allo spettatore uno spunti di riflessione sulla società di oggi, aperta, ma allo stesso tempo chiusa e controllata. Una mostra che però allo stesso tempo non si esime dal richiamare un ritorno ai valori umani, troppe volte dimenticati. In questo l’esposizione è anche un esperimento. Un focus particolare è dedicato alla libertà di comunicazione, richiamando istituzioni e organi nazionali su questo attuale tema. Ne è la prova l’installazione di Trevor Paglen che con il server internet Autonomy Cube avrebbe permesso agli utenti di inviare messaggi in forma anonima, infrangeva però le normative vigenti sulle sicurezza e per questo è stato messo fuori uso dai curatori. Ma la mostra si pone anche un’altra domanda: una volta fatta l’esperienza del carcere, in quale modo l’arte aiuta a ritrovare spazi di libertà? Ril ne ha parlato con Alessio Scandurra che si occupa dell’Osservatorio Adulti sulle condizioni carcerarie dell’associazione Antigone. Quante sono le possibilità di reinserimento nella società una volta finita la pena? "Le possibilità di reinserimento dopo la pena dipendono molto dagli strumenti che una persona ha. Dipendono dalle competenze che si posseggono e dalla impiegabilità dal punto di vista lavorativo. E da questo punto di vista succede che esperienze in carcere legate al mondo dell’arte possano creare opportunità di contatti perché danno la possibilità di allargare la propria rete sociale. Ma è ancora più importante la percezione che la persona, ex detenuta, ha di se stessa dopo l’esperienza carceraria". Cosa vuol dire? "Se il detenuto si sente schiacciato nell’identità del delinquente, sarà molto difficile per lui uscire da quella logica perché per la società sarà sempre e comunque un criminale. E da questo punto di vista fare cose artistiche, entrare in contatto con persone che provengono da contesti diversi può avere un effetto positivo sulla persona ex detenuta che immediatamente si percepisce anche essere altro. Fare una esperienza artistica in carcere può rappresentare quella cosa che l’ex detenuto non si aspetta da sé stesso, significa quindi scoprirsi". Tra i laboratori artistici in carcere, qual è quello più utilizzato? "Tra tutti sicuramente va molto il teatro anche se mancano cose di qualità. Il successo del teatro in carcere dipende dall’interazione che offre. Si tratta di una interazione nuda e diretta, da una parte, e mediata dall’altra. Permette di dire o fare cose che non si potrebbero verificare in un carcere. Il teatro è molto amato dai detenuti, ma anche dai direttori ed educatori". Una mostra come questa può aiutare a capire cosa significa vivere in carcere? "A volte il nostro atteggiamento nei confronti del carcere è molto semplicista. Conosciamo la facilità con la quale diciamo "ora butto via la chiave" oppure "che vuoi che siano 10 anni di carcere". Sono tutti pensieri che si fanno fino a quando quell’esperienza lì non si concretizza, sia che si tratti di una mostra come in questo caso o sia che si tratti di una visita presso un istituto carcerario da parte di una scuola. Quello che conta è fare quel salto in uno spazio che non è tuo, dove una cosa diventa reale. È a quel punto non puoi più usare quelle categorie e parole come se non avessero peso". Televisione. Nel carcere della super serie di Netflix che i pirati del web prendono di mira di Luca Dondoni La Stampa Rubata e messa online la quinta stagione di "Orange is the new black". Sul set le protagoniste si raccontano: "Siamo come una famiglia". Crudo, onesto, violento, drammaticamente impegnativo e politicamente scorretto, sboccato quasi al limite della sopportazione, tragicamente vero. Orange is the new black è tutto questo e anche di più. Una delle serie più amate degli ultimi anni sta per arrivare su Netflix alla quinta stagione forte di un cliff-hanger (termine che si usa quando un episodio finisce con un colpo di scena che non viene fatto vedere per intero) da applausi. La prigione di Litchfield nel Connecticut è in rivolta, una delle carcerate sta per sparare a un secondino e i titoli di coda che scorrono incuranti della nostra curiosità sono come una lama. Sappiate - hacker a parte - che anche per i prossimi tredici episodi la sceneggiatura non fa sconti, non sorvola sulle violenze, i comportamenti sessuali, i soprusi, le pressioni fisiche e mentali alle quali vengono sottoposti carcerieri e carcerati. Di questo va dato il merito all’ideatrice Jenji Kohan che si è ispirata al libro di memorie, vere, di Piper Kerman Orange is the new black, il mio anno in un carcere femminile e lo ha tramutato in una sorta di seduta analitica collettiva. Siamo andati sul set della serie proprio mentre si stava girando questa quinta stagione per incontrare Uzo Aduba, Dascha Polanco, Danielle Brooks e Adrienne C. Moore. In attesa del ciak - Fare due passi nella sala mensa, nei dormitori, nelle docce o negli sgabuzzini del set è possibile solo se si sta zitti e si indossano cuffiette che ci fanno sentire le direttive dei produttori. Nello studio accanto si sta girando l’inizio di un episodio. Finalmente, dopo l’ultimo ciak, arriva l’incontro: "La fine dello scorsa stagione è stata una grande sorpresa anche per noi - confessa Dasha Polanco che interpreta Dayana e con la pistola in mano mette la parola fine alla stagione 4 -. Jenji Kohan ci ha lasciate senza fiato, anche noi sappiamo cosa accadrà al nostro personaggio solo dieci giorni prima di girare. Certo, perdere Poussey (l’attrice Samira Wiley viene uccisa da una guardia e da quel momento di scatena la rivolta) è stato uno shock. Ormai siamo una famiglia ed è stato difficile sapere che Samira non sarà più con noi". Dyanara è un personaggio strano, contenuto, timido, schiaccerà o no il grilletto? "A me fa arrabbiare quando non prende il toro per le corna - rivela la Polanco - io sono l’opposto del personaggio che faccio, ma recitare quella parte mi è servito nella vita per dire a me stessa di non fare mai quello che è successo a lei". "Lo show è radicale - racconta Danielle Brooks (Tasha) - e dà una lettura perfetta della realtà. Raccontare storie politicamente scorrette paga. Tasha Dare a volte mi mette paura perché sfumature del suo carattere sembrano le mie". Nella quinta stagione la rivolta porta ad un’anarchia violenta che deve essere sedata da alcune carcerate trasformatesi in guardie. I secondini veri vengono ammanettati e vessati sino al punto da far perdere loro la dignità. "Posso recitare cose profonde, senza senso o senza una parola - rivela Uzo Aduba - che grazie alla sua Crazy Eye ha vinto due Emmy Awards - ma lavorare qui per me è stato un regalo". Anche Adrienne C. Moore sottolinea il messaggio sociale di Orange: "Spero di lasciare un’eredità con quello che interpreto e la nostra società sia più inclusiva di quanto si veda oggi alla tv. Nella sua scorrettezza "Oitnb" è perfetta per lanciare un messaggio di tolleranza che oggi, soprattutto in Usa, deve essere urlato a voce alta". Libertà di informazione. Oggi la Fnsi in piazza per dire #NoBavaglioTurco cartadiroma.org, 2 maggio 2017 Appuntamento alle 11.30 a Roma, piazza Montecitorio, per difendere la libertà di stampa in Turchia. Martedì 2 maggio, dalle 11.30 alle 12.30, la Federazione nazionale della stampa italiana sarà in piazza di Montecitorio, a Roma, insieme con numerose altre associazioni, per ribadire ancora una volta il "No" dei giornalisti italiani al bavaglio turco. Nel corso del sit-in verranno letti i nomi degli oltre 150 colleghi detenuti nelle carceri turche. Ad accompagnare la lettura sarà il sassofono di Nicola Alesini. Al presidio, promosso con il sostegno delle Federazioni europea ed internazionale dei giornalisti, saranno presenti, tra gli altri: Usigrai, Amnesty International Italia, Articolo21, Ordine dei giornalisti del Lazio, Pressing NoBavaglio. "L’oppressione in Turchia si intensifica. Dopo la vicenda di Gabriele Del Grande, la Federazione nazionale della stampa italiana non dimentica gli altri giornalisti ancora in carcere in quel Paese e in tutto il mondo. Pertanto saremo in piazza per chiedere alle autorità italiane di rappresentare nelle sedi istituzionali la necessità di individuare una posizione comune sui temi dei diritti civili e della libertà di espressione in Turchia, uno dei principali Paesi della Nato e Stato membro del Consiglio europeo", affermano il segretario generale e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti. Al termine del sit-in una delegazione incontrerà la presidente della Camera, Laura Boldrini, per consegnarle il testo dell’appello della Federazione europea dei giornalisti e della Federazione nazionale della stampa italiana che sarà distribuito nel corso dell’iniziativa. Romania. Sovraffollamento carceri, proteste contro legge sulla grazia Nova, 2 maggio 2017 Decine di persone hanno protestato ieri sera di fronte alla sede del governo di Bucarest contro l’adozione di una legge sulla concessione della grazia. I manifestanti, infatti, sostengono che la legislazione penale della Romania dovrebbe essere inasprita. La Camera dei deputati dovrà analizzare e votare questa settimana un disegno di legge che prevede la diminuzione delle pene di alcuni detenuti a causa delle condizioni carcerarie. La Corte europei per i diritti umani ha stabilito che le condizioni nei penitenziari romeni violano la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e hanno chiesto alle autorità di mettere a punto un piano per la soluzione del problema entro sei mesi. Il direttore dell’Amministrazione nazionale dei penitenziari, Marius Vulpe, ha detto che la concessione della grazia o la misura degli arresti domiciliari risolvono solo a breve termine la situazione del sovraffollamento delle prigioni.